occasione
Considerato tradizionalmente un termine intermedio tra «virtù» e «fortuna», l’o. ricopre un ruolo strategico nel linguaggio politico machiavelliano, come già vide Fredi Chiappelli (1952, p. 82), conoscendo un ‘assestamento semantico’ rispetto alla tradizione classica che avrà persistenze nella Storia d’Italia (1537-1540) di Francesco Guicciardini e nella storiografia fiorentina del Cinquecento, fino alla Istoria del Concilio tridentino (1619) di Paolo Sarpi. Il testo di riferimento per una ‘teoria dell’o.’ in M. è il De principatibus, che nei capitoli vi e xxvi contiene nove delle venti occorrenze complessive del termine presenti nell’opuscolo. Numerosi sono inoltre i passaggi relativi all’o. nei Discorsi, dove il lemma ricorre trentatré volte, con particolare densità teorica in II xxix, e nell’Arte della guerra, dove il termine è utilizzato in ventisette casi, con addensamenti nel libro iniziale (I) e in quello finale (VII), prevalentemente con funzione dimostrativa. L’o. appare nel capitolo in versi “Di Fortuna” (v. 79: «quivi l’Occasion sol si trastulla»), mentre è oggetto di attenzione esclusiva nell’omonimo capitolo, libera traduzione dell’epigramma di Ausonio “In simulacrum Occasionis et Paenitentiae”, dedicato a Filippo de’ Nerli. Molto intensa è anche la frequenza nei testi storici: nelle Istorie fiorentine il lemma è utilizzato prevalentemente con funzione esemplificativa per i casi in cui l’o. è stata colta con successo o, al contrario, non è stata sfruttata, e nella precedente Vita di Castruccio Castracani dove il termine è funzionale alla vittoriosa ‘costruzione biografica’ del personaggio, prima della brusca interruzione dettata dall’intervento della «fortuna». Ma per una definizione teorica dell’o. machiavelliana, che dia conto dei suoi ‘limiti’ e del suo ‘raggio d’azione’, si deve partire dai capitoli vi e xxvi del De principatibus, nei quali M. potenzia il significato di questo termine per finalità ‘militanti’ che attengono ai destinatari stessi dell’opuscolo. In vi 9-10 leggiamo:
Ma considerato Ciro e li altri che hanno acquistato o fondati regni, gli troverrete tutti mirabili; e se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quegli di Moisè, che ebbe sì gran precettore. Ed esaminando le azioni e vita loro non si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma che parse loro: e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano.
La «virtù» di personaggi esemplari indicata da M. a modello per l’acquisto e il mantenimento dello Stato deve trovare nella sua strada l’o. per potersi esprimere, altrimenti resta una semplice potenzialità. L’o. si configura, tuttavia, per M. come un’emanazione della «fortuna»: Mosè, Romolo, Ciro e Teseo hanno acquistato lo Stato armiis propriis et virtute («con armi proprie e virtuosamente»), ma hanno avuto egualmente dalla «fortuna» un lasciapassare senza il quale la «materia» espressa dalla pura potenzialità virtuosa non avrebbe mai avuto la possibilità di trovare una «forma». L’opposizione «materia»-«forma», tipica della terminologia aristotelica, ricorrerà più volte nell’opera di M., per es. nel Discursus florentinarum rerum: «non può essere maggiore inganno che credere in tanta disformità di materia potere imprimere una medesima forma», o in Discorsi I xviii: «né può essere la forma simile in una materia al tutto contraria». Quali furono le «occasioni» che dettero «forma» alla «materia» della «virtù» negli esempi indicati da Machiavelli? Per Romolo, «che non capessi in Alba, fussi stato esposto al nascere» (De principatibus vi 12), per Mosè, «trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo e oppresso da li egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo» (vi 11). Nel caso di Ciro «bisognava [...] che trovassi e’ persi malcontenti dello imperio de’ medi, ed e’ medi molli ed effeminati per la lunga pace» (vi 13). Teseo non poteva dimostrare la sua virtù, «se non trovava gli ateniesi dispersi» (vi 14).
Queste occasioni per tanto feciono questi uomini felici e la eccellente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta: donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima (vi 15).
L’o. rende gli uomini «felici», ovvero fortunati, purché vi sia un’«eccellente virtù» in grado di intercettarla.
