odio e amore
Presentare questa coppia di nozioni anteponendo l’odio vuole avere un significato preciso: la tematizzazione politica dell’odio occupa una posizione chiave nel ragionamento machiavelliano, mentre amore è patrimonio comune (e cruciale) del lessico politico medievale e ha inoltre una lunga storia antica – dalla philia greco-latina alla concordia comunale e umanistica passando per la caritas cristiana. Non si intende con ciò che l’odio nella riflessione di M. prenda il sopravvento sull’amore, e ancor meno che il concetto di amore ricevuto in eredità sia un lascito morto. L’amore rimane un’esigenza strutturale della compagine statale, nella vita civile (come relazione tra cittadini, o sudditi, e capi, o principi), come in quella militare (amore dei soldati per il capitano). Si vedrà anche che fino al 1512 l’amore non compare nella prosa di M. in quanto concetto produttivo della teoria politica, ma piuttosto come un modulo, un elemento di linguaggio tecnico codificato (quello della diplomazia o dei moduli comuni del linguaggio repubblicano). Si potrà anche mostrare come la nozione di odio intervenga quasi solo nei testi post res perditas (essendo invece assente dai carteggi di cancelleria), ma in modo decisivo per organizzare e strutturare una rosa di nozioni complementari che mirano a identificare quali siano le relazioni più armoniose tra governanti e governati: forza, affezione, concordia, timore, paura, amici, nemici.
Negli scritti di governo l’amore non si oppone all’odio, ma alla ‘forza’ (nei conflitti) o alla potenziale perdita di rispetto per la patria o la città dominante. L’uso della parola amore, nella codificazione tecnica propria del linguaggio di cancelleria, compare per lo più in due situazioni. In primo luogo, definisce la natura della relazione auspicata con il destinatario del messaggio. Le «parole», i «ragionamenti» o le «dimostrazioni» sono, quindi, «amorevoli» e viene proclamato l’amore del destinatario per chi scrive o viceversa. All’apice di questo uso (ma soprattutto come indizio di un fortissimo retaggio di tradizione indissolubilmente religiosa, giuridica e filosofica) è la ricorrenza della nozione di «amore della patria», in quanto traslazione alla politica della virtù cristiana della caritas dal Duecento in poi (in Discorsi III xlvii 4 si trova l’hapax «carità della patria», come traccia del vecchio lessico umanistico nel nuovo linguaggio politico) ed esigenza strutturante della relazione cittadino/repubblica – nella tradizione ciceroniana (De officiis I 57: Cari sunt parentes, cari liberi, propinqui, familiares, sed omnes omnium caritates patria una complexa est, pro qua quis bonus dubitet mortem oppetere, si ei sit profuturus?, «Proviamo affetto per i genitori, per i figli, i prossimi, i familiari, ma la patria, da sola, abbraccia tutti i nostri affetti per loro; per lei chi è buono non esiterebbe a offrirsi alla morte se questa dovesse tornarle a profitto?»), ma anche in quella dottrinale, giuridica.
L’espressione «amore della patria» è presente nel carteggio di cancelleria, nelle pratiche fiorentine, ma anche nelle opere maggori di M. (per es., in Discorsi III viii 10: «in tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro rispetto»). Ma in tale caso ovviamente l’espressione funziona in una logica univoca più che binaria, perché il più delle volte all’amore per la patria non si oppone l’odio per la patria; è pur vero che «il nemico della patria» era uno dei pochi casi in cui veniva pensata l’inimicizia prima del Cinquecento.
«Amore» nel carteggio di cancelleria viene usato poi in frequenti dittologie sinonimiche con fede, sincerità, sollecitudine, benivolenzia, diligenzia e affezione. Spesso «amore» vale per «affezione», un altro termine frequente del lessico cancelleresco del Segretario (e usato anch’esso in dittologia sinonimica con «fede»). In questo caso intervengono anche le forme modali – avverbiali e aggettivali – come «amorevole» o «amorevolmente» (in tutto, 130 occorrenze negli scritti di cancelleria). Valga per tutti l’esempio della lettera ai Dieci del 12 gennaio 1502, nella quale scrive, a proposito delle parole del Valentino, «fu in effetto un parlare con tanta demostrazione d’amore verso cotesta città e con tanti termini amorevoli e prudenti, che io non li arei saputi desiderare più» (LCSG, 2° t., p. 550). Le ‘parole amorevoli’ non sono vuote formalità d’uso, ma attestano un atteggiamento politico reale (cfr. Senatore 2014). D’altronde, non a caso, ritroviamo l’impiego di «amore» e «amorevoli» in termini analoghi a quello del carteggio di cancelleria anche nelle Istorie fiorentine – specialmente nelle concioni, ma non solo – per qualificare negoziati o discussioni politiche, diplomatiche o militari. Anche per questo, il ricorso al campo semantico dell’amore e dell’affezione nella scrittura codificata di cancelleria, specialmente nelle formule conclusive delle lettere, non è così lontana dall’altro uso frequente della nozione di amore, nelle legazioni e commissarie, quando M. ne fa uno strumento per definire un’alternativa fondamentale dei rapporti politico-militari nella coppia amore/forza, leggibile anche sotto la forma tecnicamente più precisa ‘per accordo’/‘per forza’. La coppia amore/forza nell’espressione modellizzata «per amore o per forza» definisce le due modalità possibili dei rapporti politico-militari, quella pacifica e quella conflittuale (a volte la coppia significa più largamente ‘in modo volontario’/‘forzato’, come nella lettera a Lionardo Ridolfi del 31 luglio 1498, LCSG, 1° t., p. 24). Si noterà, tuttavia, che il binomio viene ripreso pochissime volte dopo il 1512, per es. in Discorsi II iii 4.
