OCCHIO
Anatomia e fisiologia comparate. - A prescindere da alcuni casi di diretta sensibilità dei tessuti (es. fibre muscolari dei cromatofori nei Cefalopodi) allo stimolo luminoso, la recezione di questo è, nella serie animale, morfologicamente legata a particolari elementi, ai quali spetta la trasformazione di esso in eccitamento nervoso e che presentano nelle varie forme una singolare unità di schema strutturale: cellule epitelio-sensitive primarie, dove la porzione specifica è rappresentata da prolungamenti (orli ciliati, bastoncelli e coni) tanto più numerosi per ogni elemento, quanto minore è il numero di questi per un determinato organo, e derivanti da quelle neurofibrille che all'estremo opposto della cellula decorrono entro la fibra nervosa. Si allontanano da questo tipo i fotoricettori di alcune poche forme (Oligocheti, Salpe ecc.), nei quali la differenziazione acquista il carattere di formazioni vacuolari a contenuto liquido o gelatinoso (feosomi).
La sensibilità luminosa che molti Metazoi, pure sprovvisti di organi specifici (lombrico, Pontobdella muricata, molti ricci di mare, alcuni Molluschi ecc.) manifestano, sembra appunto riferibile alla presenza, a livello della superficie corporea, di tali cellule di senso isolate, il cui numero risulta di fatto maggiore nei territorî dotati di più elevata eccitabilità.
Da questa primitiva condizione, di cui unica possibilità funzionale è la percezione di variazioni di luce e d'ombra, le tappe successive, verso le manifestazioni più complesse della funzione visiva, sono riferibili non tanto a modificazioni degli elementi ricettori, quanto al graduale complicarsi delle loro disposizioni, soprattutto per l'aggiungersi di parti ausiliarie.
Uno schermo pigmentario che, intorno alle cellule sensitive o almeno alla porzione di esse specificamente differenziata, realizzi un isolamento ottico tale da consentire una unica direzione di provenienza della luce, viene con ciò stesso a creare la possibilità d' orientamento sulla posizione della sorgente luminosa e, di riverbero, sugli stessi movimenti dell'animale: sono queste le macchie oculari o gli ocelli a calice pigmentario che, con particolari assai varî di struttura, si ritrovano diffusissimi nei più diversi gruppi (Flagellati, Platelminti, Anellidi, Echinodermi, Molluschi, Anfiosso) e che si devono ritenere come lo stadio di partenza per l'ulteriore processo evolutivo. Gli aspetti del quale sono molteplici in relazione alle pure molteplici esigenze connesse con la possibilità stessa della formazione di un'immagine.
Da un lato, poiché ogni neurone non trasmette in un dato istante che un singolo eccitamento, un primo presupposto anatomico sarà inerente all'aumento numerico dei fotorecettori e alla loro disposizione, in quanto l'immagine risulta come un musaico dalla giustapposizione di tali percezioni elementari. Avviene così che, nell'ulteriore complicarsi degli organi visivi, le cellule di senso vengano a tappezzare - numerose e ordinate in superficie retiniche continue - le pareti d'introflessioni epiteliali (occhi a fossetta) o di cavità costruite sul principio della camera oscura (esempio tipico l'occhio del nautilo) o di vescicole chiuse sottoepidermiche (occhi a vescicola), nelle quali la porzione distale e il tessuto sovrastante acquistano proprietà di trasparenza come in una cornea.
D'altro lato, sia nei più semplici ocelli sia in questi occhi a fossetta o a vescicola, l'isolamento ottico operato dal pigmento, riducendo grandemente la quantità di luce, implicherà la differenziazione di un apparato rifrangente, che consenta una maggiore luminosità sui sottostanti recettori. Due serie, in singolare parallelismo, possono, di tale successiva conquista fisiomorfologica, seguirsi indipendentemente negli Anellidi e nei Molluschi: dalle masse di secreto gelatinoso e trasparente che tappezzano le superficie retiniche o riempiono le fossette oculari (Ranzania, Syllis, Nereis, Patella, Haliotis), alla differenziazione di vere e proprie formazioni lenticolari (Alciopidi; Murex), di cui può essere diversissima l'istogenesi, ma è comune la funzione, in quanto esse, con la forma definita e adeguata e con il distanziamento dalla superficie retinica, oltre ad assicurare l'aumento della luminosità, assumono ora l'ufficio di consentire, per quanto vi concorrono gli altri dispositivi sopra accennati, la formazione di una definita immagine.
Tappe evolutive analoghe si riscontrano anche per gli ocelli degli Artropodi e per gli organi visivi di molte meduse, asterie, ecc.
Sostanzialmente poi, nella condizione di cose sopra descritta, è già definito il principio costruttivo delle stesse forme più evolute: l'occhio dei Cefalopodi dibranchiati e quello dei Vertebrati, anche se questo profondamente si differenzia per il significato ontogenetico delle sue parti.
Dal canto opposto, l'aumento degli elementi sensitivi può essere realizzato, anziché dalla complicazione di un unico organo, dall'associazione di molti. Gli Anellidi tubicoli offrono, di tale aggruppamento di ocelli, interessanti tappe successive sino agli occhi situati sui filamenti branchiali del Branchiomma che si possono ritenere già veri occhi composti capaci di fornire, per il numero e la stretta giustapposizione dei loro elementi, non semplicemente la percezione del moto, quale è presumibile per i casi più semplici, ma già quella della forma.
Occhi composti. - Allo stesso motivo fisiologico s'ispirano gli occhi composti degli Artropodi, cioè di oltre i due terzi degli animali viventi. Su uno schema fondamentale comune - nel quale ogni ommatidio risulta costituito da una cornea chitinosa, da un cristallino e da una retinula, i cui elementi sensitivi tendono a fondere i proprî orli ciliati in un unico rabdoma - s'innestano molteplici varianti funzionali, relative sia alle caratteristiche del sistema diottrico o di quello pigmentario avvolgente gli ommatidî, sia poi al numero, alla forma, alla reciproca disposizione di questi ultimi. Nel meccanismo di formazione delle immagini come musaico degli eccitamenti elementari, che per ogni ommatidio corrispondono a una correlativa zona dell'oggetto, possiamo sostanzialmente distinguere due tipi fondamentali. Quando dei raggi che da ogni punto luminoso colpiscono i singoli ommatidî, solo quelli paralleli ai loro assi arrivano ai relativi rabdomi, perché gli altri divergenti, rifratti dal sistema diottrico, vengono a spegnersi lateralmente sul pigmento, l'immagine c0mplessiva risulterà dalla semplice giustapposizione delle immagini elementari. Ma, in un secondo tipo, il cristallino cilindrico ha rifrangenza decrescente dall'asse verso la periferia e il percorso dei raggi laterali ne resta quindi modificato in modo tale che, per ogni punto luminoso, all'ommatidio corrispondente arrivano sia i raggi paralleli al suo asse - che hanno attraversato la sua stessa lente - sia quelli divergenti, che vengono rinviati dai cristallini degli ommatidî circostanti, onde l'immagine viene, per ogni punto, ad essere il risultato della sovrapposizione degli effetti ottici di parecchi elementi. Concorre a ciò l'incompleto isolamento pigmentario degli ommatidî e il distanziarsi dei rabdomi dal cristallino, sino al punto dove convergono i raggi di differente provenienza.
Acutezza visiva. - Negli occhi a camera il numero dei neuroni, in quelli composti degli Artropodi il numero degli ommatidî determineranno, a parità di superficie retinica e quindi di dimensione dell'immagine, il potere risolutivo dell'occhio. Per quanto si riferisce al fattore dimensione, l'accorciamento lineare, che un oggetto situato alla distanza di un metro viene a subire nella sua immagine, è, naturalmente, assai vario: da 4360 circa nell'Acilius (Coleottero) esso discende a 62 nell'uomo a 25 nel Physalus. E assai vario è pure l'addensamento degli elementi sensitivi: ché, negli occhi composti, da poche decine di ommatidî si può salire ai fantastici numeri di 10.000-13.000 nelle libellule o nell'Acherontia, e di 30.000 nel Necrophorus germanicus, mentre poi nell'epitelio visivo del vertebrato, per ogni mmq. di superficie, si può andare dalle 2500 cellule sensitive dello Spelerpes alle 444.000 del passero o al milione e mezzo del ratto. Calcolando allora come 10.000 l'acutezza visiva dell'uomo in corrispondenza della macula lutea, quella dello sparviero salirebbe a 14.600, mentre scenderebbe a 1000 quella della foca e a 182 quella del ditisco. Ove poi il concetto di acutezza visiva s'integri, ai fini biologici, dei dati relativi alle capacità di movimento dell'animale, si avrebbe che il diametro minimo di un oggetto ancora nettamente riconoscibile, sarebbe di 0,3 mm. a distanza di un metro, per l'uomo, mentre diverrebbe di 0,2 alla stessa distanza per il falco e 25 μ a 1 mm. per l'ape. Tali valori sono calcolati in relazione al ben noto fenomeno della persistenza delle immagini retiniche, per il quale lo stesso normale orientamento nello spazio diviene impossibile quando la velocità di spostamento sia tale che persistano sulla retina immagini di punti già di fatto sorpassati, onde resterà all'uomo stesso interdetta la pratica utilizzazione di velocità che superino gl'intervalli dello spazio in tempuscoli inferiori a quelli di persistenza delle corrispondenti immagini. La comune osservazione è già sufficiente a orientarci nel concetto che tale velocità di reazione retinica deve essere diversa da specie a specie e, in certo qual modo, connessa con le corrispondenti capacità di spostamento. La concordanza che nell'uomo si dimostra fra il numero di eccitamenti visivi necessarî per la persistenza e quello degli stimoli muscolari che determinano la contrazione tetanica (10 circa al secondo in un caso come nell'altro), ci permette d'intravvedere quale debba essere la velocità di reazione retinica in forme nelle quali il tetano muscolare richiede ben 70-80 stimoli al secondo (falco) o addirittura 240 (ape) o 330 (mosca).
Per l'occhio composto, poi, occorre ancora rilevare come, in contrasto con l'effetto ottico di molti ommatidî a piccola divergenza reciproca, la diminuzione del loro numero e il correlativo aumento della loro divergenza consentirà, accanto a immagini meno chiare, una maggiore estensione del campo visivo totale. I due momenti potendo essere ai fini biologici ugualmente utili, si hanno assai spesso occhi composti con ommatidî corti e divergenti alla periferia, lunghi e sottili al centro, quando tale processo di divisione del lavoro non conduca addirittura alla differenziazione di due occhi composti diversi, frontali e laterali (es. maschio di Cloeon).
L'accomodazione. - La presenza d'un sistema diottrico implica come conseguenza il concorso di meccanismi accomodativi per la visione di oggetti situati a distanze diverse dal sistema stesso. Meccanismi di tal genere sono, fra gl'Invertebrati, presenti nei singolari e complessi occhi degli Alciopidi, in quelli degli Eteropodi e dei Cefalopodí: accomodazione sempre per la vista vicina, ottenuta per aumento della pressione endoculare e conseguente propulsione anteriore del cristallino. Dispositivi sino a un certo punto vicarianti di questi, in quanto consentono la visione a due differenti distanze, si possono ritenere la presenza di due retine distinte, successive, negli ocelli delle libellule o negli occhi del margine del mantello del Pecten, come lo spostamento, su due piani diversi, delle cellule della retinula negli ommatidî o la varia distanza dalla lente di porzioni differenti della retina negli ocelli di alcuni ragni.
Fra i Vertebrati, soltanto i Teleostei hanno l'occhio, in riposo, adattato per la vista vicina, l'accomodazione attiva per la distanza essendo ottenuta con la retrazione del cristallino, sferico e indeformabile, verso la retina, mediante contrazione del muscolo o campanula di Haller. Che tale condizione di cose sia direttamente legata all'habitat acquatico, dimostra la singolare eccezione offerta dal Periophthalmus, il quale, avvezzo alla ricerca della preda fuori dell'acqua, ha occhio adattato alla vista lontana, con accomodazione per la vicina e correlativa posizione anteriore del muscolo, che ora aumenta, anziché diminuirla, la distanza del cristallino dalla retina. Meccanismo sostanzialmente analogo a questo presentano anche gli Anfibî, mentre nelle altre classi l'accomodazione è ottenuta da variazioni di curvatura e quindi di potere rifrangente della lente. Rimandando per i Mammiferi a quanto si dice a proposito dell'uomo, rileviamo qui come se ne differenzi nettamente l'accomodazione nei Rettili e negli Uccelli, nei quali l'aumento di curvatura del cristallino, anziché alla reazione elastica di questo per rilasciamento delle fibre della zona ciliare, è direttamente dovuto alla pressione che, sulla parte periferica di esso, esercita anteriormente la muscolatura striata dell'iride. Ricordiamo ancora come i poteri accomodativi e quindi la deformabilità maggiore o minore della lente siano singolarmente connessi con le esigenze biologiche dell'animale e indipendenti dalla sua posizione sistematica: esempî tipici in tale senso sono offerti dagli uccelli tuffatori, nei quali il cristallino estremamente deformabile consente ampiezze di accomodazione finanche di 40-50 diottrie, in confronto delle 2-4 diottrie degli uccelli notturni e delle 14-16 dell'uomo.
Adattamenti alla luminosità. - Dei due tipi di occhi composti degli Artropodi, il primo, a giustapposizione, se può considerarsi come il più primitivo, è anche quello che, per la debole luminosità delle sue immagini, si riscontra nelle forme che vivono in ambienti fortemente illuminati, mentre l'altro a sovrapposizione, rappresenta l'adattamento visivo dei Crostacei delle acque profonde o degl'Insetti crepuscolari. Questo secondo può quindi, in certo qual modo, far riscontro a quegli adattamenti che anche negli occhi a camera dei Cefalopodi o dei Vertebrati di ambienti a debole luminosità vengono messi in giuoco, onde accrescere la quantità di luce che giunge alla superficie retinica. Dispositivi rappresentati da aumento del potere rifrangente dei mezzi diottrici, sia per accentuazione della loro curvatura, sia - quando questa ha già normalmente raggiunto il suo limite, come nelle forme acquatiche - per aumento delle loro dimensioni, nel qual caso, in armonia con le esigenze della forma e della grandezza del capo, l'occhio si sviluppa in senso longitudinale e assume forma di un cilindro di cui la lente occupa tutta la sezione (occhi a telescopio di molti Teleostei Cefalopodi di profondità, eventualmente complicati dalla presenza di retine accessorie e delle cosiddette finestre porzioni trasparenti della parete prive di pigmento). Gli stessi Artropodi - Insetti crepuscolari o Crostacei di fondo - come anche i Pesci abissali e i Mammiferi notturni, possono integrare tali adattamenti di luminosità sostituendo al pigmento assorbente uno strato riflettente, variamente costituito (tapetum), al quale si deve l'apparente luminosità dell'occhio del gatto e di altri animali.
Sensibilità cromatica. - Se il vario grado di complessità della funzione visiva, negli aspetti sin qui descritti, è connesso più con i dispositivi ausiliarî del sistema che con le proprietà intrinseche dei fotorecettori, a queste ultime si riannoda invece un altro e interessante momento del problema della visione: quello cioè della sensibilità cromatica lungo la serie animale. Contrariamente alla tesi a lungo sostenuta (Hess) che - salvo i Vertebrati superiori - gli altri animali si dovessero ritenere ciechi ai colori, e non percepissero le differenze cromatiche se non come differenze d'intensità luminosa, le ricerche attuali tendono a dimostrarci come in tutte forse le specie animali il colore abbia valore per sé stesso, qualitativo e non semplicemente quantitativo. Secondo tale indirizzo, basato sul concorso di metodi sperimentali molteplici, una sensibilità cromatica, in certo qual modo paragonabile a quella dei primati e dell'uomo, sarebbe riscontrabile, oltre che negli altri Mammiferi (anche se i colori appaiono forse ad essi meno saturi), in molti Rettili e negli Anfibî. Negli Uccelli invece, nei Chelonî e in alcuni Anfibî, nella cui retina gocce lipoidi giallo-arancione, o di altro colore funzionerebbero come filtro parzialmente assorbente, la porzione più rifrangibile dello spettro si deve ritenere notevolmente raccorciata. Un senso cromatico del tutto indipendente da differenze d'intensità luminosa posseggono anche i Pesci, con singolare sviluppo nella zona dell'ultravioletto invisibile all'uomo. Fra gl'Invertebrati, gl'Insetti mostrano senso cromatico differente nelle diverse forme: in particolare le api vedrebbero, tra i 300 μμ e i 650 μμ di lunghezza d'onda, quattro colori distinti, dei quali uno quindi totalmente compreso nella regione dell'ultravioletto. E singolare sensibilità cromatica nell'ultravioletto sembrano fra l'altro dimostrare le dafnie, in una zona dello spettro intorno ai 200 μμ che manca nello spettro solare, e indipendentemente da ogni fenomeno secondario di fluorescenza.
Aggiungiamo come tali ricerche, per quanto si riferiscono ai Vertebrati, abbiano portato un interessante contributo fisiologico a quella dottrina della duplicità funzionale dei coni e dei bastoncelli, che dalla varia distribuzione di questi nelle retine degli animali crepuscolari o acquatici (prevalenza o esclusività di bastoncelli) e degli animali diurni (notevole percentuale dei coni) traeva il suo fondamento essenzialmente morfologico. Comunque, il fatto che il senso cromatico appaia sviluppato anche in gruppi di forme ed entro limiti spettrali, dove non sembra avere alcun significato biologico, ci fa ritenere che esso sia fondamentalmente legato a proprietà fisico-chimiche degli elementi recettori e come tale abbia un'amplissima diffusione.
Anatomia umana.
Generalità. - Nella sua configurazione esterna il globo oculare presenta una forma che si avvicina a quella di una sfera. La parete del globo, che è opaca in gran parte della sua estensione, presenta anteriormente un'area trasparente: la cornea. Questa ha la forma di una calotta sferica, possiede una curva maggiore di quella delle parti non trasparenti della parete del globo, e sporge quindi dall'emisfero anteriore del globo, ricordando la disposizione di un vetro da orologio. Il diametro orizzontale della base della cornea misura circa 12 mm., quello verticale 11 mm., cosicché il limite periferico della cornea è una ellissi a grande asse orizzontale. La porzione non trasparente della parete esterna del globo è denominata sclerotica o sclera; la regione quasi circolare nella quale dalla cornea si passa alla sclerotica si chiama il limbo sclero-corneale. Nel globo si distinguono: un polo anteriore e uno posteriore, un equatore, un asse sagittale, che va da un polo all'altro (24 ⅓ mm.), un asse trasverso a livello dell'equatore (23,6 mm.) e due meridiani principali, verticale e orizzontale. L'equatore divide il globo in un segmento anteriore e uno posteriore, divisione che ha importanza clinica. La superficie del globo non presenta eguale curvatura in tutte le sue parti, cosicché nel suo insieme il globo non può essere paragonato a nessuno dei solidi geometrici conosciuti; si può però ritenere con sufficiente approssimazione che il segmento posteriore ha una forma che si avvicina a quella di un paraboloide. Il segmento anteriore fin presso all'equatore è rivestito da una membrana mucosa, la congiuntiva bulbare. Sulla superficie esterna del segmento anteriore del globo, sotto il rivestimento congiuntivale, prendono inserzione quattro muscoli motori: retto superiore, r. inferiore, r. esterno, r. interno; le linee d'inserzione dei retti interno ed esterno sono verticali e simmetriche rispetto al meridiano orizzontale, mentre le linee d'inserzione dei retti superiore e inferiore sono disposte obliquamente in guisa tale che l'estremità mediale di ciascuna linea d'inserzione è più vicina al limbo sclero-corneale che non l'estremità laterale. La linea d'inserzione più vicina al limbo sclero-corneale è quella del muscolo retto interno (5,5 mm.) vengono poi, a distanza progressivamente crescente, le linee d'inserzione del retto inferiore (6,5 mm.), del retto esterno (7 mm.), del retto superiore (7,7 mm.). Sulla superficie esterna del segmento posteriore del globo si riscontrano la linea d'inserzione di altri due muscoli motori: il muscolo obliquo superiore e il muscolo obliquo inferiore; il superiore prende inserzione nel quadrante temporale superiore, l'inferiore nel quadrante temporale inferiore del segmento posteriore del globo. Nel segmento posteriore del globo si trova il nervo ottico, costituito da fibre nervose che, provenendo da una membrana interna dell'occhio, la retina, attraversano la sclerotica per portarsi poi, riunite in un cordone cilindrico, nell'orbita e quindi nella cavità cranica. L'area nella quale il nervo ottico si distacca dal globo non è centrata rispetto all'asse antero-posteriore del globo, ma è situata nasalmente (3,9 mm.) e in basso (1,5 mm.) rispetto al polo posteriore.
Dalla superficie del segmento posteriore del globo emergono quattro vene, le vene vorticose, situate approssimativamente lungo due meridiani obliqui di 45° rispetto ai meridiani verticale e orizzontale e a una distanza di 6-8 mm. dietro all'equatore del globo.
Se si seziona un globo oculare secondo un piano meridionale, si osservano nell'interno di esso due cavità ineguali: l'anteriore più piccola, camera anteriore, ripiena di un liquido acquoso trasparente, l'umore acqueo, la posteriore molto più grande, camera del corpo vitreo, colmata da una massa perfettamente trasparente di consistenza gelatinosa, filante, il corpo vitreo. La separazione fra le due camere è fatta da una membrana conformata a guisa di diaframma, che si origina alla superficie interna del globo al punto di passaggio fra la cornea e la sclerotica: diaframma irideo o iride. Dietro l'iride e avanti al corpo vitreo si trova la lente cristallina o cristallino, che ha la forma di una lente biconvessa ed è trasparente. Fra la superficie anteriore del cristallino e la superficie posteriore dell'iride rimane un interstizio che in sezione si presenta di forma triangolare, con base all'esterno: la camera posteriore, colmata come l'anteriore da umore acqueo.