Solo la fusione tra «virtù» e o. consente di nobilitare la patria. Anche l’o. rientra nella ‘teoria del riscontro’ in base alla quale la «virtù» deve combinarsi opportunamente con un elemento esterno (imponderabile) per potersi esprimere. Per questo nesso, che conferisce ‘elasticità’ all’o. machiavelliana, Allan H. Gilbert individua nel De optimo statu di Filippo Beroaldo una fonte paradigmatica: virtus [...] sine fortuna manca est et mutila («La virtù [...] senza fortuna è monca e mutilata», Machiavelli’s Prince and its forerunners. The Prince as a typical book de regimine principum, 1938, p. 4). Utile è anche il rinvio a Seneca, De Providentia, IV 6: calamitas virtutis occasio est («la disgrazia è occasione della virtù»), a dimostrazione della matrice classica di questa formula.
Il nesso materia-forma torna anche nell’altro capitolo del Principe centrato sull’o., il xxvi:
Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se in Italia al presente correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che facesse onore a lui (§ 1).
E più avanti: «in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma» (xxvi 16). A conferma del ‘momento transitorio’ che è alla base della ‘teoria dell’o.’ qui prospettata, vi sono alcuni riscontri con i successivi Discorsi. In particolare, in II xxix il rapporto triangolare virtù/fortuna/occasione, con l’o. che svolge un ruolo intermedio tra gli altri due poli, subisce un cedimento a favore della «fortuna» determinando uno sbilanciamento asimmetrico e fortunocentrico:
Fa bene la fortuna questo, che la elegge uno uomo, quando la voglia condurre cose grandi, che sia di tanto spirito e di tanta virtù che ei conosca quelle occasioni che la gli porge. Così medesimamente, quando la voglia condurre grandi rovine, ella vi prepone uomini che aiutino quella rovina.
Non solo l’o. è un’emanazione della «fortuna», ma anche la «virtù» di chi è preposto a intercettare il momento propizio diviene qui di pertinenza della «fortuna». Quest’ultima «prepone» uomini con diverse attitudini a seconda se vuole condurre «cose grandi» o «grandi rovine». Una prospettiva di questo tipo sembra restringere il reale campo d’azione dell’o. consegnando l’intero destino degli uomini agli orditi di una fortuna dominatrice che esercita il suo dominio in modo assoluto concedendo di volta in volta spazi di intervento illusori. Il ‘restringimento’ che subisce l’o. è relativo alla diversa accezione di «fortuna» presente in Discorsi II xxix – e nei Discorsi in genere – coincidente con il significato di «cieli» e ci spinge a definire come ‘non strutturale’ la ‘teoria dell’o.’ esposta nel De principatibus, a differenza della più generale ‘teoria del riscontro’ seguita da M. fin dal 1506. Ma torniamo a Principe xxvi:
E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d’Isdrael fussi stiavo in Egitto; e a conoscere la grandezza dello animo di Ciro ch’e’ persi fussino oppressati da’ medi, e la eccellenzia di Teseo, che li ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti, e che la fussi più stiava che gli ebrei, più serva ch’e’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, e avessi sopportato d’ogni sorte ruina. [...] E benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi nondimeno [...] ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente. [...] Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore (§§ 2-3, 9, 26).
La «fortuna» sembra qui assumere un ruolo più ampio rispetto al capitolo vi dove la ‘teoria dell’o.’ viene presentata con maggiore equidistanza tra «virtù» intercettante e o. intercettabile. In questo caso si coglie uno ‘schema provvidenzialistico’, come se un particolare favore divino rendesse inevitabile l’intervento di un ‘principe nuovo’. Colpiscono, infatti, l’addensamento inusuale dei richiami a «Dio» contenuti in questo capitolo, alcune espressioni riferite ai Medici come: «nella illustre Casa vostra [...] favorita da Dio e dalla Chiesa» (xxvi 8) nonché la sentenza aforistica: «Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi» (xxvi 13). L’o. della rovina italiana sembra così essere la più grande o. intercettabile che mai si sia verificata nella storia: sebbene l’amplificatio rientri nell’esortazione-invocazione ai Medici che domina l’intero capitolo, si pongono delle questioni di natura teorica dovute allo squilibrio fortunocentrico presente in questo capitolo rispetto a Principe vi. Sulle conseguenze dovute all’accrescimento del ruolo della fortuna-Dio nel triangolo virtù/fortuna/occasione si è accesa una disputa memorabile nella storiografia machiavelliana tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta (1979-1984): da un lato Gennaro Sasso (→) con la sua tesi ‘provvidenzialistica’ (1984, pp. 277-349) e dall’altro Mario Martelli (→) con la proposta di vincolare l’Exhortatio a una ‘realistica’ valutazione della possibilità, per Lorenzo de’ Medici, di prendere in mano le sorti dell’Italia nel 1518. Ribadendo invece, anche per il capitolo xxvi, la datazione al 1513-14, Sasso ne delinea una lettura in chiave ‘provvidenzialistica’, che non presuppone tanto una specifica contingenza favorevole all’azione del «principe nuovo», quanto, al contrario, l’estrema difficoltà che attende alla prova il «redentore» del Paese.
