FARNESE, Odoardo
Nacque a Parma l'8 dic. 1573, da Alessandro - poi duca di Parma e Piacenza - e da Maria di Portogallo.
Era il terzogenito, dopo Margherita e Ranuccio, che succederà al padre nel Ducato di Parma e Piacenza. Il suo destino fu segnato già al momento della nascita dalla sua posizione di cadetto, che doveva mantenersi dispoffibile, in caso di morte prematura del fratello maggiore, a prenderne il posto per assicurare la continuità della successione nello Stato. Nell'attesa poteva occupare un posto nel S. Collegio, tanto più importante per i Farnese che con Paolo III avevano costruito le fortune della famiglia sulle risorse della Chiesa. I loro due Stati infatti, sia il Ducato di Parma e Piacenza sia quello di Castro e Ronciglione, ne erano feudi e richiedevano una tutela costante e autorevole al suo interno.
Nel 1580 fu mandato a Roma e affidato per la sua istruzione all'antiquario Fulvio Orsini. Il problema della successione al prozio cardinale Alessandro non era di facile soluzione, perché dal 1585 sedeva sul trono di S. Pietro Sisto V, ostile ai Farnese, che alle loro prime avances oppose un netto rifiuto. Il padre e il prozio pensarono allora di cominciare a trasferire al giovane una parte dei benefici ecclesiastici del vecchio, ma anche su questo terreno il papa oppose una tenace resistenza e acconsentì per una sola abbazia. Per tagliar corto sulla nomina a cardinale, il 3 dic. 1586 emanò la bolla Postquam verus, nella quale almeno due clausole escludevano il F.: quella che richiedeva l'età minima di 22 anni e quella che escludeva i parenti dei cardinali. Il F. con i suoi 13 anni compiuti a dicembre doveva aspettare almeno altri nove anni e sperare che nel frattempo morisse il prozio.
Per ingannare l'attesa si poteva insistere sui benefici, a cominciare dalle rendite dell'arcivescovato di Monreale tenuto a mezzadria dal cardinale Alessandro e dall'arcivescovo Ludovico de Torres. Si accordarono per trasferire al F. la pensione di 10.000 scudi di pertinenza del cardinale, ma ci vollero molti anni prima di avere l'approvazione spagnola che giunse solo nel gennaio del 1590. Nel frattempo il cardinale Alessandro il 2 marzo 1589 era morto e i suoi numerosi benefici ecclesiastici furono distribuiti da Sisto V senza tanti riguardi per il F., al quale toccarono solo l'abbazia di Grottaferrata (6.500 scudi di rendita) e un'altra in Portogallo resignatagli dal prozio in articulo mortis. Qualcosa di più ebbe dalla sua eredità. Secondo il suo testamento, dettato nel 1587, erede universale era il duca di Parma, ma a lui toccava la metà dei beni mobili (con esclusione delle collezioni artistiche che dovevano restare in perpetuo nel palazzo di Roma già di proprietà del duca) e l'usufrutto della Farnesina, degli Orti Farnesiani al Palatino, del castello dell'Isola, dei casali di Pino e Torrevergata, del palazzo di Caprarola.
Sisto V morì il 27 ag. 1590 e, dopo il brevissimo pontificato di Urbano VII, il 5 dic. 1590 fu eletto il candidato della Spagna e persino devoto ai Farnese, Niccolò Sfondrati. Gregorio XIV era proprio il papa che ci voleva per far passare il F. e un paio di mesi dopo la sua elezione, il 6 marzo 1591 lo creò cardinale. La dispensa per l'età si fece attendere di più e arrivò solo il 5 nov. 1591; poco dopo, il 20 novembre, ebbe il titolo diaconale di S. Adriano.
