INDIANO, OCEANO
(XIX, p. 85; App. II, II, p. 21; App. III, I, p. 859)
Per la sua marginalità rispetto ai grandi centri di ricerca e soprattutto per l'importanza strategica relativamente limitata rispetto agli altri bacini oceanici, l'Oceano I. non è stato punto focale dei grandi progressi compiuti dalla ricerca oceanografica negli ultimi decenni. Nondimeno, il quadro delle conoscenze oggi disponibile sulla morfologia del bacino, e quindi sulla sua genesi, è largamente più soddisfacente di quanto non fosse al tempo della seconda guerra mondiale, quando le esigenze belliche e i conseguenti progressi tecnologici cominciarono a stimolare un nuovo corso di esplorazione scientifica. Per giunta, l'Oceano I. si è imposto come naturale e ideale laboratorio di ricerca sul fenomeno del monsone, determinante per gli assetti climatici e vegetazionali delle sue regioni costiere, spesso popolatissime, e per la vita stessa che l'uomo vi conduce.
Dei circa 74 milioni di km2 che costituiscono l'estensione superficiale del bacino, il 4,2% sovrasta piattaforme continentali: queste orlano con continuità le coste africane, arabiche, indiane, malesi e australiane, nonché la costa occidentale di Madagascar, per un'ampiezza minima inferiore ai 100 km, sul versante afro-arabico. Lungo gli altri fronti, l'ampiezza della piattaforma si mantiene invece sui 200-300 km, ma supera per lunghi tratti questi valori, pervenendo a 400-500 km nell'Australia meridionale, di fronte a Bombay, nel Bengala e al largo della Birmania. Le coste di Sumatra e di Giava e il fronte orientale di Madagascar sono invece orlati da profonde fosse oceaniche, con profondità che giungono fino a 7000 m.
Nel bacino vero e proprio, la morfologia sottomarina presenta caratteri di grande complessità, tanto che non si può parlare di un bacino unico, ma di più bacini − una quindicina circa − separati da dorsali. La dorsale principale, che nel suo lungo percorso assume diverse denominazioni, attraversa diagonalmente ma con andamento sinuoso l'intero Oceano I. con direzione nordovest-sudest, originandosi all'estrema punta orientale africana, il Capo Guardafui, e perdendosi verso il Pacifico, dopo aver segnato il limite morfologico tra l'Oceano I. e il Bacino Antartico-australiano. Al centro dell'Oceano I., da questa dorsale se ne dirama un'altra, che dirige a sud-ovest e finisce col saldarsi con la nota dorsale medio-atlantica, dopo aver descritto un ampio arco al largo del continente africano. Tra le altre e numerose strutture sottomarine che tormentano quest'area del pianeta, vanno poi menzionate, in quanto oggetto di recenti esplorazioni, la dorsale Novanta Est, che si sviluppa lungo il meridiano 90° E in quasi perfetta rettilineità e per una lunghezza di 5500 km; inoltre le due grandi zone di frattura costituite dalla fossa di Giava e dalla fossa Diamantina, al largo dell'Australia: in queste fosse si sono registrate le maggiori profondità dell'Oceano I., con un massimo di −7126 m. Infine, è particolarmente significativa la scoperta, anche questa recente, di fitte reti di canyons che, in apparente corrispondenza con le maggiori foci fluviali, incidono la piattaforma e si prolungano per alcune centinaia di chilometri fino alle piane abissali. Di fronte alle foci dell'Indo e del Gange, questi canyons incidono possenti conoidi alluvionali e si spengono solo a 1500 km dalla costa nel Bacino Arabico, e a ben 2500 km dalla costa nel golfo del Bengala.
La complessa morfologia sottomarina dell'Oceano I. fornisce supporto alle ipotesi sull'origine di questo spazio oceanico. Origine che risale al Mesozoico e che risulta dal suddividersi della cosiddetta Pangea in zolle, che avrebbero costituito i continenti africano, indiano, australiano e antartico. Questo processo di suddivisione è proseguito durante il Cenozoico, anche se con ritmi rallentati: in verità la più recente suddivisione, quella tra Australia e Antartide, risale a non più di 50 milioni di anni e allo stesso periodo dovrebbe risalire la definitiva saldatura della zolla indiana a quella euro-asiatica. Infine risale a soli 20 milioni di anni, cioè all'ultimo Miocene, la frattura divergente tra zolla africana ed euro-asiatica, col distacco dell'Arabia dall'Africa e la formazione del Mar Rosso e del Golfo di Aden.
Il progresso degli studi sulla troposfera applicato ai processi di formazione del monsone indiano estivo ha permesso di appurare che il fenomeno non ha solo origini termo-convettive e che i venti alisei vengono rinforzati dalla convergenza di una forte corrente a getto a bassa quota, proveniente dalla Somalia. Da questa convergenza, che ha luogo nel Mare Arabico, si originano le due grandi correnti monsoniche: quella dello stesso Mare Arabico, che spira verso nord e reca umidità verso il Pakistan e l'India occidentale; l'altra del Bengala che, anche in relazione all'effetto della forza di Coriolis, volge in senso antiorario sull'omonimo mare e poi sulla regione gangetica, fino a spegnersi contro i rilievi himalayani. È noto che il monsone estivo è responsabile della fortissima piovosità delle regioni indiana e indonesiana, specie di quelle costiere, e in realtà di tutto il Sud-est asiatico. Solo in tempi recenti, tuttavia, si è resa disponibile una massa di dati pluviometrici sufficientemente rilevante per valutare la distribuzione molto differenziata delle precipitazioni monsoniche nello spazio e nel tempo: è accertato che su molte regioni il monsone autunnale porta più pioggia di quello estivo (Malesia, Srī Laṇkā, India meridionale), mentre più a nord quest'ultimo è di gran lunga prevaricante, con rapporti anche superiori a 10:1; nel Bangla Desh, la media delle precipitazioni estive supera i 700 cm/anno e la media annuale supera i 1000 cm.
Correlati all'altissima piovosità monsonica sono i dati sulla velocità di denudamento dei versanti che, nelle coste colpite dal monsone indiano, registrano i valori più alti del pianeta: tra le 2000 e le 3000 t di detriti per km2 per anno. Ciò spiega tra l'altro le spettacolari dimensioni delle già ricordate conoidi detritiche sottomarine nei Bacini Arabico e del Bengala.
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