Occupazione e disoccupazione
(App. V, iii, p. 722; v. occupazione, XXV, p. 138; occupazione piena, App. II, ii, p. 433; disoccupazione, XIII, p. 22; App. I, p. 520; II, i, p. 791; III, i, p. 496; IV, i, p. 595; v. anche lavoro, in questa Appendice)
Parte introduttiva
di Paolo Piacentini
La crisi occupazionale che ha investito i maggiori paesi dell'Europa continentale è il dato di fondo su cui si sono confrontati, negli anni Novanta, i modelli interpretativi, le visioni prospettiche e gli orientamenti di politiche del lavoro. Un'insufficiente capacità di assorbimento occupazionale ha fatto parlare di una 'sclerosi' dei mercati europei del lavoro, a cui si è spesso contrapposta la vitalità di altri sistemi, in particolare quello degli Stati Uniti, nell'attivare cospicui flussi addizionali di posti di lavoro. In questo quadro, l'Italia condivide oggi, con i partner comunitari, un dato di fondo negativo rappresentato da un insufficiente contenuto occupazionale della crescita economica (cioè, bassa elasticità dell'occupazione rispetto alla produzione), ma aggiunge a ciò la persistenza, e spesso l'aggravamento, di debolezze strutturali e squilibri territoriali, che appesantiscono ulteriormente il contesto nazionale rispetto a un dato medio europeo, in particolare sul terreno delle carenze occupazionali nelle aree del Mezzogiorno e sul fronte della disoccupazione giovanile.
Qui di seguito, a partire da una presa di visione dei 'fatti stilizzati' della fenomenologia attuale della disoccupazione, verranno illustrate linee interpretative sulle determinanti di fondo degli andamenti differenziali dell'occupazione/disoccupazione. Il quadro di riferimento è limitato essenzialmente a un contesto di paesi 'maturi' a economia di mercato, con un paragrafo finale dedicato alle specificità del caso italiano. Infatti, la sottoccupazione e povertà persistenti nel Terzo Mondo e la particolare crisi attraversata dalle economie in transizione verso regimi di mercato rinviano a una specifica rassegna nell'ambito di una più ampia problematica dello sviluppo/sottosviluppo.
Fatti stilizzati
Il tasso di occupazione indica in pratica il numero di posti di lavoro attivati per ogni 100 persone in età di lavoro (nelle statistiche correnti si considera di norma la fascia di età 15-65), fornendo una semplice stima di un 'grado di utilizzazione' del potenziale di lavoro da parte di un sistema economico. Inoltre, tale indicatore non è soggetto a una variabilità spuria legata a una non omogeneità nel tempo e nello spazio delle convenzioni statistiche che definiscono uno stato (e il tasso) di disoccupazione.
Ancora agli inizi degli anni Settanta il tasso di occupazione per il complesso dell'area dell'Unione Europea si situava a un livello molto vicino a quello degli Stati Uniti (intorno al 68%); per gli anni più recenti si constata invece uno scarto di oltre 12 punti percentuali a favore degli USA. A fronte di tassi medi di crescita del prodotto lordo tutto sommato non dissimili nel medio periodo, al di là delle oscillazioni del ciclo, gli Stati Uniti hanno attivato nuovi posti di lavoro in una misura superiore di oltre cinque volte rispetto all'area europea (dal 1960 gli USA hanno creato, al netto, 50 milioni circa di posizioni lavorative, contro i 10 scarsi nell'area dei 15 paesi dell'odierna UE). Il tasso di disoccupazione, ancora, ha oscillato ciclicamente in un intervallo fra il 5 e l'8,5% per gli ultimi vent'anni negli USA, senza mostrare una tendenza sistematica; nella media dell'Unione Europea il tasso è invece salito dal 4,1% del 1975 all'11,2% del 1994. Anche omettendo, per brevità, ulteriori confronti con altre aree con performances occupazionali più favorevoli nel periodo (per es. Est asiatico), si può affermare in conclusione che, a partire dalla fine degli anni Settanta, i paesi europei hanno spesso sofferto di un'apparente incapacità di creazione di posti di lavoro anche nelle fasi favorevoli del ciclo (jobless growth), mentre le perdite occupazionali nelle fasi negative della congiuntura economica sono state significative, soprattutto nei comparti manifatturieri.
Le interpretazioni: il modello delle 'flessibilità''
Gli orientamenti prevalenti dell'indagine macroeconomica, dagli anni Ottanta in particolare, hanno fatto riferimento a un'analisi parziale del mercato del lavoro aggregato, descritto attraverso i comportamenti degli operatori, gli impatti degli shock dislocativi e i processi di aggiustamento, nell'ambito di una classica interazione domanda/offerta. Questo approccio verrà qui indicato in maniera sintetica come 'modello delle rigidità/flessibilità'.
L'analisi parziale del mercato del lavoro e la ricerca di cause e fattispecie che impedirebbero la realizzazione di un equilibrio concorrenziale caratterizzato da un valore del salario reale (market clearing) tale da assicurare l'assenza di disoccupazione involontaria rivelano certamente l'ispirazione 'neoclassica' di fondo di questa letteratura. Tuttavia, gli sviluppi più aggiornati di tale tipo di analisi non disdegnano di includere categorie o interazioni definite keynesiane allo scopo di introdurre ipotesi specifiche di 'rigidità' o di imperfezione del mercato. Ne viene proposto in questa sede un inquadramento essenziale attraverso una sintesi grafica, che sembra richiamare un classico apparato di curve di domanda e di offerta del lavoro come funzione dei salari reali, ma che converrà invece interpretare come luoghi che descrivono livelli desiderati di prezzi e di salari da parte, rispettivamente, di imprese e di lavoratori organizzati dotati di potere oligopolistico-contrattuale (price setters e wage setters) a fronte dei diversi stati della congiuntura economica sinteticamente rappresentati dai livelli più o meno elevati di un tasso di (dis)occupazione. Per una più ampia rassegna e più rigorose presentazioni, v. per es. Bean 1994; Layard, Nickell, Jackman 1994; Center for Economic Policy Research (CEPR) 1995.
Sull'asse orizzontale si misurano pertanto valori crescenti del tasso di occupazione della forza lavoro (occupati/popolazione in età di lavoro), fino a un livello di piena occupazione (verticale ad ascissa 1); sull'asse verticale è posto il livello dei salari reali. La curva WS descrive le rivendicazioni salariali, crescenti al crescere del tasso di occupazione, da parte dei wage setters; la curva PS indica invece la 'regola di fissazione dei prezzi' da parte di imprese oligopolistiche (price setters) espressi come obiettivo di mark-up sui salari, crescente con il tasso di occupazione.
Nella figura il livello dei salari reali è espresso come differenza logaritmica fra salari monetari e prezzi (indicata in minuscolo come w-p) al fine di trarre inferenze immediate in termini di variazioni differenziali dei salari monetari e dei prezzi.
Il punto di intersezione fra WS e PS individua una nozione di equilibrio per il mercato del lavoro, ove vi è compatibilità fra il salario reale 'rivendicato' dai lavoratori e il margine sul salario perseguito dalle imprese: il tasso di disoccupazione u* (1-0*) che vi corrisponde definisce il cosiddetto tasso di disoccupazione a costanza di inflazione (NAIRU, Non - Accelerating - Inflation Rate of Unemployment), che rappresenta una nozione centrale in questa classe di modelli.
