Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Offenbach è ricordato oggi soprattutto come inventore del cancan, simbolo della Belle Epoque, o tutt’al più, dagli appassionati d’opera, come autore dei Racconti di Hoffmann, l’ultima sua composizione e l’unico suo contributo al genere, più serio, dell’opéra-comique. In realtà il ruolo di Offenbach non è solo quello di un compositore “alla moda”: le sue quasi cento operette forniscono un ritratto acuto e pungente di un’epoca, quella del secondo Impero, e per questo verranno apprezzate da intellettuali come Karl Kraus e Walter Benjamin. Inoltre, l’attento studio della sua musica dimostra come Offenbach padroneggi perfettamente il linguaggio e lo stile musicale del suo tempo, e li sottoponga alla parodia più spietata.
L’operetta nasce quasi contemporaneamente in Francia e in Austria alla metà del XIX secolo, ma presenta caratteristiche diverse nei due Paesi. A Parigi, essa deriva dal genere lirico più in voga, quello dell’opéra-comique che, al contrario dell’opera italiana, alterna brani cantati (arie, duetti, cori) e brani interamente recitati. Ai suo esordi, l’operetta francese si differenzia dall’opéra-comique per i soggetti più ironici, per il minor numero di personaggi, per i mezzi a disposizione che sono di gran lunga inferiori e per la massiccia presenza di brani ballabili. I due principali autori – Hervé e Offenbach – cominciano la loro attività quasi contemporaneamente, ma Hervé inserisce nelle sue opere una vena politico-satirica.
Come Offenbach, egli fonda e dirige un suo teatro, le Folies-Concertantes (poi Folies-Nouvelles), e il successo lo accompagna fino alla morte.
L’operetta viennese ha il suo principale rappresentante in Johann Strauss figlio, autore del Pipistrello e di Sangue viennese, e si caratterizza musicalmente per la presenza del valzer, di cui Strauss è uno dei più prolifici autori, ma anche per soggetti meno caustici, ambientati spesso in regni immaginari, da operetta appunto, che alcuni anni più tardi ritroviamo anche nella famosa operetta La vedova allegra di Franz Lehár (1905). La sua fioritura continua anche nel primo decennio del Novecento, non solo in Austria – con Oskar Strauss, il cui capolavoro è Sogno di un valzer (1907) – ma in tutta l’area dell’Impero asburgico e, arrivando in Italia, fino a Milano.
Le operette italiane si rivolgono a un pubblico piccolo-borghese e sono, per quanto gradevoli, ben lontane dai modelli parigini e da quelli viennesi, tuttavia titoli come Scugnizza (1922) di Mario Pasquale Costa o Cin-ci-là (1925) di Virgilio Ranzato sono ancora popolari.
Il termine operetta porta oggi con sé una sfumatura negativa: si definisce infatti sovrano o politico da operetta qualcuno che non abbia le qualità e le dignità necessarie al suo ruolo, e anche il genere viene accomunato in questa connotazione negativa.
È ritenuta una forma di teatro “leggero”, brillante, forse un po’ stupido, e sono in molti a storcere il naso davanti a essa; ma il riferimento di tali commenti non è tanto Offenbach quanto piuttosto i tardi epigoni del genere, e soprattutto gli italiani.
Il nome di Jacques Offenbach evoca immediatamente il turbinio del cancan e le immagini di Parigi in festa; è uno di quei casi in cui l’opera e il suo creatore rimangono indissolubilmente legati a una città. La musica di Offenbach, tedesco di nascita, nasce infatti a Parigi e per Parigi, e – nonostante il successo internazionale – ha nel pubblico parigino il suo interlocutore privilegiato e insieme la sua fonte d’ispirazione. Offenbach non è certo il primo artista straniero a trovare nella capitale francese fama e gloria, basti pensare a Chopin, Liszt o Meyerbeer, ma il suo rapporto con Parigi è quasi simbiotico. Tutta la sua migliore produzione nasce dall’osservazione della società parigina contemporanea, della quale egli coglie con particolare acutezza difetti e virtù. Giovanissimo, appena giunto da Colonia, Offenbach si ritrova in un osservatorio musicale d’eccezione, l’orchestra dell’Opéra-Comique, dove lavora come violoncellista. Lì stringe amicizia col compositore Fromental Halévy che lo introduce nella società parigina come virtuoso di violoncello. Successivamente Offenbach crea e dirige una sua orchestra di ballabili. La sua grande scuola di vita resta comunque il boulevard, la strada, dalla quale attinge ispirazione; la sua prima operetta ha infatti per protagonisti due mendicanti ciechi che si contendono il posto più propizio per chiedere l’elemosina: Les deux aveugles (1855) lascia piuttosto sconcertato il pubblico parigino e viene accusata di cinismo. Nel frattempo Offenbach conquista il suo primo teatro, Les Bouffes-Parisiens, e il privilegio per rappresentare opere con tre personaggi, che riesce ad ampliare nel 1858. La sua fama giunge all’apogeo nel 1867, l’anno dell’Esposizione internazionale, quando Offenbach si trasferisce nel più ampio Théâtre des Variétés.
