PACIFICO, OCEANO (o Grahde Oceano; A. T., 1-2-3; 6-7-8 e 162-163)
Limiti, area, caratteri generali. - Il più grande dei tre oceani del nostro globo, fu visto per la prima volta il 25 settembre 1513 da Vasco Nuñez de Balboa, di su le alture dell'Istmo di Darien; ma della sua esistenza aveva già avuto certa notizia Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio. Il nome di Oceano Pacifico gli venne dato da Magellano, quando si affacciò al mare aperto dalle angustie dello stretto; ma nel sec. XVI e XVII l rimase ancora nell'uso la dominazione di Mare del Sud o anche quella di Oceano Meridionale, accanto a Grande Oceano; la preferenza del nome Pacifico data dal sec. XIX.
L'individualità del Pacifico non è meno evidente di quella dell'Atlantico, essendo esso nettamente circoscritto fra le masse dell'America da un lato, dell'Asia e Australia dall'altro; tra l'America e l'Asia confine è lo Stretto di Bering, tra l'Asia c l'Australia lo Stretto di Singapore, il cordone delle Isole della Sonda fino a Timor ed una linea condotta da questa isola al C. Talbot in Australia. Soltanto a sud le sue acque si fondono con quelle dei due oceani contermini, in corrispondenza al Canale di Drake (fra la Terra del Fuoco e l'arcipelago antartico) e al più ampio braccio fra la Tasmania e il prossimo lembo dell'Antartide, verso il quale sembra dirigersi una dorsale sottomarina divisoria.
La superficie totale entro questi limiti è di circa 179.680.000 kmq., dei quali meno di 20 milioni spettano ai mari dipendenti. Tra questi il maggiore è il Mediterraneo Australasiatico col Mare Cinese Meridionale; seguono i mari adiacenti che si succedono lungo le coste asiatiche (Mare Cinese Orientale, Mare del Giappone, Mare di Ochotsk, Mare di Bering); inoltre, sempre sul lato occidentale dell'Oceano, il Mare dei Coralli. Invece sul lato orientale del Pacifico unico mare interno è quello che si suole chiamare Golfo di California. Il contrasto fra i due lati dell'Oceano è perciò evidentissimo. Esso si rispecchia anche nell'insularità. Il Pacifico orientale, così poco articolato, è poverissimo di isole e gruppi insulari: nell'emisfero settentrionale essi mancano del tutto a est del 150° O. e nel meridionale a est del 125°. Pertanto vastissimi spazî acquei deserti si interpongono fra gli arcipelaghi disseminati nel centro dell'Oceano e le coste americane, laddove tutto il lato occidentale del Pacifico è ricchissimo di isole, talché si può procedere dall'uno all'altro gruppo come di tappa in tappa. Questo fatto ha influito profondamente, sia nella storia del popolamento indigeno, sia sulle vicende della presa di possesso da parte degli Europei.
Il Pacifico raggiunge, come vedremo, profondità massime superiori a 10 km., quali non si hanno negli altri due maggiori oceani; la profondità media è stata calcolata circa 4300 m., il volume a circa 723,7 milioni di kmc.
Storia della conoscenza e dell'esplorazione. - La traversata del Pacifico fatta dalle navi di Magellano, dallo stretto omonimo fino alle Marianne e alle Filippine, valse a dare un'idea dell'enorme, insospettata estensione dell'oceano, non della sua configurazìone. Il contorno sul lato asiatico fu riconosciuto approssimativamente fino al Giappone nel 1542, quello sul lato americano fino al C. Mendocino, scoperto l'anno seguente. Per il lembo più settentrionale perdurarono a lungo incertezze; ma la separazione dell'America dall'Asia mediante uno stretto (detto di Anian) diviene opinione comune dopo il 1560. Più gravi le incertezze verso sud, dove, secondo le idee più divulgate, il Pacifico si affermava limitato in una gran terra australe, della quale si ritenevano parti, oltre la Terra del Fuoco, anche i lembi della Nuova Guinea e dell'Australia, dei quali si conobbe l'esistenza dopo il 1525. Pertanto il contorno del Pacifico era ancora delineato molto imperfettamente nelle carte della fine del sec. XVI, nonostante che esso venisse traversato più volte ancora (altre 6 0 7 volte nel corso del secolo) da navigatori soprattutto spagnoli ai quali si deve la scoperta di parecchi arcipelaghi oceanici (v. oceania), taluno dei quali più tardi dimenticato. Alla conoscenza della configurazione dell'oceano giovarono soprattutto i viaggi di Tasman (1642-43), che navigò a sud dell'Australia dimostrandone l'insularità, e scoprì la Nuova Zelanda, creduta invece allora lembo della Terra Australe; più tardi quelli di Iacopo Roggeven nel Pacifico orientale (1722), ma soprattutto i tre celebri viaggi di Giacomo Cook (1768-79), che navigò l'oceano a basse latitudini, dimostrò l'insularità della Nuova Zelanda e per primo varcò il Circolo polare australe, raggiungendo 71°10′ lat. S. senza mai trovar traccia dell'ipotetica Terra australe. Tra i navigatori posteriori, si ricordano, ancora sul volgere del sec. XVIlI, i nomi dei francesi La Pérouse e D'Entrecasteaux, dell'inglese Vancouver, dell'italiano A. Malaspina che compì importanti campagne idrografiche al comando di navi spagnole; nella prima metà del sec. XIX quelli di Krusenstern, Bellingshausen, Kotzebue, Baudin, Dumont d'Urville, Fitzroy, ecc. Intorno al 1850 può dirsi ormai ben conosciuta la configurazione generale del Pacifico (salvo alle alte latitudini australi), e, più approssimativamente, si conoscono le sue condizioni meteorologiche (regione dei venti, ecc.), anche mercé l'opera di naturalisti, che accompagnarono taluni navigatori (Darwin col Fitzroy sulla Beagle); ma poche osservazioni si posseggono sul regime delle temperature, sulla distribuzione della salsedine, sulle correnti, nulla si sa ancora delle profondità, il che era chiaramente messo in luce dal geografo A. Petermann, che nel 1857 tentava di tracciare un quadro fisico generale del Grande Oceano.
La prima importante campagna batimetrica in aperto oceano fu quella della nave americana Tuscarora nel 1873-1874 (700 scandagli d'alto mare, dei quali uno toccò la profondità di 8513 m., la massima fino allora raggiunta in tutto il globo); quasi contemporanea fu quella del Challengcr (v.), di poco posteriore (1875-76) quella della tedesca Gazelle nel Pacifico australe; sulla base dei risultati di queste tre spedizioni il Petermann poté costruire, nel 1877, un primo abbozzo di carta batimetrica. Nel periodo successivo si ebbero numerose campagne più limitate (un'altra della Tuscarora, una dell'Alert, poi quelle dell'Albatross 1888-93), accanto a viaggi di circumnavigazione ricchi di risultati (Vettor Pisani italiana 1882-84; Enterprise inglese 1883-88; Vitjaz′ russa 1886-89), ed a numerose misure di profondità eseguite da navi posacavi, dapprima in prossimità delle coste, poi anche in aperto oceano, allorché si iniziarono le operazioni per la posa dei grandi cavi transpacifici; rimasero celebri, in tale campo, i nomi delle navi Egeria, Britannia, Recorder, Nero, ecc.: quest'ultimo misurò la profondità di 9636 m. in una fossa a oriente delle Filippine. La fine del sec. XIX e il principio del seguente videro una notevole ripresa di spedizioni scientifiche, con programmi sistematicamente predisposti, come quelle della olandese Siboga e altre precedenti nel Mediterraneo australasiatico, quelle dirette da A. Agassiz sull'Albatross negli arcipelaghi corallini del Pacifico centrale (1899-900), quella della tedesca Planet nel Pacifico occidentale (1906-08 e 1909-10), quelle della Scripps Institution dell'università di California (1911-13).
Interrotte dalla guerra mondiale, le indagini ripresero con gran fervore dopo il 1920, non soltanto per quanto riguarda le misure batimetriche - nelle quali trovarono ormai applicazione sempre più larga gli scandagli acustici (con questo procedimento il Planet scandagliò nel 1927 la profondità di 10.700 m. a oriente delle Filippine), soprattutto da parte di navi nordamericane (Ramapo circa 1400 scandagli tra la California e le Filippine 1929-30) - ma, si può dire, in ogni campo di studî, anche in virtù di una serie di congressi scientifici internazionali, tenuti a partire dal 1920, nei quali furono gettate le basi dell'"Associazione scientifica del Pacifieco". Vi partecipano ormai tutti i principali stati che hanno interessi in questo oceano (Russia, Giappone, Olanda, Francia, Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, Canada e Stati Uniti) mediante grandi istituti di ricerca, stazioni permanenti, laboratorî, navi specializzate; ma concorrono anche altri paesi, che hanno tradizioni di studî oceanografici, come la Danimarca (spediz. del Dana 1928) e la Germania (viaggio di circumnavigazione del Berlin 1928-29). Magnifiche, per la perfezione della organizzazione e l'ampiezza del programma di ricerche le crociere promosse dagli Stati Uniti, specialmente quelle della nave Carnegie, l'ultima delle quali, che doveva essere una ripetizione del celebre viaggio del Challenger con la più moderna attrezzatura possibile, fu tragicamente interrotta nel 1929 per la perdita improvvisa della nave nel porto di Apia (Samoa).