Uno dei maggiori tratti caratterizzanti della riflessione politica machiavelliana è la critica di un topos tramandato da secoli – benché manifestamente smentito dalle pratiche politiche dominanti dal Duecento in poi, segnatamente nella faziosa Firenze – che faceva della concordia l’orizzonte obbligato dell’organizzazione politica, e della caritas una delle virtù teologali prestata alla sociabilità politica e costitutiva della comunità. Come si sa, per M. la storia dimostra la presenza continua delle divisioni in seno alle repubbliche; inoltre, a certe condizioni, la stessa discordia può funzionare come un baluardo della libertà. Tale assunto costringe ovviamente a ripensare radicalmente il ruolo dell’amore nella dinamica politica, soprattutto in una situazione di guerra permanente che rende obsoleto il sogno di quella ‘società degli amici’ cara ad Agostino e a Tommaso d’Aquino. La divisione che prima, nelle cronache cittadine, era descritta, deplorata e condannata, ma mai veramente analizzata, deve oramai diventare oggetto di scrupolosa riflessione; e M. è uno dei primi a farlo. Sia nel Principe sia nei Discorsi l’odio prende un posto di rilievo, non perché esso sostituisca l’amore, ma per ridefinire il perimetro di efficienza dell’amore grazie anche all’intervento di una terza nozione: la paura.
Nasce da questo una disputa: s’egli è meglio essere amato che temuto o e converso. Rispondesi che e’ si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma, perché egli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell’uno de’ dua. [...] Debbe nondimanco el principe farsi temere in modo che, se non acquista lo amore, ch’e’ fugga l’odio (Principe xvii 8-9 e 12).
Nello stesso capitolo del Principe viene descritta la dinamica psicologica in forza della quale il timore si dimostra, in politica, più efficace dell’amore:
degli uomini si può dire questo, generalmente, ch’e’ sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, e’ sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita e’ figliuoli – come di sopra dissi – quando il bisogno è discosto: ma, quando ti si appressa, si rivolto-no, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina. Perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e non con grandezza e nobilità di animo, si meritano ma elle non si hanno, e alli tempi non si possono spendere; e li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo il quale, per essere gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai (Principe xvii 10-11).
In tal modo si delinea un potenziale equilibrio, asimmetrico, tra o. e a. nel quale la paura, il timore, fanno da ago della bilancia. Infatti, se è auspicabile essere amati, non si può sempre esserlo, sì che risulta utile e necessario essere temuti. Non si deve mai, tuttavia, essere odiati. Nelle «cose di dentro», nell’ambito di quella costruzione di un consenso parziale, fragile ma stabile, che rimane l’obiettivo della Repubblica, assumono un valore dinamico e produttivo sia l’odio («Di che ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio, donde si veniva alla divisione, dalla divisione alle sètte, dalle sètte alla rovina», Discorsi I viii 18) sia l’amore («non erano necessari i soldati pretoriani né la moltitudine delle legioni a difenderli [scil. gli imperatori ‘buoni’], perché i costumi loro, la benivolenza del Popolo, l’amore del Senato, gli difendeva», Discorsi I x 16). Quanto alla politica estera, la paura del nemico esterno è una spinta ad agire ossia ad armarsi di armi proprie:
uno principe debbe avere dua paure: una dentro, per conto de’ sudditi; l’altra di fuora, per conto de’ potentati esterni. Da questa si difende con le buone arme e co’ buoni amici; e sempre, se arà buone arme, arà buoni amici (Principe xix 6-7).
