OCCUPAZIONE E DISOCCUPAZIONE
(v. occupazione, XXV, p. 138; occupazione piena, App. II, II, p. 433; disoccupazione, XIII, p. 22; App. I, p. 520; II, I, p. 791; III, I, p. 496; IV, I, p. 595)
Le principali impostazioni teoriche. - L'analisi della struttura dell'o. e della d. e le modalità attraverso le quali può raggiungersi o meno la piena o. sono al centro della moderna impostazione dell'economia del lavoro. Com'è noto, l'economia del lavoro sorge come branca specifica dell'analisi economica sin dal primo apparire dei rapporti produttivi capitalistici. Le teorizzazioni fondamentali dei rapporti tra domanda e offerta di lavoro (e quindi tra o. e d.) sono infatti già presenti nella fondamentale opera di A. Smith del 1776, sia pure riferite alle particolari condizioni della prima rivoluzione industriale.
Nell'analisi classica (Smith 1776; Ricardo 1817; Malthus 1821; e J.S. Mill 1848), il livello naturale dei salari (di sussistenza) garantisce l'equilibrio del mercato del lavoro; di conseguenza la piena o. viene sempre a verificarsi e non si pone un problema di sottoutilizzazione delle forze di lavoro.
Secondo gli autori sopraricordati eventuali situazioni di squilibrio, peraltro sempre temporaneo, possono verificarsi:
a) quando il livello salariale risulti superiore al livello naturale; ciò può accadere, per es., se l'offerta di lavoro risulta insufficiente rispetto alle esigenze della domanda (posto il caso di un aumento dell'accumulazione e degli investimenti); in tale situazione, tuttavia, l'aumento dei salari, facendo accrescere la produzione, determinerà un aumento dell'offerta di lavoro che pertanto risulterà superiore alla domanda, contribuendo a riportare i salari al livello di equilibrio;
b) qualora la produzione alimentare (sufficiente a consentire il sostentamento dei lavoratori produttivi) risulti non sufficiente a consentire il sostentamento dei lavoratori improduttivi; in questa situazione, la mancanza di terra potrà dar luogo a d., dal momento che anche al salario di equilibrio non sarà possibile occupare la manodopera disponibile (la soluzione potrà essere trovata con il ricorso all'importazione).
Nell'analisi marxiana, il problema della d. viene affrontato ponendo l'accento principalmente sulla funzione ''politica'' della d. come strumento di controllo sulla forza lavoro e sui meccanismi di determinazione delle remunerazioni. Il rapporto o./d. viene considerato da Marx (1867) come la risultante del processo di accumulazione e, quindi, il prevalere di una o dell'altra delle due situazioni viene posto in diretta correlazione alle convenienze immediate delle imprese (posta l'esigenza di controllare il potere contrattuale della manodopera e il costo relativo dei vari fattori immessi nel processo produttivo).
La prospettiva della teoria neoclassica è completamente diversa (Marshall 1890; Clark 1899; Pigou 1920). Infatti, il rispetto delle compatibilità economiche, garantito dal riequilibrio automatico attraverso il meccanismo domanda/offerta, diviene l'elemento fondamentale che consente al sistema di garantire una condizione di piena occupazione. Le situazioni di d. vengono considerate dai teorici neoclassici come il risultato di una scelta soggettiva, determinata dalla volontà del singolo lavoratore di non accettare il salario di equilibrio che si forma sul mercato. Questo livello salariale di equilibrio può peraltro subire momentanee deviazioni, dando luogo a situazioni di sovra o sottoccupazione, destinate comunque a scomparire ove il meccanismo domanda/offerta possa operare correttamente.
La critica keynesiana all'impostazione neoclassica riguarda proprio il postulato secondo cui la flessibilità salariale garantisce la piena o. (Keynes 1936). In realtà possono verificarsi casi in cui anche in presenza di flessibilità salariale non si realizza la piena occupazione. Questi casi si riferiscono, in primo luogo, all'esistenza di aspettative speculative che non consentono alla domanda globale di aumentare in modo sufficiente da assorbire la maggiore produzione che sarebbe determinata dall'aumento degli occupati (reso possibile da salari flessibili). In questa situazione, prevale pertanto una tendenza a non immettere sul mercato le risorse finanziarie disponibili. In secondo luogo esiste anche una situazione in cui l'eccesso della capacità produttiva (da intendersi come disponibilità di impianti inutilizzati) sarà tale da lasciare indifferenti le imprese anche nell'ipotesi di salari flessibili. L'importanza di questi casi nell'annullare la validità dell'ipotesi neoclassica è stata particolarmente evidenziata poiché essi appaiono "tutt'altro che irrilevanti al punto che è assai dubbio se possano essere considerati dei casi eccezionali o se non debbano piuttosto essere considerati come casi normali" (Graziani 1969, p. 330).