La parete del globo risulta costituita da tre tuniche; una esterna di consistenza fibrosa, tunica fibrosa, una interna di consistenza molto tenue, tunica nervosa, e una tunica situata fra le prime due, la tunica vascolare o uvea.
La tunica esterna o fibrosa è nella maggior parte della sua estensione opaca e costituisce la sclerotica, il cui compito principale è quello di dare una discreta consistenza al globo e di proteggere le tuniche interne, soprattutto la tunica nervosa. Per una certa area situata anteriormente la tunica fibrosa è trasparente (cornea) in guisa tale da permettere il passaggio dei raggi luminosi. La tunica vascolare o uvea, che risulta costituita in massima parte da vasi, ha la funzione importante di provvedere alla nutrizione del globo, e, con la muscolatura liscia che contiene, di far variare la quantità di luce che penetra nell'interno del globo e di determinare inoltre variazioni del potere diottrico del sistema rifrangente dell'occhio, che sono necessarie per la visione a distanze diverse. La tunica interna, o nervosa, presiede al meccanismo sensoriale della visione, essendo suscettibile di subire, sotto l'azione dei raggi luminosi, delle modíficazioni per le quali vengono trasmessi per mezzo delle fibre ottiche degli stimoli che dànno poi le sensazioni visive.
Tunica fibrosa. - a) Sclerotica. - Si presenta esternamente di colorito bianco, mentre alla superficie interna, soprattutto nella metà posteriore, ha un colorito leggermente bruno. Lo spessore della sclerotica non è uniforme: raggiunge 1 mm. circa al polo posteriore e circa 0,3 mm. al livello del segmento anteriore, dietro l'inserzione dei muscoli retti; lo spessore inoltre è minore nei giovani e, indipendentemente dall'età, può variare da soggetto a soggetto. La sclerotica viene attraversata da tutti i vasi sanguiferi che provvedono all'irrorazione della membrana uveale (arterie ciliari posteriori e anteriori, vene ciliari anteriori, vene vorticose), dalle fibre del nervo ottico e dai nervi ciliari.
Esaminando al microscopio una sezione del globo condotta lungo uno dei meridiani principali si rileva che la sclerotica non presenta eguale struttura in tutti i suoi strati, e precisamente che negli strati più esterni risulta costituita da un tessuto connettivale piuttosto lasso, con esili fasci che s'intrecciano in tutte le direzioni: è il cosiddetto tessuto episclerale, ricco di vasi. La sclerotica propriamente detta è costituita da un tessuto connettivale fibroso, i fasci del quale si dirigono in tutte le direzioni. Detti fasci risultano costituiti da fini fibrille collagene e da fibre elastiche; tra i fasci di fibrille si trovano le cellule fisse della sclera, scarsi elementi pigmentati e qualche cellula migrante. Nello spessore della sclerotica si rilevano solo pochissimi vasi, i quali provvedono esclusivamente alla nutrizione di essa. La sclerotica possiede filuzzi nervosi proprî con terminazioni nervose sensitive trofiche e vasomotorie. Se si distacca la coroide dalla sclerotica rimangono aderenti alla superficie interna di quest'ultima frammenti di tessuto pigmentato che fanno parte della lamella sopracoroidale della quale sarà detto in seguito. Non sembra giustificato ammettere, come lo è stato da alcuni autori, l'esistenza di una lamina fusca costituita dai frammenti suddetti.
b) Cornea. - Se si disseca la cornea dal globo, risalta subito la sua forma di menisco con una superficie anteriore convessa e una posteriore concava; esaminando al microscopio una sezione meridionale di cornea, si rileva che lo spessore delle parti periferiche è maggiore di quello della zona centrale (rispettivamente 1 mm. e 0,7 e 0,8 mm.) e che la curvatura della superficie posteriore è maggiore di quella della superficie anteriore. Esaminando la cornea in sito nell'occhio vivente risalta, nella maggioranza dei soggetti, la forma ellittica a grande asse orizzontale della base di essa; il contorno della cornea, invece, esaminato dalla parte posteriore nell'occhio enucleato, appare quasi perfettamente circolare, del diametro di circa 12 mm. La ragione di questa differenza sta nel fatto che nel contorno superiore e in quello inferiore della cornea gli strati esterni della sclera si spingono più in avanti che non a livello del meridiano orizzontale.
All'esame microscopico di una sezione meridionale della cornea si riscontrano, andando dall'esterno verso l'interno, i seguenti strati:
I. L'epitelio di rivestimento della superficie anteriore: risulta di 5-6 ordini di elementi cellulari, i quali nel loro insieme costituiscono un epitelio polistratificato, che ha uno spessore che varia da 35 a 55 μ. Gli elementi che formano lo strato basale sono piuttosto alti, di forma approssimativamente cilindrica, alcuni con citoplasma chiaro, altri con citoplasma più oscuro; la parte basale, leggermente slargata, presenta una fine dentellatura che aderisce alla membrana limitante anteriore. All'esterno di questo strato basale si rilevano due ordini di elementi cellulari di forma regolarmente poliedrica, connessi gli uni agli altri per mezzo di numerosi piccoli ponti intercellulari. Gli strati più superficiali dell'epitelio corneale (due ordini di elementi) risultano di cellule sensibilmente appiattite molto estese in superficie, con nucleo elissoidale. A differenza dell'epidermide, negli elementi cellulari di rivestimento della cornea non si ha la corneificazione.
II. Lamina basale anteriore (o membrana di Bowmann): è una membrana priva di struttura, di natura connettivale, di spessore variabile da 5 a 20 μ. Essa termina al bordo corneale senza che si possano stabilire con esattezza i rapporti di continuità con la membrana basale o con il tessuto connettivale lasso della congiuntiva bulbare.
III. Il tessuto proprio della cornea risulta costituito principalmente da numerose lamelle (40-60) disposte con una certa regolarità le une sulle altre concentricamente alle due superficie della cornea. Le lamelle sono formate da fasci di esili fibrille di natura connettivale; non risulta accertata la presenza di una sostanza che cementi fra loro i fasci di fibrille e le varie lamelle. Nel tessuto proprio della cornea si riscontrano fibre elastiche, le quali sono contenute in numero maggiore negli strati più profondi. Tra i fasci connettivali si riscontrano le cellule fisse della cornea, con citoplasma finemente granuloso e nucleo di forma irregolare. Esaminando delle sezioni tangenziali della cornea si ha un'idea esatta della configurazione di questi elementi, i quali sono discretamente estesi in superficie e presentano numerosi prolungamenti che si uniscono con quelli degli elementi vicini. Per la pressione esercitata dai fasci di fibrille alla superficie delle cellule fisse si formano delle docce a disposizione parallela. Non viene oggi accettata l'antica opinione che le cellule fisse si trovino in un sistema di spazî capillari che attraversano tutta la cornea; si riesce con procedimenti particolari a mettere in evidenza nella cornea un doppio sistema di canali, ma non è ancora dimostrato che in essi si abbia effettivamente una circolazione linfatica.
Nel tessuto proprio della cornea si riscontrano anche leucociti.
IV. La lamina basale posteriore (o mlembrana di Descemet) dello spessore di cirea 7 μ, è dotata di grande elasticità, malgrado non sembri che dia le reazioni del tessuto elastico. Alla periferia della cornea la membrana di Descemet si sfiocca in esili fascetti una parte dei quali si dirige verso la parte interna del canale di Schlemm, un'altra parte si piega assumendo una disposizione equatoriale.
V. L'endotelio della cornea, che riveste tutta la superficie posteriore di essa, risulta di un unico ordine di elementi cellulari appiattiti, dello spessore di circa 20 μ, e di forma prevalentemente esagonale se esaminati in superficie. Nelle parti periferiche, in prossimità dell'angolo iridocorneale, l'aspetto del rivestimento endoteliale cambia; non si distinguono più limiti cellulari, i nuclei sono più voluminosi e distribuiti irregolarmente, l'altezza degli elementi cellulari diminuisce. La cornea è priva di vasi sanguiferi e, come s'è detto, è dubbio se esista una vera circolazione linfatica in canali proprî o se si verifichino solo dei fenomeni di diffusione. Si comprende quindi quanto debba essere lento il ricambio della cornea e ci si rende conto anche della constatazione clinica e sperimentale che la cornea è difficilmente e, in determinate circostanze, solo molto lentamente raggiungibile da processi immunitarî generali dell'organismo.
I nervi della cornea provengono dai nervi ciliari; essi penetrano nella cornea principalmente negli strati medî del tessuto proprio, formando alla periferia della cornea un plesso circonferenziale. Una seconda rete nervosa si riscontra sotto la membrana di Bowmann che viene perforata da numerosi filuzzi, i quali formano un terzo plesso nello spessore dell'epitelio, terminando con dei bottoni rotondi o piriformi. Gli strati posteriori del tessuto proprio della cornea contengono pochi filuzzi nervosi.
Tunica vascolare. - Prende il suo nome dalla grande ricchezza di vasi che essa contiene. S'è già detto come la tunica vascolare abbia l'importante compito di provvedere alla nutrizione del globo e di prendere una parte importante nel meccanismo di produzione dei liquidi endoculari. La tunica vascolare riveste in tutta la sua estensione la superficie interna della sclerotica; a un millimetro circa dalla periferia della cornea essa si riflette verso l'asse anteroposteriore del globo formando con la cornea un angolo: l'angolo irido-corneale, o angolo della camera anteriore. Nella membrana uveale si distinguono tre porzioni: la coroide propriamente detta, che si estende dal polo posteriore dell'occhio fino a circa 5 mm. al davanti dell'equatore del globo; la sua superficie interna è liscia e su essa si adagia la membrana nervosa dell'occhio o retina; il suo limite anteriore è contraddistinto da una linea ondulata: l'ora serrata. Anteriormente all'ora serrata la membrana uveale si presenta molto più spessa ed è caratterizzata dalla presenza di una serie di sporgenze con direzione meridionale: i processi ciliari. La porzione della membrana uveale che, come s'è detto, non è a contatto con la superficie interna della sclerotica, costituisce il diaframma irideo o iride, situato in un piano frontale.
a) Coroide propriamente detta. - La sua superficie esterna è a contatto con la sclerotica, la superficie interna concava è rivestita da un unico ordine di elementi cellulari epiteliali pigmentati. Negli individui non albini la coroide presenta un colorito bruno scuro, più o meno accentuato secondo i soggetti.
Nella coroide si distinguono i seguenti strati, andando dall'esterno verso l'interno:
I. Lamina sopracoroideale di colorito bruno, dello spessore variabile da 15 a 30 μ, risultante da sottili lamelle di sostanza non collagena, che intercettano degli spazî capillari fra loro comunicanti. Non sembra che esista un rivestimento endoteliale sulla superficie di queste lamelle, nelle quali si riscontrano però dei nuclei, senza limiti cellulari ben definiti, così da dare l'impressione di un sincizio. Nelle lamelle sono contenute inoltre numerose fibre elastiche, che formano una rete con maglie poligonali, e dei cromatofori. Posteriormente, nei dintorni del forame coroideale destinato al passaggio del nervo ottico, le lamelle sopracoroideali sono strettamente addossate le une alle altre sì che non si riscontrano più gli spazî capillari (l'insieme di questi spazî comunicanti costituisce lo spazio pericoroideale). Anteriormente la lamina sopracoroideale si assottiglia notevolmente e le lamelle terminano nel muscolo ciliare.
II. Strato dei grossi vasi, nel quale si distinguono un piano più superficiale, formato da vene, e uno più profondo, formato da arterie. Le vene coroideali hanno disposizione veramente caratteristica, consistente nel fatto che numerose piccole vene convergono con decorso arcuato verso uno stesso punto, sboccando in un tronco di calibro maggiore, cosicché l'insieme ricorda l'aspetto di un vortice. Numerosi tronchi poi, convergendo verso tronchi di calibro ancora maggiore, formano nuovi vortici più estesi, e in fine tutto il sangue refluo dalla coroide affluisce in quattro grandi tronchi venosi: le vene vorticose, due superiori e due inferiori, le quali, com'è stato detto, perforano la sclerotica un po' all'indietro dell'equatore del globo a livello dei due meridiani obliqui di 45° rispetto al verticale e all'orizzontale. Le arterie, situate in un piano più interno delle vene, si sfioccano in numerosi ramuscoli, e infine terminano in capillari dei quali sarà detto più avanti. Lo stroma della coroide, nel quale sono immersi i vasi, consta di trabecole di fibre collagene, di fibre elastiche e di numerosi elementi cellulari piatti pigmentati, di forma stellata, provvisti di prolungamenti che contraggono rapporti con quelli degli elementi vicini.
III. Strato dei capillari (o membrana coriocapillare di Ruysch): consta esclusivamente di una rete di capillati con maglie tanto più strette quanto più ci si avvicina alla regione maculare. Lo stroma della coriocapillare è formato solo da finissime fibre collagene ed elastiche; mancano completamente, per lo meno nelle parti posteriori, gli elementi pigmentati.
IV. Lamina vitrea: riveste la superficie interna della coroide; in alcuni tratti, essa risulta evidentemente di due foglietti, l'esterno o lamella elastica saldata allo strato coriocapillare, l'interno o lamella cuticolare sul quale riposa l'epitelio pigmentato.
b) Corpo ciliare. - Se si seziona un globo a livello dell'equatore, e si esamina il segmento anteriore dal di dietro, si osserva il corpo ciliare come una cintura dell'estensione di 5-6 mm. in senso radiale, che si estende dall'ora serrata alla radice dell'iride; vi si distingue: una porzione posteriore con superficie piana di colorito più scuro della coroide, l'orbicolo ciliare, e una porzione anteriore, corona ciliare, contraddistinta dalla presenza di 70 sporgenze disposte radialmente, i processi ciliari. Questi si presentano come delle formazioni triangolari della lunghezza di 2 mm. con l'apice rivolto in dietro e la base anteriormente e assialmente; la parte più sporgente di ogni processo ciliare ha un colorito chiaro, mentre la parte rivolta verso il processo ciliare contiguo e l'intervallo fra un processo e l'altro sono di colorito bruno nero. Mentre a livello della coroide la membrana retinica è, fatta eccezione dell'epitelio pigmentato, adagiata sulla superficie retinica della coroide e vi aderisce intimamente solo a livello dell'area nella quale tutte le fibre ottiche si riuniscono per attraversare le pareti del globo e formare il nervo ottico, a livello del corpo ciliare, la retina aderisce strettamente alla superficie interna della porzione ciliare dell'uvea.
Porzione uveale. - I. Lamina sopracoroideale e muscolo ciliare. Se si segue la sopracoroidea dall'indietro in avanti si rileva che nel suo spessore, al livello dell'equatore del globo, compaiono delle fibre muscolari lisce, le quali costituiscono l'inizio della muscolatura del corpo ciliare, ossia del muscolo ciliare, il quale si estende fino alla radice dell'iride. Gli strati esterni del muscolo ciliare hanno direzione meridionale e sono separati da scarso tessuto della sopracoroidea. I fascetti muscolari aumentano di numero anteriormente, poi diminuiscono di nuovo e terminano in prossimità della camera anteriore dell'occhio a livello di un ispessimento che presenta la membrana di Descemet alla periferia della cornea (anello tendineo di Döllinger). All'interno della porzione meridionale si trova una porzione reticolare, formata da cordoni muscolari che s'incrociano formando delle maglie colmate dal connettivo, da vasi e da qualche cromatoforo. Più verso l'interno del corpo ciliare si riscontra una porzione circolare del muscolo ciliare, costituita da fibre a decorso equatoriale, le quali formano un vero muscolo anulare. Verso la camera anteriore il muscolo ciliare è limitato da un sottile strato connettivale che sta in rapporto con lo stroma irideo. Particolarità delle fibre muscolari lisce che compongono il muscolo ciliare è che i nuclei sono di forma ovale. Vasi proprî del muscolo ciliare giacciono nel tessuto interstiziale e sono di piccolo calibro. I nervi ciliari formano, prima di entrare nel muscolo, un plesso dal quale si partono rami per il muscolo, per l'iride, e per gli strati profondi della cornea.
II. Strato vascolare: è la continuazione di quello della coroide ed è costituito quasi esclusivamente da vasi venosi, a eccezione di alcune piccole arterie con decorso retrogrado verso la coroide, poiché le arterie di questo territorio decorrono nella sopracoroidea e nel muscolo ciliare.
III. Lamella elastica e lamella cuticolare: sono la continuazione di quelle coroideali, ma nel corpo ciliare sono più nettamente separate una dall'altra e l'interstizio è colmato da tessuto collageno. La lamella cuticolare a livello del terzo anteriore del corpo ciliare diviene più spessa, e dal lato interno presenta delle grosse sporgenze che formano, anastomizzandosi fra loro, un reticolo.
Porzione retinica: rappresenta la continuazione della retina sul corpo ciliare, a livello del quale i foglietti del calice ottico non hanno subito quella complessa differenziazione che presenta la retina visiva; la funzione della porzione ciliare della retina non ha nulla a che fare col meccanismo sensoriale della visione. Vi si distinguono due ordini di elementi cellulari epiteliali, dei quali l'esterno, adagiato sulla lamella cuticolare, è pigmentato, l'interno risulta invece di cellule chiare. Gli elementi epiteliali pigmentati sono più alti a livello dell'orbicolo ciliare (18 μ) e contengono un nucleo ovale orientato nel senso dell'altezza; in corrispondenza dei processi ciliari gli elementi sono più bassi e più larghi. Lo strato epiteliale interno, o strato delle cellule chiare, è costituito da elementi piuttosto alti che aderiscono all'epitelio pigmentato e contengono grani di pigmento solo nella vicinanza dell'iride; la superficie interna di questo strato è rivestita da una membranella omogenea o limitante interna.
c) Iride. - Si presenta come una membrana più o meno intensamente pigmentata, situata dietro la cornea, davanti al cristallino, e possiede nel centro un'apertura, la pupilla, il diametro della quale varia secondo le condizioni d'illuminazione, lo stato emotivo, ecc. L'iride rappresenta per l'occhio un vero diaframma, paragonabile a quello di una macchina fotografica, che permette la graduazione della quantità di luce che penetra nell'occhio, evitando l'abbagliamento e proteggendo quindi la retina dall'azione nociva della luce molto intensa. Esaminando la superficie anteriore dell'iride nell'occhio vivente, si osserva una serie di rilievi a forma di listerelle con disposizione radiale, le quali a breve distanza dal bordo pupillare s'intrecciano con analoghe sporgenze a decorso circolare. Questa corona di trabecole divide la superficie anteriore dell'occhio in una porzione pupillare finemente striata in senso radiale e una porzione ciliare. Tutte queste rilevatezze della superficie anteriore dell'iride sono dovute alla sporgenza dei vasi, che in grande numero sono contenuti nello spessore dell'iride. Si notano ancora alla superficie anteriore dell'iride numerosi infossamenti di estensione varia, le cripte dell'iride. La superficie posteriore dell'iride si presenta di colorito nero.
Riguardo alla struttura dell'iride, bisogna distinguere, come per il corpo ciliare, una porzione uveale, situata anteriormente, e una retinica, che riveste la superficie posteriore dell'iride.
Porzione uveale: non si hanno dati sufficienti per ammettere l'esistenza di un rivestimento endoteliale della superficie anteriore; esso a ogni modo, manca sicuramente in corrispondenza delle cripte. Andando dall'avanti all'indietro, si riscontrano nello spessore dell'iride:
1. Uno strato limitante anteriore, risultante di numerosi cromatofori, di scarse fibrille collagene e numerose terminazioni nervose.
2. Uno strato vascolare, contenente numerosissimi vasi e nervi. Sono caratteristici la disposizione radiale e il decorso serpiginoso dei vasi iridei, che stanno certamente in rapporto con le continue e rapide variazioni dell'ampiezza della pupilla. Fra i vasi si trova lo stroma dell'iride, risultante di tessuto collageno, di cromatofori e di cellule migranti. Nello strato vascolare è contenuto il muscolo costrittore della pupilla o sfintere pupillare, che si presenta come una formazione anulare estesa per 1 mm. in senso radiale, il bordo interno della quale si trova a livello del bordo pupillare dell'iride; consta di fascetti di fibre muscolari lisce disposti circolarmente attorno alla pupilla. Il muscolo sfintere pupillare è di origine ectodermica.
Porzione retinica: l'esame microscopico di sezioni meridionali di iride fa rilevare al limite posteriore dello strato vascolare e in quasi tutta l'estensione dell'iride il muscolo dilatatore della pupilla. Questo, secondo le più recenti ricerche, è costituito da un sottile strato di cellule piatte, allungate in senso radiale, con estremità affilate e con nucleo elissoidale. La parte anteriore del loro corpo cellulare rivolta verso lo stroma irideo, è costituita da un insieme di fibrille contrattili cilindriche, affilate, parallele, dirette radialmente, ed è più larga di quella parte che contiene il nucleo, cosicché i bordi di queste "placche fibrillari" contigue si sovrappongono. Lo stroma dell'iride è intimamente connesso col muscolo dilatatore e per mezzo di fibrille collagene e dei prolungamenti delle cellule connettive che penetrano fin dentro le cellule epiteliali. Il muscolo dilatatore cessa un po' prima dell'orlo pupillare e verso la radice dell'iride invia alcuni fasci che si dirigono obliquamente in avanti verso il trabecolato della camera anteriore e altri che piegano circolarmente ad anello. La superficie posteriore dell'iride è rivestita da uno strato di elementi epiteliali così intensamente pigmentati, che è possibile distinguerne i particolari solo in preparati istologici opportunamente depigmentati; sono elementi prismatici molto alti con nucleo relativamente piccolo in rapporto alle dimensioni del corpo cellulare. Questo strato epiteliale riveste anche l'orletto pupillare dell'iride e si affaccia alla superficie anteriore dell'iride in prossimità del bordo pupillare (ectropion uveale).
