OCEANIA
(XXV, p. 139; App. I, p. 903; II, II, p. 434; III, II, p. 294)
Va premesso che l'estensione dell'O. viene intesa in vario modo, a seconda degli autori. In senso ampio come O. si intende lo spazio comprendente l'Australia, la Nuova Zelanda e tutte le isole e arcipelaghi della Melanesia, della Micronesia e della Polinesia. In senso stretto, il termine O. viene riferito al Pacifico, isole e arcipelaghi compresi, con esclusione dell'Australia, o addirittura anche della Nuova Zelanda. In questa sede l'O. viene considerata in senso stretto, poiché Australia e Nuova Zelanda sono prese in esame in apposite voci (v. in questa Appendice). Terminata la seconda guerra mondiale, le popolazioni dell'O., decimate da malattie importate da colonizzatori, da sofferenze e da genocidi, hanno intrapreso il lungo e faticoso cammino dell'affrancamento politico e della conquista dell'indipendenza. Gran parte delle comunità lo ha concluso molto tardi, nella seconda metà degli anni Settanta, e parecchie sono tuttora in condizioni coloniali. Il peso più grande della condizione coloniale è stato sopportato dopo la seconda guerra mondiale, quando la corsa agli armamenti nucleari indusse Stati Uniti, Regno Unito e Francia a dar luogo a un'impressionante serie di esplosioni in atolli e in isole oceaniche.
Dapprima si fecero esplodere bombe atomiche (le cosiddette bombe A), basate sulla fissione nucleare, e poi bombe basate sulla fusione nucleare (le cosiddette bombe H). La prima serie di esplosioni nucleari ebbe inizio, a opera degli Stati Uniti, l'anno successivo alla fine del secondo conflitto mondiale. Ne fu sede l'atollo di Bikini, nelle Marshall. Sempre nelle Marshall, nell'atollo di Eniwetok, venne fatta esplodere, nel 1952, la prima bomba H. Essa inaugurò gli esperimenti con bombe termonucleari sempre più potenti: due anni dopo ne venne fatta esplodere una con capacità distruttiva pari a 750 volte quella dell'ordigno sganciato su Hiroshima. Nel 1957 gli Inglesi avviarono i loro esperimenti nell'atollo di Christmas (Kiritimati), nelle Line Islands oggi parte dello stato di Kiribati. Nel frattempo si consolidò un movimento di opinione contrario agli esperimenti, al quale aderirono, tra gli altri, A. Schweitzer e il Consiglio Mondiale delle Chiese. Tuttavia, prima che le esplosioni statunitensi cessassero (1962), anche la Francia aveva avviato propri esperimenti.
Queste vicende ebbero luogo mentre l'area del Pacifico era sconvolta da profonde trasformazioni politiche. Ne furono protagonisti Australia, Nuova Zelanda e Regno Unito, che condussero una sorta di politica pilotata di decolonizzazione. Questo corso ebbe inizio negli anni Sessanta, dopo che (1959) le Hawaii furono incluse nella Confederazione degli Stati Uniti. Nel 1962 le Samoa occidentali, già affidate in amministrazione fiduciaria alla Nuova Zelanda, acquistarono l'indipendenza, pur restando nel Commonwealth britannico: presero il nome di Samoa i Sisifo. Tre anni dopo fu la volta delle Isole Cook, che erano state annesse alla Nuova Zelanda all'inizio del 20° secolo: ottennero il pieno autogoverno con una libera associazione alla Nuova Zelanda. Lo stesso accadde contemporaneamente anche per l'atollo di Niue, ubicato poco a est delle Isole Tonga: si rese indipendente e si associò alla Nuova Zelanda. Nel 1968 l'Isola di Nauru divenne repubblica indipendente nell'ambito del Commonwealth britannico. Da quel momento le cadenze dell'affrancamento politico si sono fatte serrate. Nel 1970 le Isole Figi divennero indipendenti, anch'esse nell'ambito del Commonwealth; lo stesso accadde per le Tonga. Nel 1975 venne costituito, sempre in connessione con il Commonwealth, lo stato di Papua Nuova Guinea. Nel 1978 le Salomone, le Marianne e le Ellice divennero indipendenti; le ultime presero il nome di Tuvalu. Nel 1979 le Gilbert, l'Isola di Ocean, le Isole della Fenice e le Line Islands costituirono uno stato indipendente, che prese il nome di Kiribati. Nel 1980 le Nuove Ebridi acquisirono l'indipendenza con il nome di Vanuatu. Nel 1990 le Marshall, già affidate in amministrazione fiduciaria agli Stati Uniti (1947), furono dichiarate indipendenti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e si costituirono in repubblica. Nello stesso anno, analogo riconoscimento hanno avuto le altre isole del Pacifico, già attribuite (1947) agli Stati Uniti in amministrazione fiduciaria: in base a una decisione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, sono stati costituiti gli Stati Federati di Micronesia, che comprendono quattro stati (Ponhpei, Chuuk, Kosrae e Yap).
