MAZZONI, Ofelia
– Nacque a Firenze il 29 giugno 1883 da Angiolo, ferroviere, e Teresa Torricelli Vasari, ultima di quattro figli.
Rimasta orfana del padre a quattro anni, la M. crebbe fra i disagi della povertà che tuttavia la madre seppe affrontare con decoro, offrendo ai figli un esempio di forza e integrità morale al quale la M. pensò sempre con devota gratitudine. Costretta dalle esigenze familiari a spostarsi in varie città della Toscana e della Liguria, la M. sviluppò da autodidatta una sempre più consapevole vocazione al teatro.
Nel 1903 conobbe a Bologna Eleonora Duse e G. D’Annunzio che, ammirato dalla sua calda voce di contralto, le affidò in seguito la parte della nutrice Annabella ne La fiaccola sotto il moggio (Milano, teatro Manzoni, 27 marzo 1905, compagnia M. Fumagalli). Dopo sei mesi di tournée, la M. terminò l’anno comico nella compagnia di Dina Galli (settembre 1905 - marzo 1906) prima di scritturarsi con Italia Vitaliani (marzo-luglio 1906).
Abbandonò quindi la vita del teatro regolare: un’esperienza intensamente deludente dalla quale nacque il primo romanzo, Palcoscenico (Torino 1914), amara testimonianza e realistica descrizione dell’ambiente teatrale, dallo stile quasi sempre asciutto e sobrio, pur se teso ad affermare l’alta idealità dell’arte in nome della quale la M. aveva rifiutato i meschini compromessi imposti dal «mestiere».
Il secondo romanzo, Un’attrice (Milano 1923; 2ª ed., Torino 1932), scritto in prima persona, tornava sui motivi autobiografici e quasi mistici di quella rinuncia: una singolare identificazione con la Duse, nella prima parte del romanzo – messa in evidenza, fin dal titolo, nella traduzione tedesca a opera di Margherita Mariani Walter: Eine Schauspielerin. Der Lebensabend der Eleonora Duse, pubblicata dopo la morte della M. a Locarno nel 1937 – lasciava il posto, nella seconda, alla forma diaristico-memoriale con la narrazione di vicende familiari e personali. All’affinità elettiva con la Duse, in un comune destino di povertà e sacrificio, di predilezioni letterarie (soprattutto Caterina da Siena, U. Foscolo, G. Pascoli, P. Claudel), è dedicato il volume Con la Duse. Ricordi e aneddoti (Milano 1927).
Fra romanzo, biografia e confessione, queste pagine, ispirate da intima solidarietà, sono intessute di sottili riflessioni che toccano, in particolare, la figura femminile. Anche altrove compaiono analisi sulla condizione della donna, vittima di banali o iniqui rapporti sociali: insistenti, in tutta la produzione della M., sono il richiamo al valore dell’umanità rispetto a quello della «legalità», l’esigenza che uomo e donna siano da porsi «a una stessa altezza», l’esortazione a valorizzare la forza di volontà necessaria a smascherare le insidie delle illusioni, costruendo una vita «purificata» dal superamento dei propri limiti.
Dopo il breve tirocinio scenico, la M. si dedicò alla «missione» che più di ogni altra sentiva a sé confacente: farsi «rappresentatrice di Poesia» (Con la Duse…, p. 38), portare l’arte poetica all’anima del pubblico con audizioni di poesie e conferenze, insegnando allo stesso tempo dizione, dapprima privatamente (fino dal 1912, quando si trasferì a Milano), poi, presso l’Accademia dei Filodrammatici di Milano, in qualità di titolare della cattedra di dizione, che conservò dal 1° ott. 1913 al 4 giugno 1929, formando allieve presto assurte alla fama come Marta Abba ed Eva Magni. Sempre dal 1913 condusse inoltre, per più di un ventennio, il corso di dizione ai maestri nelle scuole dei Comuni di Roma e di Milano. Nello stesso anno dette alle stampe L’arte della lettura. Aforismi e consigli pratici (Torino 1913), destinato ad accompagnare generazioni di attori (è del 1925 la 3ª ed. accresciuta di analisi critiche sui brani letterari prediletti: Dante – suo cavallo di battaglia era il canto V dell’Inferno – Petrarca, Boccaccio, Ariosto, l’amatissimo Leopardi, Foscolo, Manzoni, Pascoli, D’Annunzio): manuale tecnico sull’uso della voce, la respirazione, il gesto e guida al commento critico-estetico.