La sua dotazione era ancora piuttosto inadeguata: secondo i calcoli dell'agente lucchese a Parma, Cesare Bernardini (cfr. Zapperi, 1994), con tutta l'eredità della nonna, Margherita d'Asburgo, arrivava appena a 37.000 scudi annui di entrata. Troppo poco, se si considera che quella del cardinale Alessandro era stata valutata nel 1589 sui 120.000 scudi. Un cardinale Farnese abbisognava di tutt'altre entrate per tenere alto il prestigio della famiglia alla corte pontificia. Il duca padre lo sapeva bene e ritornò a bussare alla porta di Filippo II: il 13 maggio 1592 ebbe il protettorato del Regno di Aragona (rendita prevista: 2.000 scudi), il 14 ottobre la badia di Novara (4.000 scudi), il 25 nov. 1593 una pensione sul vescovato di Saragozza e questa volta erano 10.000 scudi. Ma non bastavano ancora e nell'ottobre dello stesso anno il fratello Ranuccio aveva dovuto aggiungere un'integrazione di 24.000 scudi da prelevare sulle entrate del ducato di Castro. Secondo un avviso di Roma del 26 dic. 1592 (Bibl. apost. Vaticana, Urb. lat. 1060, c.760v), con tutta l'integrazione del fratello preannunciata fin da allora, le entrate del F. non dovevano superare i 75.000 scudi. In un altro avviso in data del 13 ott. 1593 (ibid. 1061, c. 590r) lo stesso mercante dava tuttavia per probabile la somma di 60.000 scudi. È un fatto comunque che il F. non poté fare mai a meno dell'integrazione corrispostagli dal fratello e restò sempre ben lontano dalle entrate del prozio.
Gregorio XIV morì presto e non ebbe neanche il tempo di concedergli un solo beneficio. Dopo Innocenzo IX, che durò appena due mesi, fu eletto, con il voto assai incauto dello stesso F., ultimo arrivato nel S. Collegio, Clemente VIII Aldobrandini e da lui invece di benefici ebbe malefici. Il 24 marzo 1592 furono arrestati, per un banale incidente con i birri che erano pure penetrati nel palazzo, il maestro di casa Gabriello Foschetto e altri cinque servitori. A nulla valsero le preghiere del F. e di altri più autorevoli cardinali che si interposero in suo favore: il giorno dopo con procedura sommaria e gravemente lesiva del prestigio dei Farnese, il Foschetto fu decapitato e gli altri cinque impiccati. Vari altri episodi meno gravi, di uguale e diversa natura. punteggiarono negli anni successivi i pessimi rapporti dei Farnese con Clemente VIII e con i due cardinal nepoti Pietro e Cinzio Aldobrandini. Con la sola pausa di un tentativo in grande stile di riconciliazione fra le due famiglie per il tramite di un'alleanza matrimoniale. L'iniziativa partì dal cardinal Pietro che nell'aprile del 1598 fece i primi sondaggi per sposare la nipote Margherita, figlia della sorella Olimpia e di Giovanfrancesco Aldobrandini, appartenente ad un altro ramo della stessa famiglia, al duca di Parma Ranuccio.
Le trattative furono condotte a Roma dal F. e si protrassero per più di un anno: argomento del contendere era l'entità della dote e la consistenza degli altri vantaggi che i Farnese pretendevano. Gli Aldobrandini erano dei parvenus, un'alleanza matrimoniale con loro rappresentava una vera e propria mésalliance e doveva rendere dunque moltissimo. La sola carta degli Aldobrandini era il papa, ma era la carta vincente: la sorte di Cesare d'Este che poco prima (12 genn. 1598) aveva dovuto cedere Ferrara, feudo della Chiesa, consigliava infatti di farselo amico. Castro e Parma erano nella stessa situazione e Clemente VIII aveva minacciato più di una volta di levarli ai Farnese. L'accordo fu raggiunto nel settembre del 1599 per una dote di 200.000 scudi e grossi vantaggi per il F.: il matrimonio fu celebrato a Roma il 7 maggio 1600, il 5 dicembre egli ottenne la legazione del Patrimonio, sempre molto ambita dai Farnese, perché attribuiva il governo dell'alto Lazio dove si trovava il ducato di Castro. Contemporaneamente il nunzio a Madrid era stato incaricato di negoziare la concessione di una nuova pensione spagnola insieme con la protezione del Regno di Castiglia. La trattativa si concluse solo nell'aprile del 1602 e fruttò al F. 6.000 scudi di pensione (ne aveva chiesti 10.000), ma non la protezione della Castiglia.