Colore dell'iride: variabile da soggetto a soggetto, è di solito in armonia con il colore dei capelli. La colorazione è dovuta al pigmento dei cromatofori contenuti nello stroma dell'iride e a quello degli elementi della porzione retinica; ma, mentre questi ultimi sono sempre fortemente pigmentati, varia il contenuto in pigmento dello stroma; se è scarso, prevale la colorazione nella porzione retinica, e, per un fenomeno ottico particolare, l'iride appare azzurra (bambini); se lo stroma contiene poco pigmento, ma è piuttosto spesso, l'iride appare di colorito grigio; se, infine, il contenuto in pigmento dello stroma è abbondante, la colorazione dell'iride è marrone più o meno scura.
Angolo iridocorneale o angolo della camera anteriore. - L'esame istologico di una sezione meridionale del segmento anteriore del globo fa rilevare una particolare struttura a livello dell'angolo iridocorneale. Al limite fra la cornea e la sclerotica si osserva la sezione di forma ellittica e a guisa di fessura di un canale, il seno venoso sclerale o canale di Schlemm, canale anulare, il quale in alcuni occhi e, nello stesso occhio, in alcuni tratti è sostituito da un sistema di canali che formano un plesso; la parete risulta di un rivestimento endoteliale. Dal canale di Schlemm si dipartono alcuni tronchi collettori che sboccano nel sistema venoso sclerale anteriore. È da considerarsi come un canale di natura linfatica.
La parete interna o postero-interna del canale di Schlemm confina con il trabecolato dell'angolo della camera anteriore, che delimita la parte posteriore della parete anteriore della camera anteriore, e l'angolo iridocorneale. In sezioni meridionali del globo il trabecolato occupa un'area di forma triangolare con l'apice situato anteriormente e consta di una serie di membranelle costituite da sottili trabecole a direzione equatoriale, rivestite da uno strato di fibre elastiche; le trabecole e le membranelle da esse formate delimitano degli spazî di varia ampiezza. Si distingue nel trabecolato una porzione antero-esterna o sclerale e una postero-interna o uveale. L'angolo della camera anteriore ha grande importanza per la regolazione della pressione endoculare, costituendo, secondo alcuni, la via principale di deflusso del liquido endoculare o, secondo altri, una valvola di sicurezza.
Vasi sanguiferi dell'uvea. - Le arterie che irrorano l'uvea sono tutte rami che si dipartono direttamente dall'arteria oftalmica o da diramazioni di essa. Si distinguono arterie ciliari posteriori e arterie ciliari anteriori. Le arterie ciliari posteriori, in numero di 15-20, raggiungono il segmento posteriore del globo, e in vicinanza del nervo ottico perforano la sclerotica, decorrono nella sopracoroidea e, dividendosi e suddividendosi dicotomicamente, si distribuiscono alla coroide formando negli strati più interni di essi la membrana coriocapillare (arterie ciliari posteriori brevi). Fra le arterie ciliari posteriori ve ne sono due (arterie ciliari posteriori lunghe), le quali perforano la sclerotica a livello del meridiano orizzontale dell'occhio, l'una dal lato nasale, l'altra dal lato temporale, a circa 4 mm. dalla periferia del nervo ottico, decorrono obliquamente attraverso la sclerotica, atttaversano la sopracoroidea fino a livello del muscolo ciliare, in corrispondenza del quale ciascuna si divide in un ramo superiore e uno inferiore, i quali, disponendosi concentricamente alla radice dell'iride, si anastomizzano fra di loro formando il grande cerchio arterioso dell'iride. Da questo si originano dei ramuscoli i quali, decorrendo nello spessore dell'iride con direzione radiale, si spingono verso il bordo pupillare; prima però di raggiungerlo si anastomizzano fra di loro formando una seconda corona vasale, il piccolo cerchio arterioso dell'iride. Dal grande cerchio arterioso dell'iride si dipartono inoltre dei ramuscoli i quali irrorano i processi ciliari.
Le arterie ciliari anteriori si originano dalle arterie muscolari che accompagnano i quattro muscoli retti; esse sono in numero di sette: due per ciascuno dei lati superiore, interno, inferiore, una per il lato temporale; decorrono sulla superficie esterna della sclera, più o meno tortuosamente, dirigendosi verso la periferia della cornea, a 2 mm. dalla quale perforano la sclerotica e contribuiscono alla formazione del grande cerchio arterioso dell'iride. Prima di perforare la sclerotica le arterie ciliari anteriori emettono dei ramuscoli, i quali si anastomizzano con altri delle arterie vicine, e altri rami i quali con decorso ricorrente si allontanano dalla periferia della cornea distribuendosi alla congiuntiva bulbare nella quale si anastomizzano con rami delle arterie congiuntivali posteriori; dalle arterie ciliari anteriori si dipartono inoltre dei ramuscoli i quali si avvicinano alla periferia della cornea contribuendo alla formazione della rete marginale pericheratica. Pertanto la coroide è irrorata dalle arterie ciliari brevi posteriori, i processi ciliari e l'iride dalle arterie ciliari lunghe posteriori e dalle arterie ciliari anteriori. Il decorso delle vene che portano il sangue refluo dalla membrana uveale è completamente differente da quello delle arterie, poiché quasi tutto il sangue refluo dalla coroide affluisce alle quattro vene vorticose, delle quali è stato già detto; soltanto una parte del sangue refluo dal muscolo ciliare defluisce in piccole vene, le vene ciliari anteriori, le quali seguono il decorso delle arterie omonime.
Retina. - Il calice ottico embrionale è formato da due pareti concentriche, la porzione posteriore della parete interna si differenzia profondamente e costituisce la retina propriamente detta, la parete esterna mantiene una struttura semplice e dà origine all'epitelio pigmentato.
L'epitelio pigmentato è formato da uno strato unico di cellule abbastanza regolarmente esagonali, che hanno la faccia rivolta verso la coroide piana, quella verso la retina fornita di numerosi prolungamenti che risalgono fra i membri esterni dei coni e dei bastoncelli. Esse contengono abbondante pigmento in granuli e bastoncini raccolti nella parte basale della cellula, fin presso il nucleo elissoidale; sotto l'azione della luce tendono a spostarsi verso i prolungamenti. L'analisi chimica non fa rilevare alcuna differenza nella costituzione ehimica del pigmento della coroide e dell'epitelio pigmentato. L'epitelio pigmentato ha la funzione di fornire il materiale necessario alla produzione della porpora retinica; sembra anche che provveda a nutrire le cellule visive e, infine, secondo alcuni autori, prenderebbe parte importantissima nel meccanismo della visione perché i granuli e bastoncini di pigmento, sotto l'azione della luce, emetterebbero elettroni determinando la stimolazione dei coni e dei bastoncelli.
La retina tappezza l'interno dell'occhio e si divide in due parti: la parte visiva, dal fondo fino all'ora serrata, e la parte cieca dall'ora serrata in avanti; quest'ultima, considerata insieme con l'epitelio pigmentato, costituisce poi la parte ciliare e la parte iridica della retina, di cui fu già detto a proposito del corpo ciliare e dell'iride.
Nella parte ottica della retina esistono due regioni caratteristiche: la papilla ottica e la macula lutea con la fovea centralis. La papilla ottica o papilla del nervo ottico o disco ottico è una zona per lo più regolarmente circolare del diametro di circa 1,5 mm. che giace 3,9 mm. nasalmente al polo posteriore dell'occhio. È di colore bianco roseo e lievemente escavata nella zona centrale dalla quale escono i vasi centrali della retina. La macula lutea rappresenta una regione ellittica del diametro di circa 2 mm. ed è così chiamata per il colorito giallastro che in corrispondenza di essa dimostra la retina. Nel suo interno vi è una zona più profonda, scavata a scodella, del diametro di circa 1,5 mm.: la fovea centralis. Dalle più recenti ricerche sembra accertato che nel vivente il colorito giallastro è limitato appena alla parte centrale della fovea, dopo la morte esso si diffonde all'ingiro in quella che dovrebbe chiamarsi soltanto area centralis. Lo spessore della retina non è uniforme: relativamente spessa (0,4 mm.) nelle vicinanze della papilla, si assottiglia sempre più verso l'ora serrata (0,1 mm.); nell'area centralis è spessa quasi 0,5 mm., ma in corrispondenza della fovea è ridotta a 0,1 mm.
Nella struttura istologica della retina si distingue un componente nervoso a funzione specifica e un componente stromatico destinato a sostenere e a proteggere il primo. La retina si suole dividere in 9 strati che sono, procedendo dall'esterno verso l'interno:
I. Strato dei coni e dei bastoncelli. - I coni e i bastoncelli rappresentano la parte degli elementi neuroepiteliali della retina situata fuori della membrana limitante esterna; essi sono raccolti in uno strato che ha lo spessore di circa 55 μ verso la fovea, ma che diviene più sottile procedendo verso l'ora serrata. Nella fovea vi sono solamente coni, all'intorno di questi si trovano anche bastoncelli, ma prevalgono i coni, che diventano sempre meno numerosi anteriormente fino a divenire rarissimi vicino all'ora serrata. Tanto nei coni quanto nei bastoncelli si distingue un membro o articolo esterno e uno interno.
I bastoncelli sono dei sottili cilindri lunghi come tutto lo strato, larghi circa 2 μ, con l'estremità esterna, tagliata nettamente, a contatto della faccia interna delle cellule dell'epitelio pigmentato. Sono assai delicati e si alterano dopo la morte con estrema rapidità. Il loro articolo esterno è costituito da una esile guaina di neurocheratina striata longitudinalmente che racchiude una sostanza omogenea in vivo, colorata in rosso dalla porpora, birifrangente. Questa sostanza, che contiene fosfatidi non saturi e fosfatidi saturi, per effetto di alcuni reagenti e anche per spontanea alterazione, prima di distruggersi in gocciole, si divide in tanti dischetti sovrapposti che, rigonfiandosi, escono in parte dalla guaina restando ancora uniti fra loro, sembra per mezzo di un filamento longitudinale che percorre tutto l'articolo esterno. L'articolo interno è più lungo dell'esterno, ma di spessore uguale o appena superiore, è meno brillante, monorinfrangente, sprovvisto di guaina e formato da una sostanza diversa perché vi si riscontrano solo fosfatidi non saturi; contiene vicino al confine con l'articolo esterno un diplosoma, ed è attraversato da un lungo filamento ondulato. Pare che questo si parta da uno dei corpuscoli del diplosoma mentre l'altro starebbe in connessione con il filamento del membro esterno.
I coni sono più larghi e corti dei bastoncelli e si sogliono paragonare a bottiglie dal corpo panciuto e dal lungo collo, il corpo sarebbe il membro interno e il collo il membro esterno. Sono lunghi circa 40 μ e hanno in media il diametro di 6 μ, però non sono di uguale dimensione in tutto il fondo, inquantoché nella fovea sono lunghi e sottili e assomigliano ai bastoncelli, verso la periferia invece diventano sempre più bassi e tozzi. L'articolo esterno, sottile e affilato all'apice, è circondato da una guaina di neurocheratina, e contiene una sostanza omogenea fortemente rifrangente che ha, come quella dei bastoncini, la tendenza a separarsi, in determinate condizioni, in una pila di dischetti. L'articolo esterno risulta formato chimicamente di un'impalcatura insolubile imbibita di lipoidi solubili in acetone, mancherebbero quindi i fosfatidi saturi.
Anche il membro interno, fornito di una sottile guaina, ha analoga costituzione, solo che i lipoidi in esso contenuti sono fosfatidi non saturi insolubili in acetone; esso contiene vicino alla linea di divisione dell'articolo esterno un diplosoma. I due terzi esterni dell'articolo interno costituiscono l'elissoide dei coni e sono riempiti da una sostanza con struttura alveolare, il terzo interno invece, omogeneo, muta in lunghezza perché è fortemente contrattile e rappresenta il mioide dei coni.
II. Membrana limitante esterna: è una sottile lamina perforata da un gran numero di piccoli fori, con orlo ispessito, attraverso i quali passano, senza aderirvi, i prolungamenti dei coni e dei bastoncelli (fibre dei coni e dei bastoncelli) per giungere ai rispettivi nuclei. Dall'orlo di tali fori si dirigono verso l'esterno tante pìccole corone di sottili fibrille che circondano l'estremità degli articoli interni dei coni e dei bastoncelli costituendo i cosiddetti cestelli fibrillari. Il lato interno della membrana è connesso con le estremità delle fibre di sostegno sfioccate a pennello; sembra accertato però che la membrana limitante interna sia diversa per origine e costituzione delle fibre stesse.
III. Strato dei granuli esterni: dello spessore di 50-60 μ, si chiama così perché costituito da molteplici file di "granuli" i quali altro non sono che i nuclei ovoidali dei coni e dei bastoncelli. Questi, attraverso la membrana limitante, si continuano, come si è detto, con un corpo cellulare allungato il quale contiene in un allargamento il nucleo, ma, mentre i nuclei dei coni sono situati immediatamente dopo la membrana limitante in un'unica fila, i nuclei dei bastoncelli sono scaglionati a diverso livello in 4-6 file, e sono meno ricchi di cromatina, disposta in un reticolo con maglie a decorso prevalentemente trasversale cosicché il nucleo appare striato trasversalmente. Le fibre dei coni terminano con un allargamento basale (piede) nella parte interna dello strato plessiforme esterno. Le fibre dei bastoncelli, invece, terminano nello stesso strato con palline libere (sferule terminali). Nello strato dei granuli si trovano anche le clave di Landolt, che sono le espansioni terminali del prolungamento esterno di cellule bipolari situate nello strato granuloso interno.
IV. Strato plessiforme esterno di piccolo spessore, risulta di due porzioni; una più esterna, di struttura reticolare lassa e punteggiata (strato di Henle), costituita dalle fibre dei coni e dei bastoncelli con le loro sferule terminali, dalle terminazioni arboriformi delle cellule bipolari e dalle diramazioni delle cellule di sostegno; e da una porzione interna, più densa, formata da fibre a decorso orizzontale, fra le quali giacciono le placche basali dei coni.
V. Strato dei granuli interni: è lo strato più complesso della retina; consta di cellule nervose a funzione associativa con ricche e complicate diramazioni. In esso si possono distinguere tre tipi di elementi: a) cellule orizzontali, situate nella parte più superficiale dello strato, inviano orizzontalmente i prolungamenti protoplasmatici e quello cilindrassile nella parte interna dello strato plessiforme esterno; dai prolungamenti protoplasmatici risalgono sottili fibre che prendono connessione con le sferule terminali dei bastoncelli. Altre cellule orizzontali situate più profondamente hanno un prolungamento protoplasmatico che scende fino allo strato plessiforme interno, dove si sdoppia in due rami orizzontali a decorso opposto; b) cellule bipolari: così chiamate perché inviano un prolungamento ascendente protoplasmatico e uno discendente cilindrassile: il prolungamento ascendente di una parte di esse (bipolari per i bastoncini), si sfiocca in un ciuffo di sottili fibre radiali a contatto con le sferule terminali dei bastoncini, mentre il prolungamento cilindrassile giunge nello strato delle cellule ganglionari. In altre bipolari invece (bipolari per i coni), il prolungamento ascendente si suddivide in un'arborizzazione piana a contatto delle placche basali dei coni, mentre il prolungamento discendente termina nello strato plessiforme interno; c) cellule amacrine o spongioblasti: sono situate nella parte più interna dello strato e sono caratterizzate dalla mancanza di cilindrasse e da un grosso nucleo intensamente colorabile. Alcune di esse hanno prolungamenti che si diramano in tutte le direzioni, altre sono fornite di un grosso dendrite che si sfiocca a varia altezza nello strato plessiforme interno in molti ramuscoli situati nello stesso piano.
VI. Strato plessiforme interno, di 20-40 μ di spessore, risulta da un plesso fittissimo in cui s'intrecciano le terminazioni discendenti delle cellule dello strato granuloso interno con quelle ascendenti delle cellule ganglionari e delle cellule gliali e con le diramazioni delle fibre di sostegno.
VII. Strato delle cellule ganglionari: contiene cellule nervose i cui prolungamenti cilindrassili costituiscono le fibre del nervo ottico; sono cellule di varia forma, grandi, con nucleo chiaro contenente un grosso nucleolo. Esse in corrispondenza dell'area centrale sono disposte in 7-8 ordini, un poco più perifericamente in due o tre ordini, mentre nel resto della retina costituiscono un unico strato, ma sono più grandi. I loro prolungamenti protoplasmatici sono diretti verso lo strato plessiforme interno, ove si diramano in tutte le direzioni oppure si espandono orizzontalmente a varia altezza.
VIII. Strato delle fibre nervose: è molto spesso in vicinanza della papilla del nervo ottico e si assottiglia rapidamente alla periferia; oltre alle fibre nervose, che sono i cilindrassi delle cellule ganglionari, contiene anche cellule gliali, le espansioni delle fibre di sostegno e i vasi della retina. Le fibre nervose, dello spessore di 1-2 μ, sono riunite in fascetti di 20 μ circa che, intrecciandosi a rete, s'irradiano dalla papilla in tutte le direzioni. I fasci che escono dal lato temporale della papilla si recano con decorso rettilineo alla fovea centralis, quelli che partono subito sopra e sotto a questi, giungono ai lati superiore e inferiore della fovea descrivendo una curva: tutti questi fasci rappresentano nel loro insieme il fascio papillo-maculare.
IX. Membrana limitante interna: rappresenta una sottilissima pellicola, sul lato interno della quale si espandono le estremità allargate delle fibre di sostegno. L'esistenza autonoma di questa membrana non è ammessa da tutti gli autori.
Lo stroma della retina è costituito principalmente dalle fibre di sostegno o di Müller, le quali formano un'impalcatura che attraversa tutti gli strati. Sono cellule a tipo gliale, con nucleo situato nello strato dei granuli interni, con l'estremità esterna sfioccata in un ciuffo di fibre che si saldano alla limitante esterna, mentre, con l'estremità interna, allargata a piede, aderiscono alla limitante interna. Dal loro corpo fibrillare partono nei diversi strati lamelle e membrane, che avvolgono i varî elementi cellulari, e fibre collaterali che s'intrecciano con le diramazioni di questi.
La struttura della retina nell'area centrale e specialmente nella fovea è assai diversa da quella del resto della sua estensione. Mentre nell'area centrale la retina è più spessa per la molteplicità degli ordini cellulari negli strati granulosi e in quello delle cellule ganglionari, verso il centro si assottiglia a spese degli strati più interni che scompaiono gradualmente formando un'escavazione a scodella, nel fondo della quale rimane solo uno strato di coni molto lunghi e sottili e, all'interno di questi, lo strato delle loro fibre, che piegano verso la periferia per raggiungere i rispettivi granuli. A ogni cono corrisponde una sola cellula bipolare e una sola cellula ganglionare, mentre nel resto della retina a una cellula ganglionare corrisponde un gran numero di coni; questa disposizione, unita al fatto che i raggi luminosi giungono direttamente ai coni senza attraversare tutti gli altri strati, e alla speciale struttura dei coni stessi, spiega la particolare sensibilità visiva della zona maculare, che rappresenta la zona della visione distinta (centro oxiopico).
Vascolarizzazione della retina. - La retina è nella maggioranza dei casi irrorata soltanto dall'arteria centrale della retina, ramo dell'oftalmica. L'arteria centrale della retina, distaccatasi dall'oftalmica poco dopo il suo ingresso nell'orbita, si colloca al lato temporale del nervo ottico; alla distanza di 12,5 mm. dal polo posteriore del globo penetra nello spessore del nervo e decorre lungo il suo asse fino al disco ottico, a livello del quale l'arteria si divide in un ramo superiore e uno inferiore, ciascuno dei quali si divide poi in un ramo temporale e uno nasale, dai quali si originano ramuscoli sempre più piccoli che si distribuiscono fino all'ora serrata. La biforcazione dell'arteria centrale può però avvenire nello spessore del tronco del nervo ottico, a distanza variabile dall'estremità intraoculare di esso. Dall'arteria temporale superiore e inferiore si dipartono esili vasellini che si dirigono verso la macula; qualche ramuscolo maculare si diparte direttamente dal tronco dell'arteria centrale o dai primi rami di biforcazione. Le grosse diramazioni dell'arteria centrale sono situate nello spessore dello strato delle fibre ottiche; le piccole diramazioni penetrano invece in strati più esterni della retina formando una rete capillare interna nello strato delle fibre ottiche e in quello delle cellule gangliari, e una esterna nello strato dei granuli interni; risulta da ciò che gli strati neuroepiteliali della retina, e quindi la fovea, sono privi di vasi, mentre gli strati cerebrali della retina sono riccamente irrorati. Le arterie retiniche, a simiglianza di quelle cerebrali, sono terminali, esse cioè non comunicano fra di loro, e quindi l'occlusione di un ramo dell'arteria centrale della retina ha per conseguenza la perdita delle funzioni nel rispettivo territorio di retina. È da ricordare che in alcuni soggetti (20%) dal disco ottico a livello della metà temporale emerge un'arteriola (arteria cilio-retinica) che si dirige verso la regione maculare, e che non è una diramazione dell'arteria centrale, ma di una rete arteriosa con disposizione anulare attorno al tronco del nervo ottico, il cerchio arterioso di Haller; quest'ultimo è formato da rami delle arterie ciliari brevi posteriori. La presenza di un'arteria cilio-retinica è di grande importanza, poiché nel caso di occlusione del tronco dell'arteria centrale provvede all'irrorazione del tratto interpapillomaculare tanto importante per la visione. Le vene retiniche seguono il decorso delle arterie.