Il metodo della M. – influenzato da L’art de lire di É. Faguet (Paris 1912) soprattutto nelle annotazioni sulla «punteggiatura vocale» e il rapporto ritmo-pensiero – valorizza infatti tanto le immagini, quanto le idee dell’autore per giungere a estrarre l’interiore energia del verso e a penetrare lo spirito del «non detto». Sospinta da una sorta di vocazione apostolica che la portò a considerare la lettura l’equivalente di una «quotidiana preghiera» (L’arte della lettura, p. 57), la M. diffondeva l’arte della «parola parlata» e della «lettura interpretativa» secondo moderni criteri di naturalezza e verità, rifuggendo l’enfasi di artifici convenzionali, distinguendo l’arte della declamazione, «facile sfoggio di sonorità vocale enfatica e monotona», da quella della lettura, «linguaggio riflesso, ossia arte di conformare l’espressione vocale ai varî atteggiamenti dell’intelletto e dello spirito» (ibid., p. V), al punto da esortare alla soppressione radicale del gesto, per rispetto al poeta che l’intera forza espressiva raccoglie nella sola parola. Ma i giudizi sul suo stile interpretativo non apparvero concordi: se N. Leonelli la definì «una delle migliori dicitrici o declamatrici ch’ebbe l’Italia, la più grande negli anni che vanno dal 1910 al 1920» (Leonelli, ad vocem) e D’Annunzio la considerò «superiore anche ai sommi per profondità di studio, per semplicità di mezzi, per efficacia di estrinsecazione» (cit. in Pariset, 1933), S. D’Amico scrisse della sua dizione «solenne e lentissima, con un piglio virile ma un respiro così ampio e cadenzato da toccare e talvolta da varcare i limiti dell’uggia» (D’Amico, p. 217), mentre U. Saba non le seppe perdonare la «continua preoccupazione dell’applauso» (Saba, p. 660).
La frequentazione dei testi poetici portò la M. a creare versi in proprio. La prima raccolta di poesie, Verso la foce (Milano 1921), in cui risuona l’eco del panismo dannunziano, rimane la più coerente nell’espressione ritmica di uno stato d’animo contemplativo.
L’utilizzo del polimetro e la varietà prosodica evidenziano il contenuto ragionativo delle successive Nuove liriche (Torino-Genova s.d. [ma 1926]), trasformando i brevi componimenti quasi in prose poetiche. Il materiale naturalistico-impressionista del lessico pascoliano – manifesto sin da titoli come Daxylirion longifolia o Ilex aculeata –, il repertorio di D’Annunzio e di Ada Negri influenzano l’invenzione creativa della M., sebbene il rapporto troppo spesso logico tra idea e immagine, tra simbolo e parola e un certo virtuosismo artificioso espongano la scrittura al pericolo della maniera, assimilandola agli abbandoni compiaciuti di un F. Pastonchi o di un E. Thovez.
Nella raccolta seguente, Noi peccatori (Bologna 1930), la fantasia e la musicalità cedono il passo all’indagine psicologica e alla ricerca religiosa: risultano accentuati l’andamento prosastico e la sobrietà del linguaggio, benché persistano suggestioni dannunziane (come la fascinazione esplicita dell’alcyoniano Vulture del Sole in Una piccola attrice). La M. dicitrice prevale invece nella stesura di Poemetti (Torino 1932), leggende d’amore, storie di eroi e di sante, ampie narrazioni lirico-drammatiche, metricamente composte in endecasillabi sciolti e in martelliani, che riprendono il racconto poetico d’ascendenza umanistica e romantica dove la virtù riverbera tensione drammatica e qualche tonalità fantastica, come in Bacchibella. Ultima produzione in versi fu L’oro del tramonto (Milano 1933), in cui le frequenti inversioni, anafore, similitudini, personificazioni, metonimie, che intersecano rimandi intratestuali, svelano la perizia a tratti disinvolta con cui la M. praticò il tessuto retorico della poesia.