Il filone di analisi sviluppatosi successivamente sulla scia dell'impostazione keynesiana (in particolare grazie ai contributi di J. Robinson 1937 e M. Kalecki 1944) ha ulteriormente evidenziato l'esistenza di numerosi vincoli esterni al mercato del lavoro, tali da condizionare il raggiungimento della piena occupazione. In particolare, queste analisi hanno posto in luce i numerosi fattori che influenzano il livello degli investimenti, in quanto componenti della domanda effettiva determinanti nell'assicurare il livello di piena o. (data l'ipotesi keynesiana per cui i consumi non aumentano in maniera proporzionale all'aumento del reddito).
Un'importante implicazione di politica economica che discende da queste ipotesi va riferita al venir meno dell'assunto secondo cui il contenimento del costo del lavoro e temporanee riduzioni dell'o. potrebbero consentire di ricostruire i margini di profitto delle imprese e quindi, successivamente, creare le condizioni per ottenere un ripristino dei meccanismi di creazione di nuove opportunità di lavoro. Come ha notato J. Robinson, ciò equivarrebbe a legittimare uno spreco di risorse senza avere la garanzia di veder raggiunto un livello di piena utilizzazione della capacità produttiva, data l'inesistenza di meccanismi automatici di equilibrio.
L'individuazione della curva di Phillips (Phillips 1958; Lipsey 1960), negli anni Sessanta, ha indirizzato l'attenzione degli economisti verso la determinazione di quel tasso di d. che potesse essere definito come pieno impiego. Già gli economisti classici erano consapevoli che un minimo tasso di d. fosse inevitabile nel sistema, a causa dei ritardi negli aggiustamenti sia dal lato della domanda che dell'offerta alle varie vicende che si verificavano nel mercato (d. frizionale). Lo scambio (trade-off) introdotto dalla curva di Phillips tra inflazione e d. ha portato alla definizione di tasso naturale di d., come quel tasso che garantirebbe la stabilità dei prezzi (o la non accelerazione dell'inflazione). Il contributo più interessante è quello del NAIRU (Not Accelerating Inflation Rate of Unemployment, Layard e Nickell 1986).
Negli anni Settanta e Ottanta, infine, l'attenzione prevalente degli economisti si è rivolta verso l'indagine delle microcause per la determinazione di un salario superiore a quello di equilibrio. In questa direzione, le principali teorie sono:
1) la teoria dei contratti (impliciti o espliciti): i lavoratori avversi al rischio (e imprenditori neutrali al rischio), in presenza di rischio particolarmente elevato di d., offrirebbero lavoro soltanto a salario durevolmente elevato, con una spiccata preferenza a rimanere a lungo volontariamente disoccupati se il salario non viene considerato accettabile in tale prospettiva (Azariadis 1975) (vi sono spiegazioni che riconducono un tale risultato a comportamenti razionali della domanda di lavoro);
2) la teoria dei salari di efficienza (Akerloff e Yellen 1986): la produttività dei lavoratori cresce al crescere del salario ricevuto; il salario si attesta a quel livello in cui l'elasticità della produttività rispetto al salario diventa unitaria. Diverse sono le spiegazioni adottate per un tale comportamento: a) l'effetto incentivante sullo sforzo e l'attaccamento alle sorti dell'impresa; b) il ruolo punitivo della d. rappresentato dalla perdita di un salario elevato; c) la necessità di attirare (nei processi di selezione) i lavoratori più produttivi; d) la perdita di produttività legata all'abbandono di lavoratori migliori e alla sostituzione di questi con nuovi lavoratori da addestrare;
3) la teoria degli insider-outsider (Lindbeck e Snower 1984): i lavoratori occupati all'interno di un'impresa (insiders) sono poco attenti alle sorti dei lavoratori disoccupati (outsiders) e, sfruttando la conoscenza dei costi associati alla propria sostituzione, riescono a ottenere salari più elevati.
Su piani in parte diversi si collocano altre due teorie: la prima (sviluppata soprattutto negli anni Settanta) si richiama al comportamento dei lavoratori nella ricerca di lavoro (job search; Stigler 1970): si rifiuterebbero posti di lavoro se esiste la possibilità di trovare in futuro lavori che offrano salari più elevati. La d. si determinerebbe dall'attesa di occasioni di lavoro migliori (wait unemployment). La seconda (sviluppata soprattutto negli anni Ottanta), richiamando effetti di persistenza o isteresi associati alla durata della d., individua la dipendenza della d. dalla sua storia passata, spiegata innanzitutto in termini microeconomici facendo riferimento al comportamento degli operatori sul mercato del lavoro (Blanchard e Summers 1987). Vengono ripresi e approfonditi gli sviluppi teorici precedentemente analizzati.
Per es., nel caso della teoria dei salari di efficienza, si osserva come la d. di lunga durata venga spiegata in base alle strategie di selezione da parte delle imprese, le quali assumerebbero come presupposto che i disoccupati di lunga durata siano di qualità inferiore rispetto alla produttività media dei lavoratori già occupati. Mentre quando viene legata alla teoria della ricerca di lavoro, si assume che con l'aumento di durata della d. diventa minore la probabilità dei disoccupati di trovare un nuovo lavoro a causa del deterioramento del capitale umano da questi posseduto. La d. di lunga durata è in grado, infine, di modificare nel tempo il tasso naturale di disoccupazione.