Siegfried Kracauer
Offenbach
Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo
Offenbach è indissolubilmente legato al secondo Impero. Non appena Napoleone III instaura la dittatura, Offenbach perfeziona il genere dell’operetta, e le operette che compone nel periodo tra le due esposizioni universali del 1855 e del 1867 non soltanto sono l’espressione più rappresentativa dell’era imperiale, ma esercitano contemporaneamente un’influenza trasformatrice sul regime. Esse rispecchiano la loro epoca e contribuiscono a superarla con la loro forza dirompente, creazioni ambigue di un artista che anche con la sua stessa persona eccita la fantasia dei contemporanei. Il Duca di Morny scrive testi per lui, i repubblicani lo odiano come il grand corrupteur. Chi nomina Jacques Offenbach evoca in realtà tutto il secondo Impero: i suoi protagonisti, il suo apparato di potere, le sue feste e la sua dissoluzione. “Secondo la mia convinzione” dichiarò sotto l’impressione della morte di Offenbach il critico Max Nordau, che viveva a Parigi “non si potrà scrivere in futuro una storia culturale del diciannovesimo secolo senza ricordare Offenbach e i suoi successi come uno dei fenomeni più caratteristici di quell’epoca”.
Il fare di Offenbach il centro di questo libro si giustificherebbe già per il fatto che egli si colloca al centro del suo tempo. Ma ci sono altri due motivi. Uno è che Offenbach possiede un’eccezionale sensibilità per la struttura della società che lo circonda. La sua ascesa incomincia soltanto nel momento in cui si sono creati tutti i presupposti perché l’operetta possa affermarsi. Si vedrà che l’operetta è legata alla durata della dittatura, al dominio del capitale finanziario, all’esplosione dell’economia internazionale, al boulevard e alla bohème mondana che lo frequentava. Per il fatto però che il libro descrive le connessioni tra l’operetta e la società del suo tempo, risulta anche comprovata in un caso tipico la dipendenza di ogni genere artistico da determinate condizioni sociali. Che d’altra parte l’operetta debba essere intesa come fenomeno sociale è dimostrato anche dalla constatazione che essa finisce insieme con il secondo Impero. Per mancanza di un clima sociale adatto, Offenbach al tempo di Luigi Filippo non poteva ancora sbocciare in pieno; per cause simili dopo la catastrofe dell’Impero rientrò nell’ombra. Su di lui, come fosse uno strumento di precisione, si possono rilevare anche le minime trasformazioni sociali.
Siegfried Kracauer, Jacques Offenbach e la Parigi del suo tempo, Milano, Garzanti, 1991
Qual è il segreto della fortuna di Offenbach e delle sue 90 operette, alcune delle quali sfidano ancora impunemente il trascorrere del tempo, malgrado siano imbevute dello spirito della loro epoca? Il segreto sta certamente nell’alta qualità della sua musica e nell’equilibrio perfetto tra la musica e il testo, specialmente nelle operette che hanno come librettisti l’abilissimo duo composto da Ludovic Halévy e Henri Meilhac. Ma Offenbach sa innanzitutto osservare la realtà, e smontarla implacabilmente, utilizzando i meccanismi della satira e della parodia. Le assurdità della vita quotidiana e la follia nascosta nelle pieghe della realtà non sfuggono agli occhi attenti di Offenbach, e in questo si rivela degno erede di Rossini che apprezza “le petit Mozart des Champs-Elisées” tanto da concedergli il permesso di rappresentare a Les Bouffes-Parisiens il suo giovanile Signor Bruschino.
Offenbach non prende di mira solo i fatti o i personaggi del suo tempo, ma anche il linguaggio, sia quello comune sia quello musicale e in particolare il linguaggio del grand-opéra che furoreggia negli stessi anni all’Opéra: ne La Grande Duchesse de Gerolstein (1867), ambientato in uno di quei minuscoli regni “da operetta”, la protagonista – la granduchessa del titolo – ha un debole per i militari e si invaghisce del soldato semplice Fritz, elevandolo di colpo al grado di generale. Ella gli fa una dichiarazione d’amore in piena regola, ma fingendo di parlare a nome di un’amica; il problema è che Fritz è un perfetto idiota, e alle appassionate parole di lei, intonate in perfetto stile da opera seria con tanto di cadenza finale, risponde: “non capisco niente, e dire che sono intelligente”. Nella stessa opera si trova un intero brano costruito solo sulle parole della granduchessa J’ai mes nerfs (“Ho i nervi”).