Prima che il matrimonio fosse celebrato, il 19 febbr. 1600, Clemente VIII aveva nominato il F. protettore dell'Inghilterra, accreditando così la maggiore ambizione dei Farnese, che contavano fra i tanti pretendenti al trono di S. Giacomo, in vista della morte della regina Elisabetta che si dava per imminente. La pretesa era fondata sulla discendenza dai Lancaster che la madre, Maria di Portogallo, assicurava ai due fratelli (il nome stesso del F. era tutto un programma e voleva ricordare il re d'Inghilterra Edoardo III dal quale Maria discendeva). Essa rientrava nel più vasto progetto di una restaurazione cattolica in Inghilterra e contemplava a tale scopo il matrimonio con un'altra pretendente cattolica, la scozzese Arabella Stuart. Questa circostanza favoriva, rispetto al fratello Ranuccio ormai congiunto a Margherita Aldobrandini, il F., scapolo e sempre pronto a lasciare il cappello. L'intervento pontificio doveva assicurare l'appoggio delle due potenze cattoliche principalmente interessate, la Francia e la Spagna. La Spagna in un primo momento non disse di no, per quanto l'esistenza di una pretendente spagnola con ben altri mezzi, l'infanta Isabella Clara Eugenia, non lasciasse adito a troppo illusioni. La Francia invece si dichiarò sin dall'inizio contraria ed Enrico IV fece sapere al papa che la manovra rischiava solo di irritare il pretendente più sicuro, il re di Scozia Giacomo Stuart, e avrebbe avuto la conseguenza di peggiorare la situazione dei cattolici inglesi.
Di questo veto e della connessa avvertenza tennero ben conto Clemente VIII e il suo segretario di Stato cardinal Pietro Aldobrandini che lasciarono cadere le pur tiepide ed esitanti iniziative intraprese. Il F. non si rassegnò invece tanto facilmente e continuò a coltivare ancora per qualche anno l'illusione di potere diventare re d'Inghilterra. Dal papa si era fatto nominare anche protettore dei collegi inglesi di Roma, Valladolid e Douai e con l'aiuto dei gesuiti, tradizionalmente legati a filo doppio con la sua famiglia, intessé tutta una vasta trama di intrighi con i cattolici inglesi. Suo principale paladino fu il gesuita Robert Persons, finché la diplomazia pontificia non lo mise a tacere, quando nel luglio del 1603 Giacomo Stuart salì sul trono inglese. Lo stesso cardinale Pietro Aldobrandini ordinò al nunzio in Fiandra Ottavio Mirto Frangipani di rilasciare una dura smentita che chiuse drasticamente la pausa di riconciliazione con i Farnese.
I rapporti tra le due famiglie ritornarono difficili e la tensione esplose di lì a poco in un episodio clamoroso, che dette la misura di tutto il risentimento accumulato dal Farnese. L'occasione fu data ancora una volta, come già agli inizi del pontificato Aldobrandini, da un incidente con la giustizia. Il 23 ag. 1604 il bargello aveva inseguito dentro il palazzo Farnese un prigioniero che gli era scappato di mano e vi si era rifugiato. Fu respinto dai gentiluomini e dai servitori del cardinale ed egli stesso si rifiutò a sua volta più tardi di consegnarli al governatore di Roma che li voleva processare per resistenza armata alla forza pubblica. Intervenne allora il cardinale Aldobrandini in persona, ma il F. gli fece trovare il palazzo in pieno assetto di guerra e la piazza gremita da una folla armata e minacciosa. Fra i tanti accorsi in suo aiuto erano l'ambasciatore spagnolo J. F. Pacheco marchese di Villena, suo parente e principale animatore della sedizione, e numerosi esponenti della nobiltà. Era una reazione spropositata che catalizzò tuttavia l'insofferenza per gli Aldobrandini in quel momento assai diffusa nella città. Essi se ne allarmarono assai più di quanto dovessero, perché la stessa sera il F. si ritirò a Caprarola sotto buona scorta e i nobili che più si erano esposti fuggirono in tutta fretta chi in Abruzzo e chi a Porto Ercole. Ma il Villena troppo si era agitato ed aveva chiesto persino rinforzi a Napoli, offrendo un'occasione d'oro all'intervento dell'ambasciatore francese Ph. de Béthune, che si precipitò dal papa ed evocando il fantasma nefasto del sacco di Roma, quando i Colonna avevano dato man forte agli Spagnoli contro un altro papa Clemente, assicurò la protezione della Francia. Il papa allora si rincuorò, scrisse a Filippo III per chiedere la sostituzione immediata dei Villena e convocò a Roma il duca Ranuccio.