Occupazione e disoccupazione nell'evoluzione dell'economia italiana. - Nell'immediato dopoguerra, in molti paesi, prevalsero politiche d'intervento keynesiano a sostegno della domanda effettiva in funzione della riduzione della d., obiettivo ritenuto prioritario. In Italia, invece, si è esitato a impostare politiche per il pieno impiego, in primo luogo a causa della scarsa propensione della classe politica verso azioni di pianificazione economica. D'altra parte, era ben presente la valutazione delle condizioni della d. nel nostro paese come fenomeno strutturale e non soltanto ciclico, al di là delle difficoltà postbelliche. Tuttavia le indicazioni delle terapie d'intervento apparivano varie e discordanti: dalla necessità di salvaguardare la stabilità monetaria e la formazione di risparmio per garantire investimenti, alle ipotesi di risolvere il problema ricorrendo all'emigrazione. Si profila peraltro fondamentale un intervento diretto dello stato non solo per la creazione di infrastrutture, ma anche per favorire l'espansione del capitale produttivo. Questi obiettivi nella realtà vennero perseguiti solo in maniera frammentaria, anche se gli interventi per la ricostruzione delle infrastrutture furono notevoli (considerate le condizioni di partenza).
Le caratteristiche strutturali del mercato del lavoro e del sistema economico italiano del secondo dopoguerra apparivano pertanto le seguenti: una difficoltà storica e strutturale nell'adeguare le occasioni di lavoro alla crescita della popolazione; un insufficiente sviluppo dell'apparato industriale per creare nuovi posti di lavoro dati i limiti produttivi e tecnologici; una tendenza all'esodo agricolo, già presente negli anni Trenta, a causa delle arretrate condizioni produttive e occupazionali del settore; un impatto momentaneo sull'o. degli investimenti in infrastrutture, senza la garanzia di un processo stabile di creazione di nuovi posti di lavoro; inoltre, il settore dei servizi non poteva espandersi dati i limiti di reddito ancora bassi per tutti gli anni Cinquanta.
L'andamento positivo dell'o. tra il 1945 e il 1951 non fu però sufficiente a far fronte alla dinamica demografica, perdurando inoltre diffuse condizioni di sottoccupazione. Tra l'altro, le stime sulla dimensione della d. apparivano incerte a causa dell'alternanza delle o. stabili con attività stagionali e occasionali. La prima metà degli anni Cinquanta fu caratterizzata da un intenso processo di accumulazione (in presenza di condizioni favorevoli al profitto) che ebbe però effetti ridotti sulla creazione di posti di lavoro. Un'inchiesta parlamentare condotta in quegli anni stimava un incremento annuale dell'o. pari al 3,6% nei settori extra-agricoli (percentuale che raggiungeva l'1,1% considerando anche gli effetti dell'esodo agricolo).
Un primo tentativo di porre in modo ufficiale l'obiettivo di aumento dell'o. con riferimento alla politica economica venne attuato con l'elaborazione dello Schema di sviluppo dell'occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-1964, promosso dall'allora ministro E. Vanoni. Lo Schema, che quantificava gli obiettivi di riduzione della d. e i nuovi posti di lavoro da creare, era ispirato a un'ottica keynesiana di sostegno della domanda aggregata e di sviluppo di politiche dal lato dell'offerta. Nello Schema, lo stato si poneva l'obiettivo di superare le strozzature che rendevano difficile lo sviluppo, orientando in senso estensivo gli investimenti e dando la prevalenza ai settori ad alta intensità di lavoro. La mancata realizzazione degli obiettivi contenuti nello Schema fu determinata dalla scelta di aprire verso mercati europei con conseguente soluzione del problema occupazionale attraverso l'emigrazione.
Dopo una fase di espansione (con conseguenti riflessi positivi sull'o.), l'economia italiana ha conosciuto difficoltà di sviluppo a partire dal 1963 con una conseguente riduzione degli occupati nell'industria, ma con un recupero successivo dopo la ripresa congiunturale del 1966. Nel complesso, peraltro, gli anni Sessanta sono stati caratterizzati da una netta diminuzione del numero dei disoccupati, pur in presenza di una crescita dei posti di lavoro inferiore al fabbisogno indotto dallo sviluppo demografico. In questa situazione lo sviluppo industriale, l'inurbamento, l'abbandono del settore agricolo, i movimenti migratori hanno avuto come effetto sensibile una caduta dei tassi di attività nettamente superiore a quella dei tassi di occupazione.
Queste tendenze trovano un punto di massimo all'inizio degli anni Settanta, periodo nel quale l'economia italiana registrò una sostanziale piena occupazione. L'elevato grado di contraddittorietà di questa piena o. (che risultava dagli effetti del passaggio da un'economia preindustriale a un'economia industriale) emerge a partire dagli anni successivi, in cui, accanto a un andamento costante della componente maschile sul mercato del lavoro, si manifesta un'ondata crescente di presenze femminili, in quantità non pienamente assorbibili dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Da questa molteplicità di cause è derivata, tra l'altro, l'eterogeneità delle tipologie della d., manifestatasi particolarmente nel corso degli anni Ottanta e la diversa distribuzione territoriale tra Nord e Sud di tali tipologie.