Il risultato d'assieme di questo processo si può cogliere attraverso alcuni indicatori fondamentali. Alla fine degli anni Sessanta i paesi indipendenti costituivano l'89% del territorio dell'Australia e dell'O. e accoglievano il 74,3% della loro popolazione, cioè 14 milioni di abitanti. Dieci anni dopo, quando il processo si era quasi concluso, il territorio dei paesi indipendenti era salito al 94,6% e la popolazione all'89,1%, corrispondente a 21 milioni di abitanti. Le trasformazioni politiche avevano provocato la scomparsa della dominazione coloniale del Regno Unito. I paesi che in passato erano legati al Commonwealth a causa dei loro rapporti di sudditanza nei riguardi della Gran Bretagna, ora vi restavano legati soltanto da vincoli di solidarietà. Anche la presenza australiana era praticamente scomparsa. All'inizio degli anni Novanta le aree dell'O. che restavano in condizioni coloniali erano così costituite: poco più di 200 km2 (Norfolk e Macquarie), quasi disabitati, erano posseduti dall'Australia; la Nuova Zelanda aveva le isole Cook, gli isolotti delle Tokelau e l'isolotto di Niue, in tutto circa 500 km2 con 23.000 abitanti; la Francia, invece, disponeva della Nuova Caledonia e delle dipendenze, di Wallis e Futuna e della Polinesia, in tutto oltre 23.000 km2 con oltre 380.000 abitanti; gli Stati Uniti possedevano numerose isole e atolli, da Guam a Midway, dalle Samoa Americane alle Marianne, in tutto meno di 20.000 km2 con 1,3 milioni di abitanti; l'Indonesia possedeva l'Irian Jaya; il Chile aveva sovranità su alcuni isolotti.
Dalla seconda metà degli anni Settanta l'O. è diventata il teatro della corsa all'appropriazione del mare da parte degli stati costieri, insulari e dell'arcipelago. Questo evento, che non ha riscontro storico, è stato provocato − o, almeno, reso possibile − dall'orientamento maturato nella terza Conferenza delle Nazioni Unite sul Diritto del mare, iniziata nel 1974 e conclusa nel 1983 (v. anche atlantico, oceano, in questa Appendice). In quel consesso fu definito l'istituto della ''zona economica esclusiva''. Con questa espressione s'intende una striscia di mare, estesa 200 miglia nautiche dalle linee di base, nella quale lo stato − costiero, insulare, arcipelagico − esercita giurisdizione molto ampia, potendo sfruttare le risorse della massa acquea, del fondo e del sottofondo.
Questo istituto è adatto per far rientrare spazi marini molto estesi nella giurisdizione di piccoli stati arcipelagici. Ciò è dovuto al fatto che l'estensione si misura partendo dalle linee di base. Trattandosi per lo più di stati arcipelagici, le linee di base sono tracciate collegando le isole più lontane tra loro, in modo da ottenere un poligono che inglobi l'intero territorio dello stato. Questo poligono comprende, nel suo interno, estesi spazi marini, che diventano acque interne; al suo esterno si aggiunge una fascia di 200 miglia nautiche. I risultati ottenuti da parte di stati arcipelagici che già hanno proclamato la zona economica esclusiva sono stupefacenti: Nuova Caledonia, Samoa Americane, Wallis e Futuna, per es., hanno moltiplicato di molte volte l'estensione dello spazio in cui esercitano giurisdizione: in queste vaste distese di mare possono sfruttare le risorse biologiche, i depositi di minerali del fondo, e così via. Allorché tutti gli stati arcipelagici dell'O. avranno proclamato le zone economiche esclusive, una parte non trascurabile di questo oceano rientrerà nelle giurisdizioni nazionali.