Condizioni batimetriche e morfologiche. - Il contrasto già segnalato fra il Pacifico occidentale e l'orientale si rispecchia anche nelle condizioni di profondità. Si noti anzitutto come sul lato orientale dell'oceano la piattaforma continentale sia per solito considerevolmente ristretta, mentre sul lato occidentale essa assume notevole estensione, specialmente fra l'Asia di nord-est e l'Alasca, inoltre nel Mar Giallo, fra l'Indocina e le grandi isole della Sonda, fra la Nuova Guinea e l'Australia, come fra questa e la Tasmania, e infine anche intorno alla Nuova Zelanda.
Su questo lato occidentale si susseguono, come si è già detto, numerosi mari interni, limitati da festoni di isole; ed all'esterno di questi il Pacifico s'inabissa a profondità notevolissime in bacini o più spesso in fosse strette e allungate fra pareti molto ripide (Fossa delle Aleutine 7350 m., Fossa delle Kurili 8510 m., Fossa del Giappone 9435 m., Fossa delle Ryū-kyū 7500 m., Fossa delle Filippine 10.700 m., massima profondità di tutto il Pacifico). A sud dell'Equatore fosse analoghe si riscontrano all'interno degli archi insulari (Fossa del Planet 9150 m.; Fossa delle Nuove Ebridi 7525 m.). A oriente di queste fosse il suolo sottomarino si rialza in bacini di varia profondità (5000-6000 m. nel bacino delle Filippine, come in quello delle Figi); bacini che sono a loro volta delimitati da un seconda serie, più irregolare e discontinua, di arcipelaghi, che dalle isole Bonin e dal gruppo di Volcano si sussegue con le Marianne, le Caroline, le Marshall, le Gilbert, le Ellice, le Tonga e le Kermadec fino alla Nuova Zelanda. Anche all'esterno di questa serie si ripete il fenomeno delle fosse profonde (fossa delle Bonin 7950 m.; fossa delle Marianne 9636; fosse delle Tonga e delle Kermadec 9205 m.). Altre aree assai vaste, più simili a conche che a fosse per la mancanza di pendii molto ripidi, ma pur segnalate per profondità molto notevoli (oltre 6000 m.), si hanno anche altrove, specialmente nella regione compresa fra le Marianne, le Marshall e le Hawaii occidentali. In conclusione dunque tutto il fondo del Pacifico occidentale pare molto accidentato e rivela l'azione di intense dislocazioni e perturbazioni, confermata anche dalle intense manifestazioni sismiche e vulcaniche in quasi tutte le prossime terre.
Al contrario, il quadro che dal punto di vista morfologico ci presentano il Pacifico centrale e la maggior parte dell'orientale è, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze, molto più uniforme e monotono; ma bifogna pur avvertire che proprio in queste parti le misure batimetriche sono, avuto riguardo alla immensità dello spazio, tuttora molto deficienti.
Nella zona che si estende fra le coste canadesi e californiane, le Hawaii e le Figi, predominano profondità intorno a 5000 m. con talune limitate buche scendenti verso i 6000, e rialzi o cupole coperte da meno di 3000 m. d'acqua.
Profondità analoghe presenta il Pacifico settentrionale, il cui fondo dalla Fossa del Giappone sembra rilevarsi lentissimamente, come un piano inclinato appena interrotto da qualche irregolarità, verso oriente, mentre a nord presenta un margine che scende con declivio piuttosto ripido verso la Fossa delle Aleutine.
Il Pacifico orientale, a sud del 10°-15° lat. N., è meno profondo: il suo fondo sembra mantenersi con grande uniformità intorno ai 4200-4500 m., salvo nei dintorni dei maggiori arcipelaghi corallini (Paumotu, Marchesi), che si adergono da fondali assai irregolari. Una platea alquanto rilevata (profondità inferiori a 4000 m.) che si distende con varia ampiezza dalle coste del Messico fino alla Terra Vittoria (Antartide) e che nelle carte è designata col nome di Dorsale dell'isola della Pasqua, separa dal resto dell'oceano una zona sud-orientale, che è di nuovo assai più accidentata, soprattutto per la frequenza di fosse profonde parallele alle coste americane (Fossa del Messico 5480 m., Fossa del Perù 6850 m., Fossa di Atacama 7635 m., ecc.) ed anche per la presenza di taluni rilievi, creste e gibbosità isolate. Siamo di nuovo in presenza di una zona perturbata, il che può esser messo ancora ín relazione con la diffusione e l'intensità dei fenomeni sismici e vulcanici.
In prossimità delle coste dell'Antartide si avvertono talvolta ancora profondità notevoli, come per esempio nella conca tra la Nuova Zelanda e il piatto Mare di Ross, nella quale si sono misurate profondità di oltre 6000 m., in alcune buche isolate al largo delle isole Macquarie, ecc.
Per quanto concerne la composizione del fondo, l'Oceano Pacifico si presenta in condizioni molto diverse da quelle degli altri due oceani maggiori. I depositi terrigni non occupano più del 9% dell'area, e, se si prescinda da materiali corallini molto diffusi, sono limitati ai mari marginali; il fango a globigerine è pur esso scarsamente rappresentato (18%) e principalmente sul lato occidentale del Pacifico; il fango a pteropodi manca quasi del tutto; quello a diatomee forma una fascia continua, più o meno larga, intorno all'Antartide e si ritrova anche all'estremo lembo settentrionale; l'argilla rossa è il deposito di gran lunga prevalente su tutti gli altri (oltre 100 milioni di kmq., cioè il 60% dell'intero oceano); essa, nel Pacifico orientale, fra l'Equatore e il 20° lat. N., appare molto mescolata con resti organici, soprattutto di radiolarî (fango a radiolarî).
Geologia. - Il Pacifico è recinto da una cerchia di vecchi nuclei continentali, che ad esso si contrappongono, in quanto li troviamo costituiti, seppure in diverse riprese e in diversa misura invasi dal mare, dai più remoti tempi geologici. Possiamo come segue enumerarli: 1. il massiccio siberiano, circoscritto dal corso della Lena e dello Jenissei; 2. il massiccio mancese-coreano, a cui spetta gran parte della costa pacifica dell'Asia fra il Mare di Ochotsk e il Mar Giallo; 3. il massiccio cinese (insieme col quale possiamo considerare i terreni antichi dell'Indocina e del Siam), separato dal precedente a mezzo del Quaternario che forma la costa (a eccezione della penisola cristallina dello Shan-tung) fra le foci del Hwang-ho e dello Yang-tze kiang, e nasconde la continuazione delle pieghe erciniane dello Tsin-ling; 4. il massiccio australiano, che comprende oltre alla maggior parte dell'Australia (ad esclusione della catena costiera del Pacifico) anche la porzione sud-ovest della Nuova Guinea; 5. il massiccio antartico, anch'esso facente parte delle unità strutturali di cui ci stiamo occupando, eccettuate le terre di Graham e di Re Oscar, che rappresentano la continuazione meridionale del corrugamento andino; 6. e 7. i massicci brasiliano e canadese, nuclei, rispettivamente, dell'America Meridionale e Settentrionale.
Alla cerchia di massicci elencati si aggiungono poi le fasce di terreni corrugati in varî periodi, che, saldando fra di loro i Singoli nuclei, contribuiscono a completare il perimetro costiero del Pacifico. A seconda dell'età distinguiamo: a) corrugamenti erciniani (cioè del Paleozoico superiore): la zona fra massiccio siberiano e mancese-coreano (Monti Jablonoi-Stanovoi) formante la costa del Mare di Ochotsk fino alla foce dell'Amur, con direzione delle pieghe obliqua rispetto alla costa stessa; la zona di corrugamento dello Tsin-ling, saldante il massiccio mancese-coreano al massiccio cinese, e diretta perpendicolarmente al litorale; le catene dello Yün ling, dell'Indocina e della penisola di Malacca, che segnano i margini occidentale e meridionale del massiccio cinese, e dirette a sud-est più o meno obliquamente alla costa, così come obliquamente a nord-est abbiamo visto dirigersi le pieghe della regione dell'Amur: nel tratto terminale poi sia le pieghe siberiane (Stanovoi) sia quelle indocinesi tendono a disporsi parallelamente alla costa.
L'insieme delle zone ora ricordate è completato, verso il Pacifico, da zone omologhe, sia pure meno grandiose e continue e meno evidenti in quanto riprese nella grande fascia delle dislocazioni terziarie, di cui stiamo per occuparci: riscontriamo infatti la presenza di pieghe erciniane e nell'isola Sachalin e nell'arco giapponese, le quali, com'è facile constatare, vengono a chiudersi completando l'arco dei Monti Khingan, Jablonoi e Stanovoi, intorno al massiccio mancese coreano. Presenti ancora, le pieghe erciniche, a Formosa, Borneo, Celebes, Sumatra e nella catena delle Alpi Australiane.
b) l'orogenesi alpina, includendovi le prime fasi esplicatesi verso la fine del Mesozoico (fase andina) si è esercitata su di una fascia nell'insieme continua lungo tutto il perimetro del Pacifico, presentando però caratteri diversi lungo le coste ovest (Asia, Insulindia) e est (due Americhe). Queste ultime sono orlate da una zona di pieghe operatesi sia nello zoccolo continentale sia nei sedimenti depostisi sul pendio del continente stesso, e accompagnate da manifestazioni vulcaniche di grande entità, continuatesi in parte fino al presente; la fase principale dei fenomeni risale al Mesozoico superiore-Eocene inferiore. La direzione delle spinte è perpendicolare alla costa, e non si osservano grandi inflessioni nell'andamento generale della catena, salvo in corrispondenza dell'arco di raccordo, convesso verso l'Atlantico, fra la Terra di Graham nell'Antartide e la Terra del Fuoco. Caratteri diversi ha il diastrofismo alpino lungo le coste asiatiche. A N. del 30° lat. N. troviamo, più che vere catene di corrugamento, zone di deformazione, accompagnate da fratture e manifestazioni vulcaniche, del vecchio edificio erciniano (massicci antichi corrugamenti paleozoici), sotto l'azione delle nuove spinte; fenomeni in parte riferibili alla fase andina, e riconoscibili nel Camciatca, nell'isola Sachalin, nel Giappone, mentre nel continente vero e proprio sembrano limitate alla costa mancese. A S., invece, del 30° parallelo, possiamo ricostruire un arco di corrugamento (con spinte dirette verso l'esterno dell'arco stesso) notevolmente allungato e convesso a sud, il quale, partendo da Formosa, per le Filippine, le Molucche, Giava e Sumatra, termina nelle catene birmane e nell'Assam. Tale arco fa riscontro a quello, parimenti di età alpina, che osserviamo dall'altra parte del massiccio dell'India peninsulare, nei monti del Belūcistān, della Persia meridionale e della Media; e nell'insieme recinge l'edificio erciniano della Cina, Indocina e Borneo.