Diversi sono stati gli approcci analitici ai problemi dell'o. e della d. succedutisi a partire dagli anni Cinquanta. Inizialmente sono prevalse tesi tendenti a spiegare lo sviluppo dell'o. in Italia sulla base del modello ''dualista'' (elaborato dagli economisti W.A. Lewis e V. Lutz) per cui i livelli di o. venivano fatti dipendere dai rapporti tra settore arretrato e settore avanzato dell'economia. In questo schema, la possibilità di sviluppo stabile dell'o. era correlata alla disponibilità di forza lavoro a basso costo (garantita dal settore arretrato), il cui venir meno rendeva peraltro successivamente più difficile la possibilità di mantenere elevati saggi di sviluppo (esaurendosi i vantaggi del basso costo del lavoro resi possibili da una consistente offerta di manodopera proveniente dai settori arretrati).
Le difficoltà di sviluppo intervenute alla metà degli anni Settanta hanno condotto a una maggiore articolazione delle analisi sui problemi dell'o., con particolare riferimento ai problemi della caduta dei tassi di attività e allo sviluppo dell'economia sommersa. In particolare, la caduta dei tassi di attività agli inizi degli anni Settanta diede luogo a un dibattito molto articolato, dal momento che la riduzione di tale tasso non poteva essere dovuta a un ritiro massiccio delle forze di lavoro dal mercato. Le indagini sviluppate al fine di colmare le lacune delle statistiche ufficiali confermarono, da un lato, lo sviluppo di un mercato del lavoro irregolare con specifiche articolazioni interne (peraltro in rapporto funzionale ai settori centrali dell'economia) e, dall'altro, la sottovalutazione sia dell'offerta reale di lavoro che, più in generale, del PIL italiano, data l'incidenza di non poco rilievo dell'economia sommersa nella determinazione complessiva del reddito prodotto nel paese.
Gli indicatori statistici dell'occupazione e della disoccupazione in Italia. - I concetti di domanda e offerta di lavoro trovano corrispondenza nel sistema statistico italiano nei concetti di o. e forze di lavoro; ma è corrispondenza solo parziale. Infatti, in primo luogo, per poter associare alla domanda di lavoro il numero degli occupati occorre ipotizzare che vi sia costantemente un eccesso di offerta di lavoro. Ciò può non essere vero laddove si consideri che il lavoro non si presenta come una quantità omogenea, ma si stratifica in diversi mercati, alcuni dei quali − anche in periodi di d. − possono registrare un eccesso di domanda. In secondo luogo, come conseguenza della considerazione precedente, possono esistere posti di lavoro non occupati (per es. per carenza di lavoratori con determinate qualifiche) che indeboliscono il legame tra o. e domanda di lavoro. In terzo luogo infine, con l'indagine sulle forze di lavoro si può sovra o sottostimare l'offerta di lavoro a seconda delle definizioni adottate. Alla differenza fra forze di lavoro e o., costituita dalle persone in cerca di o. (o disoccupati in senso lato), corrisponde il concetto di eccesso di offerta.
Il punto da cui bisogna partire è la determinazione della popolazione potenzialmente interessata al mercato del lavoro. La popolazione italiana al 1° gennaio 1991 ammontava a 57.746.000 unità (secondo le vecchie stime ISTAT precedenti la revisione introdotta dai dati del nuovo censimento). Da questa popolazione occorre sottrarre i giovani che non hanno raggiunto una certa età (dal 1992, 15 anni; mentre precedentemente il limite era 14 anni) e gli anziani che hanno superato una determinata età (per es., i 70 anni). Con questa operazione si passa dalla popolazione complessiva alla popolazione in età di lavoro, che nel gennaio 1991 risultava di 43.619.000 unità.
Questa popolazione è oggetto di studio dell'indagine ISTAT sulle Forze di lavoro condotta con cadenza trimestrale (nei mesi di gennaio, aprile, luglio e ottobre). L'indagine campionaria è quindi soggetta a possibili errori statistici. Purtroppo la necessità di affinare gli strumenti statistici per correggere errori sistematici unitamente a quella di rendere i dati più coerenti con la realtà che cambia, fanno sì che sovente i dati rilevati in un periodo non siano esattamente confrontabili con quelli rilevati in un altro periodo.
La popolazione in età lavorativa viene a sua volta divisa tra forze di lavoro e non forze di lavoro. Le forze di lavoro, che comprendono, come accennato, gli occupati e le persone in cerca di occupazione, assommavano in Italia, nel 1991, a 24.245.000 unità. Il rapporto tra forze di lavoro e popolazione in età lavorativa si denomina tasso di partecipazione o di attività e definisce la frazione di popolazione potenzialmente attiva, direttamente interessata al mercato del lavoro. Nel 1991 il tasso di attività era in Italia del 55,5%.