Punti a destra del NAIRU implicano un eccesso del salario reale 'rivendicato' rispetto al salario reale 'ammesso' dalle imprese: una tale condizione innescherebbe una 'spirale salari-prezzi' con conseguente accelerazione dell'inflazione (p>0). A sinistra, una congiuntura depressa comporterà una caduta della spinta rivendicativa, con conseguente effetto di disinflazione (p〈0). La nozione di NAIRU estende quindi, a contesti di mercato non perfettamente concorrenziali, una nozione di equilibrio parziale del mercato del lavoro raggiunto come compatibilità e composizione fra i comportamenti della domanda e dell'offerta, dove sono sempre le variazioni del tasso di (dis)occupazione che fanno 'gravitare' il mercato verso l'equilibrio. Tuttavia, diversamente dallo schema classico del mercato concorrenziale, il valore di u* non implica una nozione di tasso naturale di disoccupazione. Quest'ultima nozione si riferisce invece alla disoccupazione residua che si avrebbe anche in condizioni di equilibrio di concorrenza perfetto, per effetto di una mobilità fisiologica (disoccupazione 'frizionale') e per scelte di non accettazione di lavoro alle condizioni correnti di remunerazione (disoccupazione 'volontaria').
Lo schema incentrato su equilibri NAIRU si presta a una varietà di specificazioni, complicazioni e derivazioni di forme ridotte ai fini di una verifica empirica. Si tratta infatti di specificare (o, meglio ancora, derivare, attraverso la soluzione di modelli basati su un comportamento 'razionale' degli agenti), per le schede WS e PS, i parametri - comportamentali, istituzionali, fiscali - che si ritiene possano incidere, nella realtà fattuale, sui comportamenti di imprese e lavoratori. L'elenco che segue non è esaustivo e la razionalizzazione degli argomenti è limitata a cenni intuitivi.
L'altezza della scheda WS nel piano dipenderà dai contributi a una spinta 'esogena' dei salari (wage push factors) che, a parità di una configurazione aggregata del mercato del lavoro (livelli di '1-u'), rafforzano la posizione dei segmenti della forza lavoro dotati di potere contrattuale. Tra i fattori più spesso richiamati nella letteratura, ricordiamo: a) il diverso grado di percezione della sicurezza del proprio posto di lavoro da parte di una 'coalizione' dei lavoratori già occupati (gli insiders), che inciderà sull'effetto deterrente sulla spinta rivendicativa rappresentata dalla concorrenza potenziale dei disoccupati (gli outsiders); b) l'entità e la durata del periodo di fruibilità dei sussidi di disoccupazione (benefit ratios), che incideranno ancora sull'impatto deterrente dello stato di disoccupazione per i lavoratori occupati, e sui comportamenti più o meno selettivi nella ricerca di lavoro da parte dei disoccupati; c) qualsiasi imperfezione (dualismi e segmentazioni, scarti fra composizione della domanda e dell'offerta per caratteristiche qualitative del lavoro ecc.), che diminuisce il grado di mobilità e concorrenzialità fra i lavoratori, contribuirà a sostenere un potere contrattuale degli insiders (ovverosia, leggendo il grafico secondo l'altra direzione di causalità, a far diminuire il tasso di occupazione compatibile per ogni livello della spinta salariale).
Meccanismi comportamentali e istituzionali vengono ulteriormente invocati per i fattori o shock che influiscono sulla posizione della scheda PS che riassume il comportamento delle imprese. Fra le ipotesi ai fini di una dislocazione negativa con conseguente spostamento verso il basso della domanda di lavoro, ricordiamo: a) un incremento degli oneri fiscali e contributivi che farà lievitare, a parità del salario netto, il costo lordo del lavoro per l'impresa; b) le rigidità contrattuali e normative che comportino ostacoli od oneri addizionali per l'impresa che voglia modificare in positivo (assunzioni) o in negativo (licenziamenti) la consistenza della propria manodopera; tali rigidità verranno percepite dall'impresa come aggravi di un costo complessivo 'scontato' associato all'assunzione del lavoratore 'marginale', ancora con effetto negativo sulla domanda.
Sia pure attraverso questo sommario elenco, risultano intuitive le razionalizzazioni che possono derivare da questi approcci per le dinamiche differenziali dell'occupazione/disoccupazione (per es. nel contesto della comparazione Europa/Stati Uniti). Una maggiore mobilità, e, quindi, un maggior grado di concorrenzialità sui mercati del lavoro regionali; una minore sindacalizzazione con conseguente limitazione del potere contrattuale degli insiders; una minore protezione legislativa e contrattualistica con relativi ostacoli a una flessibilità numerica della manodopera; una minore incidenza dello stato fiscale e degli oneri che appesantiscono un costo lordo del lavoro; queste, e altre, caratteristiche assegnabili a un 'modello americano' contribuirebbero a spiegare performances occupazionali favorevoli, rispetto all'effetto delle speculari 'rigidità' che si riscontrerebbero nel contesto europeo. Le soluzioni di equilibrio dei modelli NAIRU dipendono infatti da parametri riferibili come indicatori di flessibilità (per es. l'elasticità dei salari rispetto alla disoccupazione), anche se tali schemi ammettono generalmente, per il breve periodo, fenomeni di persistenza (isteresi) o di vischiosità delle situazioni pregresse, in cui è consentito un ruolo residuale per i tradizionali effetti delle politiche monetarie e fiscali.
Anche le analisi più sistematicamente applicate alla ricerca di un orientamento concreto delle politiche del lavoro - per es. l'influente rapporto dell'OCSE (1994) - si sono ampiamente ispirate al modello delle flessibilità, anche se con un caveat sui rischi di una dose eccessiva della ricetta, che si sarebbe manifestata, nella più recente esperienza statunitense, in termini di ineguaglianza crescente dei redditi, con effetti di 'polarizzazione' sociale.
Le interpretazioni: le problematiche strutturali
Dal punto di vista dell'impostazione teorica 'keynesiana', i modelli sopra descritti sinteticamente potrebbero essere criticati per il loro tentativo di spiegare la disoccupazione sulla base di un'analisi tipicamente 'parziale' (cioè limitata all'esame del mercato del lavoro), mentre questo fenomeno può essere analizzato e compreso solo considerando la domanda aggregata. Tuttavia, in una situazione di predominio 'neoclassico' sul fronte della teoria, le ipotesi controfattuali e le visioni prospettiche su occupazione/disoccupazione sono state piuttosto proposte da parte di economisti applicati, attenti a una fenomenologia attuale sul fronte delle trasformazioni tecnologiche, dei modelli organizzativi d'impresa, e dell'interazione competitiva a livello internazionale. Si accennerà, pertanto, al rinnovato dibattito sugli impatti occupazionali delle nuove tecnologie, in particolare di quelle legate alle applicazioni dell'informatica, e ai rischi di 'spiazzamento occupazionale' che deriverebbero da una nuova dimensione globale della concorrenza commerciale e della mobilità dei capitali a livello planetario.