Un altro arco di corrugamenti alpini recinge analogamente l'Australia, restando cioè, come l'arco dell'Insulindia ora considerato, distaccato dal continente: sono le montagne della Nuova Guinea, le isole Salomone, la Nuova Caledonia e la Nuova Zelanda; in quest'ultima il fenomeno può ascriversi alla fase andina, in quanto vi troviamo il Terziario poco dislocato riposare sul Mesozoico ripiegato.
La rassegna delle condizioni strutturali, con speciale riguardo all'orogenesi alpina, delle coste pacifiche, ci rivela, dunque, le seguenti circostanze fondamentali: esistenza d'un anello di disturbi tettonici (e di vulcanismo) quasi continuo; contrasto fra le coste americane e centralasiatiche, nel senso che lungo le prime la fascia dei corrugamenti è molto potente e addossata ai massicci continentali antistanti, lungo le seconde detta fascia è rappresentata da una serie di archi insulari (con un volume di masse deformate molto minore di quello spettante ai corrugamenti omologhi americani) staccati dal continente asiatico a mo' di festoni.
Le isole del Pacifico si possono distinguere in tre categorie a seconda della prevalente natura litologica: a) cristalline e sedimentarie; b) vulcaniche; c) coralligene. Poche sono le prime, e limitate al margine occidentale dell'oceano. Conosciamo graniti nelle Palau, anfiboliti a Yap (Caroline occidentali); scisti cristallini diversi, graniti, gabbri, ricoperti da sedimenti cretaceo-miocenici corrugati, nell'arcipelago di Bismarck; parimenti rocce cristalline antiche nell'isola S. Cristoforo (Isole Salomone); Miocene dislocato a Espiritu Santo (Nuove Ebridi); rocce granitoidi alle Figi. La Nuova Caledonia presenta una serie abbastanza completa, comprendente terreni cristallini antichi e sedimentarî dal Triassico al Cretacico, e avente molta somiglianza con quella neozelandese. Alle rocce ora elencate si associano quasi dappertutto lave recenti di tipo prevalentemente andesitico, che anzi costituiscono da sole, o con formazioni coralligene, altri gruppi vulcanici allineati con i primi. Possiamo così tracciare dalla Nuova Zelanda al Giappone, per le Kermadec, Tonga, Figi, Nuove Ebridi, Salomone, arcip. di Bismarck, Palau, Marianne, Bonin, una linea (detta "linea andesitica") che ha grande importanza, perché segna il confine verso l'oceano dell'area occupata da isole costituite da materiale di natura continentale e da lave andesitiche. Altri caratteri di tale zona insulare sono: disposizione in festoni; frequente presenza lungo il margine convesso dei festoni stessi di fosse allungate sprofondantisi notevolmente al di sotto del livello medio del fondo oceanico (fosse delle Kermadec, Tonga, Palau, Marianne, Bonin, Giappone); anomalia negativa della gravità, rivelante uno squilibrio per difetto di massa; sollevamenti recenti (scogliere coralline sollevate e terrazzate); terremoti. Le isole a oriente della "linea andesitica", invece, ci mostrano caratteri in un certo senso opposti: mancano affatto i tipi litologici proprî dei massicci continentali, essendo esse essenzialmente costituite da lave basaltiche (sub. fonolitiche) recinte o no da scogliere coralligene (Hawaii, Marchesi, Samoa, Cook, Tubuai) o soltanto da materiale coralligeno (Paumotu, Fenice, Ellice, Gilbert, Marshall); non assumono disposizione ad arco, bensì tendono ad allinearsi, nei singoli arcipelaghi, secondo certe direzioni (prevale quella NO.-SE.): non presentano anomalie di gravità (salvo un eccesso dovuto probabilmente alla presenza di masse laviche pesanti, alle Hawaii), né tracce di sollevamenti recenti. Considerando poi gli arcipelaghi più prossimi alle Americhe (Galápagos), si perde anche la tendenza alla disposizione lineare.
Con gli elementi esposti, possiamo affrontare il problema, non suscettibile finora di una definitiva soluzione, dell'origine del Pacifico. Le opinioni moderne sono orientate verso due teorie principali: secondo l'una (recentemente rielaborata da L. Kober), il fondo del Pacifico non avrebbe costituzione differente da quella dei continenti: sarebbe cioè un insieme di zolle continentali sprofondate in tempi non troppo remoti, e separate da catene di corrugamento, le cui vette emergendo qua e là costituirebbero gli arcipelaghi. L'Oceano sarebbe dapprima esistito in forma di geosinclinale peripacifica, con un collegamento equatoriale lungo le isole Cook, Tubuaí, Paumotu, della Pasqua, Galápagos. Sprofondatesi in seguito le masse nord e sud pacifica, si sarebbe originato l'attuale oceano.
A questo modo di vedere si contrappone recisamente la teoria del mobilismo (A. Wegener, E. Argand), secondo la quale affatto diversa è la natura del fondo oceanico da quella dei continenti: vasta superficie libera di sima la prima, placche di sial le seconde. L'area del Pacifico verrebbe così ad essere parte dell'oceano primitivo, esistente come tale fino dall'epoca in cui la crosta sialica si è raccolta in placche galleggianti sul sima. In quest'ordine d'idee, si nega l'esistenza di corrugamenti a est della "linea andesitica": gli archi insulari con rocee continentali sarebbero frammenti staccatisi dal margine orientale dell'Asia derivante verso occidente; mentre il corrugamento delle Ande sarebbe dovuto alla resistenza opposta dal fondo oceanico all'avanzarsi, nello stesso senso, dei continenti americani. Con ciò si spiegherebbero il contrasto fra le coste asiatiche e le coste americane, e i caratteri della zona andesitica, che ancora non ha raggiunto l'equilibrio (anomalie di gravità, sollevamenti recenti), rispetto a quelli dell'area oceanica propriamente detta ove non si hanno zolle sialiche in fase di assestamento, ma soltanto isole basaltiche formatesi per il risalire del magma simico attraverso fratture più o meno lineari.
In quanto all'arco di corrugamento Formosa-Filippine-Sumatra-Birmania-Assam, non avrebbe una relazione essenziale, come invece ha la fascia andina, col Pacifico, ma costituirebbe la terminazione del corrugamento della geosinclinale mediterranea, qui (come nell'arco omologo Belūcistān-Persia) fortemente inflessa a sud, per il prevalere delle spinte dell'Eurasia su quelle della Gondwana.
Le caratteristiche fisico-chimiche. - Per quanto concerne la distribuzione della salsedine, si nota che le aree di massima concentrazione corrispondono, come nell'Atlantico, alle regioni dei Tropici: nel Pacifico settentrionale all'incirca fra 20° e 35° N. sul lato occidentale dell'oceano (fino a 35,5-35,8‰); nel meridionale fra 5° e 150 lat. S. e fra 165° e 80° long. O. (oltre 36‰); tra queste due aree di massimi, s'interpone un'area equatoriale meno salata. Procedendo dai Tropici verso le alte latitudini, la salsedine diminuisce progressivamente e con maggiore rapidità nel Pacifico settentrionale dove già a 40°-42° lat. N. scende a 34‰; poi a 32-33 nell'area fra le Aleutine e la California, e a 30-31 nel Mare di Bering. Per la salsedine dei mari dipendenti, v. alle rispettive voci.
Quanto alla distribuzione della temperatura dell'acqua in superficie, il Pacifico settentrionale è, nel suo insieme, più caldo del meridionale, pur presentando, a diverse latitudini, condizioni differenti. L'equatore termico si trova a nord dell'equatore geografico e soltanto nell'estate australe si sposta alquanto verso sud. Tra i paralleli di 20° N. e S. le temperature medie annue sono in genere superiori ai 25° (salvo l'estremo lembo orientale del Pacifico australe, che è più freddo) e superano i 28° nell'area situata fra i paralleli di 10° N. e S., a ovest del 180° long. circa. Verso i Poli le temperature diminuiscono naturalmente in entrambi gli emisferi, come appare dall'annessa cartina: fino a 40° lat. l'emisfero settentrionale è decisamente più caldo del meridionale, poi le condizioni si invertono, soprattutto per l'influenza raffreddatrice esercitata, nel nostro emisfero, dalle terre circostanti. Si osserva poi nel Pacifico, come nell'Atlantico, che per effetto delle correnti equatoriali, le quali spingono verso ovest masse di acque calde, in tutta la zona torrida il lato occidentale dell'oceano è più caldo dell'orientale; nell'emisfero nord il fatto si verifica anche a latitudine media e sempre soprattutto per l'influenza di correnti.