Il ruolo della «virtù» nel cap. xxvi prevede nell’ipotesi di Sasso un ridimensionamento dei suoi poteri a vantaggio di un’invasiva fortuna-provvidenza, e, viceversa, nell’ipotesi di Martelli un ampliamento del suo dominio dinanzi alla gravità della situazione italiana e alla necessità di far corrispondere a una grande o. una grande «virtù». M., in realtà, scrive che per i Medici l’impresa di riscattare l’Italia «non fia molto difficile» per poi precisare: «Qui è disposizione grandissima: né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà» (xxvi 11). Dunque all’aumento dell’o. intercettabile corrisponderebbe un ridimensionamento della «virtù» intercettante. L’impresa è quasi tutta nelle mani della fortuna-Dio che, paradossalmente, attraverso la «ruina» dell’Italia, hagià il controllo di gran parte dell’operazione. È sufficiente che ci sia un principe normalmente virtuoso per poter cogliere un’o. così macroscopica.
Sia in Principe vi sia in Principe xxvi l’o. è considerata un’emanazione della «fortuna», con accenti più spostati verso la fortuna-Dio nel cap. xxvi, ma pur sempre centrati sul concetto di o. ‘figlia della fortuna’. M. contravviene all’assunto ciceroniano per il quale occasio est pars temporis, habens in se alicuius rei idoneam faciendi aut non faciendi opportunitatem («l’occasione è una componente del tempo, e consiste nell’opportunità o inopportunità di compiere una certa azione», De inventione i 27). L’idea di o. come ‘componente del tempo’ deriva dalla nozione greca di kairòs, inteso come tempo opportuno, affiancato dai Greci ad aiòn (il tempo eterno) e a kronos (il tempo che scorre) per definire le tre tipologie del tempo (→) in età classica. Nel mondo latino il nesso occasio-tempus è ribadito da Publilio Siro in Sententiae, 450: occasio aegre offertur, facile amittitur («l’occasione si presenta difficilmente, ma facilmente si perde»). Lo stesso capitolo morale “Dell’Occasione” si basa sui due tratti identitari tradizionali dell’o.: la fugacità e l’irriconoscibilità. «Li sparsi mia capei dinanti io tengo; / con essi mi ricuopro il petto e ’l volto, / perché niun mi conosca quando io vengo» (vv. 10-12), «E tu, mentre parlando il tempo spendi, / occupato in molti pensier vani, / già non t’avvedi, lasso! E non comprendi / com’io ti son fuggita tra le mani» (vv. 19-22).
L’o. è dunque pars temporis e lotta con la fugacità da un lato e con la decifrabilità dall’altro. Nei capitoli vi e xxvi del Principe l’o. è invece presentata come emanazione della «fortuna» e non del «tempo»: anche se si coglie l’urgenza machiavelliana per un rapido intervento politico risolutore delle sorti dell’Italia, non vi sono richiami espliciti al problema della fugacità dell’o. né al problema della sua riconoscibilità. Anzi, l’o. rappresentata dalla rovina italiana appare evidentissima e macroscopica. Non presenta problemi di decifrazione a chi la osserva e non fugge via velocemente. È un’o. che si è formata a partire dalla discesa di Carlo VIII nel 1494, come ricostruisce M. in Principe xxvi, e dunque in gestazione da almeno una ventina d’anni. L’o. machiavelliana dei capitoli vi e xxvi è quindi ben visibile, perché formatasi storicamente, e non fuggevole perché inserita all’interno di un processo storico decennale (le guerre d’Italia). Inoltre, essa non scaturisce dal «tempo», ma dalla «fortuna». L’o. diviene così un concetto che si affianca a quello della «qualità dei tempi», ma mantiene una subordinazione concettuale alla «fortuna» secondo una tradizione minoritaria, da ricondurre probabilmente, secondo Francesco Adorno (1980, pp. 331-37) a una sottile distinzione aristotelica tra tyche e autòmaton contenuta in Fisica 195 b 31-198 a 13.