Capitale in tale prospettiva diventa una tipologia dell’odio e della paura per tentare di stabilire la frontiera – mobile e tenue – tra le due nozioni, «perché e’ può molto bene stare insieme esser temuto e non odiato» (Principe xvii 12). La linea di separazione tra odio e paura non è sempre facile da individuare, perché l’una può essere «cagione» dell’altro, come ci ricorda Discorsi II proemio 5: «Oltra di questo, odiando gli uomini le cose o per timore o per invidia, vengono a essere spente due potentissime cagioni dell’odio nelle cose passate, non ti potendo quelle offendere e non ti dando cagione d’invidiarle». Si può anche distinguere tra vari livelli di odio a seconda dei soggetti considerati:
perché, non potendo e’ principi mancare di non essere odiati da qualcuno, si debbono sforzare prima di non essere odiati da le università: e, quando non possono conseguire questo, debbono fuggire con ogni industria l’odio di quelle università che sono più potenti (Principe xix 32).
Quando l’odio è troppo forte, la divisione diventa nefasta. Si passa dal modello virtuoso della prima Repubblica romana a quello, negativo, dei Gracchi: con la loro riforma agraria «si accese [...] tanto odio intra la Plebe e il Senato che si venne alle armi e al sangue, fuori d’ogni modo e costume civile» (Discorsi I xxxvii 16). Complica la situazione il fatto che l’odio si acquisti mediante le buone oltre che le cattive opere, come indicano le considerazioni su Pertinace:
l’odio si acquista così mediante le buone opere, come le triste, e però – come io dissi di sopra – uno principe, volendo mantenere lo stato, è spesso sforzato a non essere buono. Perché, quando quella università, o populi o soldati o grandi che e’ si sieno, della quale tu iudichi avere, per mantenerti, più bisogno, è corrotta, ti conviene seguire l’umore suo per satisfarle: e allora le buone opere ti sono nimiche (Principe xix 37-38).
Il discorso sulle fortezze costituisce una illustrazione efficacissima della potenza dell’odio:
la migliore fortezza che sia, è non essere odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze, e il populo ti abbia in odio, le non ti salvano: perché e’ non mancano mai a’ populi, preso che gli hanno l’arme, forestieri che gli soccorrino (Principe xx 29; cfr. anche Discorsi II xxiv, intitolato Le fortezze generalmente sono molto più dannose che utili).
Un altro momento privilegiato di sviluppo di una riflessione articolata e puntuale sull’odio è nell’elenco delle azioni del principe che possono provocarlo. M. lo ribadisce nel Principe e nei Discorsi:
Ma chi comanda a’ sudditi, de’ quali ragiona Cornelio, acciocché non doventino insolenti, e che per troppa tua facilità non ti calpestino, debbe volgersi più tosto alla pena che all’ossequio. Ma questa anche debbe essere in modo moderata, che si fugga l’odio; perché farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe. Il modo del fuggirlo è lasciare stare la roba de’ sudditi: perché del sangue, quando non vi sia sotto ascosa la rapina, nessuno principe ne è desideroso, se non necessitato, e questa necessità viene rade volte; ma, sendovi mescolata la rapina viene sempre, né mancano mai le cagioni ed il desiderio di spargerlo; come in altro trattato sopra questa materia si è largamente discorso (Discorsi III xix 10-12; il richiamo interno è a Principe xvii 12-14).
La stessa idea torna anche nelle Istorie fiorentine nel discorso dei cittadini al duca d’Atene:
Pensate, signore, quante forze sieno necessarie a tenere serva una tanta città: quelle che, forestiere, voi potete sempre tenere, non bastano; di quelle di drento voi non vi potete fidare, perché quelli che vi sono ora amici e che a pigliare questo partito vi confortano, come eglino aranno battuti con l’autorità vostra i nimici loro, cercheranno come e’ possino spegnere voi e fare principi loro. La plebe, in la quale voi confidate, per ogni accidente benché minimo si rivolge: in modo che, in poco tempo, voi potete temere di avere tutta questa città nimica; il che fia cagione della rovina sua e vostra. Né potrete a questo male trovare rimedio; perché quelli signori possono fare la loro signoria sicura che hanno pochi inimici, i quali o con la morte o con lo esilio e facile spegnere; ma negli universali odi non si trova mai sicurtà alcuna, perché tu non sai donde ha a nascere il male, e chi teme di ogni uomo non si può assicurare di persona, e se pure tenti di farlo, ti aggravi ne’ pericoli, perché quelli che rimangono si accendono più nello odio e sono più parati alla vendetta (Istorie fiorentine II xxxiv 12-14; si cita dall’edizione a cura di P. Carli, 1927).