A compiere operazioni del genere hanno indotto anche scoperte relativamente recenti, grazie alle quali sono stati identificati immensi depositi di noduli polimetallici su fondali compresi tra 4000 e 6000 m (v. oceanografia, in questa Appendice). Questi noduli, del diametro compreso tra 2÷3 cm e 10 cm, sono composti da metalli allo stato puro, tra i quali prevale il manganese. Si tratta di quantità ben superiori a quelle esistenti in tutti i giacimenti della terraferma. Stati Uniti, Giappone, Francia e Regno Unito, attraverso consorzi cui partecipa anche l'Italia, stanno mettendo a punto tecnologie − molto complesse, anche per prevenire danni ambientali − per raccogliere questi preziosi noduli dal fondo del Pacifico. Naturalmente sono operazioni molto costose, sicché per avviarle si attende che vi siano condizioni di convenienza economica. Le prime raccolte avverranno probabilmente nella Clarion Clipperton Area, situata nel Pacifico settentrionale, entro la zona economica esclusiva degli Stati Uniti, e sui fondali della Polinesia francese.
Mentre il Pacifico sta diventando − come fu prefigurato da F. Braudel − il cuore del mondo postindustriale, l'O. viene coinvolta a pieno campo dallo sviluppo del turismo internazionale, reso possibile dalla caduta delle tariffe aeree e dall'organizzazione di viaggi ''tutto compreso''. Honolulu, Suva (Figi), Papeete (Polinesia Francese) sono diventati importanti nodi delle grandi linee aeree, che fanno capo agli aeroporti del Sud Est asiatico, in particolare del Giappone, a quelli dell'Australia, della Nuova Zelanda e degli Stati Uniti. Da queste isole, una fitta rete di collegamenti aerei a breve e medio raggio copre tutto il Pacifico, mentre si vanno diffondendo i collegamenti marittimi, soprattutto quelli impostati sulla navigazione crocieristica e sulla pesca sportiva. In questa fase, i rischi che corre lo sterminato universo insulare dell'O. riguardano proprio le alterazioni ambientali provocate dallo sviluppo di un turismo di massa, poco rispettoso dell'ambiente e delle culture. Dopo aver subito, soprattutto nel 19° secolo e nella prima parte del 20°, il depredamento di importanti risorse naturali − come il caucciù − e altri danni durante e dopo il secondo conflitto mondiale, molte isole stanno andando incontro agli inconvenienti connaturati a una crescita economica rivolta troppo al profitto, senza un'appropriata tutela delle risorse ambientali di eccezionale valore, che costituiscono uno dei più affascinanti patrimoni del pianeta.
Queste prospettive interessano più la Micronesia e la Polinesia che la Melanesia. In questa regione, costituita da isole con caratteri di continentalità, la vastità dei territori emersi e la natura montuosa di gran parte di essi ha dato luogo a modelli economici piuttosto complessi. Ne è esempio tipico la Nuova Guinea. Qui, terminato il periodo dello sfruttamento del caucciù, è rimasta un'agricoltura povera, con carattere di sussistenza. Le miniere di rame e di oro, invece, sono diventate una risorsa appetibile, che attrae investimenti dall'estero. Lo sfruttamento si sta intensificando. La copertura forestale è immensa, tanto che alcune aree restano ancora inesplorate. In questo paese è possibile che, nel medio e lungo termine, accada ciò che, nell'epoca attuale, sta accadendo nell'area amazzonica: allo sfruttamento minerario potrebbe far seguito il depauperamento della foresta pluviale.
Ecco un conciso panorama delle tendenze delle economie delle maggiori unità politiche dell'Oceania.
Melanesia. − Nell'economia delle Figi le tradizionali attività agricole (estesa agricoltura di sussistenza, agricoltura commerciale fondata sulle piantagioni di frutta tropicale e di canna da zucchero) sono affiancate da turismo in crescita, dallo sfruttamento delle miniere aurifere e dalla piccola industria. La Nuova Caledonia ha le radici economiche nelle grandi disponibilità minerarie (possiede un quinto delle risorse mondiali di nichel ed è ricca di minerali di cromo e cobalto), che esporta prevalentemente in Francia. Scarse le prospettive per sviluppare l'agricoltura commerciale. Vanuatu prosegue nello sfruttamento delle piantagioni di cotone, copra, caffè e frutta tropicale, cui si affianca una considerevole attività di pesca.