Le regioni equatoriali del Pacifico mostrano anche lievissime variazioni stagionali (non oltre 2° in genere) nelle temperature delle acque superficiali. A latitudini intermedie tali oscillazioni possono raggiungere 6-7° ed eccezionalmente 8°; procedendo verso i Poli, diminuiscono di nuovo, specie nell'emisfero australe, doie, tra 50° e 60° lat., tornano a mantenersi intorno a 2°-3°.
Completamente diverso è il comportamento termico delle acque profonde; a 400 m. predominano, nelle aree equatoriali, temperature di 9°-10°; le acque più calde (fino a circa 15°) si trovano all'incirca sotto i Tropici e sul lato occidentale dell'oceano.
Al fondo la temperatura normale, per quanto risulta dalle attuali conoscenze, ancora per vero assai imperfette, sarebbe di 1°,3-2°, superando i 2° solo in vicinanza dell'Australia, scendendo viceversa sotto 1° solo alle alte latitudini meridionali. Temperature straordinariamente uniformi, dunque, e anche notevolmente basse; causa di quest'ultimo fatto sarebbe, secondo le ricerche recenti di oceanografi tedeschi, un flusso di acque di provenienza antartica e perciò fredde e pesanti, che, strisciando lentamente sul fondo, si dirigerebbe verso nord, e, non incontrando ostacoli nella morfologia del fondo stesso, potrebbe, almeno in talune aree, arrivare fino ad alte latitudini boreali.
Per la distribuzione dei ghiacci marini, v. ghiacci marini.
Pressione e venti. - In dipendenza delle alte temperature predominanti per tutto l'anno nelle regioni equatoriali del Pacifico, troviamo qui una zona di bassa pressione, più estesa ad ovest che ad est, situata tuttavia sempre a nord dell'Equatore (tra 2° e 8° lat. N. in inverno, tra 6° e 12° in estate). Tanto a nord che a sud di questa, si hanno, come nell'Atlantico, le zone di alte pressioni dei Tropici. Nell'emisfero boreale le massime pressioni si trovano, nel gennaio, tanto in pieno oceano, tra le Hawaii e le coste americane, quanto presso le coste asiatiche, dove un'area anticiclonica grava sulla Mongolia e regioni contermini. A nord di quest'area la pressione diminuisce nuovamente verso l'Alasca e il Mare di Bering. Nell'emisfero australe, dove si ha allora l'estate, le aree di massima pressione si trovano in pieno oceano tra l'Isola della Pasqua e Juan Fernández, quelle di minima. nell'Australia settentrionale. Nel luglio l'area boreale di alte pressioni è più accentuata e spostata verso le coste nord-americane, mentre presso quelle asiatiche si hanno pressioni basse; nel Pacifico meridionale, invece (che ha allora l'inverno), una zona di alte pressioni. domina lungo il Tropico del Capricorn0, con massimi nell'interno dell'Australia e nella regione dell'Isola della Pasqua. Nella corona oceanica che circonda l'Antartide prevalgono per tutto l'anno pressioni relativamente basse; sul Continente antartico invece le pressioni si rialzano rapidamente verso l'interno in causa dell'azione raffreddatrice della calotta di ghiacci perenni. La fascia equatoriale di basse pressioni, cui sopra si è accennato, rappresenta un'area di calme; essa è assai più stretta che nell'Atlantico, ma, come in quest'oceano, è situata a nord dell'Equatore. Richiamati da quest'area, venti aliseali soffiano da NE. nell'emisfero boreale, da SO. nell'emisfero australe. Nell'inverno (boreale) gli alisei del NE. sono molto regolari ed intensi in tutta l'estensione dell'oceano fra il Tropico e 8° lat. N. circa; gli alisei del SE. sono pure assai regolari nel Pacifico orientale (fra il Tropico del Capricorno e 2°-3° lat. N.), mentre nel Pacifico occidentale si risente l'influenza del continente australiano che, a causa delle sue basse pressioni (v. sopra), costituisce un'area di richiamo; i venti hanno perciò direzione prevalente di NO., O. e N., pur con notevoli variabilità (soprattutto nel Mar dei Coralli). Nell'estate (boreale) tutto il sistema degli alisei risale verso nord: l'aliseo del NE. soffia tra 30° e 12° N., deviato nel Pacifico centrale fino ad apparire come un vento di est. Presso le coste asiatiche (dal Giappone alle Filippine e al Mediterraneo australasiatico) i venti, richiamati dall'area asiatica di alte pressioni, spirano da SE. Nell'emisfero meridionale, ove allora si ha l'inverno, gli alisei del SE. spirano con grande regolarità tra 5° lat. N. e 20° lat. S. presso che in tutta l'estensione dell'oceano.
Per effetto di questa circolazione generale, perturbata, come si è visto, in prossimità dei continenti e specie sul lato occidentale, si verifica che sulle coste asiatiche, dal Giappone centrale a Borneo, d'inverno spirino venti prevalenti di NE. e N., d'estate venti di SE. e S., con un'alternanza di tipo monsonico, dunque, come se i monsoni dell'Oceano Indiano si prolungassero su questo lato del Pacifico. Per analoghi motivi venti ad alternanza stagionale si hanno presso l'Australia settentrionale e di NO. e anche sulle coste dell'America Centrale; ma quivi per una ragione alquanto diversa, cioè che questa regione viene d'inverno a trovarsi nel sistema circolatorio dell'emisfero nord, d'estate piuttosto in quello dell'emisfero sud.
A nord e a sud delle zone degli alisei si ha anche nel Pacifico la zona dei venti prevalentemente occidentali. Questi hanno grande regolarità e notevole intensità nell'emisfero sud e d'inverno anche nell'emisfero nord, mentre quivi, d'estate, essi sono spesso sostituiti da venti di sud e sud-ovest. Le aree del Pacifico, dove le condizioni di pressione sono più instabili e soggette a variazioni, sono anche quelle maggiormente sottoposte a cicloni. Nell'emisfero boreale sono soprattutto infestati i mari della Cina, la regione delle Filippine, la parte meridionale dell'arcipelago giapponese e l'adiacente plaga oceanica fino alle Caroline e alle Marshall; si avrebbero qui all'incirca una ventina di cicloni all'anno, frequenza di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altra parte del mondo. Nell'emisfero australe la regione più esposta è costituita dalla lunga fascia tra l'Australia e l'arcipelago delle Paumotu, che include la Nuova Caledonia, le Nuove Ebridi, le Tonga, le Figi. In entrambi gli emisferi la maggior parte dei cicloni si verifica nelle rispettive stagioni estive. Il pericolo dei cicloni, specie negli arcipelaghi corallini, bassi e privi di riparo, è gravissimo: si annoverano ripetuti esempî di isole interamente spazzate di quanto contenevano - vegetazione, animali, uomini e loro dimore - dalla furia dei cicloni.
La circolazione delle acque. - Il sistema fondamentale della circolazione dell'Oceano Pacifico forma in sostanza un circuito destrogiro nell'emisfero nord, levogiro nell'emisfero sud; ma alcune delle correnti principali rispondono malamente al concetto comune (v. correnti), avendo piuttosto, anche in relazione alla enorme ampiezza dell'oceano, il carattere di movimenti diffusi e non bene delimitati. Del resto le osservazioni e gli studî non sono ancora così progrediti da permettere, anche per la circolazione superficiale, di tracciare un quadro completo; mancano soprattutto osservazioni sistematiche, prolungate, in pieno oceano.
Il flusso delle acque equatoriali da est verso ovest, che si può chiaramente osservare a partire dai dintorni delle isole Revilla Gigedo, dà luogo a due correnti, separate da una controcorrente o corrente di ritorno. La Corrente equatoriale del Nord, che si mantiene a nord del 5° lat. N. d'inverno, a nord del 10° in estate, in prossimità della platea sulla quale posano le Filippine, devia abbastanza bruscamente verso nord; e, al largo di Formosa e poi lungo le isole Ryū-Kyū, appare sempre più nettamente individuata dal colore azzurro scuro delle acque, e dalla temperatura relativamente elevata: è il Kuro shio dei Giapponesi, considerato come l'equivalente della Corrente del Golfo, soprattutto prima che recenti studî ne precisassero il carattere. Essa corre al largo dell'arcipelago del Giappone estendendosi su una fascia variabile secondo le stagioni: intorno a 40° lat. N. devia ancora verso est, sotto l'impulso della rotazione terrestre, traversa l'oceano come un imponente flusso di acque largo talora fino a 500 km., senza limiti ben netti e con velocità decrescente man mano che procede verso est. Presso le coste americane, che raggiunge a 45°-50° lat., si raffredda per l'apporto di acque fredde boreali, e scende nuovamente verso il Tropico formando la cosiddetta Corrente di California, che al C. Mendocino appare ormai come una corrente decisamente fredda, avendo in agosto una temperatura fino a 6-7 gradi più bassa di quella normale a tale latitudine.