In genere, infatti, per gli antichi l’o. è una delle manifestazioni del tempo, è il ‘tempo propizio’ cheva individuato e non lasciato fuggire. È il ‘tempo’ che sembra piegarsi al desiderio dell’uomo e, per una volta, non lo sovrasta con il suo moto incessante e indifferente. Per M. l’o. scaturisce invece dalla «fortuna» intesa nella sua accezione fisico-aristotelica, come ‘momento da cogliere’ secondo il passaggio che dal verbo tynchàno (‘colgo, incontro per caso’) conduce al sostantivo tyche (‘accidente, fortuna’). L’o., innestata nel lessico machiavelliano, finisce per dipendere dalla «fortuna» di terzo livello, ovvero dai «cieli» o da «Dio», come notiamo nei seguenti riscontri testuali: Discorsi I x: «E veramente i cieli non possono dare agli uomini maggiore occasione di gloria» (relativamente all’occasione della città corrotta riordinata da Romolo); Discorsi II proemio: «qualunque volta la fortuna ne dessi loro l’occasione» (rivolto ai giovani degli Orti Oricellari); Discorsi II xxix: «perché il più delle volte si vedrà quelli [...] essere stati convinti da una commodità grande che gli hanno fatto i cieli, dandogli occasione o togliendogli di potere operare virtuosamente», Istorie fiorentine IV 29: «Se mai dalla fortuna gliene fusse data occasione»; Vita di Castruccio Castracani vii: «dicendo che ringraziava Dio di avere avuto occasione di dimostrare la sua clemenza».
La dialettica fortuna-occasione rilanciata in modo vigoroso da M., con la sottrazione dell’o. dall’area peculiare del tempo e la sua assegnazione, con un principio di elasticità, a quella onnicomprensiva della fortuna, finisce per attenuare le prerogative della «virtù» che si trova a scontrarsi non con un’o. figlia di un ‘tempo’ neutro e lineare che casualmente può offrirsi a una «virtù» intercettante, ma con un’o. serva della fortuna, dei cieli e di Dio, che è messa o non messa a bella posta di fronte all’uomo da un’entità esterna e superiore. Mentre l’o. pars temporis indica la coincidenza o meno tra circostanze esterne casuali e la ‘virtù’ intercettante, prefigurando una casualità di ‘occasioni’ da dover decifrare ed eventualmente ‘cogliere’, l’o. concessa dalla «fortuna» finisce per sommarsi alla «fortuna» stessa prefigurando un’asimmetria nella triangolazione con la «virtù». L’o. è la seconda identità con cui si presenta la «fortuna», che coopta il concetto di tempo tradizionalmente associato all’o. giocando così un doppio ruolo rispetto alla «virtù». Mentre infatti l’occasione-kairòs risponde alla casualità del tempo qualitativo, l’occasione-fortuna risponde a un disegno superiore che ridimensiona inevitabilmente il ruolo dell’iniziativa virtuosa. «Dio non vuole fare ogni cosa per non ci tôrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi» (Principe xxvi 13).
Bibliografia: F. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1952; L. Derla, Sulla concezione machiavelliana del tempo, «Il contesto», 1977, 3, pp. 3-31; M. Martelli, Da Poliziano a Machiavelli. Sull’epigramma Dell’Occasione e sull’occasione, «Interpres», 1979, 2, pp. 230-54; F. Adorno, Fortuna e virtù in Machiavelli e in Aristotele, «Atti dell’Accademia pontaniana», 1980, 29, pp. 325-39; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 68-69; M. Martelli, La logica provvidenzialistica e il capitolo XXVI del Principe, «Interpres», 1981-1982 [ma 1984], pp. 262-384; G. Sasso, Del ventiseiesimo capitolo, della Provvidenza e di altre cose (1984), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 277-349; R. Wittkower, Allegoria e migrazione di simboli, Torino 1987, pp. 190-95; F. Bausi, Petrarca, Machiavelli, il Principe, in Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 sett. 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, pp. 41-58.