Per fortuna dei Farnese, gli Aldobrandini non avevano irritato solo i Romani. Con il colpo di mano su Ferrara avevano urtato anche i potentati italiani che si schierarono ora, più o meno apertamente, contro di loro, con insospettabile voltafaccia del più fedele alleato della Francia, il parente di Enrico IV, Ferdinando granduca di Toscana. Il duca Ranuccio a Roma dovette essere accolto con tutti gli onori, trattò con il papa la riconciliazione e la ottenne a buon mercato. Il F. perdonò il governatore di Roma che andò a chiedergli scusa a Caprarola davanti a una gran folla, e il papa perdonò il F. che gliela chiese a sua volta in concistoro.
Fu una riconciliazione apparente: gli Aldobrandini aspettavano infatti solo il momento più propizio per far pagare caro al F. il suo colpo di testa. La morte del papa, sopraggiunta di lì a poco (3 marzo 1605), lo salvò. Toccò allora alla Spagna di pagare il conto: Filippo III non aveva voluto sostituire il Villena e l'influenza spagnola fu sostituita dagli Aldobrandini con quella francese. Il conclave successivo elesse infatti il candidato della Francia, il cardinale Alessandro de' Medici, che ebbe anche il voto del F., con grande stizza del Villena. La Spagna aveva avversato i suoi progetti inglesi ed egli ora si vendicava. Leone XI morì dopo poche settimane, ma anche il nuovo papa Paolo V Borghese, che fu eletto contro la volontà della Spagna, ebbe il suo voto.
Il matrimonio dei duca Ranuccio doveva risolvere in primo luogo il problema della successione nei ducati farnesiani con un buon nerbo di figli maschi. Ma la sposa, Margherita Aldobrandini, non poté corrispondere a questo impegno. Una serie luttuosa di ben quattro, tra aborti e parti prematuri con esito letale, tolse ai due fratelli quasi ogni speranza di potere avere da lei l'erede al trono ducale. Nel 1610 nacque finalmente un figlio maschio, Alessandro, che sopravvisse, ma presto ci si accorse che era sordo, muto, epilettico e incapace di regnare. Il problema della successione ritornò in alto mare. Questa situazione disperante riaccese il desiderio mai sopito nel F. di abbandonare il cappello di cardinale per convolare a giuste nozze. Se ne cominciò a parlare nel 1605 e nel 1606, la notizia ritornò con insistenza nel 1607 e ancora di nuovo nel 1608 e nel 1609. I due fratelli erano in disaccordo: mentre Ranuccio pensava di designare alla successione il figlio naturale Ottavio, che nel 1598 aveva avuto da Briseide Ceretoli, il F. si faceva forte della disavventura di Cesare d'Este, costretto a rinunciare a Ferrara in base alla bolla di Pio V riconfermata da Clemente VIII che escludeva i bastardi dalla successione nei feudi della Chiesa. Per lui era molto più sicuro puntare sul proprio matrimonio, perché anche Parma e Castro erano feudi della Chiesa. Ranuccio però non voleva sentirne, nel 1605 legittimò Ottavio e nel 1607 lo investì, salvi i diritti degli eventuali figli legittimi, di Borgo San Donnino, Fiorenzuola e altre terre minori. Il F. chiese allora per sé il ducato di Castro, ma non riuscì a convincere il fratello.