a) Un 'pessimismo occupazionale' che pone l'enfasi sugli effetti diretti di sostituzione di lavoro indotti dalle applicazioni tecnologiche è legato, da sempre, alla sfiducia verso una sufficiente intensità dei meccanismi che gli economisti, a partire da D. Ricardo, hanno individuato come possibili fattori di compensazione. Si ricordano, fra questi, l'espansione di una domanda incoraggiata dalla riduzione dei costi di produzione e dei prezzi dei beni e dalla crescita dei redditi, entrambe consentite dagli incrementi della produttività, e lo sviluppo di nuovi comparti produttivi connessi alle applicazioni dei processi innovativi (per rassegne aggiornate del dibattito sulla disoccupazione tecnologica, Pini 1992; Vivarelli 1995). Ci si chiede se le nuove tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni possano avere un effetto di spiazzamento del lavoro più ampio e, quel che più conta, più persistente rispetto all'esperienza di precedenti cicli di innovazioni altrettanto 'pervasive' (per es. trazione meccanica, elettricità). Per gli economisti di scuola neoclassica, il fatto che non si sia registrata, nel tempo storico, una tendenza sistematica a un'associazione negativa fra crescita dell'occupazione e crescita della produttività sarebbe una prova implicita dell'efficacia dei meccanismi di compensazione nel medio periodo. Rispetto a questo, le posizioni pessimistiche insistono su una potenziale diversità e radicalità delle implicazioni della 'rivoluzione informatica', in termini di sostituibilità del lavoro estesa a funzioni gestionali, amministrative e di servizio, e a causa della prevalenza delle applicazioni di 'processo', risparmiatrici di lavoro, sulle innovazioni di 'prodotto' suscettibili di attivare nuovi impieghi delle risorse e nuovi bisogni di consumo. Dal punto di vista generale dell'analisi macroeconomica, tuttavia, la tendenza a una disoccupazione generata da fattori di natura tecnologica è legata, alla fine, al rapporto nel tempo fra crescita di un potenziale di offerta dell'economia, per effetto degli incrementi della produttività consentiti dal progresso tecnologico, e la sua capacità di generare a fronte di ciò un'adeguata domanda addizionale aggregata. Una posizione neoclassica rinvierebbe, a questo punto, a una petizione di fiducia nei meccanismi compensativi. Un punto di vista keynesiano inviterebbe a dedicare maggiore attenzione alle interazioni fra i parametri rilevanti nella dinamica di una domanda autonoma e indotta da un lato (per es. le propensioni a consumare e a investire, l'incidenza dei fenomeni redistributivi ecc.), e l'intensità del progresso tecnologico dall'altro.
b) L'impatto della globalizzazione commerciale e finanziaria è un secondo punto controverso nell'ambito di un dibattito sulle prospettive occupazionali nel medio periodo. L'entrata nello scenario della competizione internazionale di nuovi paesi produttori con abbondanza di dotazione (e quindi un basso costo relativo) del lavoro comporterebbe, secondo gli schemi classici della teoria del commercio internazionale, una despecializzazione e delocalizzazione delle produzioni ad alta intensità di lavoro per i paesi più 'maturi'. La tendenza sarà rafforzata dalla riallocazione degli investimenti e della capacità produttiva consentita dalla crescente mobilità internazionale dei capitali, nonché dall'espansione di una dimensione 'transnazionale' delle strategie d'impresa. La conseguente caduta di un contenuto medio di lavoro nel prodotto complessivo potrebbe indurre, ove i salari interni fossero flessibili verso il basso, cadute di una remunerazione relativa del lavoro (per es. le riduzioni del reddito reale per i lavoratori 'manuali' dell'industria negli Stati Uniti), oppure una crescita della disoccupazione per le stesse categorie di lavoratori, ove prevalgano le rigidità. È necessario tuttavia, anche in questo caso, tener presente una possibile compensazione. La despecializzazione produttiva in alcuni settori ad alto contenuto di lavoro troverebbe, nei modelli di commercio internazionale, una controparte nella specializzazione e crescita in altre produzioni che sono 'intensive' di risorse disponibili nei paesi industrialmente maturi e meno immediatamente sostituibili: capitale e conoscenze tecnologiche avanzate, e un lavoro qualificato che opererebbe in cooperazione, e non in concorrenza, con quelle. Lo spiazzamento del lavoro varrebbe, quindi, solo per sue componenti non sufficientemente 'educate', o refrattarie a uno sforzo di riqualificazione.
La compensazione della riduzione di una domanda di lavoro non qualificato rinvia, pertanto, al problema generale di un'adattabilità strutturale del sistema produttivo, e dell'offerta di lavoro, rispetto alle evoluzioni dello scenario tecnologico e della divisione internazionale del lavoro. Le ricerche empiriche sull'impatto occupazionale della globalizzazione commerciale non hanno raggiunto, al momento, conclusioni univoche (si veda, per un punto di vista 'massimalista', Wood 1994; per una rassegna, OECD 1997, cap. 4). Si sottolinea che gli scambi commerciali con i paesi di nuova industrializzazione rappresentano una quota modesta rispetto al prodotto lordo dei paesi più avanzati; aree potenzialmente ampie di attività di servizio legate al consumo locale rimangono di fatto non esposte a una concorrenza esterna. Tuttavia, in prospettiva, la rilevanza della dimensione internazionale non dovrà essere sottovalutata: solo gli ostacoli a una perfetta mobilità del fattore 'lavoro' impediscono, infatti, che una tendenza alla mondializzazione dei mercati si dispieghi in pieno.
I caratteri specifici della carenza occupazionale in Italia
Il dibattito recente sulla 'sclerosi europea' dei mercati del lavoro ha messo in risalto la scarsa elasticità della dinamica occupazionale rispetto alla crescita del prodotto. Le specificità dell'occupazione/disoccupazione nel caso italiano non possono tuttavia essere ridotte all'aspetto macroeconomico o ciclico-congiunturale, e richiedono un riferimento immediato ai tradizionali squilibri in ambito territoriale e settoriale.
Nessun paese, a comparabile livello di sviluppo economico, presenta infatti caratteristiche così accentuate di dualismo strutturale; negli indicatori del mercato del lavoro, i divari fra le aree regionali assumono un'evidenza assai rilevante, e anche in misura più drammatica rispetto agli indici basati su parametri monetari di reddito. Tali divari riducono inoltre la significatività di confronti internazionali basati su un dato medio nazionale per l'Italia. Il tasso di disoccupazione si situava, nel 1998, al 7,1% nel Nord-Ovest, al 5,3% nel Nord-Est e al 10% nel Centro e risultava ridotto in maniera ulteriore, per le forze di lavoro maschili rispettivamente al 4,5%, al 3,3% e al 7,2%: si tratta di valori inferiori alle medie europee, e vicini a livelli che verrebbero considerati 'frizionali' o fisiologici dagli economisti. Il valore corrispondente, per il Mezzogiorno e le Isole, si situava al 22,8% (31,8% per la componente femminile), ai livelli massimi, insieme alla Spagna, nel contesto continentale.