Evitato l’odio, deve invece essere pensato un equilibrio tra amore e paura che non cada nelle illusioni della concordia, ma sappia salvaguardare la funzione dell’amore nella dialettica politica:
Oltre a questo, gli uomini sono spinti da due cose principali, o dallo amore o dal timore: talché così gli comanda chi si fa amare, come colui che si fa temere; anzi il più delle volte è più seguito e più ubbidito chi si fa temere che chi si fa amare (Discorsi III xxi 8).
Se c’è un campo nel quale l’amore riconquista un ruolo meno ambiguo è proprio quello della pratica militare. Un’altra volta torna alla ribalta la decisiva questione dei mercenari, ben al di là di un parere tecnico limitato a due capitoli del Principe (xii e xiii). Nei Discorsi viene infatti ribadito che
in quegli eserciti che non è un’affezione verso di quello per chi e’ combattono che gli faccia diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere a uno nimico un poco virtuoso. E perché questo amore non può nascere, né questa gara, da altro che da’ sudditi tuoi, è necessario, a volere tenere uno stato, a volere mantenere una republica o uno regno, armarsi de’ sudditi suoi (Discorsi I xliii 6-7).
La rivalutazione dell’amore come concetto politico non si lega né alla concordia civile né alla caritas (la quale fondava per Tolomeo da Lucca, quindi per la tradizione tomista, l’amore di patria); ha luogo piuttosto all’interno della sfera militare, secondo una convinzione talmente radicata nel pensiero di M. da venire ripresa in ognuna delle opere maggiori. Così, nell’Arte della guerra, amore del capitano e amore della patria sono indissociabili:
La quale ostinazione è accresciuta dalla confidenza e dall’amore del capitano o della patria. La confidenza, la causa, l’armi, l’ordine, le vittorie fresche e l’opinione del capitano. L’amore della patria è causato dalla natura; quello del capitano, dalla virtù più che da niuno altro beneficio (Arte della guerra IV 149-51).
Simmetricamente non esiste peggiore situazione per un capitano, o più generalmente per un capo, dell’essere odiato dai suoi soldati. Il cap. xix del Principe (il grande capitolo sull’odio) ricorda infatti che gli imperatori romani finiti uccisi sono quelli che erano odiati dai loro soldati. Nello stesso modo l’odio del popolo cagiona la rovina dei principi anche quando essi si siano muniti di fortezze (→; Principe xx). Nel ragionamento machiavelliano non mancano le sfumature; per es., l’amore dei soldati per il comandante, indispensabile quando questo si identifica con il principe, può avere esiti negativi nelle repubbliche (Discorsi III xxii 38-42). In queste ultime è invece decisiva una diversa «specie» d’amore: l’amore per la libertà. Solo da questo possono nascere la volontà e la capacità, grazie al forte legame tra Repubblica ed esercito, di difendere la patria e di proiettare lo Stato verso la conquista. Il cristianesimo, o, per restare alla lettera del testo, la sua «falsa interpretazione», ha fatto sì che «nel mondo non si vede tante republiche quante si vedeva anticamente; né, per consequente, si vede ne’ popoli tanto amore alla libertà quanto allora» (Discorsi II ii 37).
«Anticamente» la religione – il paganesimo – svolgeva un ruolo di coesione civile che il cristianesimo non è mai stato in grado di svolgere. Un collegamento logico viene così individuato, da M., tra perdita del legame d’amore, decadenza della virtù, diffusione della religione cristiana, indebolimento della Repubblica, divisioni negative del corpo sociale.
Sull’argomento, si rinvia anche alle voci: nemico, parte, patria.
Bibliografia: J.-C. Fraisse, Philia. La notion d’amitié dans la philosophie antique. Essai sur un problème perdu et retrouvé, Paris 1974; H. Hutter, Politics as friendship. The origins of classical notions of politics in the theory and practice of friendship, Waterloo 1978; M. Senellart, La crise de l’idée de concorde chez Machiavel, «Les cahiers philosophiques de Strasbourg», 1996, 4, pp. 117-33; F. Bruni, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna 2003; M.C. Figorilli, Odio e rovina: una lettura del secondo libro delle Istorie fiorentine, in Ead., Machiavelli moralista. Ricerche su fonti, lessico e fortuna, Napoli 2006, pp. 89111; J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, La connaissance de l’ennemi, in Iid., La grammaire de la république. Langages de la politique chez Francesco Guicciardini (1483-1540), Genève 2009, pp. 125-57; G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 2011; F. Senatore, «Parole/effecti»: le langage de la médiation politique dans les sources documentaires de la Renaissance italienne, in Langues et langages de la guerre à la Renaissance, éd. M.-M. Fontaine, J.-L. Fournel, Genève 2014.