Gli occupati vengono definiti come le persone in età di 14 anni e più, le quali: hanno dichiarato di possedere un'o., anche se nella settimana di riferimento non hanno svolto attività lavorativa per qualsiasi motivo; hanno indicato una condizione diversa da quella di occupato, ma hanno tuttavia effettuato almeno un'ora di lavoro nella settimana di riferimento. Nel 1991 il numero degli occupati era pari a 21.592.000 unità.
Il rapporto tra o. complessiva e popolazione in età lavorativa viene definito come tasso di occupazione. Esso in Italia era pari a 49,4%. La differenza tra tasso di partecipazione e tasso di o. fornisce una prima stima dell'incidenza della d. sull'intera popolazione in età di lavoro.
Le persone in cerca di o. comprendono: i disoccupati in senso stretto: coloro che avevano già un'o. e l'hanno persa e sono ora alla ricerca di una nuova o. o ricominceranno a lavorare (in proprio o alle dipendenze) in epoca successiva all'indagine; le persone in cerca di prima o., cioè coloro che non hanno mai lavorato e sono ora alla ricerca di un primo impiego o inizieranno a lavorare in epoca successiva all'indagine; le persone in condizione non professionale (perché casalinga, studente, pensionato, militare di leva o altro), che a una successiva domanda della stessa intervista hanno affermato di cercare lavoro.
In base alla definizione precedente, si osserva come le 2.653.000 persone in cerca di o. erano la risultante della somma di 468.000 disoccupati in senso stretto, 1.285.000 in cerca di prima occupazione e 899.000 ''altri''. Il rapporto tra persone in cerca di o. e forze di lavoro fornisce il tasso di disoccupazione. Nel 1991 esso era del 10,9%, ma con notevoli differenze territoriali e in relazione al sesso dei lavoratori. Le persone che non risultano occupate o alla ricerca di un'o. vengono definite come non forze di lavoro.
Un'altra importante fonte per la conoscenza delle condizioni relative al mercato del lavoro è quella costituita dalla contabilità nazionale. La contabilità nazionale si occupa principalmente della determinazione del reddito nazionale e delle sue componenti. Pertanto, si utilizza un concetto ad hoc dell'input di lavoro che non coincide con quello di o. (non vengono fornite quindi indicazioni sulla d.), esso consiste bensì nella quantità o nel volume di lavoro.
Le unità di lavoro rappresentano l'unità di misura del volume di lavoro impiegato nella produzione dei beni e servizi rientranti nelle stime del PIL in un determinato periodo di riferimento. Esse sono calcolate ipotizzando la parità (approssimativa) d'impegno lavorativo nei processi produttivi delle singole unità economiche. Più esplicitamente, le unità di lavoro sono stimate mediante coefficienti di riduzione che, nell'ambito di ciascuna branca, riportano le posizioni lavorative a tempo parziale siano esse principali, uniche o secondarie, alla stessa quantità di lavoro rilevata per le posizioni lavorative a tempo pieno (in pratica si tratta di un concetto di occupati equivalenti).
Il coefficiente di riduzione per ciascuna branca dell'industria e dei servizi è pari al rapporto tra le ore effettivamente lavorate da un occupato che svolge attività a tempo parziale in qualsiasi posizione lavorativa (principale o secondaria) e le ore effettivamente lavorate da un lavoratore dichiaratosi occupato, come risulta nell'indagine sulle forze di lavoro.
Le posizioni lavorative si distinguono in: regolari, irregolari, di occupati non dichiaratisi, di stranieri non residenti, di doppio lavoro. Le prime quattro categorie riguardano le attività principali o uniche delle persone incluse nell'o. interna. Per o. interna s'intende l'insieme delle persone, sia residenti in senso giuridico che non residenti, occupate presso unità produttive residenti sul territorio economico del paese (includendo anche, per es., i militari di leva). Questo concetto differisce da quello adottato dall'indagine sulle forze di lavoro, che si avvicina maggiormente a quello di o. nazionale.
La variazione degli stock degli occupati e dei disoccupati (risultanti dalle analisi considerate) è la risultante dei flussi di popolazione da uno stato all'altro ed è rappresentabile dallo schema illustrato in figura.
L'analisi di stock è la diretta conseguenza dell'evoluzione dei flussi in entrata e in uscita dal mercato del lavoro. Negli anni Ottanta l'offerta di lavoro aumentava di circa 700.000 unità all'anno, mentre le uscite definitive (pensionamenti) ammontavano a circa 500.000 unità. Lo squilibrio tra entrate e uscite ammontava a circa 200.000 unità di forze di lavoro. Per rimanere in equilibrio il mercato del lavoro italiano avrebbe dovuto creare dunque 200.000 posti di lavoro aggiuntivi, così da assorbire l'eccesso di offerta (generazionale). In realtà negli anni Ottanta si sono creati mediamente 100.000 posti di lavoro aggiuntivi all'anno, per cui il tasso di d. si è incrementato dal 7,6% all'11,0% dal 1980 al 1990, anche se il numero degli occupati è aumentato di circa 1 milione di unità. A livello settoriale questo milione di posti di lavoro aggiuntivi deriva dalla crescita nel decennio di 2,5 milioni di posti di lavoro nel terziario, dalla contrazione di 1 milione nel settore manifatturiero e di 500.000 nell'agricoltura.