La questione fu avviata a soluzione solo nel 1612, con la nascita del primo figlio sano di Margherita Aldobrandini: gli fu dato il nome del F. e fu una magra consolazione. Prima di rinunciare ad ogni speranza, dati i precedenti, era meglio tuttavia aspettare che il bambino crescesse e dimostrasse di essere veramente sano e capace di regnare e di generare. Nel 1615 intanto furono iniziate trattative per prenotargli la sposa, una Medici. Cosimo II rispose picche, ma i due Farnese seppero aspettare e nel 1619 ripresero il negoziato che il F. stesso condusse in porto a Firenze nel 1620. La successione ora poteva considerarsi assodata e al papa non restava che di riconoscerla. I due fratelli ritornarono dunque d'accordo, il F. si rassegnò 'definitivamente alla tonsura e l'11 genn. 1621 si decise a prendere gli ordini maggiori. Prete ormai a tutti gli effetti, lasciò l'Ordine dei diaconi (il 12 giugno 1595 era passato al titolo di S. Eustachio e il 13 nov. 1612 a quello di S. Maria in via Lata) ed entrò in quello dei presbiteri: il 3 marzo 1621 ebbe il titolo di cardinale vescovo di Sabina che cambiò il 28 sett. 1623 con quello di Tuscolo.
Il 5 marzo 1622, giusto in tempo, mori il fratello Ranuccio e il F. assunse la reggenza in qualità di "tutore ed amministratore generale del serenissimo duca Odoardo e di tutti i suoi Stati". Governò i due piccoli Stati con saggezza, puntando su di un solo obiettivo: assicurare una tranquilla e ordinata amministrazione fino alla maggiore età del nipote Odoardo. Le sue personali ambizioni, per quel tanto che ancora sussistevano, erano orientate ormai definitivamente verso Roma. Per quanto distolto dalle responsabilità di governo a Parma, nel 1625 pensava di chiedere il decanato del S. Collegio e di farvi valere ancora di più la sua influenza. Ora mirava decisamente alla tiara, secondo lo schema ben noto che lasciava ai cadetti delle grandi famiglie italiane questa ultima ratio. Si accentuarono le manifestazioni di pietà e i rapporti con i gesuiti che egli mantenne sempre strettissimi. Amico di Roberto Bellarmino, nel 1605 ne sostenne la candidatura al pontificato e dopo la morte (1621) gli fece erigere al Gesù uno splendido monumento (distrutto, le sculture della Sapienza e della Religione erano di mano di P. Bernini). Ai gesuiti costruì anche a sue spese la casa professa (1599-1623) con l'intervento dell'architetto Girolamo Rainaldi.
Il F. non ebbe il tempo di provare quanto fosse difficile scalare la sedia di S. Pietro. Morì troppo presto, alla sola età di 53 anni, il 21 febbr. 1626 a Panna. Secondo la sua volontà. fu seppellito a Roma, nella chiesa del Gesù, accanto al prozio Alessandro. Lo stesso giorno della morte aveva dettato di nuovo il testamento: nominò erede universale il nipote duca Odoardo, ma, uniformandosi alla volontà del prozio Alessandro, dispose che restassero a Roma le collezioni artistiche e la biblioteca. Una sola eccezione fece per la pinacoteca che permise al nipote suo erede di trasferire a Parma, se ne avesse avuto voglia.
Dal prozio, cardinale Alessandro, il F. ereditò, oltre l'usufrutto di alcuni degli edifici cinquecenteschi più importanti di Roma e dintorni (ivi compresi palazzo Farnese, gli Orti Farnesiani sul Palatino e la villa Farnese a Caprarola), anche una tradizione di mecenatismo artistico. Nonostante godesse di un reddito considerevolmente inferiore a quello del "gran cardinale", doveva dimostrarsene un degno erede. La sua importanza come mecenate è legata principalmente alla decisione di invitare a Roma Annibale ed Agostino Carracci ed al suo attivo incoraggiamento di un gusto che assicurò agli artisti emiliani il dominio della scena artistica romana per oltre due decenni.