Cristallino. - Si presenta come una lente biconvessa, trasparente, situata dietro la superficie posteriore dell'iride, adagiata in un infossamento che presenta il corpo vitreo anteriormente (fossa patellare). La superficie posteriore del cristallino ha una curvatura maggiore dell'anteriore, ambedue non sono di forma sferica, ma, almeno per una zona centrale di discreta estensione, di forma paraboloidea. Si distinguono nel cristallino due superficie, l'una anteriore, l'altra posteriore, un polo anteriore e uno posteriore, un equatore, un asse. Il diametro equatoriale del cristallino è di circa 10 mm., la lunghezza dell'asse, ossia la distanza fra i due poli, di 4 mm.
Il cristallino dell'adulto consta di una massa periferica di consistenza gelatinosa, la sostanza corticale, che circonda una porzione centrale di consistenza maggiore, il nucleo. La consistenza e il volume del nucleo sono tanto maggiori quanto più anziano è il soggetto, e coll'aumentare del volume del nucleo diminuisce lo spessore della sostanza corticale. Il cristallino è circondato da una capsula elastica, la cristalloide. Il cristallino umano è perfettamente trasparente e presenta una tenue colorazione gialla che si accentua con l'età. In condizioni particolari si rileva su ambedue le superficie del cristallino una formazione stellare composta di tre raggi, dell'aspetto di una Y per la superficie posteriore e di una Y rovesciata per la superficie anteriore. Queste formazioni stellari sono dovute alla presenza di una sostanza amorfa.
Anatomia microscopica. - Si distinguono nel cristallino la capsula, l'epitelio lenticolare e le fibre lenticolari. La capsula o cristalloide si presenta di regola omogenea; solo per l'azione di alcuni reagenti si mette in evidenza talvolta una struttura lamellare; lo spessore della capsula anteriore è di 10 μ, quella della posteriore di 5,7 μ. La superficie posteriore della cristalloide anteriore è rivestita in tutta la sua estensione da un unico strato di cellule epiteliali piatte. Esaminando in superficie la cristalloide anteriore, la configurazione degli elementi epiteliali giustifica la distinzione di una zona centrale e paracentrale e di una zona periferica o equatoriale. Nella prima si osservano elementi cellulari di forma irregolarmente poligonale, con citoplasma a struttura reticolare contenente numerosi granuli e con un nucleo rotondeggiante del diametro di circa 8 μ. Non si osservano né vacuoli né ponti intercellulari. Fra questi elementi se ne trovano sparsi qua e là altri, con protoplasma più o meno rarefatto, alcuni di dimensioni maggiori, di aspetto vescicolare. La zona equatoriale è caratterizzata dalla minore estensione in superficie degli elementi cellulari con contorni poco visibili e nucleo piccolo.
L'esame di sezioni meridionali del cristallino fa rilevare che gli elementi dell'epitelio capsulare diventano gradatamente più alti e più sottili verso l'equatore; essi si dispongono in serie meridionali, formando con l'asse del cristallino un angolo sempre più ampio, in quanto che l'estremità degli elementi che poggia sulla cristalloide si volge posteriormente; gli elementi cellulari si trasformano così gradatamente in fibre. La regione equatoriale del cristallino ha perciò nelle sezioni meridionali un aspetto caratteristico dovuto anche alla presenza dei nuclei delle fibre, nuclei che sono disposti a guisa di S (zona nucleare o arco nucleare).
Le fibre lenticolari si presentano come lunghi nastri prismatici, appiattiti, con sezione di forma esagonale, larghe 20-22 μ e lunghe 7-10 millimetri negli strati più superficiali; nel nucleo le fibre lenticolari sono più corte e più strette. Le fibre corticali constano di uno strato periferico consistente, che racchiude una massa semiliquida contenente un nucleo di forma ellittica; a mano a mano che ci si avvicina al nucleo, la consistenza delle fibre aumenta, finché nel nucleo tutta la fibra ha eguale consistenza quasi cornea (ciò specialmente nel nucleo di soggetti anziani). È questo un processo fisiologico di sclerosi del cristallino che s'inizia nel centro e che con l'aumentare dell'età si estende verso gli strati periferici, e che consiste in un processo di disidratazione e di addensamento delle fibre con degenerazione e poi scomparsa del nucleo delle fibre. È dubbia l'esistenza di una sostanza cementante. Per quanto riguarda la disposizione delle fibre, si distinguono: fibre centrali, situate attorno all'asse del cristallino con decorso rettilineo; fibre intermedie, o di passaggio, disposte ad arcata con la concavità rivolta verso l'asse del cristallino; fibre superficiali o principali, le quali si dipartono da un raggio della formazione stellare anteriore e terminano al raggio più vicino della stella posteriore, descrivendo una curva che abbraccia il piano equatoriale del cristallino. Queste fibre non superano in lunghezza i due terzi di un meridiano, e quindi nessuna di esse si estende da un polo all'altro, ma, quanto più lungo è il tragitto anteriormente, tanto più breve è posteriormente.
Le formazioni stellari rappresentano quindi suture nelle quali terminano o si originano le fibre; risultano di una sostanza particolare che cementa le terminazioni delle fibre stesse.
Zonula ciliare. - La zonula ciliare costituisce per il cristallino un legamento sospensore, il quale, oltre che mantenere il cristallino nella sua posizione fisiologica, ha anche il compito di permettere, secondo varî gradi di tensione o di rilasciamento, quelle modificazioni della curvatura delle superficie del cristallino che sono necessarie perché anche le immagini di oggetti situati a distanza finita dall'occhio si formino nitide sulla retina (accomodazione o adattamento rifrattivo dell'occhio). La zonula ciliare forma come un anello che, in senso meridionale, si estende per circa 6 mm., dall'ora serrata fino al bordo del cristallino. Nel suo tratto posteriore, la zonula appare come una lamella trasparente, la quale da una parte aderisce alla porzione ciliare della retina, dall'altra è in rapporto con lo strato limitante anteriore del corpo vitreo e risulta costituita da numerose fibrille. In avanti per l'aggiungersi di nuove fibrille lo spessore della lamella aumenta; nel tratto anteriore si ha un rilasciamento nella compagine della membranella, le fibre si allontanano l'una dall'altra circondando il bordo del cristallino. Le fibre zonulari hanno spessore molto variabile, alcune sono esilissime, altre sono spesse fino a 40 μ: le fibrille più lunghe misurano in lunghezza circa 7 mm. Le fibre zonulari sono trasparenti, non elastiche, resistenti; per i loro caratteri tintoriali non si possono considerare né fibre gliali né fibre elastiche. Secondo le moderne vedute, le fibre zonulari si originano dallo strato interno della porzione ciliare della retina e, in numero maggiore, dall'epitelio ciliare, a breve distanza dall'ora serrata; fibre zonulari si originano dal solco che separa un processo ciliare dall'altro, e dalle pareti laterali dei processi ciliari.
Viene ammessa anche l'esistenza di fibre orbicolo-ciliari che, originatesi nell'orbicolo, terminano alla radice dei processi ciliari, di fibre interciliari che mettono in connessione un processo ciliare con quello vicino, e di fibre che dai processi ciliari vanno allo strato limitante anteriore del corpo vitreo. I fasci di fibre zonulari in vicinanza del cristallino si sfioccano nelle singole fibrille, le quali prendono aderenza con la regione equatoriale del cristallino spingendosi assialmente per un'estensione maggiore nella superficie anteriore che in quella posteriore. Per lo sfioccamento dei fasci di fibrille in corrispondenza dell'equatore del cristallino si forma una sottile membranella, la lamella zonulare.
Corpo vitreo. - Il corpo vitreo si presenta come una massa perfettamente trasparente, molle, di forma approssimativamente sferica nella superficie posteriore, che presenta anteriormente una depressione, la fossa patellare, destinata ad accogliere il cristallino. Il corpo vitreo occupa tutta la cavità delimitata posteriormente dalla superficie interna della retina visiva, anteriormente dalla zonula ciliare e dalla superficie posteriore del cristallino. Nella porzione anteriore si nota uno strato limitante, che non è riconoscibile alla superficie posteriore del vitreo; non sembra esista realmente una "membrana ialoidea" descritta da alcuni autori, il vitreo contrae aderenze con la superficie posteriore del cristallino, in una zona anulare prossima all'equatore, con l'orbicolo ciliare e con il disco ottico.
La struttura del corpo vitreo è stata oggetto di numerosissime ricerche, ma, sebbene dell'argomento si siano occupati istologi provetti, le nostre conoscenze non sono ancora oggi complete e i risultati di alcune osservazioni, per quanto accurate, lasciano dubbî. Dalla maggioranza degli istologi viene ammessa nel corpo vitreo l'esistenza di una trama fibrillare risultante di esilissime fibrille visibili al microscopio, riunite in fascetti o isolate, alcune più lunghe, disposte sagittalmente, altre orientate secondo le più diverse direzioni. Secondo H. Baurmann, la trama fibrillare riconoscibile nel vitreo all'esame microscopico non sarebbe altro che un artefatto della tecnica istologica; il vitreo sarebbe, secondo questo autore, una gelatina omogenea macro- e microscopicamente, con struttura ultramicroscopica di gel. All'esame ultramicroscopico del vitreo, il Baurmann rileva la presenza di un groviglio di finissime fibrille intrecciantisi fra di loro. Gli autori sono oggi concordi nel negare l'esistenza di elementi cellulari nel corpo vitreo. Il corpo vitreo è attraversato nella zona assiale da un canale: canale ialoideo o di Cloquet.
Nervo ottico. - Il nervo ottico contiene, in massima parte, fibre nervose che partono dalla retina e conducono all'encefalo gli eccitamenti sensoriali della visione (fibre centripete o ascendenti) e, in numero infinitamente minore, fibre non differenziabili morfologicamente, che recano all'occhio impulsi riflessi dai centri encefalici (fibre centrifughe o discendenti). Esso non è un nervo vero e proprio, omologabile agli altri nervi cranici, ma rappresenta, come dimostrano la sua struttura e la sua origine, un tratto di sostanza bianca encefalica, e deriva dal peduncolo che riunisce nell'embrione il calice ottico alle vescicole del telencefalo.
Nel nervo ottico si sogliono distinguere tre parti:
1. Parte oculare. Le fibre nervose della retina, raccolte nella papilla ottica, di cui fu già fatto cenno, escono all'esterno del globo attraverso l'anello coroideale e il canale sclerale. L'anello coroideale, di solito, è più largo dell'orifizio anteriore del canale sclerale, cosicché, per un piccolo spazio intorno alla papilla, manca il rivestimento coroideale alla sclera. Il canale sclerale, più stretto nella sua estremità anteriore (mm. 3), si allarga progressivamente all'indietro fino a raggiungere il diametro di 5 mm. all'estremo posteriore. È rivestito nel suo interno da fasci collageni a decorso circolare ed è diviso in due porzioni da una formazione reticolare che lo attraversa verso la sua estremità anteriore: la lamina cribrosa. Questa è costituita da un intreccio di travate a decorso trasversale che delimitano delle maglie elissoidali, e, verso il centro, rotondeggianti, attraverso le quali passano stipati i fascetti di fibre nervose. Nell'interno di ciascuna trabecola decorre di solito un vasellino capillare. Nella lamina cribrosa si suole distinguere una porzione anteriore di natura gliale e una posteriore di natura connettivale: i fasci che compongono quest'ultima derivano in parte dalla lamina basale della coroide, ma soprattutto dai fasci collageni del terzo interno della sclera. A cominciare dal livello circa della lamina cribrosa, le fibre ottiche amieliniche si vanno gradualmente rivestendo di una guaina mielinica, così aumentano di spessore e perdono la trasparenza; il nervo nel suo insieme aumenta di diametro e assume un colore bianco opaco. Tra i fasci di fibre mieliniche decorrono numerosi setti connettivi molto sottili e fibre di elementi gliali che separano i fasci nervosi da quelli collageni. Nell'interno corre il cordone assiale del connettivo che riveste i vasi centrali.
2. Parte orbitale. È lunga circa 2,5-3 cm. ed è compresa fra l'uscita dalla parete del globo e l'ingresso nel canale ottico; ha l'aspetto di un cordone cilindrico di 35 mm. di diametro, che ha un decorso sinuoso ad S per non ostacolare, stirandosi per eccessiva brevità, i movimenti del globo. È rivestita da tre guaine che si continuano con gl'involucri dell'encefalo e sono:
a) Guaina esterna o guaina durale, fibrosa e spessa, formata da fasci collageni; di questi i più interni hanno un decorso circolare, quelli più esterni un decorso longitudinale. Anteriormente si continuano con quelli dei due terzi esterni della sclera, posteriormente si fondono con la dura madre e con il periostio del canale ottico. La faccia interna della guaina durale è rivestita da uno strato di endotelio.
b) Guaina media o aracnoideale, costituita da un'esile lamella connettivale, ricoperta da endotelio su entrambe le facce, che invia molte sottili trabecole verso le altre due guaine. Essa divide lo spazio intervaginale in due parti: spazio subdurale o sopraaracnoideale e sottoaracnoideale. Questi spazî sono in realtà costituiti da una serie di fessure irregolari rivestite da endotelio e in condizioni normali sono per lo più spazî virtuali. Gli spazî intervaginali terminano anteriormente a fondo cieco.
c) Guaina interna o piale: risulta da una membrana di connettivo a diretto contatto col nervo; dalla faccia interna di essa partono delle travate connettivali che corrono in tutte le direzioni nell'interno del nervo, frammezzo ai fasci nervosi. Queste travate sono ricoperte da un rivestimento gliale e nel loro interno decorrono i vasi proprî del nervo e spazi linfatici.
Le fibre nervose, molto sottili (2-5 μ) riunite in fasci variamente intrecciati, sono rivestite da mielina, ma prive di guaina di Schwann. Fra i fasci nervosi si trovano abbondanti elementi gliali che costituiscono anche un intreccio alla superficie esterna del nervo, sotto la guaina gliale.
3. Parte intracranica: S'inizia dall'ingresso del nervo nel canale ottico (alcuni però distinguono anche una porzione intracanicolare che corrisponde al tratto del nervo situato nel canale stesso). Il nervo è privo della guaina durale che si fonde col periostio del canale ottico e si continua con la dura madre encefalica; è di forma piuttosto schiacciata a sezione ellittica e si reca dorsalmente e medialmente per riunirsi coll'omologo dell'altro lato nel chiasma dei nervi ottici.
Congiuntiva. - È una membrana mucosa che riveste la superficie posteriore delle palpebre e il segmento anteriore del globo. Nel riflettersi della congiuntiva dalle palpebre sul globo si forma un cul di sacco o fornice congiuntivale. Si distinguono nella congiuntiva tre porzioni: la congiuntiva palpebrale, che s'inizia a livello del labbro meibomiano del bordo palpebrale e riveste la superficie posteriore del tarso, alla quale aderisce saldamente, e lo strato di fibre muscolari lisce che costituisce il muscolo palpebrale; si presenta di colorito roseo ed è discretamente trasparente, di guisa che è ben visibile il disegno delle ghiandole di Meibomio. A partire dal bordo orbitario del tarso e verso il fornice si rilevano pieghe a direzione trasversale e solchi interposti tra le pieghe.
La congiuntiva del fornice è caratterizzata dalla presenza di pieghe a direzione trasversale e dalla facile spostabilità, condizioni che assicurano piena libertà di movimento al globo, senza che a ogni movimento vengano stirate le palpebre. Si presenta di colorito roseo più o meno accentuato. Il fornice non presenta eguale profondità in tutte le direzioni, cosicché la distanza dalla periferia della cornea è di 10 mm. in alto, di 8 in basso, di 14 temporalmente, di 7 nasalmente (J.-H. Testut).
La congiuntiva bulbare, che riveste ininterrottamente la superficie anteriore del globo, è incolore e quasi trasparente, cosicché risalta attraverso essa il colorito bianco della sclera. È spostabile sulla sclera sottostante, fatta eccezione di un'esile listerella concentrica alla periferia corneale, a livello della quale aderisce alla sclera saldamente: il limbo congiuntivale. La congiuntiva riveste, particolarmente modificata, anche la cornea: porzione conginntivale della cornea.
In prossimità dell'angolo interno dell'occhio, la congiuntiva bulbare forma una piccola piega di forma semilunare, con la concavità rivolta temporalmente, dell'estensione di 1,5 mm. in senso radiale, la plica semilunare, la quale rappresenta un rudimento della terza palpebra presente in alcuni animali. Nasalmente alla plica semilunare si riscontra una formazione rotondeggiante, alquanto sporgente, con superficie finemente bernoccoluta, di colorito roseo, ricoperta di esili peluzzi: la caruncola lacrimale.
Anatomia microscopica della congiuntiva. - Si distinguono nella congiuntiva, come in tutte le mucose, un corion o derma e un rivestimento epiteliale separati da una membrana basale anista. Il rivestimento epiteliale consta nella congiuntiva tarsale di due ordini d'elementi cellulari, dei quali quello superficiale è formato da elementi cellulari cilindrici, di altezza varia, e quello basale di elementi appiattiti. Dal bordo orbitario del tarso verso il fornice si rileva nell'epitelio congiuntivale una maggiore stratíficazione per la comparsa di elementi cellulari di forma cubica, più o meno alti, fra lo strato basale e quello superficiale cosicché, mentre l'epitelio di rivestimento della congiuntiva tarsale risulta solo di due ordini cellulari, quello della congiuntiva che riveste il muscolo palpebrale, il fornice congiuntivale e la porzione della congiuntiva bulbare prossima al fornice, risulta di diversi ordini cellulari (5-6). L'epitelio che riveste la congiuntiva bulbare nella porzione prossima alla periferia della cornea si presenta pavimentoso stratificato. In tutta l'estensione dell'epitelio congiuntivale si possono riscontrare qua e là cellule caliciformi, le quali rappresentano ghiandole mucose unicellulari. Nel derma congiuntivale si distingue uno strato adenoideo situato immediatamente al disotto della membrana basale, il quale contiene cellule plasmatiche di aspetto particolare e cellule linfoidi, e uno strato fibroso situato più profondamente; a livello del limbo congiuntivale il derma della mucosa solleva qua e là l'epitelio in guisa che, nelle sezioni meridionali del globo, questi sollevamenti hanno un aspetto che ricorda quello delle papille dermiche.
La congiuntiva contiene formazioni ghiandolari che si possono considerare come ghiandole lacrimali accessorie e sono situate nella parte della congiuntiva palpebrale più prossima al fornice e in quella del fornice, più frequenti e più numerose nel fornice superiore e in quello inferiore (ghiandole di Krause e di Ciaccio); sono delle ghiandole tubulari. La plica semilunare risulta costituita da un epitelio a struttura simile a quella della congiuntiva bulbare e di tessuto connettivo ricco di vasi. La caruncola lacrimale è rivestita da epitelio pavimentoso stratificato e contiene bulbi piliferi, ghiandole sebacee, ghiandole sudoripare e piccole ghiandole sul tipo di quelle lacrimali accessorie che si riscontrano nella congiuntiva del fornice.
Vasi della congiuntiva. La congiuntiva palpebrale, quella del fornice e parte della congiuntiva bulbare sono irrorate da arterie che provengono da quelle che si distribuiscono alle palpebre. Nella congiuntiva bulbare si distinguono arterie congiuntivali posteriori e arterie congiuntivali anteriori; le prime provengono dalle anastomosi tra l'arteria lacrimale e la zigomatico-orbitale e tra l'oftalmica e l'angolare; si portano in avanti, cedendo numerosi ramuscoli alla congiuntiva bulbare e al tessuto episclerale e finiscono per formare una ricca rete pericheratica. Le arterie congiuntivali anteriori provengono dalle ciliari anteriori circa a livello dei punti nei quali le dette arterie perforano la sclerotica in vicinanza della periferia della cornea; le congiuntivali anteriori si dirigono verso la periferia della cornea dove contribuiscono alla formazione della rete pericheratica, anastomizzandosi con le terminazioni delle arterie congiuntivali posteriori. Il sangue refluo dalla congiuntiva palpebrale e dalla congiuntiva del fornice per mezzo di vene che seguono il decorso delle rispettive arterie si versa in vene più grandi, le quali sboccano nelle vene oftalmiche. Anche le vene congiuntivali posteriori della congiuntiva bulbare seguono il decorso delle rispettive arterie e sboccano in vene tributarie della vena oftalmica; le vene ciliari anteriori sboccano in parte nelle vene congiuntivali posteriori, in parte nelle vene muscolari. I nervi della congiuntiva provengono dalla prima e dalla seconda branca del trigemino e si osservano nella congiuntiva delle terminazioni libere nell'epitelio e delle terminazioni sotto forma di cestelli terminali nel derma.