Va ricordato a questo punto un secondo dato che caratterizza in negativo il nostro paese: il valore massimo di un tasso di disoccupazione giovanile fra i paesi sviluppati dell'area OCSE. Contrariamente ad altri paesi, inoltre, le prospettive di un sollecito ingresso nella vita attiva non sembrano migliorare, nel nostro caso, con il livello della qualificazione formale: i tassi specifici per i diplomati risultano infatti superiori a quelli dei possessori di sola licenza d'obbligo. Ancora, nel 1998, su un numero complessivamente rilevato di 2.837.000 persone in cerca di lavoro, il 71% erano classificati come disoccupati a lungo termine, con un periodo continuativo di permanenza nello stato superiore ai dodici mesi.
Una presa di visione adeguata delle 'carenze occupazionali' nel contesto italiano non può limitarsi ai dati della disoccupazione rilevata secondo la convenzione statistica corrente; i divari territoriali e i confronti internazionali andrebbero osservati ancora per gli altri indicatori del mercato. Ricordiamo qui soltanto che il tasso di attività del Mezzogiorno, per i maschi, risultava inferiore di circa 4 punti percentuali rispetto al Centro-Nord e di 8 punti rispetto alla media UE; per i tassi femminili gli scarti erano, rispettivamente, di 15 e 25 punti.
Con 'carenza occupazionale' vogliamo allora indicare, nel caso del nostro paese, l'incapacità, in senso ampio, del sistema economico di attivare posti di lavoro in numero adeguato rispetto al potenziale di offerta. Tale carenza si manifesta solo in parte sotto forma di disoccupazione dichiarata e rilevata; le cadute dei tassi di partecipazione e di occupazione indicherebbero infatti ritardi e anticipi patologici dell'ingresso/uscita nella e dalla vita attiva, e una frustrazione di fatto dell'aspirazione al lavoro ancora per un'ampia componente della popolazione femminile.
Una disoccupazione (o inoccupazione) prevalentemente meridionale e giovanile sembra rinviare a fattori strutturali e a fenomeni di lungo periodo dal lato della domanda di lavoro, piuttosto che a un andamento congiunturale dell'attività economica. Su questo punto vogliamo tuttavia ricordare il pesante impatto della più recente fase di recessione (1992-95), che ha eliminato nel complesso circa 1.200.000 posizioni lavorative nell'economia, facendo ritornare il totale dell'occupazione italiana a livelli inferiori a quelli della fine degli anni Sessanta. La successiva ripresa si è tradotta, finora, in incrementi modesti di posti di lavoro, pressoché interamente concentrati nel Nord-Est del paese.
La ricerca corrente sulle specificità dell'occupazione/disoccupazione italiana e le relative proposte di intervento di politica del lavoro rinvierebbero a questo punto a una rassegna specifica. Ci limitiamo, in questa sezione conclusiva, a ricordare alcuni punti controversi del dibattito politico-economico in merito.
a) Rigidità legislative e contrattuali: è stato affermato che normative di legge e prassi contrattuali avrebbero reso il mercato del lavoro italiano uno fra i più 'vincolati', rispetto a una flessibilità sia numerica (per es. difficoltà di licenziamenti individuali e collettivi, criteri di chiamata 'numerica' e monopolio pubblico per il collocamento del lavoro ecc.) sia salariale (la determinazione, attraverso i contratti collettivi nazionali, di minimi salariali uniformi per l'intero territorio nazionale). Si deve osservare, su questo punto, che l'azione legislativa e la prassi contrattualistica hanno introdotto, a partire già dagli anni Ottanta, istituti che hanno ampliato la flessibilità e le opzioni per i datori di lavoro (per es. contratti di formazione e lavoro con chiamata nominativa per i giovani; possibilità di stipula fra le parti di 'patti territoriali' che tengano conto di particolari esigenze dei mercati del lavoro locali). Più recentemente, la l. 24 giugno 1997 nr. 196 ha previsto una più ampia liberalizzazione degli istituti e delle forme contrattuali del mercato del lavoro, consentendo per la prima volta l'iniziativa privata in materia di collocamento e il cosiddetto lavoro interinale.
b) La persistenza di elevati tassi di inoccupazione giovanile, nonostante una ripresa della domanda di lavoro nelle aree di maggiore vocazione all'esportazione e nonostante un'ampia presenza di un'immigrazione dai paesi extracomunitari, rende attuale e controverso il dibattito su una presunta scarsa propensione alla mobilità del lavoro, in particolare per le componenti giovanili, nel Mezzogiorno; comportamenti selettivi dal lato dell'offerta ed elevati costi della mobilità e dell'insediamento abitativo fuori sede sono stati richiamati a questo proposito.
c) Il basso tasso rilevato di partecipazione/occupazione rifletterebbe, almeno in parte, l'ampia diffusione delle attività su mercati 'informali' o irregolari del lavoro che sfuggono a norme, standard contrattuali e oneri fiscali-contributivi del mercato 'regolare'. Non mancano le ricerche sul campo che documentano l'ampia diffusione del lavoro sommerso in contesti locali, ma la quantificazione dell'estensione e incidenza a livello complessivo della fenomenologia presenta tuttavia intuibili difficoltà. Nell'ambito delle stime di Contabilità nazionale, l'Istituto centrale di statistica procede a fornire cifre indicative per il 1995 (per maggiori dettagli, ISTAT 1997, cap. 4; Fondazione Giacomo Brodolini 1997) con una stima per quell'anno di circa 2,5 milioni di posizioni lavorative non regolari, con un'incidenza di circa il 15% sul totale delle ore lavorate complessive del sistema; a questo dato vanno ulteriormente aggiunti gli impieghi dei lavoratori stranieri non regolarizzati, stimati dal Ministero dell'Interno in circa 700.000 unità a fine anno.
d) Altre caratteristiche del mercato del lavoro italiano vanno collegate alle specificità del tessuto produttivo del paese: l'alta incidenza del lavoro autonomo (29% circa dell'occupazione complessiva nel 1995: valore massimo nel gruppo dei paesi OCSE); la prevalenza, anche per i lavoratori dipendenti, di un'occupazione attivata presso unità locali, industriali e di servizi, di dimensione piccola o minima.
In conclusione, all'interno delle performances non brillanti, riferibili a un contesto europeo più ampio, la fenomenologia italiana dell'occupazione/disoccupazione richiede tuttavia analisi, e proposte d'intervento, specifiche e articolate.
bibliografia
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Politiche per l'occupazione
di Nino Galloni
Negli anni Novanta la teoria economica, a proposito degli andamenti dell'occupazione, della disoccupazione e dei modi per affrontare quest'ultima, non ha fatto segnare particolari progressi, sebbene alcuni economisti vicini alle problematiche sociologiche e istituzionali (Gorz 1988; Rifkin 1995) abbiano proposto una critica radicale al concetto stesso di lavoro. La realtà, tuttavia, ha mostrato un'evoluzione significativa che ancora richiede una soddisfacente comprensione teorica. I cambiamenti nel mondo delle imprese e la ridotta efficacia delle politiche economiche tradizionali hanno determinato notevoli mutamenti qualitativi e quantitativi per quanto riguarda sia l'occupazione che la disoccupazione.