Nel 1593 il F. invitò Annibale, Agostino e forse Ludovico ad affrescare con un ciclo raffigurante le imprese di suo padre, il duca Alessandro, il salone del palazzo di famiglia recentemente completato. R poco probabile che, a questa data, egli avesse già visto loro opere, ma Agostino aveva precedentemente lavorato a Parma per suo fratello, il duca Ranuccio. Inoltre potrebbe averne avuto notizia da un sostenitore della famiglia, Lorenzo Celsi, che aveva impiegato i Carracci a Bologna. La prima commissione loro affidata a Roma sarebbe stata dunque una continuazione ed un aggiornamento degli affreschi della storia della famiglia Farnese dipinti nella camera contigua da Francesco De' Rossi detto il Salviati. La statua di Alessandro Farnese incoronato dalla Vittoria (Caserta, palazzo reale), che il F. aveva commissionato a Simone Moschino, avrebbe completato il progetto decorativo. Nell'autunno del 1594 Annibale ed Agostino fecero una breve puntata a Roma, e nel novembre del 1595 vi ritornò il solo Annibale.
In attesa di un album con i disegni topografici delle campagne militari di Alessandro su cui desiderava fossero basati gli affreschi, il F. commissionò ad Annibale la decorazione del camerino Farnese con una tela rappresentante Ercole al bivio (Napoli, Capodimonte) e degli affreschi mitologici, il cui programma fu quasi certamente elaborato dal bibliotecario del F., Fulvio Orsini. Il successo di queste opere indusse il F. a commissionare ad Annibale la realizzazione del suo più grande capolavoro, la volta della galleria Farnese, eseguita tra il 1597 circa e il 1601, con l'aiuto di Agostino, fino a che tra i due fratelli non scoppiò la lite. Gli affreschi, la cui interpretazione è molto dibattuta, illustrano gli amori degli dei con un erotismo gioioso ed esuberante. La scelta dei soggetto dovette certamente sembrare audace per il palazzo di un cardinale della Controriforma, ma è pienamente in armonia con la visione profondamente mondana del F., e gli affreschi si accordavano perfettamente alle statue antiche ivi esibite nelle nicchie. Quando gli affreschi furono scoperti alla presenza del cardinale Pietro Aldobrandini nel maggio del 1601, essi vennero ampiamente elogiati. Nonostante il generale favore con cui la volta venne salutata e nonostante il crescente successo incontrato da Annibale anche presso altri mecenati romani, i rapporti del F. con il Carracci si guastarono così seriamente che, forse verso il 1602, egli contattò il Cavalier d'Arpino ed anche Cherubino e Giovanni Alberti per la decorazione a stucco ed a fresco delle pareti che fungevano da sfondo alle statue antiche: alla fine però, nel 1604-05, commissionò il completamento della galleria ad Annibale, ormai ammalato, con l'aiuto dei suoi assistenti.
Per quanto difficili possano essere stati i suoi rapporti personali con l'artista, è evidente l'entusiasmo del F. per il nuovo stile creato dal bolognese. Addirittura riuscì, una volta, a far lodare alcune opere dei Carracci dai loro detrattori romani ricorrendo all'inganno, inducendoli cioè a credere che fossero del Correggio e dei Parmigianino. Il F. commissionò una gran quantità di altre opere ad Annibale e ai suoi allievi, e sembra che abbia risistemato il palazzo in modo che esse fossero messe in mostra con particolare rilievo. Per conseguenza nelle stanze del piano nobile vennero esposti quadri del pieno Rinascimento, soprattutto di Raffaello e di Correggio o copie di loro opere realizzate dalla bottega di Annibale, insieme con quadri di Annibale stesso. I soggetti dei dipinti vennero scelti in armonia con le statue antiche che il F. vi aveva disposto.
Era un acquirente assai attivo di antichità, tanto da riuscire ad arricchire ulteriormente la collezione che aveva ereditato, già di per sé magnifica, aggiungendovi opere come la VenereCallipigia (comprata nel 1593 dai Cesarini) e molte altre. La Venere venne sistemata nella sala dei Filosofi, insieme con una Venere accovacciata e con diciotto busti di filosofi antichi, anch'essi provenienti dalla collezione Cesarini. Queste sculture erano accompagnate da due quadri che riprendevano il tema della dea dell'amore, la Venere con un satiro e due amorini (Roma, palazzo di Montecitorio) di Annibale ed uno basato sul cartone della Venere e Cupido di Michelangelo. Anche altrove nel piano nobile era dato trovare una simile sistemazione di sculture e pitture secondo un tema conduttore: basti citare ad esempio la sala degli Imperatori. Frattanto, le opere più famose del Quattro e Cinquecento stavano esposte in una serie di stanze note come le stanze dei Quadri, mentre il resto, per la maggior parte privo di comici, era depositato nella guardaroba.