Muscoli motori dell'occhio. - L'occhio può rotare in tutte le direzioni per l'azione di sei muscoli motori: quattro muscoli retti e due muscoli obliqui. Il muscolo retto superiore si origina sul bordo superiore dell'orificio anteriore del canale ottico e sulla superficie superiore della guaina durale del nervo ottico; si dirige in avanti e un po' temporalmente, formando con l'asse sagittale dell'occhio un angolo aperto posteriormente e nasalmente, e s'inserisce sul globo a circa mm. 7,7 dal limbo sclerale. Il muscolo retto inferiore si origina da un legamento fibroso, il ligamento di Zinn, che s'inserisce sul corpo dello sfenoide in corrispondenza dalla parte più larga della fessura sfenoidale, poi si divide in tre fasci i quali, dirigendosi uno all'interno, un altro in basso e il terzo all'esterno, dànno origine rispettivamente al muscolo retto interno, al muscolo retto inferiore, e al retto esterno. Il muscolo retto inferiore si dirige anteriormente e temporalmente e s'inserisce sul segmento anteriore del globo, a mm. 6,5 dal limbo sclerocorneale. Il muscolo retto esterno, originatosi dal fascio esterno dal tendine di Zinn, si dirige direttamente in avanti e s'inserisce sul globo a 7 mm. circa dal limbo sclerocorneale. Il muscolo retto interno, dopo la sua origine in corrispondenza del fascio interno del tendine di Zinn, si porta anteriormente e prende inserzione sul globo a mm. 5,5 dal limbo sclerocorneale. Il muscolo obliquo superiore o grande obliquo si origina in corrispondenza del bordo nasale superiore dell'orificio anteriore del canale ottico, fra il retto superiore e il retto interno, si porta in avanti, decorrendo molto vicino alla parete nasale dell'orbita; in vicinanza del bordo orbitario si continua con un tendine cilindrico che passa nell'interno di un anello fibroso cartilagineo che aderisce all'apofisi orbitaria interna dell'osso frontale (puleggia di riflessione del muscolo grande obliquo); fuoruscito dall'anello fibroso, il tendine del grande obliquo si dirige posteriormente e temporalmente e s'inserisce sul globo in corrispondenza del quadrante temporale superiore dell'emisfero posteriore. Il muscolo obliquo inferiore o piccolo obliquo si origina sulla parete interna dell'orbita, un poco all'indietro dell'orificio superiore del canale nasale; si porta indietro e temporalmente, passando al disotto del retto inferiore, e s'inserisce sul globo a livello del quadrante temporale inferiore dell'emisfero posteriore.
L'azione dei varî muscoli motori del globo si comprende facilmente solo che si rifletta alla posizione, alla direzione, e all'inserzione sclerale di ciascuno di essi. I movimenti che essi fanno compiere al globo sono, come è stato detto, movimenti di rotazione in tutte le direzioni; tali movimenti si effettuano attorno a un centro di rotazione che si trova approssimativamente circa 10-13 mm. dietro il vertice corneale. Il muscolo retto interno e il muscolo retto esterno fanno rotare il globo intorno a un asse verticale, il primo fa rotare il segmento anteriore del globo verso l'interno ed è quindi un muscolo adduttore; il secondo fa rotare il segmento anteriore del globo verso l'esterno, costituendo quindi un muscolo abduttore. Il retto superiore e l'inferiore hanno un'azione un poco più complessa; il retto superiore fa rotare in alto e un po' nasalmente il segmento del globo, e fa inclinare un po' verso il lato nasale la parte superiore del meridiano verticale; il muscolo retto inferiore fa rotare il segmento anteriore del globo in basso e inclinare verso il lato temporale la parte superiore del meridiano verticale. Il muscolo retto superiore è un elevatore, un adduttore del globo e fa inoltre rotare il globo attorno a un asse sagittale; il muscolo retto inferiore è un abbassatore e un adduttore, e fa inoltre rotare il globo intorno a un asse sagittale. L'azione del muscolo grande obliquo riesce ben comprensibile supponendo che l'origine di questo muscolo sia a livello della puleggia di riflessione; fa rotare il segmento anteriore del globo in basso, verso l'esterno e fa inclinare nasalmente la parte superiore del meridiano verticale. Il muscolo obliquo inferiore fa rotare il segmento anteriore del globo in alto e temporalmente e fa inclinare verso il lato temporale la parte superiore del meridiano verticale. Il muscolo retto superiore interno e inferiore e il muscolo piccolo obliquo sono innervati dal III paio di nervi cranici o nervo oculomotore comune; il muscolo retto esterno è innervato dal VI paio o nervo oculomotore esterno o abducente. Il muscolo obliquo superiore è innervato dal IV paio o nervo patetico o trocleare.
Fisiologia dell'occhio.
Cornea. - Chimicamente risulta costituita da sostanze organiche (albumina, globulina, mucoide, collagene, zucchero) nella proporzione del 26%, da sostanze inorganiche nella proporzione del 0,66% e da acqua (73% circa). La trasparenza della cornea è legata a un complesso di fattori, che permettono l'integrità del rivestimento epiteliale e di quello endoteliale, e inoltre assicurano il grado fisiologico di rigonfiamento della cornea stessa, e un certo grado di tensione. L'indice di rifrazione nella cornea è di 1,3731.
La cornea possiede un ricambio molto lento; è fornita di un doppio sistema di canali comunicanti con i linfatici della regione limbare, ma in essi non è stata ancora dimostrata una circolazione linfatica. Il materiale nutritizio della cornea proviene dai vasi del limbus e verosimilmente anche dall'umore acqueo. La cornea è permeabile per alcune sostanze e non per altre, e la permeabilità per ciascuna sostanza si esplica solo in una determinata direzione. Nell'occhio vivente in condizioni fisiologiche il passaggio di sostanze dal sacco congiuntivale nella camera anteriore avviene attraverso la sostanza cementante degli elementi epiteliali, delle lamelle, del parenchima e degli elementi endoteliali.
Cristallino. - È l'organo del corpo umano più ricco in sostanze proteiche, contenendone il 35% del proprio peso; il contenuto in grassi e lipoidi è del o,5% e altrettanto quello delle sostanze inorganiche. Una parte delle proteine è insolubile in acqua (albumoide), e una parte solubile: α - e β - cristallina (pseudoglobuline), γ - cristallina (albumina). PH della poltiglia di cristallino = 7,38. La α - e la β - cristallina hanno proprietà di antigene con specificità di organo e non di specie. La capsula lenticolare non è né una vera membrana semipermeabile, né una vera membrana dialitica, poiché si lascia attraversare per diffusione da alcuni colloidi, e non da alcuni cristalloidi; possiede proprietà fisico-chimiche delle quali alcune legate alla vitalità dell'organo. Poco si conosce sulle sostanze che vengono assunte dal cristallino per la sua nutrizione e sui prodotti finali del ricambio; è certo però che il cristallino possiede un metabolismo attivo; sono ben conosciuti il ricambio ossidativo e quello glicolitico; nei processi ossido-riduttivi ha importanza la presenza di glutatione. La trasparenza del cristallino è legata a numerosi fattori fra i quali importantissimi l'integrità della capsula, il PH, la composizione chimica e la concentrazione osmotica del liquido ambiente. Alcune sostanze opacano il cristallino, anche se contenute in piccolissime quantità in soluzioni isoosmotiche per il cristallino. L'indice di rifrazione del cristallino varia da strato a strato in modo continuo e graduale nei giovani.
In un cristallino di bambino, F. Speciale trovò a 37° i valori seguenti:
In un cristallino di adulto lo stesso autore riscontrò i seguenti valori:
Liquidi oculari. - Umore acqueo. - Occupa la camera anteriore e posteriore dell'occhio; è un liquido trasparente, incolore, con peso specifico di 1,0036, con indice di rifrazione n = 1,33325 a 37°, con PH = 7,3 a 37°; con pressione osmotica pari a quella di una soluzione 0,959% di cloruro di sodio (nel vitello) non si apprezzano differenze sensibili fra la pressione cristalloido-osmotica dell'acqueo e quella del plasma sanguigno.
Sostanze solide disciolte sono contenute nella quantità dell'1% circa con grande prevalenza delle sostanze inorganiche; di sostanze albuminoidi l'acqueo contiene il 0,01-0,03%, e precisamente un'albumina e una globulina; fra le sostanze organiche riscontrate nell'acqueo sono da ricordare: glucosio, urea, ammoniaca, acido paralattico, e fra le sostanze inorganiche cloruro di sodio, carbonato di sodio, cloruro di potassio, solfato di potassio, fosfato di sodio, fosfato di magnesio, fosfato di calcio. Nell'umore acqueo si trovano disciolti ossigeno e anidride carbonica liberi. L'umore acqueo contiene alcuni fermenti, e precisamente: catalasi, amilasi, monobutirrinasi, proteasi; l'umore acqueo, inoltre, riduce il blu di metilene, decolorandolo, e ha un'azione ossidante sul pirogallolo e sulla p-fenilendiammina; tale potere ossidante è termostabile, e quindi non attribuibile a un enzima. Nell'umore acqueo non passano dal sangue batteriolisine, emolisine, citotossine. Il contenuto in anticorpi dell'umore acqueo aumenta sotto l'azione di stimoli meccanici, chimici, termici, elettrici. L'umore acqueo che si forma dopo il vuotamento della camera anteriore differisce per la sua composizione chimica dall'umore acqueo normale, in quanto che coagula spontaneamente, ha un maggiore contenuto in sostanze proteiche, proprietà amilolitiche e lipasiche più spiccate; a differenza dell'umore acqueo di prima estrazione, è capace d'inibire, per quanto in modo lieve, la digestione triptica.
Umore vitreo. - Contiene gli stessi costituenti dell'acqueo, in proporzione leggermente differente; a differenza dell'acqueo contiene mucoide e sostanza collagene; il contenuto in zucchero del vitreo è leggermente superiore a quello dell'acqueo. Alla concentrazione in H-ioni corrisponde un PH = 7,4; l'indice di rifrazione a 37° è n = 1,33312.
Origine e deflusso dell'umore acqueo. - Secondo alcuni autori si avrebbe una vera circolazione del liquido endoculare. Il corpo ciliare sarebbe l'organo devoluto alla produzione dell'umore acqueo per un meccanismo di filtrazione attraverso le pareti vasali e per forze osmotiche vitali secondo alcuni, per un'attività secretoria dell'epitelio ciliare, secondo altri. Come vie di deflusso dell'umore acqueo vengono prese in considerazione la superficie anteriore dell'iride (attraverso gli stomi) e soprattutto il canale di Schlemm, attraverso l'angolo della camera anteriore. Ricerche recenti, eseguite sulla base delle moderne conoscenze circa le proprietà fisico-chimiche delle membrane viventi in generale e delle pareti dei capillari in particolare, inducono a ritenere che il liquido endoculare sia un dializzato del plasma sanguigno attraverso le pareti dei capillari dell'uvea e della retina; nell'interno del globo non si avrebbe una vera circolazione di liquido, poiché le pareti dei capillari avrebbero anche il compito di riassorbirlo lentissimamente. La produzione e il riassorbimento del liquido endoculare sarebbero regolati da fenomeni idrostatici, osmotici, chimici, elettrici. Questa nuova concezione sarebbe avvalorata dal fatto che il valore della pressione endoculare in condizioni fisiologiche è uguale al valore della pressione idrostatica del sangue nei capillari dell'occhio, diminuita del valore della pressione colloidoosmotica del sangue.
Retina. - L'arteria centrale della retina provvede alla nutrizione degli strati della retina, dallo strato delle fibre nervose fino a quello reticolare esterno (retina cerebrale); alla nutrizione degli elementi sensoriali provvede la corio-capillare della coroide. Il ricambio della retina si presenta alquanto differente da quello di altri tessuti normali adulti, e mostra una certa somiglianza con quello dei tumori.
La glicolisi anaerobica della retina è talmente intensa che, per esempio, la retina di ratto in soluzione di Ringer contenente zucchero, in ambiente di azoto, scinde lo zucchero in acido lattico con una velocità tale, che in un'ora si forma una quantità di acido lattico pari al 35% del peso della retina; ciò farebbe sospettare che nella retina adulta il riposo di accrescimento fosse solo apparente, poiché gradi di glicolisi anaerobica elevati come quelli che si constatano nella retina si mettono in evidenza solo nei tumori maligni (O. Warburg). La glicolisi aerobica della retina di ratto, in vitro è meno intensa di quella anaerobica, ma presenta sempre valori discretamente elevati; ciò forse perché la respirazione della retina, mentre in vivo è sufficiente a fare scomparire la glicolisi, con l'interruzione della circolazione viene talmente a soffrire, da rendere impossibile la scomparsa della glicolisi. Tale interpretazione viene avvalorata dalla constatazione, fatta da O. Warburg, che la retina di rana, che è priva di vasi, non mostra alcun potere glicolitico in presenza di ossigeno.
La retina possiede un discreto potere ossidante, riduce il blu di metilene e il m-dinitrobenzolo, composti che in esperienze di tal genere' funzionano da accettori d'idrogeno. La retina al buio ha reazione leggermente alcalina.
Azione della luce sulla retina. - La luce provoca nella retina cambiamenti morfologici, modificazioni chimiche, fenomeni elettrici.
Cambiamenti morfologici. - Per azione della luce, il pigmento dell'epitelio pigmentato, e precisamente quello aghiforme, si sposta nell'interno degli elementi cellulari verso la limitante esterna della retina circondando i bastoncelli per un tratto più o meno esteso della loro lunghezza. Mentre non si ha dubbio che tale migrazione di pigmento per azione della luce avvenga nella retina di Anfibî, di Pesci e di altri animali, non è ancora chiarito se analogo fenomeno si manifesti in animali privi di bastoncelli, e nei Mammiferi. Per azione della luce sembra si abbia una decolorazione della fucsina e delle gocce oleose, e che nella cupola degli elementi pigmentati avvenga una rigenerazione di pigmento. Nei coni per azione della luce si manifesta un accorciamento per contrazione del membro interno o mioide; a determinare questa contrazione basta una luce di bassa intensità (1/180 di candela Hefner); le luci monocromatiche, purché di eguale intensità, provocano eguale grado di accorciamento. Tale reperto, che è costante nella maggioranza degli animali, è dubbio nell'uomo.
Per quanto riguarda i bastoncelli, in alcuni animali la luce determinerebbe un accorciamento con ispessimento, mentre in altri un allungamento con assottigliamento di essi. In seguito a illuminazione prolungata si osservano alcune modificazioni anche a carico degli strati interni della retina, quali diminuzione delle zolle cromofile e aumento di volume del corpo cellulare e del nucleo delle cellule gangliari, diminuzione della affinità cromatica del nucleo dei granuli interni. I cambiamenti morfologici della retina per azione della luce sono in stretto rapporto col sistema nervoso; basta l'esposizione di un occhio alla luce perché le stesse modificazioni si manifestino anche nell'occhio tenuto al buio; basta nelle rane, p. es., illuminare la pelle del dorso mantenendo al buio la testa per ottenere lo stesso fenomeno. Negli animali scerebrati i cambiamenti morfologici si osservano solo nella retina dell'occhio illuminato.
Modificazioni chimiche. - Per azione della luce si libera nella retina da combinazione organiche (acidogeno) l'acido fosforico; l'acidogeno retinico differisce da quello muscolare, poiché nella retina, a differenza del muscolo, contemporaneamente alla separazione di acido fosforico, si formano solo tracce di acido lattico; è al diffondersi dell'acido fosforico che sarebbe verosimilmente dovuta la contrazione del membro interno nei coni; altri lo mettono in rapporto col fenomeno dello scolorimento della porpora retinica e della rigenerazione di essa se la retina è a contatto con l'epitelio pigmentato. Per azione della luce si accentua il potere ossidante della retina e si attenua la capacità di ridurre il blu di metilene.
Porpora retinica. - Osservata per la prima volta da F. v. Müller e H. Leydig nella retina degli Anfibî, venne meglio studiata nel 1876 da F. Boll, il quale rilevò che la colorazione rossa della retina dovuta alla porpora scompare per azione della luce, e che tale sostanza colorante è contenuta nell'articolo esterno dei bastoncelli. La porpora retinica è presente in tutti gli animali con retina contenente bastoncelli; è stata dimostrata la sua presenza anche nella retina umana, fatta eccezione della regione maculare. La porpora viene decolorata dalla luce, dagli acidi, dagli alcali, dal cloroformio, dall'etere, da temperature superiori a 50°; le basse temperature rallentano la decolorazione provocata dalla luce. Gli unici solventi che non modificano la colorazione della porpora sono la bile e le soluzioni di sali biliari, specialmente le soluzioni di taurocolato di sodio. La colorazione rossa dovuta alla porpora scompare per azione della luce, e, nell'animale vivente, ricompare, dopo permanenza all'oscuro; la decolorazione della retina alla luce avviene più lentamente se la retina è a contatto dell'epitelio pigmentato, verosimilmente per una rigenerazione della porpora da parte dell'epitelio pigmentato; la decolorazione alla luce è limitata all'area di retina illuminata. È nota la curva di assorbimento della porpora retinica, il massimo di assorbimento si riscontra nella grande maggioranza degli animali a 5000 Å. Sembra che con lo scolorarsi della porpora per azione della luce si formi dapprima una sostanza colorata in giallo che, continuando l'illuminazione, si decolora completamente. È ancora poco noto se e quale parte prenda la porpora retinica nel meccanismo della visione: è certamente importante la constatazione fatta che vi ha una corrispondenza fra il tempo della decolorazione della porpora per azione delle varie luci spettrali e il valore crepuscolare delle luci spettrali stesse, e ancora tra queste ultime e la quantità di energia assorbita dalla porpora; è probabile che la porpora fornisca il materiale necessario per la stimolazione dei bastoncelli.
Fenomeni elettromotori. - Nell'animale vivente, ponendo un elettrodo sulla cornea e l'altro sulla superficie esterna della sclera, al polo posteriore dell'occhio, e collegando questi elettrodi con un galvanometro, si constata la presenza di una corrente che, se l'occhio non è illuminato, è detta corrente di riposo o corrente di stato; se s'illumina l'occhio si rilevano variazioni di potenziale che forniscono dei tracciati i quali differiscono solo di poco da animale ad animale nella serie dei vertebrati. Le variazioni riscontrate sono le seguenti: all'inizio dell'illuminazione, a un breve periodo di latenza segue un'oscillazione negativa e poi un'oscillazione positiva primaria, alla quale segue a volte anche un'oscillazione positiva secondaria, la sospensione dell'illuminazione è seguita da un'oscillazione postuma negativa o positiva. Sembra che l'elettroretinogramma (ossia il tracciato che riproduce le variazioni di potenziale della corrente di azione della retina) abbia caratteristiche differenti per le varie luci monocromatiche.
Acutezza visiva nei varî territorî retinici. - (V. anche appresso). L'acutezza visiva o potere risolutivo dell'occhio dipende dall'angolo del minimo separabile, ossia dall'angolo più piccolo che deve essere sotteso da due punti perché l'occhio percepisca i due punti distinti l'uno dall'altro. Il grado dell'acutezza visiva varia da zona a zona della retina; il valore massimo si ha nella ragione maculare e precisamente in una zona pressoché circolare che, avendo per centro il centro della fovea, si estende in tutte le direzioni entro un angolo di circa 1°. Di là da quest'area l'acutezza visiva diminuisce piuttosto rapidamente fino a una distanza angolare di 10°, si abbassa più lentamente nelle zone più periferiche. A parità di distanza dalla fovea, l'acutezza visiva è leggermente più elevata nel settore nasale della retina; seguono poi in ordine di decrescenza, il settore temporale, il superiore, l'inferiore.
Senso luminoso. - L'acutezza visiva o potere separatore dell'occhio è in rapporto con la quantità di luce che illumina gli oggetti. Se nel determinare il valore dell'acutezza visiva di un occhio si fa decrescere l'intensità luminosa della sorgente che illumina le tabelle ottotipiche che servono a questo scopo, si constata che l'acutezza visiva si abbassa dapprima lentamente, poi in misura maggiore, e infine rapidissimamente. La linea che riproduce il comportamento dell'acutezza visiva col variare dell'intensità luminosa è un'iperbole. Parimenti, se la quantità di luce che illumina la tabella ottotipica è molto elevata, l'acutezza visiva si abbassa. E pertanto, perchè l'acutezza visiva di un occhio si manifesti in tutta la sua potenzialità, è necessario che l'intensità luminosa non varchi un limite basso e un limite elevato. Ma, a parte il rapporto fra potere separatore dell'occhio e intensità luminosa, l'occhio ha la facoltà di essere impressionato, e quindi di destare una sensazione di luce, con debolissima intensità luminosa; si chiama soglia dell'eccitamento luminoso la più piccola intensità luminosa che è capace di destare sensazione di luce. L'occhio è capace ancora di apprezzare piccole differenze d'intensità luminosa; si chiama soglia differenziale la più piccola differenza d'intensità luminosa che l'occhio può apprezzare. La soglia dell'eccitamento e la soglia differenziale hanno valori diversi secondo che l'occhio è esposto alla luce o invece all'oscurità, e, precisamente, se si determina la soglia dell'eccitamento in un soggetto il quale, dopo essere stato esposto, per esempio, alla luce del giorno, viene condotto in una camera buia, si rileva che il valore della soglia dell'eccitamento decresce con una certa velocità a mano a mano che aumenta il tempo di permanenza all'oscurità, e precisamente si osserva che, da principio, il valore della soglia diminuisce lentamente, dopo 10 minuti e fino a 35 minuti diminuisce rapidamente, poi diminuisce di nuovo lentamente, finché, dopo 50 minuti di permanenza all'oscurità, il valore della soglia non si modifica più. Se ne deduce che, perché l'occhio possa manifestare in modo completo la sensibilità alla luce, occorre un certo periodo di permanenza all'oscurità. Occorre cioè che si verifichino nella retina, membrana sensoriale della visione, modificazioni che costituiscono la base di quello che si chiama adattamento dell'occhio all'oscurità. Analogamente, se un soggetto, dopo essere stato mantenuto per qualche tempo all'oscurità, viene condotto in un ambiente fortemente illuminato, l'acutezza visiva appare sensibilmente inferiore a quella normale, e solo dopo qualche tempo l'acutezza visiva raggiunge il valore normale. Vi ha dunque un adattamento alla luce come vi ha un adattamento all'oscurità. Così come varia il valore dell'acutezza visiva nei varî territorî retinici varia anche il senso luminoso ma in modo differente: esiste anzitutto una zona perimaculare, dell'estensione di circa 4°, nella quale la sensibilità alla luce è inferiore a quella maculare (zona emeralopica perimaculare). Dai limiti periferici di questa zona la sensibilità aumenta fino a 30° e 40°, e a 50° essa ha ancora un valore superiore a quello maculare; in generale lungo tutto i meridiani retinici si ha una zona nella quale il senso luminoso ha dei valori superiori a quello maculare.