Negli stessi anni proseguirono gli esperimenti di prosa letteraria con un romanzo realistico intitolato Amore amaro (Torino-Genova 1925). Ne Il mio matrimonio (Firenze 1927), destinato a giovani lettrici, i personaggi femminili – gli unici capaci d’incarnare la felicità terrena e la salvezza dell’anima – sono illuminati dal senso del divino, come pure nell’ultimo romanzo, Donne amorose (Torino 1932), il più complesso e riuscito dal punto di vista strutturale.
La scrittura non poté lenire la nostalgia del teatro, mai davvero abbandonato: negli anni della prima guerra mondiale aveva scritto, con l’educatrice Anita Ferraresi, Facciamo il teatro (pubblicato a Torino nel 1920; 2ª ed., ibid. 1935), commedie per bambini e adolescenti da recitare in casa «con sincera semplicità», curando da subito una buona dizione.
Al teatro la M. dedicò poi il dramma Salvezza (Milano 1934), tre atti mai rappresentati, sul rapporto tra fede, arte, amore e, ancora, la volontà. Affascinata dal repertorio classico, mise in scena, per la prima volta all’aperto, l’Orfeo di A. Poliziano (Bellagio, hotel Villa Serbelloni, settembre 1923; Boschetti di Milano, 18 maggio 1924, ripetuta altrove), interpretando di volta in volta, accanto ai suoi allievi, le parti di Orfeo, Mercurio, Aristeo e quella di una Baccante.
La M. pensava all’arte dell’attore come a quella di un «medium» a servizio del poeta e ispirato trait d’union con il pubblico, una sorta di «consacrazione» religiosa lungo un percorso di totale dedizione e trasfigurazione che la avrebbe progressivamente avvicinata alla fede, come attesta lo scritto Amicizia con Dio (Milano s.d. [ma 1930]), senza impedirle lo sguardo lucido sul valore della responsabilità morale. In Guida alla volontà (ibid. s.d. [ma 1930]), poi, affrontò questioni di profonda spiritualità, pur se volte a migliorare la pratica della vita quotidiana. I due volumi ebbero un ottimo successo editoriale.
Continuativa, dagli anni Venti fino alla morte, fu inoltre la collaborazione a vari periodici (Nuova Antologia, L’Illustrazione italiana, La Lettura, Il Corriere emiliano, Il Popolo di Lombardia, L’Italia) con novelle, liriche, divagazioni.
La M. morì a Milano il 22 nov. 1935.
Fonti e Bibl.: U. da Monreale [U. Saba], Intorno a O. M., in Il Palvese, 23 dic. 1907, poi in Id., Tutte le prose, a cura di A. Stara, Milano 2001, pp. 658-663, 1404 s.; S. Benco, «Palcoscenico». Il romanzo teatrale di O. M., in Il Piccolo della sera, 24 febbr. 1914; S. D’Amico, I dicitori di versi [1914], in Id., Maschere. Note su l’interpretazione scenica, Roma 1921, pp. 191-219; Gaio [Adolfo Orvieto], L’«Orfeo» del Poliziano fra critica, storia e teatro, in Il Marzocco, 24 maggio 1925; G.S. Gargano, Concetti e immagini nella poesia di due donne, ibid., 7 marzo 1926; L. Tonelli, O. M., in L’Italia che scrive, XV (1932), 10, pp. 269 s.; E. Fusco, Tormento di poeti, Bologna 1933, pp. 119-126; C. Pariset, Eleonora Duse e O. M., in Corriere padano, 18 marzo 1933; I. Cappa, L’ascensione di un’anima dall’arte a Dio, in O. M. (1883-1935), Milano s.d. [ma 1936], pp. 7-26; E. Tea, Lo spirito di O. M., ibid., pp. 73-85; T. Ceruti, O. M. nei ricordi di una vecchia scolara, in Il Gruppo d’azione, XIV (1936), 5-6, pp. 4-6; G. Camposampiero, La poesia italiana contemporanea, Roma-Torino 1938, pp. 239-241, 355 s.; V. Nivellini, I 150 anni di un’Accademia milanese (1798-1948), Milano 1948, pp. 120 s.; E. Guicciardi, Il nuovo teatro di un’Accademia milanese (1798-1970), Milano 1970, pp. 182-184; Diz. biografico delle donne lombarde, Milano 1995, s.v. (R. Farina); Enc. biografica e bibliogr. «Italiana», N. Leonelli, Attori tragici, attori comici, II, ad vocem; ibid., M. Bandini Buti, Poetesse e scrittrici, II, p. 21.