Fino agli anni Ottanta, infatti, le imprese producevano prevalentemente per il magazzino e quindi il monitoraggio delle scorte consentiva non solo di prevedere in tempo l'inizio di una crisi, ma anche di intervenire - da parte dei poteri pubblici - con iniezioni di spesa che, finendo per sostenere il reddito e la domanda, consentivano il riassorbimento delle scorte eccessive, e il ciclo produttivo ricominciava. Con la segmentazione dei mercati, con la più puntuale attenzione alle esigenze anche 'personalizzate' dei consumatori e con le moderne tecnologie introdotte per consentire risposte sofisticate a tale mutamento, gli interventi pubblici tradizionali hanno perso di efficacia: il maggior reddito indotto dallo Stato potrebbe andare a sostenere la domanda di beni e servizi diversi rispetto a quelli offerti dalle imprese in crisi. A ciò si aggiunga la tendenziale riduzione degli interventi pubblici, determinata da scelte di natura politica in termini di ridimensionamento del ruolo dello Stato nell'economia e di ricerca degli equilibri finanziari, prima e a prescindere dai disequilibri sociali, contrariamente a quanto si riteneva di dover fare fino a tutti gli anni Settanta.
I principali effetti sul mercato del lavoro sembrano: a) il passaggio o, meglio, il completamento del passaggio dall'avviamento indifferenziato o numerico della manodopera a un suo prevalente avviamento a chiamata nominativa da parte delle imprese; b) la maggiore selezione del personale, che ha determinato la modificazione delle qualità richieste ai nuovi lavoratori in termini di maggiore attenzione alle esigenze dei clienti e l'incremento di produttività al di là delle stesse potenzialità delle nuove tecnologie.
Per quanto riguarda il primo punto, si deve dunque osservare come il modello dell'avviamento a chiamata numerica, che interessava il 95% dei lavoratori - ancora tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80 -, sia stato quasi completamente sostituito dal modello a chiamata nominativa, che porta le chiamate per mansioni di tipo semplice, ripetitivo e non qualificato al di sotto del 45% delle richieste di collaborazione da parte delle imprese. Non andrebbe, tra l'altro, sottaciuto che, secondo recenti studi, gran parte di questa forza lavoro si trova in condizioni di precarietà e provvisorietà, essendosi fortemente ridotta la dinamica dei contratti a tempo pieno e indeterminato. Tale fenomeno, in parte connesso allo sviluppo del cosiddetto terziario - la cui dinamica è, comunque, un aspetto di tutta la questione -, ha messo fortemente in crisi la funzione amministrativa di regolazione del mercato del lavoro. Il Ministero competente, infatti, non ha saputo prontamente reagire al cambiamento riorganizzando in modo adeguato i propri uffici periferici (regionali, provinciali e circoscrizionali); si sono soltanto tentate improbabili 'riforme' ogni volta introducendo organismi nuovi a livello regionale (agenzie, osservatori, commissioni), via via sempre meno dotati di risorse e di collegamento con le realtà territoriali. Tale crisi ha portato a una revisione profonda di tutta la macchina organizzativa statale in due direzioni: a) la privatizzazione dei servizi dell'impiego, anche in base a precise sollecitazioni in tal senso provenienti dall'Unione Europea (o, per lo meno, la previsione di una presenza di agenzie private sia per il cosiddetto lavoro interinale, sia per l'incontro vero e proprio tra domanda e offerta di professioni); b) la regionalizzazione ovvero il decentramento dei servizi stessi, consentendo al 'centro', vale a dire al Ministero, di mantenere precise competenze solo in materia di Ispettorato del lavoro e vigilanza sulle cooperative, di previdenza, di statistiche, di rapporti e controversie di lavoro. È prevedibile, tuttavia, che le Regioni attuino tale riforma (cfr. la l. 15 marzo 1997 nr. 59 e il d. legisl. 23 genn. 1997 nr. 469) decentrando ulteriormente i servizi più onerosi e meno dotati di risorse (come il cosiddetto collocamento) per concentrarsi su quelli più promettenti, come la formazione professionale.
Per quanto riguarda il fenomeno della maggiore selezione del personale da parte delle imprese, occorre sottolineare come esso abbia influito insieme positivamente sulla produttività del lavoro e negativamente sui livelli della domanda e quindi, a parità di altre circostanze, sull'occupazione. Soprattutto in Europa, infatti, ma segnatamente in Italia, all'aumento costante di produttività del lavoro non ha corrisposto un pari aumento del reddito dei lavoratori e della domanda. In sostanza, il monte salari si è ridotto, in quanto la perdita di occupati è stata proporzionalmente più consistente degli aumenti salariali per coloro che hanno potuto mantenere il posto. L'aumento della produttività, maggiore di quello dei redditi da lavoro, ha garantito tenuta e aumento dei profitti, ma non dell'occupazione; la maggior selezione della manodopera e la sua crescente produttività hanno ampliato il fenomeno con conseguenze di strutturalizzazione della disoccupazione, la cui durata si è enormemente allungata, provocando la ricerca di soluzioni estranee a quelle offerte dall'economia ufficiale.
Altri aspetti significativi dell'evoluzione del mercato del lavoro sono: il passaggio da una disoccupazione prevalentemente congiunturale (fino a tutti gli anni Settanta) a una disoccupazione che minaccia di non ridursi nel prossimo futuro; il problema della coesistenza di elevata disoccupazione e della difficoltà per le imprese di trovare la manodopera di cui abbisognano; la dinamica degli interventi pubblici volti ad affrontare il tema della disoccupazione e delle nuove politiche per l'occupazione.
I due problemi di un'offerta di lavoro non adeguata alla domanda, pur in presenza di elevati tassi di disoccupazione, e del passaggio da una disoccupazione prevalentemente congiunturale a una di più lunga durata presentano notevoli interconnessioni. Le più selettive esigenze delle imprese, infatti, spingono queste ultime a licenziare o a non assumere i lavoratori meno dotati professionalmente e attitudinalmente, che compongono ormai stabilmente l'insieme dei disoccupati. Ciò spiazza e rende inefficaci gli interventi pubblici diversi da quelli destinati a migliorare la formazione professionale degli aspiranti lavoratori.
Tuttavia, sebbene il 45% della domanda di lavoro da parte delle imprese riguardi ancora livelli professionali di basso profilo e facile fungibilità, una notevole quota di disoccupati in possesso di titoli di studio medi o elevati - ma non di capacità o qualificazioni professionali coerenti con le esigenze delle imprese - non accetta paghe o mansioni inferiori alle proprie aspettative. Da ciò l'esigenza di attrarre e selezionare lavoratori provenienti da aree a minor reddito pro capite disposti ad accettare mansioni e paghe particolarmente modeste. Si tratta, comunque, di un fenomeno non prevalente sul mercato del lavoro e che, probabilmente, potrà modificarsi se le opportunità lavorative non aumenteranno notevolmente nei prossimi anni.
L'età di accesso al lavoro si è notevolmente innalzata, specialmente per i giovani in cerca di prima occupazione e in possesso di un titolo di studio elevato; il che fa supporre - proprio di fronte alle più selettive esigenze delle imprese - che manchi un sistema di collegamento tra istruzione superiore, da una parte, e il mondo del lavoro, dall'altra. In poche realtà europee (come, per es., la Catalogna) si è riscontrato un sistema di formazione professionale che funga da connessione ordinaria tra il mondo della scuola e quello delle imprese, mentre il modello tedesco prevede maggiori opportunità per i giovani e le imprese di trovare occasioni di incontro a costi particolarmente bassi (i cosiddetti contratti di stage che cominciano a essere introdotti, pur con qualche resistenza, anche in Italia).