Si ritiene da molti fisiologi che nella retina esistano due apparati, l'uno per la visione diurna, rappresentato dai coni, l'altro per la visione crepuscolare, costituito dai bastoncelli; il primo, presiederebbe, oltre che alla visione diurna, anche alla visione dei colori, il secondo invece permetterebbe l'apprezzamento d'intensità luminose molto deboli.
Senso cromatico. - È noto che se si fa passare un raggio di luce bianca attraverso un prisma trasparente, p. es. di quarzo, la luce viene decomposta in una serie di radiazioni monocromatiche, l'insieme delle quali costituisce lo spettro della luce bianca. L'occhio umano percepisce però soltanto le radiazioni che sono comprese fra quella lunghezza d'onda (λ) di circa 8000 Ångström (Å) e la radiazione di circa 4000 Å; la retina umana cioè non viene impressionata dalle radiazioni di lunghezza d'onda superiore a 8000 Å (raggi infrarossi) né dalle radiazioni di lunghezza d'onda inferiore a 4000 Å (raggi ultravioletti). Le radiazioni dello spettro visibile sono, come ben si comprende, numerosissime, ma si sogliono considerare, soprattutto a scopo clinico, sette colori, e cioè: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Facendo convergere in uno stesso punto tutte le radiazioni visibili si ottiene la sintesi della luce bianca, ma la luce bianca si può ancora ottenere solo con la mescolanza di due colori dello spettro che si dicono colori complementari, p. es., il rosso e il verde.
Anche per la visione dei colori esiste una soglia dell'eccitamento, occorre cioè che il colore abbia una certa intensità perchè la retina ne venga impressionata in modo tale che si abbia una sensazione cromatica. Il valore massimo della sensibilità cromatica si ha nella regione maculare, perifericamente la sensibilità cromatica diminuisce senza che tale comportamento possa essere integrato in una formula; nella zona perimaculare fino a 10° il decrescere della sensibilità cromatica avviene più lentamente che non quello dell'acutezza visiva, mentre in zone più periferiche la sensibilità cromatica decresce più rapidamente dell'acutezza visiva; il comportamento quindi del senso cromatico nei vari territorî retinici è del tutto diverso da quello del senso luminoso.
Pupilla. - Come è stato detto nella trattazione dell'anatomia dell'occhio, la muscolatura liscia dell'iride permette variazioni nel diametro della pupilla: il muscolo sfintere pupillare fa restringere la pupilla, il muscolo dilatatore la dilata, e poiché si tratta di muscoli lisci, la loro contrazione è indipendente dalla volontà, di guisa che il restringimento e la dilatazione della pupilla si effettuano come azioni riflesse; si parla quindi di riflessi pupillari. Questi possono essere provocati da cause diverse e si distinguono riflessi sensoriali, i quali sono intimamente legati alla funzione visiva, e riflessi psicosensitivi, i quali dalla funzione visiva sono indipendenti.
I riflessi sensoriali sono:
I. Riflesso fotomotore. Se s'illumina un occhio, la pupilla di questo occhio si restringe, e, cessando l'illuminazione, la pupilla si dilata riprendendo l'ampiezza primitiva (riflesso fotomotore diretto); ma, se s'illumina un occhio, si restringe non soltanto la pupilla dell'occhio illuminato, ma anche quella dell'altro occhio (riflesso fotomotore consensuale). Mentre sono abbastanza bene conosciute le vie del riflesso fotomotore, non vi ha accordo ancora fra gli autori sulla sede del centro per questo riflesso, poiché, secondo alcuni, esso sarebbe rappresentato da un gruppo cellulare che fa parte del nucleo d'origine del nervo oculomotore comune, mentre, secondo altri, il ganglio ciliare sarebbe il centro per il riflesso fotomotore. La semeiologia del riflesso fotomotore della pupilla ha grande importanza non soltanto in ottalmologia, ma anche in medicina generale e in neurologia.
II. Riflesso nella visione da vicino. Se, dopo avere invitato un soggetto a guardare a grande distanza, lo s'invita a guardare un oggetto situato a breve distanza dagli occhi, le due pupille si restringono. Secondo alcuni autori esisterebbe un riflesso pupillare alla convergenza e un altro all'accomodazione; secondo altri autori, invece, si avrebbe solo un riflesso all'accomodazione. Dalle moderne vedute sembra che il restringimento della pupilla, il quale si manifesta nella visione da vicino, non sia dipendente né dall'accomodazione né dalla convergenza; sarebbero tutti movimenti provocati contemporaneamente da uno stesso impulso di origine corticale, il cui compito sarebbe quello di determinare nella visione da vicino la formazione d'immagini nitide in zone corrispondenti dalla retina.
I riflessi psicosensitivi sono: 1. Il riflesso al dolore, che consiste nel fatto che sotto l'azione di un dolore provocato la pupilla si dilata lentamente, per poi restringersi rapidamente. 2. Riflesso alle emozioni: la pupilla si dilata. 3. Riflesso alla chiusura delle palpebre: se s'invita un soggetto a chiudere forzatamente gli occhi mentre le palpebre vengono forzatamente tenute divaricate, la pupilla si restringe.
Il centro per i riflessi che provocano la dilatazione della pupilla è situato nel midollo spinale, e precisamente nel midollo cervicale, e nella parte superiore del midollo dorsale.
Bibl.: H. Müller, Zur Histologie der Netzhaut, in Müller's hinterlassene Schriften, I, Lipsia 1872; F. Leydig, Lehrbuch der Histologie, Francoforte 1857; F. Boll, Zur Anatomie und Physiologie der Retina, in Sitz. Akad. Wiss., Berlino 1876; F. Speciale-Cirincione, Sull'indice di refrazione dei mezzi oculari, ecc., in La clinica oculistica, Roma 1913; H. Baurmann, Untersuchungen über die Struktur des Glaskörpers bei Säugetieren, in Graef's Arch., CXI, Berlino 1923; O. Warburg, Über den Stoffwechsel der Tumoren, Berlino 1926.
Embriologia.
Lo studio del loro sviluppo, nella serie animale, ha fatto riunire gli occhi in due grandi categorie: quelli degl'Invertebrati che si originano da differenziamenti del tegumento e, come tali, direttamente dall'ectoderma e quelli dei Vertebrati che, sviluppandosi dall'abbozzo embrionale dell'encefalo, sono detti perciò occhi cerebrali.
Qui tratteremo dello sviluppo dell'occhio dei Vertebrati che nelle varie classi presenta una particolare uniformità di struttura e di costituzione e che dagli altri organi di senso sembra differire soprattutto per il fatto che il suo epitelio sensitivo (retina) trae origine nell'embrione da un'estroflessione della parete del cervello anteriore. In realtà, molto precocemente nello sviluppo, la parte sensoria dell'occhio è rappresentata da un abbozzo pari e laterale (placodi ottici), compreso nel territorio anteriore della piastra midollare, ciò che ne riavvicina l'origine a quella degli altri epitelî sensorî. Nello stadio successivo al sollevamento e alla chiusura delle pieghe midollari, per la formazione del neurasse, nel tratto anteriore di questo, a livello del diencefalo, vengono a sporgere da ambo i lati due vescicole, le vescicole ottiche primitive o primarie (vesiculae opticae). Derivando tali formazioni dai placodi ottici compresi nello spessore della piastra midollare, si comprende come gli elementi sensorî durante la formazione della vescicola vengano a portarsi in definitiva nella parete interna di questa, la cui cavità si continua con quella encefalica. Le vescicole ottiche, col progredire dello sviluppo, vanno estendendosi lateralmente nel mesenchima che si accumula tra parete encefalica ed ectoderma, mentre costringendosi nella loro parte prossimale e dall'alto in basso, danno luogo al peduncolo ottico. Quindi vengono a contatto, distalmente, con l'ectoderma sopraoculare che, in questo punto (nell'uomo già in embrioni di 4 mm.; nel pollo in embrioni di 36 ore d'incubazione) s'inspessisce prima (area lentogena, placode lentogeno), si inflette dopo, separandosi dal restante ectoderma nell'abbozzo della lente cristallina. Questo assume l'aspetto di una vescicola (vesicula lentis), in cui la parete cellulare esterna o distale, unistratificata e costituita da cellule cubiche, darà origine all'epitelio del cristallino, l'altra, più spessa e prossimale fatta da cellule cilindriche, darà origine al nucleo della lente, in quanto tali cellule subendo un caratteristico allungamento e una contemporanea trasformazione ialina, si differenzieranno nelle fibre del cristallino, obliterandone conseguentemente la cavità.
Non in tutte le classi dei Vertebrati la lente si sviluppa da un'introflessione vescicolare dell'ectoderma, come accade nei Rettili, negli Uccelli, nei Mammiferi. Negli Elasmobranchi, ad es., l'abbozzo lentogeno fa la sua comparsa come una proliferazione solida dello strato profondo (sensitivo) dell'ectoderma, dal quale poi si distacca, e nella quale si viene a formare, solo secondariamente, la cavità. Nei Dipnoi, nei Teleostei e negli Anfibî, la lente si sviluppa secondo le modalità descritte per i Sauropsidi, con la sola differenza che l'introflessione interessa soltanto lo strato sensitivo dell'ectoderma, talché la vescicola lentogena rimane coperta, fino dall'inizio della sua formazione, dallo strato ectodermico esterno.
Il processo di formazione della lente dall'ectoderma è contemporaneo, nelle sue varie fasi, a una trasformazione che subisce la vescicola ottica primaria e che sembra quasi determinata dallo stesso approfondarsi della lente. La parete esterna della vescicola ottica va, cioè, a poco a poco invaginandosi, dall'esterno all'interno e dal basso in alto nella cavità della stessa, che assume la forma di coppa a doppia parete con la scomparsa graduale della cavità primitiva. Si viene così a costituire il calice ottico (cupula optica, vesicula optica inversa) che, per la direzione secondo cui è avvenuta l'invaginazione, rimane incompleto ventralmente nella fessura coroidea, la quale, come una doccia, si estende anche al peduncolo ottico, obliterandone il primitivo lume.
Il foglietto interno del calice (lamina inversa cupulae) che ne limita la cavità, inspessendosi notevolmente per moltiplicazione delle sue cellule, si differenzierà nella retina propriamente detta; il foglietto esterno invece (lamina externa cupulae) assottigliandosi e modificandosi, per accumulo di melanina nelle sue cellule, darà origine allo strato pigmentoso della retina (tapetum nigrum), laddove l'apertura del calice (os pupillare cupulae) accoglierà il cristallino. Da questo stadio la cavità del calice ottico comincia a dilatarsi, per l'accumularsi in essa, del liquido secreto dalle cellule della parete e che rappresenta il primo substrato per la formazione del corpo vitreo. I.'occhio aumenta così in dimensioni assumendo la forma sferica.
Sull'origine del vitreo varie sono le opinioni e non sempre concordanti: in quelle più antiche (Schöler, Virchow, Kölliker) fu sostenuta l'origine mesodermica; in altre successive (Tornatola, v. Lenhossek, Cirincione) sembrò dimostrato lo sviluppo del vitreo dalla retina o dal cristallino o da entrambi e quindi di origine ectodermica. Le più recenti e accreditate vedute, accolte ormai dalla maggioranza, ammettono, per la formazione del vitreo, un contributo dei varî foglietti, in differenti periodi dello sviluppo, e cioè dell'ectoderma neurale, dell'ectoderma della parete del corpo e del mesoderma, i quali differentemente vi contribuiscono nelle varie classi di Vertebrati (Froriep, Wolfrum, v. Szily).
Nello spazio interposto fra foglietto retinico del calice ottico e parete posteriore della lente, si vengono ad accumulare fibrille aniste derivate e dalla retina e dalle cellule della lente, che s'intrecciano fra di loro (vitreo primario di origine epiteliale); a tali elementi si aggiungono cellule mesenchimali e numerosi capillari sanguiferi, migrati nella cavità del calice attraverso la fessura coroidea e che contribuiranno, insieme con il reticolo anisto, alla formazione del vitreo secondario. Questi vasi, in parte attraversando il vitreo (arteria ialoidea), in parte applicandosi, insieme con gli elementi mesenchimali, alla faccia posteriore del cristallino, verranno a costituire intorno a esso una membrana vascolare, la tunica vasculosa lentis (nell'uomo già presente in embrioni del secondo mese). La fessura coroidea a questo punto comincia a chiudersi, per fusione dei suoi labbri, prima nel mezzo, poi la chiusura progredisce in un senso e nell'altro. L'arteria ialoidea insieme con gli altri vasi del vitreo regrediscono poi (al settimo mese, nell'embrione umano), dando luogo al canale ialoideo.
Nell'embrione di pollo, il primo differenziamento del vitreo ha luogo al terzo giorno d'incuhazione con la comparsa di amebociti e altri elementi mesenchimali nella cavità del calice, accompagnati da un liquido ialino-gelatinoso, la matrice del vitreo, e da fibrille aniste di origine retinica. Nei Teleostei i costituenti mesenchimali del vitreo contribuiscono alla formazione del processo falciforme; nei Rettili e negli Uccelli, rispettivamente, alla formazione del cono e del pettine.
Nell'embrione umano si distinguono tre periodi di sviluppo e differenziamento del vitreo: un primo, che va fino allo stadio di embrioni di 13 mm.; un secondo da 13 mm. a 65 mm. e un terzo da 65 mm. in su.
Dal mesenchima che circonda il calice ottico, si differenziano le tuniche dell'occhio: al 4°-6° giorno di incubazione, nell'embrione di pollo, intorno al calice ottico trovasi un abbondante tessuto connettivo embrionale che formerà la sclerotica, estendentesi sul davanti del globo primitivo, nella cornea. Questa si differenzia col contributo dell'ectoderma sopraoculare che forma l'epitelio esterno corneale, mentre la cornea propria (substantia propria) ed il suo endotelio interno (membrana di Descemet) hanno origine mesenchimale. Si viene così a formare la camera anteriore dell'occhio, limitata esternamente dall'endotelio unistratificato di cellule appiattite della Descemet, internamente dall'iride e dalla lente, e ove si raccoglie durante lo sviluppo l'umore acqueo.
Fra lo strato pigmentoso della retina e la sclerotica, sempre da elementi mesenchimali, trae origine la coroide o tunica vascolare dell'occhio che fin dai primi stadî del suo differenziamento viene arricchita da una fitta rete di capillari sanguiferi, accompagnati da numerosissimi elementi pigmentiferi. Dal margine del calice ottico e precisamente dalla cosiddetta zona lenticolare (distinta in stadî successivi dalla zona retinica, nell'ora serrata) si differenziano (nel pollo dal settimo giorno d'incubazione) l'iride e i processi ciliari. Infatti in questa zona il foglietto interno del calice rimane unistratificato allo stato di epitelio colonnare e non si differenzia nel tessuto retinico funzionante, mentre il pigmento dello strato esterno si estende anche a quello interno formandovi così lo strato pigmentario dell'iride. Dallo stesso strato esterno del calice, fatto eccezionale, nella organogenesi, trae origine la muscolatura circolare e radiale dell'iride.
Sempre dalla zona lenticolare del calice, che per il suo notevole accrescimento in superficie, è costretta a ripiegarsi più volte, e dal tessuto mesenchimale adiacente (coroideo), si differenziano lo stroma dell'iride, il corpo ciliare e i muscoli per l'accomodazione (al 9°-10° giorno d'incubazione nel pollo; fine del secondo, principio del terzo mese nell'uomo).
Il nervo ottico risulta formato dal complesso di neuroni che dalla retina si portano in direzione della cavità del calice ottico, lungo la parete dorsale del peduncolo ottico. Le fibre nervose derivate dalle cellule ganglionari della retina, invadono così, aumentando rapidamente di numero, il peduncolo ottico (nel pollo al quarto giorno d'incubazione) che, in definitiva, viene a essere costituito da uno strato esterno e da uno strato marginale di cellule epiteliali che limitano all'interno le fibre nervose.
Meccanica dello svihppo dell'occhio. - I processi attraverso i quali l'abbozzo oculare fa la sua prima comparsa nell'embrione, le varie fasi del suo differenziamento, le relazioni causali che intercedono fra i diversi stadî del suo sviluppo, nonché nella formazione dei varî costituenti del globo, sono stati oggetto di numerose e feconde indagini di embriologia sperimentale. Tali ricerche, che formano un interessante capitolo di embriologia causale, sono state prevalentemente eseguite su embrioni di Anfibî e di pollo. È stato così possibile stabilire (H. Spemann) che la determinazione (v.) dell'abbozzo oculare accade durante la formazione del neurasse allo stadio della piastra midollare, e che i varî costituenti dell'occhio (cellule del tapetum, neuroblasti retinici, ecc.), fino da questo stadio sono già, sebbene invisibilmente, differenziati.
È inoltre risultato che l'abbozzo dell'occhio è dotato di autodifferenziamento (v. differenziamento), è capace cioè di svilupparsi in un occhio normale, anche se trasferito, mediante trapianti, in sede eterogenea (H. Spemann) o se espiantato (D. Vilatow); e a simili processi di differenziamento indipendente, sono stati - in base a esperimenti - ricondotti i fenomeni d'invaginazione della vescicola ottica primaria per la formazione del calice ottico.
L'abbozzo oculare ha inoltre un alto potere regolativo, laddove asportato completamente dalla propria sede non si rigenera: la fusione di due vescicole ottiche ottenuta mediante il trapianto di una di esse in prossimità dell'altra provoca la formazione di un globo duplice che regola poi le sue dimensioni a quelle di un occhio normale (P. Pasquini).
Per quanto si riferisce alla sede d'origine dell'abbozzo oculare è stato oggetto di ampie discussioni se si dovesse ritenere un abbozzo impari e mediano sdoppiantesi secondariamente o un abbozzo duplice situato - come s'è detto - ai lati del territorio anteriore della piastra midollare. La seconda opinione è stata dimostrata esatta da esperimenti di Spemann (1921), di Woerdemann (1929) e di Adelmann (1930) e detti risultati hanno inoltre messo in luce che le potenze oculo-formative sono di maggior grado al centro del territorio presuntivo corrispondente, che alla periferia. L'estensione di questo territorio è maggiore di quella della zona che si sviluppa in occhio nell'ontogenesi normale.
Molto importanti sotto un aspetto causale appaiono le relazioni fra vescicola ottica, calice ottico e lente "uno dei più celebri esempî di differenziamento dipendente" (J. Huxley). Si è potuto così dimostrare che la vescicola ottica, funzionando come un centro induttore al differenziamento (organizzatore) può determinare la formazione della lente in ectoderma, non presuntivo, non destinato cioè a svilupparla, e di più che l'asportazione della vescicola ottica dalla sua sede normale dà spesso, come risultato conseguente, il mancato sviluppo del cristallino.
In altri casi l'ectoderma dell'area lentogena sopraoculare è capace, invece, di autodifferenziarsi, eliminato che sia lo stimolo dell'abbozzo oculare, non soltanto nella propria sede, quanto, se trasferitavi, in sede eterogenea.
I suddetti fatti hanno permesso di considerare lo sviluppo normale della lente come dipendente da una correlazione che insorge molto precocemente nell'ontogenesi fra abbozzo dell'occhio ed ectoderma che lo ricopre.
L'analisi sperimentale di questi numerosi casi di sviluppo della lente nei Pesci (Fundulus), negli Anfibî in particolare, nell'embrione di pollo, e i relativi risultati ottenuti, hanno permesso inoltre di chiarire che l'influenza induttrice della vescicola ottica non è specifica, potendosi ricondurre l'azione degli organizzatori dello sviluppo a quella degli ormoni. E neanche specifico si dimostra il potere induttore della vescicola ottica per il differenziamento delle fibre della lente che si ottiene anche in presenza di altri abbozzi, laddove l'orientazione di queste fibre dipende dalla posizione del calice ottico e, in particolare, della fessura coroidea (Dragomirov). Anche per la cornea, ricerche del Lewis e del Durken fanno ritenere che il differenziamento di essa si compia sotto l'influenza dell'occhio sottostante (v. embriologia: Embrione sperimentale).
Bibl.: A. Brachet, Traité d'Embryologie des Vertébrés, Parigi 1921; G. R. De Beer, The Mechanics of Vertebrate Development, in Biological Reviews, voll. 2, Cambridge 1927; A. Froriep, Die Entwickelung des Auges der Wirbeltiere, in O. Hertwig, Handbuch der vergleichenden und experimentellen Entwickelungslehre der Wirbeltiere, II, ii, Jena 1906; J. S. Huxley e G. R. De Beer, The Elements of Experimental Embryology, Cambridge 1934; J. G. Kerr, Text-book of Embryology, II: Vertebrata, Londra 1919. V. anche J. C. Mann, The Development of the human eye, Cambridge 1928.
Antropologia.