La scena in cui ella congiura contro Fritz insieme a due cortigiani fa chiaramente il verso a quella della congiura negli Ugonotti (Huguenots) di Meyerbeer, che è uno dei bersagli preferiti di Offenbach. La successiva Périchole (1868) ironizza invece su La favorita di Donizetti. In entrambe le opere un uomo si rifiuta sdegnato di sposare la favorita di un re, ma l’opera di Donizetti si conclude tragicamente, mentre nellopera di Offenbach la bella Périchole riesce a calmare i furori dell’amato Piquillo, e a sposarlo, così quest’ultimo rischia solo di venire imprigionato nella cella dei mariti recalcitranti, sulle note del “Rondo des Maris ré...”, un accattivante valzer, il cui ritornello suona così: “Aux maris ré..., aux maris cal..., aux maris ci..., aux maris trants, aux maris récalcitrants”. Un esempio della capacità di Offenbach di usare le parole in modo buffonesco, al modo di Rossini (basti pensare al finale primo dell’Italiana in Algeri).
Capolavori di Offenbach sono le due operette che, attraverso la parodia dell’antichità, fustigano i costumi dei contemporanei, Orfeo all’inferno (Orphée aux enfers; 1858) e La belle Hélène (1864). La prima segna anche un’evoluzione strutturale: per la prima volta Offenbach può rappresentare lavori con più di tre personaggi, e ne approfitta subito per attuare un progetto che ha in testa da diverso tempo. L’Orfeo ha per soggetto la storia di Orfeo ed Euridice, un tema caro all’opera, ma nella versione offenbachiana Orfeo è uno squattrinato violinista ed Euridice una moglie insoddisfatta che lo tradisce con Giove, travestito da pastore. Quando Euridice muore, morsa da un serpente, Orfeo sarebbe ben felice di essersi liberato di lei, ma l’Opinion publique – vero deus ex machina – lo costringe a scendere nell’aldilà per riprenderla. Gli spettatori non tardano a riconoscere in questo Giove affamato di avventure Napoleone III, ma forse riconoscono anche loro stessi negli dèi assetati di novità, tanto assetati da ribellarsi sulle note della Marsigliese, per poi acquietarsi dinanzi alla possibilità di una gita all’inferno. Lo sfrenato cancan danzato da Giove simboleggia proprio questa smodata vitalità.
Nella Belle Hélène la seduzione della protagonista da parte di Paride avviene addirittura mentre Elena fa finta di dormire; la bella fa appello continuamente alla “fatalità”: quale ritratto più caustico dell’ipocrisia delle dame del secondo Impero? Anche in questo caso, l’uso di un linguaggio serio, da vero duetto d’amore, provoca immediatamente la risata in un simile contesto, grazie a un effetto di “straniamento”. Offenbach nasconde comunque una vena idilliaca che talvolta traspare, come nella Vie parisienne (1866), affettuoso omaggio alla sua città d’adozione, dove pone in bocca alla cortigiana Metella un delicato vagheggiamento delle felicità perdute.
Il lato idilliaco di Offenbach emerge chiaramente nel suo ultimo lavoro, I racconti di Hoffman (Les contes d’Hoffmann; 1881), che irride il vecchio desiderio di calcare le scene dell’Opéra-Comique, ottenendo il successo con un lavoro più “serio”. Offenbach muore prima di poter completare l’opera che viene così pesantemente rimaneggiata, non solo con la sostituzione dei dialoghi con i recitativi, ma anche con innovazioni e alterazioni nell’impianto narrativo. L’opera trae spunto da un dramma di Jules Barbier e Michel Carré, ispirato liberamente a tre racconti dello scrittore romantico tedesco Ernest Theodor Amadeus Hoffmann. Essi costituiscono tre episodi, tre atti, incastonati in una cornice ambientata in una taverna, dove Hoffmann che attende l’arrivo della sua amante, l’attrice Stella, dà inizio al racconto di suoi tre amori infelici. Il primo per Olympie, bambola meccanica, il secondo per Antonia, fanciulla malata che muore cantando, il terzo per Giuliette, una cortigiana. In tutti gli episodi contro il protagonista intervengono delle forze demoniache, incarnate dai personaggi di Coppélius, del dottor Miracle e di Dapertutto. Alla fine dei racconti, Hoffmann si addormenta ubriaco e così lo trova Stella che se ne va con un altro corteggiatore; al poeta Hoffmann non resta che la Musa a consolarlo. Un soggetto, dunque, pienamente infuso di quel romanticismo che forse Offenbach vede stravolto nelle creazioni del grand-opéra.