Anche il fenomeno delle imprese che non trovano le figure professionali di cui necessitano - pur in presenza di elevati livelli di disoccupazione - riguarda non un settore consistente del mercato del lavoro, ma solo alcune decine di migliaia di posizioni lavorative. Tuttavia tali situazioni, non particolarmente estese quantitativamente, hanno contribuito notevolmente a modificare nei paesi maggiormente industrializzati la struttura della disoccupazione, finora ridotta solo grazie alla trasformazione (a volte forzata) di posti di lavoro a tempo pieno in posti di lavoro a tempo parziale.
Gli interventi pubblici (regionali e locali, statali, comunitari) stentano a individuare strategie veramente efficaci - sulla cui esistenza la maggior parte degli operatori, degli osservatori e degli studiosi nutre molte perplessità - per affrontare i problemi dettati sia da un'insufficiente crescita dell'occupazione, sia da un eccessivo aumento della disoccupazione. Strategia apparentemente efficace, ma certamente incompleta, è apparsa infatti quella, praticata particolarmente nei Paesi Bassi, Stati Uniti e Regno Unito, che prevede una massiccia sostituzione di occupati a tempo pieno (in genere più anziani, sindacalizzati e con paghe più alte) con un numero evidentemente maggiore di occupati a tempo parziale (in genere più giovani e con paghe orarie più basse, quindi con un guadagno per le imprese, in termini di produttività del lavoro).
Il modello olandese sembra differire da quello anglosassone in quanto riconosce ai lavoratori e alle lavoratrici a part time taluni benefici in termini di welfare state sanitario ed educativo, di gestione del tempo libero, di parità tra uomini e donne. Nel caso degli Stati Uniti e del Regno Unito, invece, si è fatto riferimento a flessibilizzazione 'selvaggia' del mercato del lavoro.
L'Unione Europea nel suo complesso si è mossa, invece, su due direttrici. La prima, più debole, risale al 'libro bianco' di J. Delors che individuava nell'economia sociale (composta da cooperative, mutue, associazionismo e volontariato) il settore passibile di maggior sviluppo per l'Europa unita. L'assunto dell'economia sociale consisteva nella valutazione dell'esistenza di una forte e disattesa domanda di servizi di cura delle persone e dell'ambiente, nonché di attività culturali e legate alla fruizione del tempo liberato dalle incombenze lavorative cui non corrispondeva un'adeguata offerta da parte delle imprese: la quantità di lavoro per unità di servizio necessario a predisporre tale offerta potenziale avrebbe infatti portato i costi e i prezzi di tale settore ben al di sopra di ciò che mediamente i consumatori, ovvero il mercato, sarebbero stati disposti a pagare (il cosiddetto paradosso di Baumol).
Di qui l'individuazione di un settore, appunto quello dell'economia sociale, diverso sia dall'area dell'economia di profitto (erroneamente definito mercato in quanto il mercato altro non sarebbe che l'insieme della domanda dei consumatori), sia dall'area dell'intervento pubblico, di cui si preconizza una tendenziale riduzione per ragioni politiche, finanziarie e di efficienza generale.
La finalizzazione non al profitto, ma all'interesse mutualistico (degli associati) ovvero altruistico (dei soli beneficiari); l'organizzazione più flessibile e meno costosa in termini salariali; la possibilità di gestire utilmente intere aree abbandonate, o abbandonabili, da parte dello Stato, dovevano consentire all'economia sociale di fornire al mercato e ai consumatori - variamente individuati - tutti quei servizi di cura, di difesa dell'ambiente, di sviluppo delle attività culturali e ricreative che le imprese con finalità di lucro non sarebbero state, mediamente, in grado di produrre, con conseguenze occupazionali molto rilevanti.
A tale elevata aspirazione dell'Unione Europea hanno corrisposto, dopo la pubblicazione del libro bianco di Delors, scarse realizzazioni e un impegno comunitario e dei singoli paesi - pur con qualche eccezione in Francia, Spagna e nei Paesi Bassi - tutto sommato modesto. La Direzione generale xxiii della Commissione europea, competente per materia, appare tuttora una direzione marginale, con esigui mezzi e risorse, e con poche opportunità di influire sulle grandi scelte dell'UE in campo occupazionale.
La seconda direttrice dell'UE, più forte e attrezzata, ha fatto capo ai cosiddetti fondi strutturali, fondi finalizzati in teoria ad alleviare le conseguenze della deindustrializzazione o delle scelte in materia agricola, ma soprattutto ad agevolare lo sviluppo economico nelle aree in ritardo (vengono così definite le aree con un PIL pro capite inferiore al 75% rispetto a quello dell'insieme dei paesi dell'UE). Attualmente tali aiuti raggiungono il 51% del territorio dell'Unione, ma la Commissione ha recentemente annunciato di volerli rendere più efficaci riducendone il campo di applicazione al solo 35% delle regioni aderenti all'UE stessa; considerando che i prossimi 6 paesi che aderiranno all'UE entro il 2003, nonché altri 5 che potrebbero aderire al 2012 o anche prima, presentano tutti un PIL pro capite molto più basso della media europea e, segnatamente, del 75% di essa, se ne deduce che molte regioni attualmente ammesse a questi fondi - soprattutto quelle del Mezzogiorno italiano - saranno escluse da tali strategie di aiuti.
In pratica, però, questi fondi sono andati a compensare situazioni determinate o codeterminate dalle scelte di politica e di politica economica dell'UE. Durante tutti gli anni Ottanta, infatti, il sistema dei cambi fissi o semifissi (entrato in crisi nel settembre 1992) ha determinato un duplice squilibrio nelle economie dei paesi aderenti allo SME: da una parte i paesi più forti, con economie in grado di registrare esportazioni al netto delle importazioni positive, hanno potuto mantenere bassi o ridurre ulteriormente i propri tassi d'interesse con beneficio per le proprie economie e i livelli dell'occupazione interna; dall'altra i paesi più deboli, per riequilibrare il saldo negativo fra esportazioni e importazioni senza svalutare il proprio cambio, hanno dovuto innalzare i tassi d'interesse - onde attirare capitali in grado di riportare in pareggio la bilancia dei pagamenti - indebolendo così ulteriormente le proprie economie e la consistenza dell'occupazione.
Anche la legislazione nazionale è apparsa, nel complesso, frammentaria e contraddittoria, incapace di affrontare i grandi problemi dell'occupazione e del ritardo economico nelle aree a più elevato tasso di disoccupazione, pur con qualche eccezione (cfr. il d. legisl. 7 ag. 1997 nr. 280, sulle borse di lavoro). Luci e ombre sembrano altresì derivare dalla gestione dei 'lavori socialmente utili' (l. 23 luglio 1991 nr. 223 e, per la revisione della disciplina, d. legisl. 1° dic. 1997 nr. 468) rivisitati e allargati con i 'lavori di pubblica utilità' (d. legisl. 7 ag. 1997 nr. 280) e, tra molte incertezze, dalle discusse disposizioni sulle 35 ore settimanali di lavoro.