Per l'antropologia lo studio dell'occhio è soprattutto lo studio delle parti molli, visibili all'esterno, dell'apparato della visione, e specialmente delle palpebre e della rima palpebrale (per il colore degli occhi e tutte le questioni relative, v. somatologia). Del resto la conformazione di queste parti costituisce uno dei caratteri più importanti della morfologia razziale, per non dire addirittura il più importante di tutti, giacché esso è profondamente connesso con l'architettura generale del cranio, e di esso carattere sarà possibile un'interpretazione completamente soddisfacente, solo quando si sarà raggiunta una teoria del cranio delle razze umane e dei Primati, che ancora non possediamo.
L'occhio delle razze umane è uno dei caratteri che più contribuisce all'aspetto fisionomico, come è noto comunemente. Il suo aspetto generale, antropologicamente parlando, oscilla fra due estremi, che si possono indicare con le denominazioni di occhio europeo e mongolico. A tutti gli Europei è noto l'occhio europeo e anche è noto a sufficienza l'occhio mongolico, ma difficilmente chi non sia abituato all'analisi fisionomica saprebbe dare una descrizione differenziale dei due e, più difficilmente ancora, rilevare i caratteri essenziali che li distinguono.
L'occhio mongolico è in primo luogo un occhio piccolo o, a dir meglio, la rima palpebrale, anche nell'occhio completamente aperto, lascia vedere solo una piccola porzione del globo oculare, tanto che le palpebre nascondono spesso, in alto e in basso, forti porzioni dell'iride e della cornea. Il bordo libero, cigliare, delle palpebre non è mai molto ricurvo, ma piuttosto diritto. La rima palpebrale è, soprattutto all'esterno, assai stretta nel senso verticale. La palpebra superiore è come raddoppiata, in quanto, a occhio aperto, si può constatare che una piega cutanea alquanto turgida, e a margine perciò assai ottuso (all'interno di essa, come in tutta la palpebra, abbonda tessuto adiposo) sita all'innanzi della porzione più bassa della parte tarsale della palpebra, ne sopravanza il bordo libero, in guisa tale da nascondere spesso persino buona parte delle ciglia, che sono del resto corte nelle razze mongoliche.
Fra questa piega e il margine libero della palpebra è il solco detto orbito-palpebrale. Questa piega, e ciò costituisce un carattere essenziale, verso l'interno cambia direzione e si rivolge verso il basso, divenendo anche più saliente e tanto più saliente, quanto più l'apertura dell'occhio è forzata. In questa zona la piega forma un arco a concavità esterna ed è sita innanzi alla caruncola lacrimale, che ricopre più o meno completamente. Quest'ultima parte è appunto la piega detta più comunemente mongolica. Essa si esaurisce sulla pelle del naso, al più pochi millimetri sotto la commessura interna. Altri caratteri sembrano meno costanti e forse sono più apparenti che reali, come l'obliquità. Nell'apertura dell'occhio questa piega si tende e diventa più manifesta; invece scompare in buona parte, ma non del tutto, nella chiusura. Un altro carattere assai importante è che nell'occhio mongolico è poco sviluppato, specie all'esterno, quel solco più o meno profondo, che nell'occhio europeo divide la palpebra superiore dall'arco sopraccigliare e che è detto solco orbitale superiore.
Ciò significa, considerando le cose sotto un altro aspetto, che la palpebra superiore non ha, come nell'occhio europeo, quella figura geometrica che è detta spicchio sferico, essendo sovrapposta immediatamente (e prendendone la forma) sul settore superiore anteriore del globo oculare, bensi è tesa in gran parte all'innanzi del globo oculare, cui resta in certa maniera tangenziale. Si crede comunemente che la plica mongolica sia costante, non scompaia cioè con l'età, nei veri Mongoli (v.). Ma l'Ivanovski, che studiò un gruppo di Mongoli tipici, i Torguti, poté constatare la sua scomparsa progressiva. Secondo il Sera questa scomparsa nei Mongoli veri si verificherebbe a partire dai segmenti interni e inferiori di essa, procederebbe, sempre in misura non grande, verso l'esterno, ma l'occhio conserverebbe sempre la maggior parte dei suoi caratteri, che lo differenziano dall'occhio europeo. Il Sera perciò non è dell'opinione di coloro che vorrebbero chiamare piega mongolica la sola parte verticale della plica che si è descritta, la cosiddetta piega marginale (Kollmann). Ma vi sono altre ragioni per non ritenere esatta questa opinione.
È da molto tempo convinzione diffusa che l'apparenza delle parti molli, detta occhio mongolico sia dovuta alle strutture ossee sottostanti. Così il Baelz la riteneva dovuta alla scomparsa dell'angolo diedro fra la parete superiore e interna dell'orbita, il Siebold riteneva la plica un eccesso di pelle, risultante nella regione relativa da differenze di tensione cutanea, per lo sviluppo forte delle ossa malari che appunto si constata nei Mongoli. Virchow la ritenne prodotta dall'appiattimento delle ossa nasali, Regalia vedeva la causa dell'occhio mongolico nella posizione elevata dei malari. Quest'ultimo fatto potrebbe spiegare al più l'obliquità dell'occhio. Il Sera osservò che i quattro margini dell'apertura dell'orbita tendono nel cranio mongolico a essere in un unico piano frontale e verticale al piano mediano sagittale, a differenza di ciò che accade nel cranio di tutte le altre razze. In queste, più o meno, il margine esterno dell'orbita è portato sensibilmente all'indietro.
Questo carattere è in realtà l'espressione, sull'osso, del fatto osservato per la palpebra superiore mongolica; che essa cioè è tesa all'innanzi dell'occhio e non scorre durante l'apertura sopra il bulbo. Nell'occhio europeo la palpebra superiore, che è più fedele alla forma sferica del bulbo, scorre su di esso dall'innanzi e dal basso verso dietro e l'alto. La palpebra superiore mongolica, tesa come un sipario all'innanzi del bulbo, non può scorrere che in misura assai scarsa su di esso e deve innalzarsi come un sipario; ma come un sipario, si aggiunga, che sia fisso ai due estremi del suo bordo inferiore, soprattutto all'interno. Per questa fissità il muscolo elevatore, nella sua contrazione, porta all'indietro e in alto tutta la sua zona d'inserzione sulla palpebra, e ne risulta una piega di tensione che rappresenta appunto il limite della zona immobile della pelle, che continua la stessa palpebra verso l'alto. In realtà perciò l'occhio mongolico è un occhio che si apre in modo imperfetto.
L'anatomico giapponese B. Adachi credette di vedere la causa della plica mongolica in un'inserzione più bassa delle fibre dell'elevatore sulla palpebra, ma questo fatto istologico non è che un compenso, per cui il muscolo elevatore cerca di migliorare la sua azione di sollevamento. Bisogna ritenere che, lungi da essere la causa del fatto, sia un mezzo di diminuire un inconveniente proprio dell'occhio mongolico.
Una conformazione simile alla plica mongolica si osserva nel fanciullo europeo e, sembra, di altre razze non mongoliche, scomparendo più o meno presto nei primi anni della vita, a differenza della piega dei Mongoli. È noto che anche in adulti una piega cutanea sita all'interno della caruncola, e detta epicanthus, è una conformazione patologica che talvolta richiede un piccolo intervento chirurgico. Queste conformazioni sono state ritenute omologiche alla plica mongolica, cioè della stessa origine. Furono studiate da R. Drews e da L. De Vecchi negli ultimi tempi. Quest'ultimo autore pose in speciale evidenza i casi in cui l'epicanthus non si continua con una piega trasversale che duplica la palpebra superiore, ma procede in alto verso il sopracciglio, terminando però più o meno presto. Questi casi dimostrerebbero che l'epicanthus è dovuto essenzialmente a un'esuberanza di cute sulla regione, a una sproporzione fra l'abbozzo cutaneo e lo sviluppo dell'osso sottostante. E infatti il De Vecchi, come il Drews, trovò che l'epicanthus è sempre accompagnato da insufficiente evoluzione del dorso del naso. Non trovò mai un epicanthus nei casi dove il dorso nasale era ben formato, relativamente al nostro tipo europeo. Sembra al Sera che il comportamento di quella che è più esatto chiamare piega interna (marginale) dell'Europeo, sia affatto diverso da quello della porzione corrispondente nella piega mongolica. Nell'Europeo, infatti, persiste patologicamente nell'adulto, costituendo il vero e proprio epicanthus, mentre nel tipo mongolico è proprio la porzione interna, marginale, quella che scompare nell'adulto, forse per il farsi più anteriore (relativamente parlando) dell'apofisi ascendente. La piega mongolica nel concetto del Sera è una piega che deve la sua esistenza a un meccanismo speciale di apertura dell'occhio, quindi in essenza essa è per la sua sede centrale sulla palpebra superiore, come è centrale l'azione del tendine dell'elevatore. L'azione dell'elevatore, trasferendosi all'interno, determina la salienza della pelle del naso in una piega che, solo per comodità, si può distinguere dalla trasversale e che è la pura e semplice continuazione della piega trasversale. Nel Mongolo non si verifica la divisione in due che si verifica nell'Europeo, ma scompare, con l'età, la porzione interna, mentre nell'Europeo si verifica, quando si verifica, un frazionamento in due. È dubbio perciò che nel Mongolo vi sia in realtà un eccesso di pelle; il che del resto è logico pensare, riflettendo che, ove si fosse veramente realizzato nel phylum, avrebbe dovuto scomparire ben presto, a meno che non si voglia concedere al tipo mongolico una formazione assai recente. La scomparsa perciò della piega marginale nell'occhio mongolico non si può assolutamente paragonare all'assenza di essa nell'occhio europeo normale, quasi che raggiungesse alla fine la forma europea; in quanto in questa l'assenza è dovuta alla particolare inclinazione dell'apofisi ascendente (v. fisionomia) e alla presenza del solco orbitale superiore, nel mongolico la scomparsa si deve a un rimanere sempre più all'innanzi dell'apofisi ascendente, disposta frontalmente, onde ne risulta una compressione dall'innanzi all'indietro della plica marginale, che a poco a poco ne viene obliterata. I due fenomeni, in breve, non hanno niente in comune e la scomparsa della piega marginale dell'adulto mongolico non diminuisce affatto la portata morfologica del carattere, come non ravvicina l'aspetto generale dell'occhio stesso a quello europeo.
Una particolare struttura dell'occhio che ricordiamo in fine è la cosiddetta piega semilunare, che è una duplicatura della congiuntiva del bulbo in vicinanza e all'esterno della caruncola. Come è noto, essa è il residuo della cosiddetta terza palpebra, così frequente in molti mammiferi e rettili. Nella piega si trova talvolta una piccola cartilagine; la frequenza con cui questa si riscontra è assai diversa nelle razze umane: il 75% nei Negri, il 21% negli Ainu, il 0,73% negli Europei.
Bibl.: P. Topinard, Éléments d'anthropologie générale, Parigi 1885, p. 1003; B. Adachi, Mikroskop. Unters. üb. d. Augenlider d. Japaner ecc., in Mitth. mediz. Fak. Tokyo, 1906; L. De Vecchi, Sulla cosiddetta plica mongolica del fanciullo europeo, in Giorn. p. la morfologia dell'uomo e dei Primati, III (1921), dove si troveranno citati i lavori più importanti sulla questione.
Occhio e visione.
L'occhio come sistema diottrico centrato. - Occhio schematico. - Dal punto di vista ottico, si suole spesso paragonare l'occhio a una macchina fotografica, di cui l'obiettivo è costituito dal cristallino, il diaframma è l'iride, e la lastra o pellicola sensibile è la retina: i raggi luminosi provenienti dagli oggetti esterni attraverso la pupilla formano sulla retina un'immagine (reale e capovolta) degli oggetti stessi, ed è quest'immagine che, a causa della sensibilità alla luce della retina, provoca la sensazione visiva.
Prescindendo da quest'ultima parte del fenomeno (che è di natura fisiologica), si tratterà qui della parte propriamente ottica, cioè della formazione dell'immagine sulla retina, processo di natura esclusivamente fisica e del tutto analogo a quello per cui l'obiettivo proietta l'immagine sulla lastra o sul vetro smerigliato della macchina fotografica.
Dobbiamo però notare subito che nel parallelo accennato non è esatto far corrispondere l'obiettivo al solo cristallino, poiché i raggi luminosi attraversano successivamente la cornea, l'umor acqueo, il cristallino e l'umor vitreo, i quali, nel loro insieme, agiscono press'a poco come un sistema di lenti. Le superficie che limitano ciascuno di questi mezzi si possono considerare, in prima approssimazione, come calotte sferiche (fig.1) aventi i centri su una stessa retta A A′ (asse ottico): si può dunque applicare all'occhio la teoria generale dei "sistemi diottrici centrati". Vi è però una complicazione derivante dal fatto che il cristallino non è otticamente omogeneo, come una lente di vetro, poiché il suo indice di rifrazione va crescendo gradualmente dalla superficie verso l'interno, passando da un minimo di 1,374 (al bordo equatoriale) a un massimo di 1,405 (al centro): si può tuttavia sostituire idealmente ad esso una lente omogenea calcolata in modo da avere approssimativamente lo stesso comportamento ottico (il suo indice di rifrazione si chiama indice totale). Inoltre, si può introdurre una ulteriore semplificazione considerando la cornea e l'umore acqueo come un unico mezzo, dato che i loro indici di rifrazione differiscono di poco (1,376 per la cornea; 1,336 per l'umore acqueo).
Così si sostituisce all'occhio reale un "occhio schematico" che ha quasi esattamente le stesse proprietà ottiche, e il cui comportamento è più facile da calcolare: le costanti che caratterizzano l'occhio schematico sono le seguenti (secondo A. Gullstrand):
Occhio ridotto. - Data la piccola distanza (circa 0,1 mm.) che separa i due punti principali PP′ (v. fig. 1 e tabella precedente), nella maggior parte dei casi si può ulteriormente semplificare il comportamento ottico dell'occhio considerando questi due punti come coincidenti: allora tutto il sistema diviene otticamente equivalente a un sistema formato da una sola superficie rifrangente sferica (diottro). L'occhio così semplificato fu chiamato dal Listing occhio ridotto (v. fig. 1, in basso). Esso si può ritenere costituito (per l'occhio disaccomodato) da un mezzo di indice di rifrazione 1,33, limitato anteriormente da una superficie sferica del raggio di curvatura di mm. 5: il suo secondo fuoco, che corrisponde alla retina, viene a trovarsi alla distanza di mm. 20 dal vertice (fig.1). Relativamente all'occhio vero, l'occhio ridotto si deve supporre collocato in modo che il suo centro di curvatura C si trovi a mm. 7,19 dietro il vertice della cornea, come mostra la fig. 1. Tale punto C si chiama "centro dell'occhio" e gode la proprietà (rigorosa nell'occhio ridotto, approssimata in quello vero) che i raggi incidenti, il cui prolungamento passa per esso, non vengono derivati. Cosicché l'immagine di un oggetto (molto lontano) si può costruire semplicemente "proiettando" sul piano focale (ossia sulla retina) il detto oggetto dal centro C (cioè congiungendo ogni punto dell'oggetto con C e prolungando la congiungente fino ad incontrare la retina).
Grandezza apparente degli oggetti. - Acuità visiva. - Come è evidente da quanto precede, la grandezza dell'immagine retinica A′B′ di un oggetto AB dipende solo dall'angolo ACB (fig. 2) formato dalle rette che congiungono il centro dell'occhio con gli estremi dell'oggetto (angolo visuale): quindi due oggetti (come, per es., AB e A*B*) che, pur essendo diversamente lontani, sono visti sotto lo stesso angolo visuale (e perciò bisogna che le loro grandezze, in direzione trasversale, siano direttamente proporzionali alle loro distanze da C, cioè che AB : A*B* = AC : A*C) proiettano sulla retina immagini della stessa grandezza. Per poter giudicare quindi se si tratta di un oggetto piccolo e vicino o di uno grande e lontano, occorre far intervenire degli elementi di giudizio sussidiarî, mettendo in opera un processo psicologico abbastanza complesso (benché istintivo) al quale sarà accennato altrove.
Accenneremo poi brevemente al fatto che, se la distanza tra le immagini retiniche A′ e B′ è inferiore a un certo limite (ossia, se l'angolo ACB è inferiore a un certo angolo minimo ε dell'ordine di 1′), i punti A e B non sono percepiti come distinti. L'angolo ε si dice "angolo minimo di separazione" e l'inverso di esso (misurato in minuti primi) si assume come misura dell'acuità visiva.
Immagini di Purkyně-Samson. - La curvatura delle superficie rifrangenti dell'occhio si può determinare sul vivente per mezzo delle immagini di oggetti esterni riflesse su di esse. Difatti, se si pone di fronte all'occhio di una persona una lampada accesa, guardando nell'occhio, si vedono in corrispondenza della pupilla, tre immagini riflesse (fig. 3), dette immagini di Purkyně-Samson. La più brillante è prndotta dalla riflessione sulla faccia anteriore della cornea e si estende anche al di fuori dei limiti della pupilla; un'altra assai più debole, ma alquanto più grande, è dovuta alla riflessione sulla faccia anteriore del cristallino: queste due immagini sono entrambe dritte e virtuali, essendo prodotte da supeficie convesse; la terza immagine, assai più piccola e con l'aspetto di un punto brillante, è prodotta dalla riflessione sulla faccia posteriore del cristallino ed è capovolta e reale. Dalla grandezza di quesste tre immagini (che si può misurare con uno strument0 ideato da Helmholtz e detto oftalmometro) si possono ricavare, mediante semplici formule della teoria degli specchi sferici, i raggi di curvatura delle superficie che le producono, e si possono constatare direttamente le variazioni di curvatura delle facce del cristallino nell'accomodazione.
Campo visivo. - Quando si fissa un punto, si ha una visione dettagliata di una regione piccolissima circostante ad esso (visione diretta) e una percezione alquanto vaga (visione indiretta) degli oggetti posti in direzioni discoste da quella nella quale è fissato lo sguardo. Il cono abbracciato dalla visione indiretta (guardando con un occhio solo tenuto immobile) si dice campo visivo: esso ha una semiapertura media di circa 60° a partire dalla direzione di fissazione, ma non è un cono circolare, essendo alquanto più aperto (fino a 90° circa) dal lato temporale che dagli altri: la visione netta si ha però solo in un cono ristrettissimo intorno alla direzione di fissazione (anzi, si può dire, quasi solo in questa direzione), e la nettezza va poi sempre più decrescendo verso la periferia del campo visivo.
Ciò è dovuto al fatto che la sensibilità della retina è molto maggiore nella macula lutea che all'esterno di questa, e ha un massimo nella fovea: difatti il punto fissato è quello la cui immagine si proietta sulla fovea (del resto, se anche la sensibilità della retina fosse uniforme, la visione netta sarebbe sempre limitata a un cono ristretto, poiché l'immagine retinica, per ragioni ottiche, è netta solo nella parte centrale). È da notare che, poiché la fovea (v. fig. 1), non si trova esattamente sull'asse ottico, ma un po' più spostata dal lato temporale, la direzione di fissazione o asse visuale è leggermente inclinata (verso il lato nasale) rispetto alla direzione dell'asse ottico AA′.
È molto notevole il fatto che il campo visivo presenta una lacuna: esiste cioè una regione (presso a poco un cono dell'apertura di 6°, il cui asse forma un angolo di circa 15° con la linea di fissazione verso il lato temporale) entro la quale gli oggetti non sono visti. Questo fatto, scoperto da Mariotte, si può mettere facilmente in evidenza guardando la fig. 4 con l'occhio destro e fissando la crocetta (oppure col sinistro, e fissando il disco): se si varia gradatamente la distanza dal foglio, si trova una posizione (a circa 25 cm.) nella quale il disco (o la crocetta, nel caso dell'occhio sinistro) scompare. Ciò avviene quando la sua immagine si forma su quella parte della retina che corrisponde all'entrata del nervo ottico e che è, come si è detto altrove, sprovvista completamente di terminazioni nervose (papilla, o punto cieco, o macchia di Mariotte). L'esistenza di tale lacuna passa inosservata per varie ragioni: anzitutto gli oggetti che cadono nel punto cieco di un occhio sono visti dall'altro, poi la direzione dello sguardo è sempre assai mobile (anche quando non ce ne accorgiamo), cosicché la scomparsa degli oggetti dal campo della visione indiretta è soltanto momentanea; infine, interviene un procedimento psichico per cui noi inconsciamente prescindiamo da tutte quelle particolarità delle nostre sensazioni che hanno origine soggettiva e che si presentano costantemente. Aggiungeremo che ai rapidi e inconsci movimenti dell'occhio è dovuto anche il fatto che abitualmente non ci accorgiamo della grande ristrettezza del campo della visione diretta.