Il linguaggio adoperato da Offenbach nei Racconti è molto simile a quello delle operette, e la sua cifra stilistica si riconosce subito, ad esempio nell’ironica chanson iniziale degli spiriti del vino e della birra, e ancora nella Chanson de Kleinzach che Hoffmann intona nella taverna; essa si interrompe bruscamente, passando da toni allegri e parodistici a un momento di profonda passionalità, quando Hoffmann evoca i tratti della donna amata, e può essere considerata emblematica di quella che è stata definita la compresenza di idillio e parodia nella musica di Offenbach. Il brano più famoso dell’opera è la Barcarole, già composta per Die Rheinixxen; la sua cullante cantabilità, però, è anch’essa falsa in bocca alla cortigiana Giuliette.
Se il successo di pubblico arride immediatamente a Offenbach, a cominciare da L’Orfeo all’inferno, e non lo abbandona fin quasi alla morte, il successo di critica e soprattutto la sua affermazione nell’Olimpo dei musicisti “seri” è più contrastata. Alle sue operette si è guardato più che altro come a un fatto di costume, e giudizi severi non sono stati risparmiati neppure ai Racconti di Hoffmann.
Il giudizio su Offenbach potrebbe essere così riassunto in due parole: un compositore geniale, purché rimanga confinato nel suo ambito minore, oppure, per altri, un musicista che ha sprecato il suo talento in sciocchezze, rivelando le sue capacità solo alla fine.
Tuttavia nell’Ottocento e nel Novecento Offenbach è stato amato da artisti e intellettuali; secondo quanto raccontano i fratelli Goncourt nei loro diari, Alfred de Musset conia il termine “Offenbachiade” per definire il periodo del secondo Impero. E nel nostro secolo viene apprezzato dapprima dal “crudele” scrittore viennese Karl Kraus, poi anche da un filosofo come Walter Benjamin. Kraus ha per Offenbach parole di grande elogio e lo contrappone alla stupidità delle operette viennesi; Benjamin lo cita nei suoi scritti su Parigi e pensa di dedicargli un capitolo della progettata opera sui passages ovvero le gallerie della città.
D’altro canto anche in vita il compositore è oggetto di polemiche e di attacchi violenti, come quello condotto nel romanzo Nanà da Émile Zola che ambienta il primo capitolo proprio alle Variétés, dipinte come “un bordello”, nido delle peggiori debolezze umane. Lo spettacolo descritto in quelle pagine fa chiaramente riferimento a Offenbach e alle sue parodie mitologiche, e non è affatto lusinghiero per il compositore che muore proprio nel 1880, anno di pubblicazione del romanzo.
Nanà
In sala, Fauchery e la Faloise, in piedi davanti alle loro poltrone, guardavano il nuovo intorno. La sala ora risplendeva, alte fiamme accendevano il grande lampadario di cristallo con un rifrangersi di fuochi gialli e rosati che piovevano dalla volta sulla platea in una cascata di luce. Il velluto granato dei sedili prendeva riflessi di lacca, mentre gli orli brillavano, addolciti nel loro splendore dagli ornamenti verde chiaro. I lumi della ribalta, tutti accesi, incendiavano il sipario con un rettangolo di luce violenta, e il pesante drappeggio aveva una ricchezza da palazzo favoloso contrastante con la povertà della cornice che, attraverso le crepe, mostrava lo stucco sotto la doratura. I suonatori, davanti ai loro leggii, accordavano gli strumenti; e i trilli leggeri dei flauti, i sospiri soffocati dei corni, le voci cantanti dei violoncelli s’involavano nel brusio crescente delle voci. Gli spettatori parlavano e si spingevano assalendo i posti; e la ressa nei corridoi era così incalzante che le porte lasciavano passare a fatica l’inesauribile flusso della gente. Segnali di richiamo, fruscio di stoffe; sfilavano vestiti, acconciature, interrotte dal nero di un frac o di una redingote. Intanto, le file delle poltrone si colmavano a poco a poco; spiccava un abito chiaro, una testa si profilava finemente, mostrando il nodo dei capelli nei quali balenava il lampo di un gioiello. In palco, un lembo di spalla nuda acquistava un serico candore. Alcune donne, tranquille, si sventagliavano languidamente seguendo con lo sguardo la folla incalzante, mentre alcuni giovani eleganti, dei gilets largamente aperti sullo sparato e dalla gardenia all’occhiello, in piedi fra le poltrone d’orchestra, manovravano i binocoli reggendoli con la punta delle dita guantate.
Emile Zola, Nanà, Milano, BUR, 1981