Tra i quadri commissionati ad Annibale dal F. si annoverano il Cristo e la Cananea (forse a Parma, palazzo del Municipio), dipinto per la cappella del palazzo, il Cristo in gloria con santi (Firenze, palazzo Pitti), ed infine un Bacco ed una Pietà (entrambe a Napoli, Capodimonte). Verso il 1599 egli fornì anche il disegno per due opere di argenteria con temi bacchici: oggi però la Tazza Farnese ed il Paniere Farnese ci sono noti soltanto grazie a delle incisioni. Innocenzo Tacconi, un allievo di Annibale, dipinse un tabernacolo portatile (Roma, Galleria nazionale), mentre altri aiuti dipinsero i due gruppi delle Virtù teologali (Roma, palazzo di Montecitorio) adattando una fonte improbabile, i pennacchi di Raffaello nella Farnesina.
Tra il 1602 ed il 1603 il F. si fece anche costruire un palazzetto con giardino dietro palazzo Farnese, sull'altro lato di via Giulia. La decorazione venne affidata esclusivamente ad Annibale ed ai suoi allievi, ed i soggetti continuavano in gran parte la predilezione del F. per i temi erotici, ma comprendevano anche molti paesaggi, appropriati al sito. L'ammirazione per gli affreschi dei Dossi nella villa Imperiale a Pesaro espressa dal F. in una lettera indirizzata a Fulvio Orsini nel 1595 fa pensare che egli avesse un interesse particolare per la pittura di paesaggio. Il contributo di Annibale al palazzetto comprendeva la Venere dormiente (Chantilly, Museo Condé) ed il Rinaldo ed Armida (Napoli, Capodimonte), esposti nella stessa stanza dell'Arrigo Peloso, Pietro matto, Amon Nano ed altre bestie, curioso ritratto di gruppo di alcuni membri del serraglio del F., opera di Agostino Carracci. La volta era dominata da un dipinto ora perduto di Apollo raffigurante il Giorno, di cui una copia è conservata attualmente a Napoli. Altre stanze erano dedicate alle varie fasi del giorno, tra cui un'Aurora di Annibale ed una Notte probabilmente del Domenichino su disegno di Annibale, entrambe a Chantilly. Al pianterreno c'era una stanza con affreschi mitologici del Domenichino raffiguranti la Morte di Adone, Apollo e Giacinto, e Narciso. Di contro a questi temi pagani, così cari al F., nel palazzetto si trovava anche un camerino degli Eremiti unito all'oratorio di S. Maria della Consolazione e Morte, dove il F. soleva alle volte ritirarsi in preghiera: venne affrescato da G. Lanfranco con scene di Cristo nel deserto e di Maria Maddalena portata in cielo dagli angeli.
Il F. contribuì ulteriormente a diffondere lo stile bolognese nel 1608-1610, quando, su raccomandazione di Annibale, commissionò al Domenichino il Suo primo cielo importante ed autonomo di affreschi. Egli era abate commendatario dell'abbazia di Grottaferrata, in cui venne richiesto al Domenichino di progettare e decorare una cappella con scene delle vite dei ss. Bartolomeo e Nilo.
Purtroppo l'entusiasmo che il F. nutriva per questo nuovo stile pittorico non era tale da fargli superare la propria riluttanza a ricompensare adeguatamente gli artisti. Varie fonti attestano che trattò Annibale in modo alquanto meschino. Analogamente sembra che anche il Domenichino sia stato miseramente ricompensato per il suo lavoro a Grottaferrata, mentre lo scultore Simone Moschino scrisse al duca Ranuccio I che a Roma stava morendo di fame con il patrocinio del Farnese.