Accomodazione. - Punto prossimo e punto remoto. - È evidente (e del resto si può provare sperimentalmente) che condizione necessaria per una visione distinta è che sulla retina si formi un'immagine "netta", vale a dire, che i raggi partiti da un punto dell'oggetto vengano a convergere tutti in un punto della retina. Abbiamo detto che nell'occhio normale in condizione di riposo (cioè col muscolo ciliare rilasciato) il fuoco posteriore di tutto il sistema diottrico cade sulla retina, cosicché su questa si formano nitide le immagini degli oggetti che si trovano a distanza infinita (ossia, praticamente, superiore a 5 metri): per un oggetto che si trovi più vicino, invece, l'immagine netta si formerebbe più indietro della retina, il che significa che i raggi partiti da un punto dell'oggetto formano un cono che è tagliato dalla retina non nel vertice, ma un po' più avanti, così da dar luogo non a una sezione puntiforme, ma a un dischetto: perciò l'immagine di tali oggetti non è nitida. Nella macchina fotografica si provvede a ciò variando la distanza tra l'obiettivo e la lastra, in modo da portare questa nel piano dove si forma l'immagine nitida (il che si dice "mettere a fuoco"); nell'occhio umano, in cui la retina occupa invece una posizione fissa rispetto all'insieme dei mezzi ottici, si ottiene lo stesso risultato con un procedimento diverso, e cioè variando la convergenza del cristallino, mediante la contrazione del muscolo ciliare che lo circonda come un anello. Quando questo muscolo si contrae, il cristallino si gonfia, le sue facce diventano più convesse, specialmente quella anteriore, e quindi esso equivale a una lente convergente di più corta distanza focale: con ciò si può ottenere sulla retina l'immagine nitida di un oggetto vicino. Questa funzione si dice "accomodazione"; e, nel massimo sforzo di accomodazione, il raggio di curvatura della faccia anteriore del cristallino può scendere da mm. 10 a mm. 5 circa (mentre quello della faccia posteriore varia assai poco). Quando poi il muscolo ciliare si rilascia, l'elasticità del cristallino fa sì che questo riprenda la sua forma primitiva che corrisponde (nell'occhio normale) alla visione degli oggetti lontani.
Si chiama punto remoto il punto (dell'asse ottico) dove si deve trovare un oggetto per essere visto nitidamente col muscolo ciliare completamente rilasciato; normalmente, come si è detto, tale punto è all'infinito, perché il fuoco posteriore del sistema diottrico cade esattamente nella retina, e l'occhio allora si dice emmetropico. Quando invece ciò non avviene, e il punto remoto è a distanza finita (o è "virtuale", vedi oltre), si dice che l'occhio è ametropico: di questi casi ci occuperemo più innanzi. Si chiama poi punto prossimo il più vicino punto (dell'asse ottico) per il quale è ancora possibile una visione distinta, cioè quello per il quale è accomodato l'occhio quando il muscolo ciliare è contratto al massimo grado. La distanza del punto prossimo dal centro dell'occhio, anche nell'occhio emmetropico, varia sensibilmente da un individuo all'altro e, in uno stesso individuo, aumenta gradatamente con l'età (p. es., a 10 anni e in individui emmetropici è in media cm. 7, a 30 anni cm. 14). Ciò dipende dal fatto che con l'età l'occhio perde gradatamente la facoltà di accomodazione a causa soprattutto dell'irrigidimento del cristallino, cosicché l'intervallo tra punto prossimo e punto remoto si restringe sempre più e finisce per annullarsi verso i 70 anni quando la facoltà di accomodazione è perduta.
Diottria. - Potere accomodativo. - Quando l'occhio fissa un oggetto più vicino del punto remoto, compie uno sforzo di accomodazione; non sarebbe opportuno però misurare l'entità di questo sforzo dalla distanza tra il punto fissato e il punto remoto, come si riconosce subito pensando che, p. es., per un occhio emmetrope tale distanza è sempre infinita. È invece più razionale sostituire alle distanze dall'occhio le loro inverse (ciò si può anche giustificare teoricamente, fondandosi sul fatto che nelle formule fondamentali dei sistemi diottrici compaiono appunto queste inverse). L'inverso della distanza in metri di un punto dal centro dell'occhio si chiama distanza espressa in diottrie (da taluno è stato proposto il nome, più opportuno, di "vicinanza": difatti, essa è espressa da un numero tanto più grande quanto più il punto considerato è vicino all'occhio): il punto all'infinito corrisponde a 0 diottrie. Ciò premesso, si può assumere come misura dello sforzo di accomodazione la differenza tra la distanza dell'oggetto e quella del punto remoto, espresse entrambe in diottrie. Per esempio, se il punto remoto è all'infinito (0 diottrie) per vedere a 0,5 m. occorre esercitare uno sforzo accomodativo di 2D. Se invece il punto remoto fosse a 2 m. (0,5D.), per vedere a 0,5 m. basterebbe uno sforzo di 2 − 0,5 = 1,5D. E si chiama intervallo di accomodazione o potere accomodativo la differenza tra la distanza del punto prossimo e quella del punto remoto, espresse entrambe in diottrie (nell'occhio emmetrope, la seconda è nulla). Per esempio, dalle cifre citate sopra risulta che nell'occhio emmetrope il potere accomodativo è in media di 14D. a 10 anni e di 7D. a 30. Si può ritenere, all'ingrosso, che il potere accomodativo diminuisca in media di 1D. ogni 4 anni (più rapidamente nei giovani, meno nei vecchi).
Aberrazioni. - La teoria dei sistemi diottrici centrali prescinde in una prima approssimazione dalle cosiddette aberrazioni (consistenti nel fatto che i raggi provenienti da un punto dell'oggetto non convergono mai, per varie ragioni, veramente tutti in un punto): in una seconda approssimazione è però necessario tenerne conto.
Nel caso dell'occhio, la più notevole è l'aberrazione cromatica, derivante dalla diversa rifrangibilità dei diversi colori: essa fa sì che i raggi rossi convergano un poco più indietro dei violetti, cosicché è impossibile formare un'immagine nitida quando la luce non è monocromatica. Questo inconveniente si verifica anche nell'occhio normale, ma generalmente passa inosservato; si può tuttavia metterlo in evidenza osservando una lampada attraverso un vetro blu di cobalto, che lascia passare solo i colori estremi dello spettro, sopprimendo quelli intermedî: si vede la lampada aureolata di rosso o di violetto a seconda dell'accomodazione.
Anche un certo grado di aberrazione sferica è normalmente presente nell'occhio: esso è naturalmente tanto più sensibile quanto più la pupilla è larga e quindi si riduce quando la luce è viva.
Ametropie visive. - Tutto ciò che precede si riferisce all'occhio normale: accenneremo ora ad alcune delle più comuni anormalità, tra cui vanno annoverate in primo luogo le ametropie, e cioè la miopia e l'ipermetropia, le quali si hanno quando la retina non si trova esttamente nel fuoco del sistema diottrico, dove cioè si forma l'immagine degli oggetti posti all'infinito, ma un po' più avanti nella miopia (fig. 5) e un po' più indietro nell'ipermetropia (fig. 6). Parlando di "fuoco" del sistema, qui ci si riferisce alla condizione di riposo del muscolo ciliare (le ametropie non riguardano la funzione di accomodazione). Questa non coincidenza proviene generalmente dal fatto che il globo oculare è troppo allungato (nella miopia) o troppo corto (nell'ipermetropia), mentre la distanza focale del sistema ottico è quella normale, e in tali casi si parla di miopia o ipermetropia assile: è questo il caso rappresentato nelle figg. 5-6. Talvolta invece le dimensioni del globo oculare sono quelle normali, mentre la distanza focale è troppo breve (nella miopia) o troppo lunga (nell'ipermetropia), per eccessiva o rispettivamente scarsa curvatura delle superficie rifrangenti: si parla in questi casi di ametropie di curvatura.
L'occhio miope, ad accomodazione rilasciata, è "messo a fuoco" per gli oggetti posti non all'infinito, ma ad una determinata distanza che è quella del suo punto remoto: mettendo poi in giuoco l'accomodazione, il miope può vedere oggetti più vicini di questi, ma non può in alcun modo vedere distintamente gli oggetti più lontani. La distanza del punto remoto espressa in diottrie (e contata dal centro dell'occhio) si dice "grado di miopia": p. es., se il punto remoto è a 25 cm., l'occhio è affetto da miopia di 1/0,25 = 4D. Una miopia si può considerare leggera se non supera le 4 o 5D., forte se supera le 10D.; eccezionalmente si raggiungono anche le 30D. Essendo generalmente il potere accomodativo indipendente dalla miopia, ne viene che il miope ha il punto prossimo più vicino di quello di un emmetrope alla stessa età: esso perciò si trova in condizioni più favorevoli dell'emmetrope per esaminre oggetti minuti, poiché può avvicinarli di più e quindi formare un'immagine retinica più grande. La miopia non è mai congenita, ma si sviluppa in età giovanile.
L'occhio ipermetrope (fig. 6) col muscolo ciliare rilasciato, non può vedere distintamente alcun oggetto, perché i raggi spesso per convergere sulla retina dovrebbero entrare nell'occhio già un poco convergenti, cioè come se, invece di provenire da un oggetto reale, andassero a formare un'immagine in un punto R dietro l'occhio: questo punto si considera, convenzionalmente, come il punto remoto, il quale pertanto nell'occhio ipermetrope è "virtuale" e si trova dietro l'occhio (R nella fig. 6). La sua distanza, espressa in diottrie, misura il grado dell'ipermetropia. Per vedere gli oggetti all'infinito l'ipermetrope deve mettere in giuoco tante diottrie di accomodazione, quanto è il suo grado d'ipermetropia, e con una accomodazione ancora maggiore può vedere distintamente gli oggetti a distanza finita: però esercitando uno sforzo di accomodazione maggiore di quello necessario a un occhio emmetrope per vedere gli stessi oggetti. Per es., per vedere un oggetto a 50 cm. l'emmetrope esercita uno sforzo di accomodazione di 2D. (= 1/0,50), mentre, p. es., un ipermetrope di 3D. che per vedere un oggetto all'infinito deve già mettere in giuoco 3D. di accomodazione, per vedere l'oggetto a 50 cm. deve esercitarne 3 + 2 = 5D. Per conseguenza, a parità di potere accomodativo, il punto prossimo dell'ipermetrope è più lontano di quello dell'emmetrope, e precisamente di tante diottrie quanto è il grado di ipermetropia. Se questo grado è leggiero e se il potere accomodativo è forte, l'ipermetrope può non accorgersi del suo difetto, poiché il maggiore sforzo di accomodazione, necessario a compensare l'ipermetropia, si compie inconsciamente: esso però si può manifestare indirettamente con varî fenomeni di stanchezza, come cefalea, ecc. (astenopia accomodativa). Se poi il potere accomodativo è insufficiente a compensare l'ipermetropia (il che avviene inevitabilmente ad una certa età) l'occhio è incapace di vedere nitidamente a qualsivoglia distanza. L'ipermetropia è sempre congenita: essa raramente supera le 3D., ma può arrivare, in casi eccezionali, anche a 9 o 10D.
È opportuno qui citare un altro caso che, sebbene non si classifichi di solito tra le ametropie, è dal punto di vista fisico equivalente a una fortissima ipermetropia: è quello dell'occhio privato del cristallino in seguito a operazione di cateratta (occhio afachico). Per sostituire il cristallino è necessario applicare a tale occhio una lente convergente equivalente ad esso. Se l'occhio era emmetrope occorre una lente di 12D., per la visione lontana: per la visione degli oggetti vicini (poiché evidentemente manca del tutto la facoltà di accomodazione) ne occorre una più forte, p. es. 16D.
Correzione delle ametropie mediante gli occhiali. - Poiché nell'occhio miope il sistema ottico è troppo convergente rispetto alla lunghezza dell'asse dell'occhio (fig. 5, a), è manifesto che la miopia si correggerà con una lente divergente. Attraverso a questa lente, l'occhio vede, di un oggetto che si trovi oltre il suo punto remoto, un'immagine virtuale più vicina di questo, così da poter essere vista nitidamente. Perché l'occhio miope sia ricondotto alle condizioni di un occhio emmetrope bisogna che, se l'oggetto è all'infinito, la sua immagine data dalla lente si trovi nel punto remoto dell'occhio, cosicché sia vista senza alcuno sforzo di accomodazione: si dovrà dunque scegliere e collocare la lente in modo che il suo fuoco coincida col punto remoto (R nella fig. 5, b). Poiché la distanza tra la lente e il centro dell'occhio è generalmente piccola rispetto alla distanza del punto remoto (salvo i casi di miopia fortissima), ne segue che la distanza focale della lente deve pressoché uguagliare la distanza del punto remoto, quindi il suo potere diottrico o forza rifrangente (cioé l'inverso della distanza focale espressa in metri, v. diottria) deve essere numericamente uguale al grado di miopia. Per es., se il punto remoto è a m. 0,50 (miopia di 2D.) occorre una lente della distanza focale di −0,50 cm., cioè del potere diottrico di −2D. (il segno − sta ad indicare che si tratta di lente divergente).
Considerazioni analoghe valgono per la correzione dell'ipermetropia: in questo caso, essendo i mezzi dell'occhio troppo poco convergenti (fig. 6, a), occorre usare una lente convergente atta a fornire di un oggetto un'immagine virtuale più lontana o addirittura un'immagine reale posta dietro l'occhio (il che significa trasformare i raggi divergenti da un punto dell'oggetto in raggi convergenti verso un punto situato dietro l'occhio come mostra la fig. 6, b). Perché l'occhio sia ricondotto alle condizioni di un occhio emmetrope, il fuoco posteriore della lente deve coincidere col punto remoto (virtuale) R e quindi la lente deve avere un potere diottrico praticamente uguale al grado di ipermetropia. Tuttavia ragioni di natura fisiologica consigliano spesso di correggere l'ipermetropia solo parzialmente, lasciando che la visione all'infinito si compia con un certo sforzo di accomodazione.
Presbiopia. - L'occhio si dice presbite quando il suo punto prossimo è troppo lontano per permettere la lettura e altre occupazioni consimili: l'inconveniente diventa sensibile quando la distanza del punto prossimo supera i 30 o 35 cm. (ossia circa 3D.).
Poiché, come si è detto, la facoltà accomodativa decresce gradualmente con l'età, è evidente che l'occhio emmetrope diventa necessariamente presbite quando il potere accomodativo scende al disotto di 3D., il che avviene generalmente verso i 45 anni. L'occhio ipermetrope invece diventa presbite più presto, anzi, se l'ipermetropia supera le 3D., esso è sempre presbite. L'occhio miope al contrario diventa presbite più tardi, anzi, se la miopia è più forte di 3D., non lo diventa mai. Secondo un errore volgarmente molto diffuso, la presbiopia sarebbe l'opposto della miopia: da quanto precede risulta chiaramente che così non è, tanto è vero che un occhio può essere insieme presbite e leggermente miope (p. es., se ha il punto prossimo a 1 m. e quello remoto a 2 m.). L'opposto della miopia è invece l'ipermetropia.
La presbiopia si corregge con lenti convergenti, le quali però, se non vi è ipermetropia, debbono essere tolte per la visione lontana.
Astigmatismo e sua correzione. - In tutto quello che precede si è supposto che le superficie rifrangenti dell'occhio fossero superficie di rivoluzione, come si può ritenere sia quasi esattamente nell'occhio normale. Parleremo ora di un difetto, abbastanza frequente, che si verifica quando qualcuna di tali superficie (generalmente quella anteriore della cornea), anziché essere di rivoluzione, ha una curvatura diversa nelle diverse sezioni meridiane (piani passanti per l'asse). Generalmente la sezione di curvatura massima è quella verticale, mentre quella di curvatura minima è la orizzontale (astigmatismo diretto); spesso però avviene l'opposto (astigmatismo inverso) e talvolta le due sezioni di curvatura massima e minima, pur essendo ortogonali tra loro, sono oblique rispetto al piano verticale.
La conseguenza di questo difetto di conformazione è che i raggi provenienti da un punto dell'oggetto non vanno a formare un'immagine puntiforme, ma formano prima un'immagine allungata in forma di breve linea, giacente nel piano meridiano di curvatura minima, poi proseguendo vanno a formare, più lontano dal cristallino, una seconda immagine lineare, ma nel piano meridiano di curvatura massima: spesso, variando l'accomodazione, si può far cadere sulla retina l'una o l'altra di queste immagini. Se l'occhio guarda, per es., una retta verticale, si accomoda istintivamente in modo che ogni punto dia come immagine sulla retina un trattino verticale, poiché in tal modo vede la retta nitidamente essendo evidente che la dilatazione dei punti nel senso della retta stessa non porta alcun inconveniente: se invece guarda una retta orizzontale, deve accomodare in modo da far cadere sulla retina l'immagine in cui i punti sono allungati in senso orizzontale. Ne segue che l'occhio astigmatico non può vedere tutta nitida una figura formata di rette orizzontali e verticali, come la fig. 7; esso vede nitidamente ora alcune linee, ora alcune altre (poiché l'accomodazione subisce continuamente involontarî rapidi cambiamenti). È questa la manifestazione più evidente dell'astigmatismo, la quale del resto si produce, in grado leggiero, anche in un occhio normale, poiché un lieve grado di astigmatismo è sempre presente. È notevole il fatto che l'occhio di un individuo giovane può correggere automaticamente il proprio astigmatismo (anche se un po' superiore a quello fisiologico) contraendo dissimmetricamente il cristallino in modo da dargli una forma non di rivoluzione, tale da compensare la dissimmetria delle altre superficie rifrangenti.
L'astigmatismo si corregge con occhiali a superficie cilindriche: con una lente cilindrica "divergente" posta con le generatrici parallele alla sezione di curvatura minima, o con una "convergente", posta con le generatrici parallele alla sezione di curvatura massima. In pratica si adoperano spesso lenti sfero-cilindriche, cioè con una faccia cilindrica e una sferica, destinata questa a correggere la miopia o l'ipermetropia spesso combinata con l'astigmatismo.
Visione binoculare. - Convergenza. - Quando si fissa un oggetto lo si vede semplice, sebbene ciascun occhio lo veda separatamente; ma se, premendo un poco col dito sulla palpebra inferiore, si sposta leggermente un occhio rispetto all'altro, l'oggetto si vede doppio. Ciò prova che tra i punti delle due retine esiste una "corrispondenza" tale che, se le due immagini si formano in punti corrispondenti (in particolare, sulle due fovee), le due sensazioni si fondono e sono interpretate come provenienti da un unico oggetto; invece se, spostando un occhio, si fa sì che mentre una delle immagini si forma sulla fovea l'altra si formi in un punto extrafoveale dell'altra retina, allora la fusione delle due sensazioni non si compie più, perché esse provengono da punti non corrispondenti delle due retine. Questa fusione è un fenomeno di natura psicofisiologica e non fisica, e fa parte del complesso procedimento psicologico d'interpretazione delle sensazioni visive del quale qui non ci occupiamo. Dobbiamo piuttosto rilevare che, essendo le due fovee punti corrispondenti, quando si fissa un punto si fanno convergere su di esso gli assi visuali dei due occhi (cioè le rette che congiungono il centro ottico di ciascun occhio con la fovea) e quindi questi assi formano un angolo acuto (detto convergenza) che è tanto più piccolo quanto più lontano è il punto fissato, e chesi annulla se questo è all'infinito. Quindi nell'esercizio normale della visione a un dato grado di accomodazione si accompagna sempre lo stesso angolo di convergenza, e perciò si stabilisce tra le due funzioni un tale legame che ordinariamente, quando si accomodano gli occhi per una data distanza, essi automaticamente convergono nel grado corrispondente, anche se uno dei due occhi è coperto.
Percezione del rilievo. - Per apprezzare la distanza di un oggetto potrebbe essere sufficiente, in teoria, la valutazione del grado di convergenza necessario a fissarlo, o quella dello sforzo di accomodazione: in pratica questi due elementi ci dànno solo un'indicazione (piuttosto imprecisa) della distanza "relativa" dei diversi oggetti, e solo se non sono troppo lontani, ma ci dicono assai poco sulla loro distanza assoluta. Essi vengono completati con altri elementi di giudizio, quali la prospettiva, la visione del terreno interposto, la conoscenza a priori della vera grandezza di alcuni oggetti (p. es., persone) per cuí dall'angolo visuale sotto cui sono visti si desume immediatamente la loro distanza, e infìne, per gli oggetti molto lontani (montagne ecc.) la minor nitidezza e intensità delle immagini dovuta all'assorbimento dell'aria interposta. Naturalmente questi criterî sono piuttosto imperfetti, ed è infatti ben noto come si sbagli facilmente nel valutare le grandi distanze, e come si possa ingannare l'occhio creando l'illusione di una distanza inesistente, p. es. nella scenografia e nella pittura.
La sensazione del rilievo proviene dalla sensazione relativa delle distanze dei diversi oggetti e delle varie parti di uno stesso oggetto. Essa deriva quindi principalmente dalla sensazione di dover cambiare la convergenza nel passaggio dello sguardo da un punto all'altro degli oggetti; inoltre, dal differente aspetto delle due immagini retiniche le quali, corrispondendo a prospettive prese da due punti diversi, non sono rigorosamente uguali. Su questi due elementi è fondata l'illusione del rilievo data dallo stereoscopio: difatti, guardando in questo strumento, a ciascun occhio si presenta la stessa immagine che esso avrebbe di fronte alla realtà, e anche la convergenza necessaria a fissare i varî punti dell'immagine è la stessa che occorrerebbe a fissare gli oggetti reali; manca invece la sensazione delle variazioni di accomodazione, ma l'esperienza prova che questa non è necessaria per l'effetto di rilievo.
Si vede da tutto ciò quale importanza abbia la visione binoculare per l'apprezzamento delle distanze e del rilievo, e difatti quando si guarda con un occhio solo tale apprezzamento è assai più imperfetto e si commettono facilmente errori grossolani: tuttavia anche nella visione monoculare si ha una certa percezione del rilievo, fondata principalmente sulla prospettiva e sulla suggestione.
V. tavv. a colori.
Bibl.: H. Helmholtz, Handbuch der physiologischen Optik, 3a ed. (con aggiunte di A. Gullstrand), Amburgo 1909; Bedhe, Bergman; ecc., Handbuch der normalen und pathol. Physiologie, XII, Berlino 1931, p. 2; A. Broca, Physique Médicale, Parigi 1914; E. Persico, Ottica, Milano 1932.