Una caratteristica di alcuni mercati del lavoro è la crescita dell'economia sommersa, particolarmente evidente nei sistemi dotati di una legislazione più rigida e con più alti livelli di disoccupazione. Per quanto riguarda l'Italia, si stima che il peso dell'economia sommersa potrebbe aggirarsi attorno al 15÷20% del PIL ufficiale; considerando la media delle retribuzioni 'in nero' non molto al di sotto delle retribuzioni nette contrattuali, e ipotizzando un livello dei profitti non diverso da quello dell'economia ufficiale, si arrivano a considerare impegnate in questo settore - tra lavoratori irregolari a tempo pieno e non - circa 5 milioni di unità lavorative. Se si considera che, in Italia, le forze di lavoro composte dalla sommatoria degli occupati e dei disoccupati (ufficiali) nel 1998 raggiungevano i 23 milioni e la popolazione in età lavorativa era di circa 40 milioni, ci si rende conto della forte incidenza dell'occupazione marginale.
Comunque, una consistente economia sommersa, che è fenomeno comune agli altri paesi industrializzati - pur in misura diversa rispetto all'Italia -, appare uno degli aspetti più rilevanti per la comprensione dei problemi dell'occupazione e della disoccupazione nei prossimi decenni. Infatti, un'estesa occupazione irregolare sottrae risorse al sistema della previdenza e alle finanze pubbliche in generale, costringendo le autorità a far gravare sempre di più i pesi della contribuzione fiscale e previdenziale sui regolari; situazione che sarebbe la causa principale dell'economia sommersa, da tenere distinta da quella illecita. Secondo recenti indagini, molti disoccupati ufficiali del Sud, in possesso di titoli di studio elevati, rifiuterebbero occupazioni regolari non adeguate alle proprie attese professionali, ma le accetterebbero nell'economia sommersa per provvedersi di un reddito senza intaccare le proprie aspirazioni a mansioni adeguate ai titoli di studio.
Dopo la crisi dello SME (settembre 1992), l'economia sommersa ha dato segni di particolare vitalità contribuendo al rilancio delle esportazioni italiane agevolate dal ridimensionamento del cambio della lira. Attualmente si stima che la stessa economia sommersa, per continuare a reggere le sfide della globalizzazione, dovrebbe poter contare su moderni servizi reali e un sistema creditizio adeguato, condizioni che implicano la sua regolarizzazione.
A tale scopo, e per rendere agevole tale importante passaggio, i fondi stanziati dalla l. 24 giugno 1996 nr. 196 possono venire utilizzati nell'ambito dei cosiddetti contratti di area, con i quali le parti sociali si accordano al fine di promuovere adeguate misure di sviluppo locale. Il patto per il lavoro, siglato dalle parti sociali e dal governo nel settembre 1996, ha sancito che la regolarizzazione dell'economia sommersa rientra nelle politiche volte a far crescere i livelli occupazionali. Il cosiddetto patto di Natale, infine, stipulato il 22 dicembre 1998 fra governo, enti locali, sindacati e organizzazioni imprenditoriali, ha ripreso e ribadito diversi di questi elementi volti a incidere su crescita e occupazione, sottolineando l'importanza di processi decisionali basati sulla concertazione fra le parti.
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Occupazione giovanile
di Magda Franca Rabaglietti
Il primo impiego, per i giovani che hanno appena terminato gli studi (licenziati, diplomati, laureati), richiede normalmente un'ulteriore fase di istruzione professionale (apprendistato, tirocinio, prova, formazione), propedeutica non solo all'eventualità di trovare un lavoro adeguato alle aspirazioni, ma anche alla probabilità di insuccessi dovuti all'immaturità dei progetti e all'insufficienza dei mezzi e delle opportunità per realizzarli. Il rischio di probabili errori, dovuti all'inesperienza di gestire autonomamente i propri interessi, è aggravato dall'insufficienza della scelta e, paradossalmente, addirittura annullato dalla cronica difficoltà di competere in un mercato che, in contrasto con il costituzionale 'diritto al lavoro' (art. 4), è tecnicamente predisposto a saturarsi secondo punti di equilibrio mercantile attinenti a elementi oggettivamente estranei a finalità di profilo antropologico, societario, umanitario, solidaristico.
Così, del resto, è sempre stato, ma oggi non si tratta più del pietismo per l'emarginazione di classi disagiate; il problema è mondiale per aspetti collaterali, se pure attinenti alla condizione di non-occupato tipico. Il problema non è più solo quello economico del profitto legato al mantenimento di un buon livello dei redditi per consentire che il consumo dei beni e servizi alimenti la produzione del profitto stesso; non è più solo quello, politico, che la rigidità garantista degli schemi legali e l'assistenza sociale assicurino al governo tranquillità e consenso; non è più soltanto quello, giuridico, che la forma del contratto conferisca validità ed efficacia ai contenuti che i soggetti sono liberi di dare alla negoziazione (a prescindere da quali siano le persone provviste realmente di potere contrattuale in grado di negoziare liberamente). L'automatismo fatalistico delle teorie classiche, sfociato nell'attuale imperante contrattualismo (che sfrutta, lasciandole al loro destino 'naturalistico', le distanze fra inclusi ed esclusi), è da sempre rivolto a uno sviluppo senza qualità, privato di quegli scopi che qualificano positivamente un progredire autenticamente culturale e civile; tale automatismo deve però fare i conti con la realtà di una condizione giovanile che non è solo serbatoio generazionale e non può essere trascurata perché i suoi problemi si sono radicati in gangli vitali della politica e della società.
Alle nuove generazioni che, da sempre prive di potere contrattuale, sono la componente più debole della società, è consegnata la continuità non solo della vita, ma della persistenza delle condizioni che contraddistinguono il tipo di vita dell'uomo. In alternativa a una situazione rispondente a queste esigenze sono apparse occasioni surrettizie all'occupazione (lavoro nero, consumismo di gruppo, droga, prostituzione, associazione a gruppi contestatori) che hanno finito per sostituirsi alle normali funzioni delle formazioni sociali tipiche (famiglie, imprese, sindacati, partiti, circoli religiosi e sportivi) in cui i giovani trovavano - e possono trovare ancora - i valori di guida.