La Corrente equatoriale del Sud si può seguire pur essa su un lunghissimo percorso, da 85° long. O. a 140° E., ma nel Pacifico orientale mostra temperature variabili, o meglio alternanze di strie di acque tiepide con strie più fredde, probabilmente per la mescolanza di acque provenienti da sud; nel Pacifico centrale comincia ad avvertirsi come corrente decisamente calda, ma sul lato occidentale tende a ramificarsi: almeno d'inverno un ramo sembra lambire le isole Salomone e l'arcipelago di Bismarck, mentre un altro penetra nello Stretto di Torres; ma come ramo principale si considera la cosiddetta Corrente Australiana, che, con acque decisamente calde, accompagna a 33-70 km. di distanza la costa orientale del Continente. A circa 40° lat. S. le acque di questa corrente sono deviate verso SE. ed E.; un ramo risale lungo la costa occidentale della Nuova Zelanda, poi volge a O. e sembra chiudere un piccolo circuito secondario levogiro, mentre il ramo principale finisce per immettersi nella grande Corrente Antartica che, a sud del 40° lat., circola nel senso O.-E., come negli altri due maggiori oceani; ma nel Pacifico ha una particolare intensità e costituisce un fenomeno veramente grandioso di trasporto di acque. Questa corrente, man mano che si procede verso E., si va sempre più raffreddando, anche per l'apporto di ghiacci sotto forma di giganteschi icebergs, e, giunta in prossimità dell'America Meridionale, sembra volgere verso N. Ma proprio in quest'area le correnti sembrano avere un andamento assai complicato. A una certa distanza dal continente le acque dirette verso N., a chiudere il circuito dell'emiSfero australe, sembra siano ancora relativamente tepide; invece lungo le coste dell'America Meridionale la corrente diretta verso N. con velocità assai notevole, è decisamente fredda; essa è nota col nome di Corrente del Perù o di Humboldt dal celebre naturalista, che la riteneva determinata da acque della corrente antartica deviate verso N.; oggi invece si ritiene per lo più che la causa delle basse temperature sia dovuta all'aflusso di acque fredde salienti dal profondo.
Sembra in ogni caso che tutte le masse di acqua fluenti verso N., intorno a 10° lat. S. si allontanino dalla costa, e, deviate verso sinistra sotto la spinta degli alisei di SE., finiscano con l'immettere nella grande Corrente equatoriale del Sud.
Tra le due correnti equatoriali su ricordate si muove una controcorrente, manifesta specialmente d'estate in tutta l'estensione del Pacifico, mentre d'inverno sembra ben osservabile solo sul lato orientale dell'oceano. Anche nel Pacifico si hanno poi correnti fredde estranee ai due circuiti principali, come l'Oya shio, che dallo Stretto di Bering discende lungo le coste del Camciatca e dell'Arcipelago giapponese. Essa fu paragonata talora alla Corrente del Labrador nell'Atlantico e veramente esercita un analogo influsso sulle coste che lambisce, ma non traina quasi affatto masse di ghiaccio. Quanto alla circolazione verticale e alle correnti profonde, le nostre conoscenze sono finora molto limitate. Da taluni si ammette un flusso di acque fredde dalla regione antartica verso l'Equatore a profondità di 800-1200 m., rivelata soprattutto da una diminuzione di temperatura e di salsedine in questo strato; quanto alle acque di fondo, ehe si muoverebbero nello stesso senso dalla regione antartica verso l'Equatore, se ne è parlato sopra.
Fauna. - Circa la fauna dell'Oceano Pacifico, si deve ricordare anzitutto come i confini geografici non coincidano con quelli faunistici. Infatti la parte tropicale del Pacifico, che dai confini orientali dell'Indiano si estende fino alle coste occidentali del continente americano, non si può zoologicamente separare dalla parte tropicale dell'Oceano Indiano, ma forma con questa una sterminata regione o provincia indo-pacifica a caratteri faunistici omogenei. S'intende facilmente come il dominio della fauna marina indo-pacifica si restringa ad oriente per effetto della corrente fredda del Perù che risale lungo le coste sudamericane e come l'omogeneità fondamentale della fauna indo-pacifica non escluda la formazione di faune locali svariatissime lungo le rive delle isole e degl'isolotti innumerevoli onde sono gremite le plaghe centrali e occidentali del Pacifico.
Quivi ferve la vita esuberante delle scogliere, delle barriere madreporiche e degli atolli con le gigantesche costruzioni madreporiche costellate di polipi a tinte vivaci, con i pesci caratteristici ornati di strisce trasversali oscure, col brulichio intenso di vita marina d'ogni gruppo zoologico, e non solo prettamente marina ma anche anfibia e sconfinante dai bassifondi del mare alle spiagge emerse e persino ai palmizî, sui quali s'arrampicano i granchi arboricoli.
Per contro hanno caratteri spiccatamente diversi dall'indo-pacifica le faune che popolano il litorale dell'Asia settentrionale e della maggior parte del Giappone (di cui soltanto l'estremità SO. ha una fauna di tipo indo-pacifico) e soprattutto dalle faune costiere dell'America occidentale.
Le specie di Mammiferi marini sono nel Pacifico particolarmente numerose, ma tendono a scomparire per la persecuzione accanita di cui sono oggetto da parte dell'uomo che le va cacciando a scopo di lucro. Abitava le coste del Pacifico un grosso Sirenoide, la vacca di mare (Rhytina Stelleri) sterminato dai primi coloni del Camciatca verso il 1790. Tra le foche denominate dagli Inglesi fur-seals il genere più importante del Pacifico settentrionale è il Callorhinus; appartiene per contro al Pacifico meridionale il gen. Arctocephalus, di cui le due specie più preziose come animali da pelliccia, cioè A. Philippi dell'isola Juan Fernández, delle coste del Chile e delle isole Galápagos e A. Townsendii extrapacifica (della Guadalupa), possono dirsi ormai praticamente estinte dal punto di vista commerciale. I leoni marini riferibili ai gen. Otaria, Eumetopias, ecc. frequentano le piccole isole costiere. I colossali elefanti marini (es. Mirounga angustirostris) del Pacifico meridionale sono oggetto di cure attente da parte del governo messicano che, per salvarli dalla distruzione, li concentra in una riserva situata a 140 miglia a nord della penisola della Bassa California. Numerosi sono i Cetacei, dei quali si contano ben 26 specie nel Pacifico settentrionale; fra le specie pacifiche noteremo la Balaena japonica e la Sibbaldia sulphurea; la B. mysticoetus sembra completamente scomparsa da quelle acque. I Capodogli nuotano in grandi branchi a sud del 40° lat. N., soprattutto attorno all'arcipelago delle Hawaii e sulle coste della California.
Fra i Pesci, si citano come peculiari del Pacifico settentrionale le famiglie Anoplomatitidae (es. Anoploma fimbria), della costa pacifica dell'America Settentrionale, ed Hexagrammidae; a quest'ultima appartiene il Pleurogrammus monopterygius, iits, che emigra ogni estate alle isole Aleutine ed è molto ricercato come alimento; oltre il queste le fam. Rhamphocottidae, Hoplichtydae e la maggioranza degli Zoareidae. I pesci pelagici gregarî e migratori del Pacifico, largamente sfruttati dall'uomo, appartengono alle stesse famiglie e spesso ai medesimi generi rappresentati nell'Atlantico. Fra i Salmonidi, gli Onchorhynchus del Pacifico settentrionale, di speciale importanza per l'industria peschereccia, sono affini al Salmo dell'Atlantico settentrionale. Fra i Clupeidi, l'Aringa del Pacifico (Clupea Pallasi) sostituisce l'Aringa dell'Atlantico. Altri Clupeidi importanti sono la Sardina sagax diffusa dal Perù al Messico, la S. coerulea, che ha grande interesse per l'industria peschereccia di California, e la S. melanosticta che si pesca nel Giappone (la Sarda chilensis abita il Pacifico SE.). Il Tonno che si cattura nel Pacifico temperato è l'Orcynus germo diffuso anche nell'Atlantico.
Lungo le isole del Pacifico tropicale si osservano gl'Insetti marini del gen. Halobates, che camminano alla superficie del mare, come fanno le idrometre sulle acque dolci. Fra i Crostacei decapodi si citano come caratteristiche per le coste pacifiche dell'America la Blepharipoda occidentalis e alcune specie del gen. Petrolisthes; la famiglia dei Litodidi appartiene quasi tutta al Pacifico settentrionale; nelle acque giapponesi vivono le aragoste del gen. Linuparus e i granchi giganti del gen. Macrocheira. Fra i Molluschi il gen. Nautilus, unico superstite dei cefalopodi tetrabranchiati, oltre alla parte più orientale dell'Indiano, abita un'ampia zona del Pacifico orientale fino alle isole Figi e alla Nuova Caledonia. Le risorse faunistiche del Pacifico vengono sfruttate in ogni sua zona. Nel Mare dei Coralli la pesca delle ostriche perlifere (Meleagrina) occupa circa 5000 persone, ed è molto attiva la pesca delle oloturie per la preparazione del trepang. Attivissima alle Nuove Ebridi e alla Nuova Caledonia è la ricerca di un gasteropodo, il Trochus niloticus, per l'industria della madreperla.
Il Giappone ha un'industria peschereccia di primissimo ordine, che, pur conservando i sistemi tradizionali di pesca, ha contemporaneamente sviluppato i più moderni senza trascurare alcun prodotto utile del mare: il corallo rosso si pesca in abbondanza fra 50 e 200 m. di profondità; si pratica su larga scala l'ostreicultura, e gli allevamenti di Meleagrina, nel Giappone meridionale, hanno dato occasione a esperienze interessanti. Al prodotto copioso della pesca non è certo estraneo il ricco plancton che si sviluppa nei contatti fra il Kuro shio e zone di acqua fredda. Grazie a favorevoli condizioni ambienti e alla buona organizzazione, la pesca è diventata un'industria fiorente anche lungo le coste pacifiche dell'America, soprattutto in Alasca e in California. La pesca americana è legata più intimamente di quella giapponese all'industria del pesce in conserva e in primo luogo del salmone in scatola; a tale scopo lavorano sulle coste pacifiche dell'America ben 332 stabilimenti. A Monterey (California) è organizzata la pesca dei polpi su grande scala con pescatori e con attrezzi italiani; il prodotto si vende sui mercati dell'Estremo Oriente.