All'inizio degli anni Novanta la contabilità precedentemente esposta subisce profondi cambiamenti strutturali: ha termine la crescita demografica (baby-boom), per cui la pressione dell'offerta di lavoro si riduce di 50.000 unità, passando da 700 a 650.000 all'anno; mentre le uscite definitive aumentano di 50.000 unità, passando da 500 a 550.000 all'anno. Ne deriva che lo squilibrio generazionale tra entrate e uscite si dimezza (da 200.000 a 100.000 unità).
Tale squilibrio tende però a zero (o addirittura diventa positivo, vale a dire prevalgono le uscite sulle entrate) quando la congiuntura peggiora (effetto scoraggiamento) e il numero dei nuovi posti di lavoro creati diminuisce fino ad arrivare a valori prossimi allo zero (o sotto zero, cioè se si verificano perdite nette di posti di lavoro totali). Questa tendenza riguarda però solamente il Centro-Nord, essendo il Sud ancora in una condizione strutturale di eccesso di offerta (probabilmente per gran parte degli anni Novanta).
Ciò spiega perché nei primi anni Novanta, pur in presenza di una crescita media dei posti di lavoro aggiuntivi non particolarmente rilevante (+150.000 all'anno tra il 1990 e il 1991) si sia prodotto un sensibile calo del tasso di d., con un livello mai raggiunto nel livello di occupati (21.600.000).
Nel 1990, in corrispondenza anche con la crisi del Golfo, il ciclo economico per tutte le economie industrializzate s'inverte. Il mercato del lavoro italiano risente del rallentamento dell'attività economica con ritardo, tanto che si può sostenere che le prime serie conseguenze si avvertano solo nella seconda metà del 1992.
Infatti, i risultati della prima e della seconda indagine ISTAT sulle forze di lavoro del 1992 mostrano la prosecuzione del trend occupazionale manifestatosi negli anni immediatamente precedenti. Soltanto con la terza indagine vengono evidenziati i primi dati di un'inversione di tendenza. Infine, i risultati della rilevazione di ottobre 1992 manifestano in pieno l'inversione di tendenza già preannunciata dai dati di luglio.
Purtroppo, il momento in cui si è verificata la svolta (estate-autunno) ha coinciso con quello della crisi di aggiornamento del maggiore indicatore statistico italiano in materia: l'indagine sulle forze di lavoro. Proprio per il sovrapporsi degli effetti dei cambiamenti che sono intervenuti nell'indagine, non è stato facile interpretarne (da subito) i risultati, per accertare la reale entità dei fenomeni riguardanti l'occupazione.
Le nuove regole dell'indagine hanno avuto, tra l'altro, conseguenze sul computo delle persone in cerca di occupazione. Infatti, a seconda del criterio impiegato nel definirle, esse sono risultate 420.000 in meno (norme nuove) oppure 560.000 in più (norme vecchie). L'ISTAT per consentire la disponibilità di una media annua per il 1992, ha eseguito una rielaborazione dei dati dell'indagine di ottobre per adeguarli, nei limiti del possibile, a quelli delle precedenti rilevazioni. Dalla media annua così ottenuta si ricava che gli occupati in complesso nel 1992 sono 21.460.000, con una flessione, rispetto al 1991, di 135.000 unità. La media delle persone in cerca di o. è di 2.800.000, con un incremento correlato alla diminuzione di occupati − 145.000 − che porta il tasso relativo dal 10,9% del 1991 all'11,5% del 1992.
A seguito della diffusione dei dati del censimento sulla popolazione del 1991, che mostrano come la popolazione italiana sia inferiore di oltre un milione di unità rispetto a quella stimata dall'ISTAT nell'indagine sulle forze di lavoro, dalla prima rilevazione del 1993 l'ISTAT provvede a utilizzare i nuovi valori di riporto dal dato campionario a quello relativo alla popolazione. Ciò determinerà per alcune voci (anche a seguito della piena effettività delle modificazioni definitorie precedentemente richiamate) cambiamenti sensibili che rendono quella che è iniziata con il 1993 una nuova serie, decisamente non confrontabile con quella conclusa con il 1992.
La fine della cattiva congiuntura, in ogni caso, vedrà il mercato del lavoro italiano profondamente trasformato. Tra i principali cambiamenti che è prevedibile si verificheranno, si possono segnalare il notevole ridimensionamento della grande impresa nel complesso dell'industria, e la soppressione (o sommersione) di una gran quantità di lavori marginali nel settore dei servizi.