Micronesia. − Guam trae beneficio dalle tradizionali funzioni di grande base navale statunitense. Infatti, il turismo costituisce la risorsa fondamentale, cui si aggiungono piccole attività manifatturiere, mentre l'agricoltura non sembra avere buone prospettive. Conseguita l'indipendenza, il Kiribati ha continuato nello sfruttamento delle piantagioni di copra e della pesca, cui si aggiungono i giacimenti di fosfati. Il turismo ha assunto importanza crescente. Anche per le Marshall, che si avvalgono di aiuti degli Stati Uniti, le piantagioni di copra continuano a essere la fondamentale base economica. Gli Stati Federati di Micronesia sono sorti con un'economia articolata, nella quale le piantagioni (frutta tropicale), le coltivazioni agricole (patate) e l'allevamento si aggiungono a una redditizia attività di pesca. Notevole è lo sviluppo del trasporto aereo e dell'attività portuale. Nauru deve cercare sbocchi alternativi allo sfruttamento dei giacimenti di fosfati, sua risorsa basilare, il cui esaurimento è previsto per la fine del secolo. Il turismo potrebbe costituire una buona via d'uscita anche perché l'isola è ben servita da mezzi di trasporto.
Polinesia. − Anche grazie agli aiuti degli Stati Uniti, le Samoa possono contare su una base economica diversificata, in cui la pesca (tonno), le piantagioni e il turismo sono gli elementi portanti. Il turismo continua a essere la risorsa esclusiva delle Isole Cook. La Polinesia francese è senza dubbio una delle aree con economia più articolata: vaniglia, copra e pesca da un lato, trasporti e turismo dall'altro, costituiscono non soltanto le sue basi, ma anche gli elementi attraverso cui questo vasto stato arcipelagico mantiene i rapporti con la Francia. Sui fondali oceanici esistono vasti depositi di noduli polimetallici, che costituiscono − insieme all'importanza strategica − il motivo dell'interesse francese sull'area. Tonga sta cercando, con un certo successo, di affiancare la piccola industria (beni strumentali e pezzi di ricambio) alle piantagioni. Analoga strategia è perseguita dalle Samoa.
L'area insulare che, per livello organizzativo, domina la scena del Pacifico centrale e settentrionale è quella delle Hawaii. L'annessione agli Stati Uniti, avvenuta nel 1959, ha contribuito a condurre la comunità che vi risiede, costituita da circa un milione di abitanti, su standard di vita rari a trovarsi nel Pacifico. Malgrado sia ricco di prodotti tropicali − canna da zucchero e ananas − e nelle sue acque abbondino le risorse ittiche, questo arcipelago sfrutta due fattori esogeni. Il primo è costituito dalle attività militari, imperniate sulla base di Pearl Harbour e che hanno provocato lo sviluppo di una fitta rete di servizi e di attività complementari e la creazione di vaste aree residenziali. Ne è conseguito l'allestimento di importanti funzioni terziarie avanzate: all'università di Honolulu, una delle più note degli Stati Uniti, fanno corona importanti centri di ricerca scientifica. Il secondo fattore è costituito dal turismo: ai flussi dagli Stati Uniti si sono aggiunte importanti correnti dal Giappone e dall'Europa, sicché il movimento ha raggiunto 6,6 milioni di persone l'anno.
Innalzamento del livello del mare. − Gli anni Novanta e seguenti saranno caratterizzati da una crescente attenzione alle possibili implicazioni che l'innalzamento del livello del mare, causato dall'aumento della temperatura atmosferica, avrà sulle isole e sugli arcipelaghi del Pacifico. Infatti, sono sufficienti anche modesti innalzamenti per provocare l'invasione di estese spiagge, se non addirittura la sommersione di isole. L'elevata frequenza con cui, dagli anni Ottanta, si sono verificate tempeste e onde anomale, insieme all'accelerazione dell'erosione costiera, hanno accresciuto i motivi di preoccupazione, perché sembrano essere segni premonitori di variazioni del livello del mare. All'interno dell'Intergovernmental Panel on Climate Change, organizzazione internazionale costituita per studiare misure atte a fronteggiare l'evoluzione climatica, sono stati compiuti studi previsionali per numerose aree dell'Oceania. In alcune isole della Polinesia francese, come Morea, è stato raccomandato di adottare misure atte a fronteggiare un innalzamento previsto fino a un metro nei prossimi cinquant'anni; in altri arcipelaghi, come le Marshall, si prevede di dover far fronte a un innalzamento di 30 cm. Naturalmente la materia richiede studi molto attenti per determinare in quale misura si produrranno, a scala regionale e locale, gli effetti dell'aumento globale delle temperature e dell'innalzamento del livello del mare. Molte indicazioni proverranno dalle rilevazioni tramite satelliti.
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