Risorse economiche: Pesca. - I più notevoli distretti di pesca del Pacifico si trovano nell'emisfero boreale, tanto sul lato asiatico quanto su quello americano. Il distretto asiatico si stende dalle coste del Camciatca, attraverso le acque delle Curili e delle isole Giapponesi fino a Formosa, comprendendo anche i limitrofi mari interni: le zone più ricche di plancton, e perciò anche di pesce, sono quelle nelle quali si mescolano acque di diversa provenienza, temperatura e salinità, come quelle dell'Ora shio e del Kuro shio. I Giapponesi sono pescatori abilissimi da tempo remoto e sono forse i maggiori consumatori di pesce del mondo; essi utilizzano tutto ciò che il mare offre (comprese alcune alghe commestibili), ma si dedicano soprattutto alla pesca del salmone, del merluzzo, dell'aringa. Mancando un'area di concentrazione, come è nell'Atlantico il Banco di Terranova, la pesca si esercita in alto mare, su aree molto vaste. Si calcola che oltre un milione e mezzo di Giapponesi siano occupati nella pesca e industrie connesse; mancano tuttavia statistiche esatte sull'entità del prodotto annuo, che non basta del resto a coprire il consumo interno.
Il Mare di Bering e lo stretto omonimo stabiliscono quasi una continuità fra questo distretto nord-occidentale e quello nord-orientale, o alascano-canadese, che si stende lungo tutta la piattaf0rma continentale, verso sud, fino al fiume Columbia. In questa zona e nei fiumi che vi hanno foce, si trovano i centri più importanti del mondo per la pesca del salmone e anche per le connesse industrie di preparazione e conservazione. Alle località del sud (foci del Columbia, del Fraser, Puget Sound) si sono aggiunte quelle più settentrionali (fiume Skeena, acque delle Tlinkiti, Cook Inlet nell'Alasca, Prince William Sound, Baia di Bristol, foci dello Yukon), che anzi oggi hanno maggiore importanza. Si pescano inoltre grandi quantità di aringhe, merluzzi, scombri, ippoglossi e anche polipi, ecc. Alla pesca partecipano largamente gli Asiatici (Giapponesi, Coreani, Cinesi, Filippini); non mancano pescatori italiani. I distretti dell'emisfero boreale non hanno corrispondenti di uguale valore nell'emisfero opposto, tuttavia cresce di giorno in giorno l'importanza delle coste chilene (specie nel nord, dove gli abitanti della costa, scarsissima di risorse, trovano nel mare il fondamento dell'alimentazione), e soprattutto di quelle neozelandesi. Sono poi pescatori abilissimi in genere tutti gli abitanti degli arcipelaghi oceanici, ma il prodotto serve al consumo locale e non è oggetto di largo traffico, salvo per quanto riguarda le oloturie, che servono a preparare il trepang, cibo apprezzato dai Cinesi. L'otaria e altri mammiferi dalla ricca pelliccia sono oggetto di caccia nel Mare di Bering, ma quivi gli Stati Uniti hanno da tempo costituito delle riserve (isole Pribilov, ecc.) protette da accordi internazionali. Numerose specie di foche sono oggetto di caccia lungo le coste nordamericane ed anche nelle acque giapponesi, anzi talune sono presso che scomparse (Arctocephalus Townsendii) per le spietate distruzioni. L'isola messicana di Guadalupa è un luogo di convegno delle foche, protette ora da leggi di riserva. Altrettanto poteva dirsi per le isole di S. Felice e S. Ambrogio nell'emisfero australe, ora tuttavia quasi abbandonate per la caccia troppo distruttiva. Le foche frequentano ancora in grandi branchi l'Isola Settentrionale della Nuova Zelanda.
La caccia alle balene (B. japonica e B. mysticoetus) si esercita da parte di Canadesi, Alascani e Giapponesi nei mari di Bering e di Ochotsk e al largo dell'Alasca, ma è in rapida diminuzione. Una specie affine dell'emislero sud è oggi attivamente ricercata lungo le coste chilene e nei paraggi più meridionali fino all'Antartide, come sono ricercate anche le balene tropicali (Fiseteridi), p. es. nelle acque delle isole Marchesi.
Altri prodotti del Pacifico sono il corallo (Giappone), e le perle. Per queste le aree di più attiva pesca sono il Mar Cinese Orientale, il Mediterraneo Australasiatico, le acque delle Caroline, quelle dello Stretto di Torres, ecc. Oltre alla meleagrina, è ricercata l'Avicula albida, propria delle Tahiti, una specie di Trochus, utilizzata soprattutto per la madreperla, ecc.
Tra i prodotti vegetali sono da menzionare alcune alghe commestibili del Giappone (Porphyra tenera; Gelidium corneum, preparata in gelatina col nome di agar-agar, ecc.) e altre del Chile, ecc.; inoltre la Mncrocystis pirifera e altre alghe dalle quali si estraggono potassa, soda, ecc. (California). Tra i prodotti minerali dell'Oceano non è per ora largamente utilizzato che il sale.
Le vie di navigazione e i porti. - Il contrasto, già più volte segnalato riguardo a talune caratteristiche (presenza di articolazioni e di mari adiacenti, insularità ecc.) fra il Pacifico occidentale e l'orientale si rispecchia anche nei riguardi della navigazione. In tutta la parte occidentale e anche nel centro, fino al limite dell'area disseminata di arcipelaghi, i primi scopritori europei trovarono un'attività marinara molto sviluppata: Malesi e Polinesiani, Caroliniani e Canachi ed anche Melanesiani e Papuasi mostravano un'abilità spesso straordinaria come marinai ed anche, non di rado, come costruttori d'imbarcazioni di diversi tipi e fogge. Per contro il Pacifico orientale e anche il settentrionale (a nord delle isole Hawaii) erano assolutamente infrequentati. L'attività marinara indigena non cessò affatto dopo la venuta degli Europei e non è cessata neppure oggi, ma rimane ormai ristretta entro limiti modesti.
Il viaggio di Magellano inaugurò l'era della navigazione a vela da parte degli Europei, che abbastanza presto impararono a conoscere alcune linee direttrici in senso est-ovest (p. es. dalle coste peruviane alle Filippine) e anche in senso opposto (dalle Filippine al Messico; Ruy López de Villacolobos, anno 1542) in relazione soprattutto al regime dei venti, che obbligavano talvolta a lunghi giri o a deviazioni stagionali; ma la traversata da un capo all'altro dell'oceano rappresentò sempre un ardimento, specie fino a quando mancarono mezzi esatti per la determinazione delle rotte, quali si ebbero solo nel sec. XVIII, in seguito ai grandi progressi dell'astronomia nautica. Nel sec. XIX la navigazione a vapore ha permesso di abbreviare le rotte e ha eliminato molti rischi, ma la traversata dell'Oceano richiede pur sempre un tempo almeno doppio di quella dell'Atlantico. Si aggiunga che nel complesso il Pacifico ha un retroterra commerciale più ristretto che l'Atlantico. Il traffico è intenso da epoca remota solo sul lato asiatico, dove l'oceano si articola in una serie di mari interni, circondati da coste ricche di porti e dove si aprono le vie verso l'Oceano Indiano e l'Europa; per contro l'America volge in sostanza le spalle al Pacifico; soltanto in epoca recente negli Stati Uniti e nel Canada, poi nell'America istmica, si sono allacciate vie di comunicazione che superano gli ostacoli delle barriere montuose; l'apertura del Canale di Panamá ha poi determinato addirittura nuove correnti di traffico, come si dirà.
Ai nostri giorni la grande navigazione a vela - che ebbe periodi di rigoglio nei secoli XVIII e XIX - si effettua soltanto su poche rotte: i velieri che giungono in Australia dall'Europa, girando intorno al Capo di Buona Speranza, tornano talora carichi di prodotti australiani ai porti europei per la via Nuova Zelanda-Terra del Fuoco, attraversando la zona dei venti occidentali; il legname del Canada, i legni coloranti e tintorî e taluni minerali del versante pacifico dell'America Centrale vengono trasportati in Europa per la via del Capo Hoorn su navi a vela che seguono rotte suggerite dal regime dei venti e dalla ubicazione della zona di calme; con navi a vela si effettua ancora in parte il trasporto dei nitrati dal Chile. Altre rotte uniscono l'America Settentrionale all'Asia orientale ed all'Australia, ma il traffico su di esse è molto limitato.
Alla navigazione a vapore il Pacifico si è aperto da poco più di mezzo secolo, talché il traffico non vi ha ancora raggiunto un'intensità paragonabile a quella che si verifica su alcuni dei fasci di linee più frequentate degli altri due oceani maggiori; ma esso va crescendo rapidamente, specie per la sempre più larga partecipazione degli Stati Uniti, ai quali il Canale di Panamá ha permesso di allargare straordinariamente i rapporti commerciali con tutti i paesi affacciati al grande oceano, e del Giappone, le cui linee di navigazione percorrono il Pacifico in tutti i sensi.
Il commercio marittimo interpacifico, che si avvicina ormai a 10 milioni di tonn. annue nette, si effettua principalmente su quattro direttrici. Il fascio di rotte più importante è quello nordpacifico, che congiunge i porti dell'Asia orientale (Cina, Giappone, Filippine) con quelli degli Stati Uniti e del Canada. I percorsi più diretti (Yokohama-Victoria: 4200-4400 miglia) si compiono oggi in dieci giorni; da 14 a 16 ne occorrono da Yokohama a S. Francisco per le Hawaii. Il secondo fascio, dai porti dell'America Settentrionale sul Pacifico a quelli dell'Australia e della Nuova Zelanda, comprende rotte più lunghe: 6500 miglia da S. Francisco a Sydney, altrettanto o poco più, da Vancouver a Brisbane; distanze che si superano in 25-30 giorni (direttamente o per Honolulu e Pagopago). Il fascio che può dirsi del Pacifico occidentale collega i porti dell'Asia orientale con quelli dell'Australia e della Nuova Zelanda, per mezzo di linee giapponesi, inglesi ece.; infine quello del Pacifico occidentale collega i porti dell'America Settentrionale con quelli dell'America Meridionale ed anche con l'estuario del Plata; le linee dirette non hanno qui finora importanza, mentre abbastanza attivo è il traffico che si esercita di porto in porto sul lunghissimo fronte marittimo, dal Canada al Chile.