Bibl.: A. Smith, An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, Londra 1776; D. Ricardo, Principles of political economy and taxation, ivi 1817; T.R. Malthus, Principles of political economy, ivi 1821; J.S. Mill, Principles of political economy, with some of their applications to social philosophy, 2 voll., ivi 1848; K. Marx, Das Kapital, i, Amburgo 1867; A. Marshall, Principles of economics, Londra 1890; J.B. Clark, The distribution of wealth, New York-Londra 1899; A.C. Pigou, The economics of welfare, Londra 1920; J.M. Keynes, The general theory of employment, interest and money, ivi 1936; J. Robinson, Introduction to the theory of employment, ivi 1937; M. Kalecki, Three ways to full employment, in AA.VV., The economics of full employment, Oxford 1944; A.W. Phillips, The relation between unemployment and the rate of change of money wage rates in United Kingdom, in Economica, 1958; R.L. Lipsey, The relation between unemployment and the rate of change of money wage rates. A further analysis, ibid., 1960; A. Graziani, Macroeconomia, Napoli 1969; G.J. Stigler, Information in the labour market, in Journal of Political Economy, 1970; C. Azariadis, Implicit contracts and underemployment equilibria, ibid., 1975; A. Lindbeck, D. Snower, Involuntary unemployment as an insider-outsider dilemma, in Seminar paper, 282 (1984), Institute for International Economics Studies, Stoccolma 1984; Efficiency wage models for the labor market, a cura di G.A. Akerloff e J.L. Yellen, Cambridge 1986; R. Layard, S. Nickell, Unemployment in Britain, in Economica, 1986; O. Blanchard, L. Summers, Hysteresis in unemployment, in European Economic Review, 1987; Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, Rapporto '91-'92. Lavoro e politiche dell'occupazione in Italia, Roma 1993.
Occupazione giovanile. - Legislazione. - La nuova fase di riorganizzazione del mercato del lavoro, caratterizzata dall'intento di favorire la crescita produttiva e dall'esigenza del mantenimento dei grandi equilibri economici, ha portato a riconsiderare gli effetti determinati dai rapidi mutamenti tecnologici sul fenomeno o.-d.: il problema centrale dell'avviamento al lavoro è diventato pertanto la qualificazione e la riqualificazione professionale cui è connessa la necessità che la ''formazione'' adegui la cultura scolare (licenziati, diplomati, laureati) alla cultura specificamente richiesta dai settori produttivi, operanti nei vari rami (agricoltura, industria, commercio, con particolare riferimento al settore del turismo), e che siano forniti principi centrali e norme generali, da cui si possano poi articolare le soluzioni per le diverse situazioni ambientali.
Con l. 1° giugno 1977 n. 285, sono stati presi sostanzialmente i primi provvedimenti globali per incentivare l'impiego di giovani in attività agricole, industriali, artigiane e di servizio, svolte da imprese individuali e associate, cooperative e loro consorzi ed enti pubblici economici, con programmi regionali di lavoro produttivo mirato e finanziato con contributi, trattamenti d'integrazione salariale, assegni e sgravi fiscali, e con la promozione di piani di formazione professionale finalizzati alla prospettiva generale di sviluppo. Sono poi seguite, fra l'altro, le l. 4 agosto 1978 n. 479; 19 dicembre 1984 n. 863; 11 maggio 1986 n. 113; 3 novembre 1987 n. 452; 20 maggio 1988 n. 160; 18 gennaio 1989 n. 14. Le Regioni, dal canto loro, hanno cominciato a dare disposizioni in materia: la Regione Lazio, per es., con la l. 25 febbraio 1992 n. 23, ha emanato norme circa l'ordinamento delle formazioni professionali, ricomprendendovi le politiche formativo-occupazionali (finalità, modalità di programmazione, piano pluriennale, piano annuale, funzioni e organi, orientamenti professionali, strutture, servizi e diritti degli allievi, assicurazioni, ecc.) con la specificazione delle tipologie delle attività formative (art. 9) che possono essere derogate ove adeguatamente documentate, per favorire il progresso scientifico e tecnologico (art. 40). L'accertamento dei requisiti per l'accesso ai corsi, ottenuto attraverso prove attitudinali, è deferito a istituti universitari o a enti specializzati nella ricerca e selezione del personale. Sono previste opportune forme di collegamento con il sistema scolastico e con il sistema produttivo. Al termine dei corsi vengono rilasciati attestati di base con le qualifiche, o le specializzazioni valide ai fini dell'avviamento al lavoro e dell'inquadramento aziendale. Gli interventi formativi devono essere predisposti e attuati in modo da poter usufruire dell'eventuale contributo finanziario previsto dalle decisioni e dai regolamenti di gestione dei fondi CEE.
Commissioni regionali e circoscrizionali. - Organi di programmazione, direzione e controllo della nuova politica del lavoro sono le commissioni regionali. Esse sono affiancate dalle commissioni circoscrizionali, con cui si tengono in rapporto, in modo che le previste convenzioni fra imprese, commissioni regionali e circoscrizionali consentano l'adeguamento dei piani di sviluppo occupazionale alle esigenze delle diverse situazioni locali. A questo scopo è altresì consentito che agli avviamenti per particolari insediamenti produttivi concorrano lavoratori iscritti nelle liste di altre circoscrizioni. Esperimenti pilota, a cura di una ''Agenzia per l'impiego'', completano il quadro generale di questi provvedimenti.