Eppure, nonostante la tirchieria, non si può dubitare della genuinità dell'entusiasmo del F. per gli artisti emiliani. Una lettera del 1612 al fratello Ranuccio, in cui esprime il desiderio di acquisire altre opere del Correggio prendendole dal gruppo di quadri recentemente confiscati alle famiglie ribelli di Parma, illumina ulteriormente i suoi interessi artistici. Tre anni prima aveva inoltre acquistato a Firenze un certo numero di quadri, ma è impossibile determinarne gli autori. Benché Fulvio Orsini occupasse una posizione importante in quanto bibliotecario del F. e curatore delle collezioni familiari, non è molto probabile che egli avesse una grande influenza sulle sue preferenze artistiche, dato che lo stesso Orsini preferiva invece collezionare soprattutto quadri manieristi di metà Cinquecento. Sembrerebbe piuttosto che proprio Annibale abbia avuto la maggior influenza sulla formazione del suo gusto. Tanto nelle commissioni e negli acquisti di quadri che nella loro esposizione nel palazzo, egli rivela un gusto spiccato in favore dello stile di Annibale e delle opere che furono fonti della sua ispirazione artistica. C'è un altro elemento che sembra provare come, al pari di Annibale, anch'egli provasse una vera e propria avversione per il manierismo, se è vero che aveva l'intenzione di distruggere gli affreschi di Giovanni De Vecchi nella cupola del Gesù (che pure erano stati dipinti in tempi abbastanza recenti per il cardinale Alessandro) allo scopo di rimpiazzarli con altri del Carracci.
Non era questo il sostegno più utile che poteva dare ai gesuiti, visto che la tribuna e la navata centrale della chiesa erano ancora spoglie. Forse a causa della malattia di Annibale, questi piani non ebbero seguito, ma il F. mantenne la stretta connessione della famiglia con l'Ordine dei gesuiti e commissionò altri progetti artistici per loro conto. Il suo contributo più significativo fu l'erezione, nel 1599, della casa professa unita alla chiesa: il progetto era di Girolamo Rainaldi, il suo architetto preferito. All'interno della casa professa il F. aveva una cappellina dove, stando alla tradizione, celebrava la messa. Sull'altare c'era la Visione di s. Ignazio a La Storta del Domenichino, attualmente sostituita da una copia. Le altre tele che ora si trovano nella cappella e che illustrano episodi della vita del santo non erano probabilmente destinate per questa collocazione: sono attribuite ad Andrea Commodi e Baccio Ciarpi, due artisti lontani dal gusto del Farnese.
Nel 1621-24, per iniziativa di Gregorio XV, procedette ulteriormente alla decorazione del Gesù, facendovi costruire il monumento al cardinale Roberto Bellarmino, il cui busto-ritratto è opera giovanile di Gian Lorenzo Bernini. Inoltre fece costruire la propria tomba in questa chiesa, e vi venne sepolto nel 1626.
Fatti salvi l'edificio della casa professa e la cappella di Grottaferrata, le committenze del F. in campo architettonico sono alquanto limitate. Ciò è dovuto soprattutto al fatto che, a differenza di tanti cardinali provenienti da famiglie di recente nobiltà, egli poteva già usufruire di molti splendidi edifici. tanto ecclesiastici quanto secolari, eretti dal prozio, il cardinale Alessandro. I suoi progetti architettonici consistevano in genere in ampliamenti od abbellimenti di tali edifici: così incaricò Girolamo Rainaldi di intervenire sul palazzetto di Caprarola e di ampliare gli edifici degli Orti Farnesiani, in cui insediò un importante orto botanico. L'unica altra sua commissione architettonica di rilievo fu l'edificio di S. Teresa a Caprarola del 1620, di nuovo su disegno di Rainaldi.
La committenza architettonica del F. è insignificante ove venga paragonata a quella del prozio, che era stato uno dei cardinali-costruttori più importanti del Cinquecento, di grandissima importanza fu il suo contributo allo sviluppo della pittura romana, in quanto schiuse le porte al barocco.
C. Robertson
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C. Robertson-R. Zapperi