A queste linee interpacifiche si aggiungono quelle, molto più importanti, che penetrano dagli oceani adiacenti, in virtù delle quali il traffico marittimo risulta circa quadruplicato. Dall'Oceano Indiano le linee più frequentate penetrano per lo Stretto di Singapore, dirette ai porti dell'Australia orientale e della Nuova Zelanda; questa è, tuttora, la via più diretta e rapida per le comunicazioni con l'Europa, onde tutti gli stati marinari europei - compresa l'Italia - hanno servizî diretti, che seguono questa via. Il porto di Melbourne e i porti neozelandesi si raggiungono peraltro anche da Colombo, via Fremantle e Adelaide; infine vi è pure qualche collegamento fra l'Australia meridionale e il Sudafrica. Sul lato orientale dell'oceano una nuova via di accesso è stata aperta col taglio dell'Istmo di Panamá, il cui traffico nella media dell'ultimo triennio si è aggirato intorno a 20 milioni di tonn. nette, rappresentato per poco meno della metà dalla bandiera nordamericana, e per un altro quarto dalla britannica. Si può calcolare all'ingrosso che una metà di questo traffico sia diretto ai porti sul Pacifico dell'America Settentrionale (42% a quelli degli Stati Uniti, 7% ai canadesi), il 15% ai porti dell'America Meridionale, il 25% all'Asia orientale, il 10% all'Australia e alla Nuova Zelanda. Nuove rotte, sconosciute alla navigazione a vela, solcano dunque oggi l'Oceano Pacifico in tutta la sua estensione, mentre molte delle vecchie rotte, frequentate allorché una sola potenza dominava il Perù e il Messico da un lato, le Filippine dall'altro, sono presso che abbandonate.
Dei porti, quelli di maggior movimento sono, per le ragioni già più sopra accennate, sul lato occidentale: in Cina Shang hai e Hong-kong, poi Canton, Nanchino, Tien-Tsin; nel Giappone Kobe al primo posto, poi Yokohama, Ōsaka e Moji, in Manciuria Dairen; inoltre Manila nelle Filippine, Saigon nell'Indocina, Batavia (con Tandjoeng Priok), Semarang, Soerabaja a Giava. In Australia Sydney e Melbourne, e a distanza Brisbane, nella Nuova Zelanda Wellington (oggi al primo posto) e Auckland. Sul lato orientale il porto di gran lunga alla testa per movimento è Vancouver; seguono, ma a notevole distanza, S. Francisco e Los Angeles, poi Balboa allo sbocco del Canale di Panamá. Nell'America Meridionale nessun porto ha posizione di primato: maggior movimento hanno i tre porti chileni di Valparaíso, Iquique e Antofagasta e il Callao nel Perù.
Nel mondo insulare del Pacifico il porto di gran lunga più attivo è Honolulu nell'isola Oahu (Hawaii); tutti gli altri (Apia nelle Samoa, Suva nelle Fígi, Papeete a Tahiti, ecc.) hanno importanza secondaria.
Il Pacifico è traversato da un'estremità all'altra da due cavi telegrafici. Quello inglese unisce Esquimalt nell'isola Vancouver per Fanning e Suva all'isola Norfolk, donde con un ramo raggiunge la Nuova Zelanda, con l'altro l'Australia; posato nel 1902 e raddoppiato nel 1923-27, è il più lungo cavo del mondo (13.550 km., dei quali 6400 da Esquimalt a Fanning, 3784 da Fanning a Suva, 1818 di qui a Norfolk e 1550 fino al Queensland). Il cavo americano, collocato nel 1905, unisce S. Francisco, per Honolulu e Midway, a Guam e questa a Manila e Shang hai; Guam è poi collegata con le isole Bonin e il Giappone, con Celebes, con Yap nelle Caroline. Un terzo cavo transpacifico, ancora più lungo di quello inglese, si sta posando dal Giappone agli Stati Uniti per le Bonin, le Marshall e le Hawaii (14 km.). Tra i cavi di minor lunghezza, notevoli quelli che allacciano l'Australia alla nuova Guinea, alla Nuova Zelanda ecc. Nel complesso la rete dei cavi del Pacifico supererà, quando sarà ultimato il terzo cavo transpacifico su menzionato, i 150.000 km.
La divisione politica dell'Oceano Pacifico. - Come è noto, Magellano, nel suo viaggio di circumnavigazione, toccò le Marianne, poi le Filippine e le Molucche; ma queste ultime, che maggiormente attrassero l'attenzione come centro di produzione delle spezie, dopo essere state lungamente contese ai Portoghesi che le avevano raggiunte per opposta via, rimasero infine a questi col trattato di Saragozza (1529). Questo trattato, determinando la posizione della famosa raya nel Pacifico, assegnava anzi alla zona portoghese anche le Filippine, ma su queste la Spagna non cessò mai di rivendicare i suoi diritti, e finì per occuparle nel 1565-73, mantenendole da allora in poi in saldo possesso. Comunicazioni regolari lurono presto stabilite tra le Filippine ed il Messico (e anche col Perù), e la Spagna ne ebbe da sola il controllo, pur senza procedere all'occupazione di altri arcipelaghi, tranne le Marianne (1668) e alcune delle Caroline. Gli Olandesi, succeduti ai Portoghesi nelle isole della Sonda e nelle Molucche, non mostrarono tendenze di espansione, cosicché altre occupazioni stabili non si registrano fino al sec. XVIII. Il Pacifico fu peraltro teatro, durante i periodi di contese coloniali fra gli stati europei, della guerra di corsa, esercitata dagli Olandesi e più ancora dagl'Inglesi in danno della Spagna, con fatti ed episodî pieni di avventure, dal viaggio di circumnavigazione di Drake al giro del mondo dell'ammiraglio G. A. Anson (1740-44). Nel sec. XVIII gl'Inglesi e poi anche i Francesi organizzarono, come si è veduto, spedizioni d'importanza decisiva per la conoscenza del Pacifico, ma ad esse non fecero seguito occupazioni effettive; anche J. Cook, sbarcato ripetutamente sulla costa orientale dell'Australia, si limitò ad una presa di possesso formale del continente, che fino allora non aveva eccitato le bramosie di altre potenze.
Le prime occupazioni inglesi furono quelle di località designate come colonie penali: nel 1788 l'isola Norfolk e la località di Sydney, nel 1791 l'isola Chatham, nel 1807 l'isola Auckland, nel 1811 Macquarie, nel 1829 Perth. Ad altre occupazioni spianarono la via i missionarî accorsi sin dal principio del sec. XIX per operare la conversione degl'indigeni: anglicani e metodisti inglesi, metodisti episcopali americani, cattolici francesi e anche, in non esiguo numero, italiani. I missionarî spianarono agli Inglesi, ormai incontrastati possessori dell'Australia, l'occupazione della Nuova Zelanda (1840); ai Francesi quella delle Marchesi (1842), di Tahiti e delle Paumotu (1847), della Nuova Caledonia (1853), delle vicine Isole della Lealtà (1864). In parecchi casi l'occupazione assunse dapprima la forma del protettorato su staterelli indigeni preesistenti, ma esigui per territorio e per forze, incapaci di opporre serie resistenze.
Fino al 1870, oltre alle due più vecchie potenze coloniali - la Spagna (che aveva compiuto l'occupazione delle Caroline e delle vicine Palau) e l'Olanda (che si era estesa sulla metà occidentale della Nuova Guinea) - non si erano affermate dunque che la Gran Bretagna e la Francia; solo nell'ultimo quarto del secolo, accentuatesi le gare di predominio, compaiono gli Stati Uniti, la Germania, il Giappone. Ma la Gran Bretagna, che, abolite gradualmente le stazioni di pena, manda ormai fiotti di liberi coloni nell'Australia e nella Nuova Zelanda, sopraffacendo le stirpi indigene, svolge una politica di espansione più attiva ed energica: nel 1874 occupa le Figi, nel 1881 le Rotuma, nel 1884 (per mezzo dell'Australia) la parte sud-est della Nuova Guinea, nel 1887-88 le isole Cook, le Kermadec, le Tokelau e altre minori, nel 1886 fa dichiarare neutrale il regno delle Tonga, gfi in realtà sotto il suo protettorato, nel 1892 s'insedia nelle isole Gilbert e nelle Ellice, nel 1893 in alcune delle Salomone. La Francia invece si limitava ad estendere e a consolidare da un lato le sue occupazioni di Tahiti e delle Paumotu (cui si aggiunsero le isole Australi; 1887-1889), dall'altro quella della Nuova Caledonia, includendovi alcune isole vicine. Gli Stati Uniti volgevano la loro attenzione alle isole Hawaii, rette da una monarchia indigena e penetrate da tempo dall'azione di missionarî nordamericani; dopo varie alternative di acquiescenze e di reazioni, nel 1893 la monarchia era sostituita dalla repubblica, che nel 1896 decideva l'annessione agli Stati Uniti effettuata due anni dopo (v. hawaii). Quanto alla Germania, dopo un decennio di preparazione per opera di grandi società commerciali e imprese marittime, il governo, apparentemente trascinato a disciplinare e tutelare le numerose e varie iniziative di quelle, occupava nel 1883 le isole Bismarck e poco dopo la parte NE. della Nuova Guinea, indi alcune delle Salomone e le Marshall; si sostituiva poi alla inattiva Spagna nella maggior parte delle iniziative economiche riguardanti le Caroline e le Palau, senza peraltro riuscire per allora nel tentativo di occuparle effettivamente. Ma questa attività le aprì egualmente la via all'acquisto per compera di quelle isole, e anche delle Marianne, tranne Guam, dopo che, per la Spagna battuta dagli Stati Uniti, quei possessi divennero un peso piuttosto che un vantaggio. Dalla guerra (1897-98) maggior frutto trassero i vincitori con l'occupazione delle Filippine e di Guam nelle Marianne. La Gran Bretagna assisteva a questi trapassi di dominio, importantissimi per le conseguenze future, limitandosi a proclamare definitivamente il protettorato sulle Tonga, a ciò autorizzata da un accordo con la Germania (1899). Il Giappone, che nel 1876 aveva preso possesso delle isole Bonin e nel 1891 di Volcano, rimaneva soprattutto deluso per le nuove occupazioni che gli precludevano la via ad ogni espansione politica, ma doveva attendere l'esito della guerra mondiale per realizzare alcune delle sue aspirazioni.