Contratti di ''formazione e lavoro'' e apprendistato. - Già la legislazione ordinaria (specialmente la l. 19 gennaio 1955 n. 25 e l'art. 21 della l. 28 febbraio 1987) aveva provveduto a curare l'applicazione delle norme codicistiche (artt. 2130-2134 del cod. civ.) alla vicina materia dell'apprendistato. La l. 19 dicembre 1984 n. 863 ha dato poi facoltà al datore di lavoro di assumere nominativamente, con la concessione di un contributo e di sgravi fiscali, giovani fra i 15 e i 29 anni previa specificazione del programma formativo di lavoro, il cui esito, attestato sul libretto di lavoro alla fine dell'esperimento, viene comunicato all'ufficio di collocamento territorialmente competente.
I contratti di formazione e lavoro si presentano, pertanto, come i nuovi strumenti del sistema occupazionale in campo giovanile. A essi si applicano le disposizioni legislative che disciplinano i rapporti di lavoro subordinato, in quanto non derogate. I tempi e le modalità di svolgimento del contratto di formazione e lavoro sono stabiliti dai progetti predisposti dagli enti pubblici economici, dalle imprese e loro consorzi, ovvero, anche a livello locale, dalle loro organizzazioni nazionali. Con l. 11 maggio 1986 n. 113 è prevista l'attuazione di un piano straordinario, per l'inserimento in attività lavorative di 40.000 giovani (18-29 anni), cui collaborano enti e istituti di ricerca a carattere nazionale e le università.
Immissione in ruolo degli assegnisti. - Per i titolari degli assegni di formazione professionale, conferiti a seguito dei bandi emanati dal presidente del Consiglio nazionale delle ricerche e dall'Istituto Mario Negri di Milano, ai sensi della l. 1° giugno 1977 n. 285, sono stati indetti, con l. 18 gennaio 1989 n. 14, esami d'idoneità distintamente per ciascun settore di specializzazione. L'esame consiste nella valutazione dei titoli, con particolare riguardo a quelli di servizio acquisiti durante l'esecuzione del programma, nonché in una prova scritta e pratica, integrata da colloquio. Il superamento dell'esame comporta l'immissione − sulla base delle graduatorie stilate dalle commissioni esaminatrici e approvate dalle amministrazioni interessate − nei ruoli delle amministrazioni medesime. Il mancato superamento dell'esame comporta la cessazione, a tutti gli effetti, del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione.
Imprenditorialità giovanile. - Misure straordinarie per la promozione e lo sviluppo dell'imprenditorialità giovanile, nel Mezzogiorno, sono state prese con l. 28 febbraio 1986 n. 44: alle cooperative di produzione e lavoro nonché alle società costituite prevalentemente di giovani tra i 18 e i 29 anni, che si propongano di realizzare progetti per la produzione di beni nei settori dell'agricoltura, dell'artigianato e dell'industria, vengono concesse agevolazioni sotto forma di attività di formazione e qualificazione professionale, funzionali alla realizzazione del progetto; di contributi in conto capitale per le spese d'impianto e di attrezzatura nella misura massima del 60%; di mutui agevolati concessi dalla Cassa depositi e prestiti; di contributi decrescenti per la durata di un triennio per le spese di gestione effettivamente sostenute e documentate. Assistenza tecnica nella fase di progettazione e di avvio delle iniziative è demandata a soggetti pubblici e privati.
Bibl.: F. Balladore, Provvedimenti a sostegno dell'occupazione. Il contratto di formazione e lavoro per i giovani, in Giurisprudenza Piemontese, 1984, p. 768; S. Centofanti, Il contratto di formazione e lavoro nella l. 19 dicembre 1984 n. 863, in Riv. Italiana del Lavoro, 1985, p. 302; G. Persico, Il contratto di formazione e lavoro, in Lavoro e Previdenza Sociale Oggi, 1985, p. 2075; G.G. Balandi, Il nuovo contratto di formazione e lavoro, in Riv. Italiana del Lavoro, 1986, p. 38; E. Conte, Brevi note sulla configurazione giuridica del contratto di formazione e lavoro, in Riv. Giuridica del Lavoro, 1 (1986), p. 111; C. Filadoro, Alcuni aspetti della legge 863/84 sui contratti di formazione e lavoro, in Lavoro e Previdenza Sociale Oggi, 1986, p. 2350; L. Menghini, Contratti di formazione: l'approvazione dei progetti, in Diritto Pubblico del Lavoro, 1986, p. 1675; A. Minervini, La professionalità del lavoratore nell'impresa, Padova 1986; A. Diotallevi, G. Falcucci, Contratti di formazione e lavoro, Roma 1987; G. Mannaccio, Il contratto di formazione nell'artigianato, in Diritto Pubblico del Lavoro, 1987, p. 1085; L. Mele, Il contratto di formazione e lavoro, Milano 1987; L. Tosato, Apprendistato o contratti di formazione e lavoro?, ivi 1987; L. Mele, Il contratto di formazione e lavoro: piano straordinario per l'occupazione giovanile. Commento sistematico, ivi 1988; D. Micco, P. Reggio, Fuori del gioco. Formazione e lavoro per giovani ''drop out'', ivi 1989; C. Filadoro, S. Ugliano, Il contratto di formazione e lavoro, ivi 1992.