La convinzione che il divario sia dovuto all'importanza essenziale degli inclusi (dedicati a iniziative imprenditoriali, manageriali, bancarie, borsistiche) e all'irrilevanza esistenziale degli esclusi (destinati al lavoro esecutivo caratterizzato dalla fungibilità) è stata messa in dubbio di recente da un fenomeno di globalizzazione che, se pure non ancora esattamente definito, viene in sostanza a segnalare che la soluzione dei grandi problemi (politici, economici, sociali) è legata e condizionata dall'avere in comune quella ragione di scopo che è la libertà: essa orienta gli effetti producibili (lo sviluppo sostenibile e il regime possibile) con un criterio che, in ogni caso, 'disciplina' l'esercizio reale delle libertà nel senso del rilievo effettivo e dell'interagire fra i termini che entrano nel teorema del benessere economico, della libertà, della coesione sociale, in modo che nessun termine possa prevalere senza sacrificare l'altro: da qui la ricerca di un autentico equilibrio come ineludibile fattore di giustizia. L'occupazione dei giovani, in questo quadro, supera la preoccupazione dei legislatori di mantenere stabilità al governo, pace fra le parti sociali, sviluppo dell'economia: si comincia a prendere atto che l'inarrestabile corsa verso la produzione di tecnologie sempre più avanzate (che lascia a terra i perdenti designati) non assicura senz'altro ripresa e vigore all'economia, per gli effetti collaterali della non occupazione, della disoccupazione, della sottoccupazione, del lavoro nero e sommerso, che sconvolgono le aspettative dei giovani. Elasticità, flessibilità, temporaneità, mobilità, strutture di formazione professionale, volontariato, borse di lavoro, 'prestiti d'onore' acquistano allora un significato culturale e un valore morale che va oltre le strategie dell'adattamento al mercato.
A tale presa di considerazione della realtà sono rivolte talune disposizioni comunitarie in materia di lavoro e, segnatamente, di occupazione giovanile (in partic.: Direttiva CEE 92/51 del Consiglio del 18 giugno 1992; Raccomandazione del Consiglio 30 sett. 1993 nr. 404; Risoluzione del Consiglio 5 dic. 1994) cui corrispondono, in Italia, le norme della l. 24 giugno 1997 nr. 196, in materia di promozione dell'occupazione, particolarmente attente alla situazione dei giovani (il cosiddetto pacchetto Treu) e tendenti anche alla regolarizzazione del lavoro sommerso.
L'aspetto più interessante che vi si riscontra è forse il tentativo di superare l'oggettivismo merceologico del mercato cui è estranea la circostanza di chi sia soggettivamente nella condizione di partecipare, nel senso quanto meno di avere i requisiti di capacità. D'altronde, il problema di fondo sembra accantonato da un già compiuto salto di qualità, là dove si profila un mercato del lavoro in cui rientra lo scopo da perseguire, coordinando le posizioni delle parti interessate, relativamente agli aspetti del fatto occupazionale, mediante la logica di una negatività e di una positività sistematica (per es. gli esuberi, la mobilità, la flessibilità, la regolabilità e, in un certo senso, l'obiettivo stesso della ventilata riduzione dell'orario normale a 35 ore).
L'adozione di misure nelle quali è la domanda, nella sua specificità, a influire sul tipo di offerta (con una sorta di sovvertimento dei ruoli) mostra che si è imboccata la strada del rinnovamento, se pure nelle forme sperimentali del lavoro in affitto (o interinale ), a tempo determinato, part-time, di utilità sociale e di pubblica utilità; forme a cui le imprese sono chiamate a ricorrere, venendo indotte (con incentivi e sgravi fiscali, ovviamente) ad adeguare l'organizzazione interna, non solo del lavoro. Su questa linea si colloca anche la previsione di una detrazione sull'IRPEF, per i figli a carico, senza limiti di età. È anche interessante la disposizione dell'art. 23 del d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 80 in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, in base alla quale il regolamento sul relativo ordinamento degli enti locali può "prevedere particolari modalità di selezione per l'assunzione del personale a tempo determinato, per esigenze temporanee e stagionali" con esclusione di "ogni forma di discriminazione".
Il pacchetto Treu sottolinea e ribadisce l'assoluta emergenza sociale del problema dell'occupazione giovanile, specie nelle aree più depresse o svantaggiate del paese.
Vi si prevede un piano che agisce su due leve: la prima è costituita dalle 'borse di lavoro' (a favore dei giovani tra i 21 e i 32 anni) con la sovvenzione del lavoro nel mercato, anziché fuori dal mercato (come avviene nel caso del sussidio di disoccupazione); con l'attivazione di tali iniziative rivolta alla vitalità delle imprese di dimensioni medio-piccole (normalmente con non più di 100 dipendenti); con incentivi a procedere, al termine della borsa di lavoro (la cui durata è di regola annuale), all'assunzione a tempo indeterminato. Le borse di lavoro possono avere esecuzione presso imprese manifatturiere, di commercio all'ingrosso e al dettaglio, di riparazione di veicoli, di alberghi e ristoranti, di trasporti, magazzinaggio e comunicazione, di intermediazione monetaria e finanziaria, di attività immobiliari, noleggio, informatica, ricerca e altre attività professionali e imprenditoriali.
La seconda leva consiste nel coinvolgimento della pubblica amministrazione e di altri enti interessati a partecipare con i giovani al compimento di lavori socialmente utili (già previsti dalla l. 28 nov. 1996 nr. 618) e che ricevono qualificazione di 'pubblica utilità' dal d. legisl. 1° dic. 1997 nr. 459. La serie si arricchisce di occasioni 'settoriali' di lavoro, specificate in: servizi alle persone; cura dell'ambiente in generale e del territorio in particolare, ricupero e qualificazione degli spazi urbani e dei beni culturali, con estensione ai settori agricoli e montani. I progetti dei lavori sono promossi dalle amministrazioni pubbliche, dagli enti pubblici economici, dalle società a totale o prevalente partecipazione pubblica e dalle cooperative sociali (l. 8 nov. 1991 nr. 381) e loro consorzi. Altri eventuali 'soggetti' possono essere individuati dai ministeri interessati a questa creazione di nuove occasioni di lavoro che raggiungano la qualificazione di pubblica utilità.
Le Regioni e gli enti locali (a norma della l. 15 marzo 1997 nr. 59, cui ha fatto seguito il d. legisl. 23 dic. 1997 nr. 469) possono peraltro svolgere, fra le altre competenze in materia di mercato del lavoro, funzioni e compiti in ordine alla programmazione e al coordinamento dell'occupazione (con riferimento anche all'occupazione femminile, di tossicodipendenti ed ex detenuti); al reimpiego di lavoratori posti in mobilità e di altre categorie svantaggiate; all'indirizzo, alla programmazione e alla verifica dei tirocini formativi e di orientamento, nonché delle borse di lavoro. Nella prospettiva delle assegnazioni di queste, il d. legisl. 7 ag. 1997 nr. 280 prevede un piano straordinario a favore delle regioni Sardegna, Sicilia, Calabria, Campania, Basilicata, Puglia, Abruzzo, Molise, e delle province di Massa Carrara, Frosinone, Roma, Latina, Viterbo, anche in ambiti interregionali. La l. 27 dic. 1997 nr. 449 elabora i criteri per la concessione alle piccole e medie imprese di incentivi fino al 31 dic. 2000, in vista dell'assunzione di nuovi dipendenti, con particolare riferimento alle aree urbane con un alto tasso di disoccupazione giovanile (art. 4).
L'impegno dei giovani in borse di lavoro e in lavori di pubblica utilità non determina un contratto di lavoro subordinato e non comporta la cancellazione dalle liste di collocamento. I giovani lavoratori vengono comunque assicurati contro gli infortuni e le malattie professionali e vengono informati circa le disposizioni vigenti in materia di tutela e sicurezza dei luoghi di lavoro (come dispone la Direttiva CEE 91/383 del 25 giugno 1991).
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