Non rimanevano ormai inoccupate che isole sperdute e solitarie, quasi tutte annesse dall'una o l'altra delle ricordate potenze negli anni successivi; restavano soltanto in condominio anglo-francese le Nuove Ebridi. All'alba del sec. XX la divisione politica del Pacifico poteva dirsi terminata.
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La questione del Pacifico.
La cosiddetta questione (o problema) del Pacifico, che costituisce senza dubbio uno dei più importanti e gravi problemi della vita politica mondiale nel dopoguerra, è, più precisamente, questione del dominio dell'Oceano Pacifico per l'espansione, se non proprio militare, almeno economica e morale, nell'Asia orientale e, con ancor maggiore precisione, nella Cina. Lo stato di disordine politico in cui quest'ultima nazione si trova e che rende possibile a potenze straniere l'intervento attivo nella vita interna cinese, e, per converso, le sue grandi risorse naturali che ne fanno un invidiato campo di sfruttamento per stati più forti e più progrediti, hanno reso possibile il sorgere di una questione del Pacifico.
Il punto di partenza del contrasto non è di epoca molto antica. Sino verso la fine del sec. XIX il monopolio dello sfruttamento della Cina era riservato a potenze europee, l'Inghilterra soprattutto, la Francia e la Russia, in ultimo anche la Germania. Ma con la guerra cino-giapponese del 1894-95 si faceva risolutamente innanzi il Giappone; e nel 1898 l'occupazione dell'arcipelago delle Filippine - cioè di una posizione d'importanza eccezionale - e, più arretrate, delle isole Hawaii, da parte degli Stati Uniti, frantumava definitivamente la tradizione puramente europea di sfere d'interessi in Cina. Anzi, nel periodo susseguente, fino alla guerra mondiale, l'iniziativa d'azione e la preponderanza d'interessi sfuggivano agli Europei per passare ai Giapponesi, usciti vincitori dalla lotta contro la Russia, nel 1904-05, e ai Nordamericani, ancor più attratti verso il Pacifico e le regioni rivierasche del Pacifico per effetto dell'apertura del canale di Panamá (1914).
La guerra mondiale doveva alterare ancora, a profitto delle due grandi potenze non europee e particolarmente del Giappone, la situazione nell'Estremo Oriente e nel Pacifico. Il Giappone interveniva immediatamente nella guerra, a fianco degli Alleati: ma tutta la sua azione si limitava a strappare, con poca fatica, alla Germania le sue concessioni e possedimenti in Cina. I trattati di pace arrotondavano ancora il già pingue bilancio attivo del Giappone, al quale, con mandato di tipo C della Società delle nazioni, veniva affidata l'amministrazione delle isole Caroline, Marshall, Marianne già appartenenti alla Germania. In tal guisa il Giappone estendeva il suo raggio d'azione diretto assai addentro nel Pacifico.
Ma così si aggravavano i contrasti fra i due grandi stati rivieraschi del Pacifico, Stati Uniti e Giappone, contrasti già palesi sin dalla fine del sec. XIX, quando in America era stato formulato da John Hay, nel 1899, il principio della difesa della Cina contro ogni pretesa monopolistica (Open door and equal opportunity in China), principio che divenne la base dottrinale della politica americana. Ad acuire l'attrito interveniva pure un altro fattore, il progressivo aumento dell'emigrazione giapponese negli Stati Uniti (soprattutto nella California) e nelle isole americane del Pacifico: che era, sotto altra forma e con direzione di movimento opposto (da O. a E., anziché da E. a O.) la manifestazione di quello stesso bisogno di dar sfogo alla propria, sovrabbondante popolazione, che spingeva pure il Giappone verso la Manciuria e la Cina. Dopo il 1900 si aveva infatti una vasta ondata emigratoria giapponese che, dopo aver fatto centro, in un primo momento, nelle isole Hawaii, sboccava poi nella California, ecc. La violenta reazione americana, espressasi sin dall'anteguerra e poi nel dopoguerra in provvedimenti e leggi volte a sbarrare la via agli emigranti giapponesi, invisi anche perché di difficilissima assimilazione, provocava a sua volta una forte risentimento sull'altra sponda del Pacifico: cioè rendeva ancora più complesso e delicato il problema generale dei rapponi fra le due potenze.
Ma se il contrasto fondamentale nel Pacifico diveniva, dall'inizio del sec. XX, quello fra Stati Uniti e Giappone, non bisognerebbe tuttavia ritenere che soli fossero in giuoco interessi di quelle due potenze: ché anzi in primo piano rimanevano pur sempre anche Inghilterra e Russia.
L'atteggiamento inglese era, specialmente nell'immediato dopoguerra, nettamente favorevole al Giappone: sia perché in quel momento in cui era divenuto acuto il contrasto anglo-americano per la supremazia navale il Giappone costituiva per l'Inghilterra il più valido contrappeso alla minaccia nordamericana; sia anche perché di fronte alle tendenze espansioniste della Russia sovietica nell'Asia - tendenze che minacciavano anzitutto la potenza britannica - il Giappone nuovamente significava un alleato. Di qui l'alleanza anglo-giapponese, a cui rimanevano tenacemente avvinti gli uomini politici inglesi.
Ma se filonipponico era l'orientamento politico della Gran Bretagna, diverso era lo stato d'animo di uno dei suoi più importanti dominions: vale a dire dell'Australia, minacciata dall'espansione giapponese che cercava uno sbocco ai proprî bisogni con l'emigrazione su larga scala nelle terre australiane (e infatti anche qui, come negli Stati Uniti, si avevano leggi restrittive sull'emigrazione specialmente giapponese). E sostanzialmente antinipponico era anche il Canada: donde un contrastare di opinioni fra madrepatria e dominions, che doveva venire più volte in luce.
Quanto alla Russia sovietica, che svolgeva negli anni posteriori alla guerra mondiale un'intensa politica di penetrazione e di propaganda nella Cina. il problema del Pacifico significava essenzialmente problema della Manciuria: il che la doveva porre per forza di cose in contrapposiz. one con l'avanzata nipponica dalla Corea.
Si determinava così una situazione estremamente complessa e delicata, anche per la già iniziata reazione cinese all'invadenza giapponese (questione dello Shan-tung; v. Giappone), che si cercava di sistemare, dopo lunghe trattative, negli accordi di Washington, tra il dicembre 1921 e il febbraio 1922: e cioè il trattato delle quattro potenze (Stati Uniti, Inghilterra, Giappone e Francia) del 13 dicembre 1921 - completato da un trattato addizionale del 6 febbraio 1922 e dalla convenzione speciale fra Stati Uniti e Giappone dell'11 febbraio 1922 - che statuiva il rispetto dei rispettivi diritti e dominî insulari (delle isole sotto mandato) nel Pacifico; il trattato delle nove potenze (Belgio, Francia, Giappone, Inghilterra, Italia, Olanda, Portogallo, Stati Uniti e Cina), firmato il 6 febbraio 1922 e preceduto dal trattato fra Cina e Giappone del 4 febbraio, per cui le parti contraenti s'impegnavano a rispettare la sovranità e l'integrità territoriale e amministrativa della Cina, senza esercitare alcuna influenza tendente a ottenere una posizione di privilegio per lo sviluppo dei proprî commerci e industrie nel paese (e perciò il trattato sanciva il cosiddetto principio della "porta aperta"); e il trattato per la limitazione degli armamenti navali, firmato pure a Washington il 6 febbraio 1922, fra Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Italia e Giappone, il quale, se pure non limitato ai problemi del Pacifico, acquistava tuttavia anche per questi un'importanza essenziale, col fissare i rapporti tra le flotte americana, inglese e giapponese (5 : 5 : 3). Conseguenza essenziale di tali accordi, l'attenuazione dell'antagonismo angloamericano e l'annullamento dell'alleanza anglo-giapponese.
L'antagonismo fra Stati Uniti e Giappone è tuttavia sussistito, e in questi ultimi tempi, dal 1931 in poi, la situazione si è anzi fatta assai più delicata in seguito all'azione giapponese in Cina e in Manciuria (v.). Il fallimento delle trattative sulle questioni navali, svoltesi a Londra negli ultimi mesi del 1934 fra i rappresentanti degli Stati Uniti, dell'Inghilterra, del Giappone, e la denunzia da parte del Giappone, che reclama la parità navale con le altre due potenze, del trattato di Washington stesso (29 dicembre 1934), dimostrano come la situazione rimanga piena d'incognite.
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