offendere (affendere; partic. pass. anche offenso)
Verbo usato con discreta frequenza, che ricorre soprattutto nella Commedia. Il latinismo ‛ offenso ' è presente solo in poesia e in rima.
Il senso proprio di " recare offesa, ingiuria, danno " è ampiamente documentato. In quest'accezione il verbo è usato come transitivo: Cv IV V 15 per non offendere la senatoria autoritade; VIII 13 (3 volte); XXVII 5 prima sé... che altrui offende; Pd XVII 52 La colpa seguirà la parte offensa / in grido, cioè " danneggiata ", " vinta "; o come intransitivo: Cv IV VIII 8 né la reverenza che a lui [Aristotele] si dee non offendo, e - più esattamente come " andar contro " - 12 offendendo a la veritade... non offendendo a la veritade; Pd VIII 78 E se mio frate [Roberto d'Angiò, fratello di Carlo Martello] questo antivedesse, / l'avara povertà di Catalogna / già fuggeria, perché non li offendesse, " non recasse danno " a lui, ovvero, secondo alcuni interpreti, a loro, cioè li popoli suggetti del v. 74; mentre non è definibile il valore transitivo o intransitivo in Vn XI 1 perdonare a chiunque m'avesse offeso, e in If XXXIII 21 saprai s'e' m'ha offeso, potendo valere il m' o " me " (oggetto) o " a me " (complemento di termine). In quest'accezione o. è usato anche assolutamente: Cv IV IX 7 offendere e giovare. Si ricordi inoltre la variante offendere invece di prendere, in If XXIII 36.
In alcuni luoghi della Commedia il verbo ricorre nel senso di " recare offesa " a Dio, cioè " peccare ": usato come transitivo (If XI 84 incontenenza / men Dio offende, e 95 usura offende / la divina bontade) e come intransitivo: Pg XXXIII 59 con bestemmia di fatto offende a Dio; anche usato assolutamente: Pg XXVI 76 La gente che non vien con noi [i sodomiti], offese / di ciò per che già Cesar, trïunfando, / " Regina "contra sé chiamar s'intese, " recò offesa " a Dio.
Frequente anche l'accezione perfettiva di " ledere ", " menomare ", ovvero " danneggiare ", a indicare l'azione negativa esercitata sull'uomo e sulle sue facoltà da passione o difetto: Cv IV Le dolci rime 65 lor ragion par che sé offenda; If II 45 l'anima tua è da viltade offesa; VII 71 quanta ignoranza è quella che v'offende!; ovvero a significare l'azione esercitata sulle facoltà umane da agenti esterni: If XVI 105 trovammo risonar quell'acqua tinta, / sì che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa; Pg XXXI 12 le memorie triste / in te non sono ancor da l'acqua offense, cioè " danneggiate " e quindi, nella logica contestuale, " spente " (Vellutello), " scancellate " (Venturi) dall'acqua del Lete. In senso meramente materiale, quindi per " urtare ", " dare di contro ", potrebbe valere la variante offendendo in luogo di fendendo, in Pg XXIX 111; ma cfr. la n. ad l. del Petrocchi per le ragioni che militano a disfavore della variante, recata soltanto dai codici del Cento.
In qualche luogo il verbo, al participio passato (anche sostantivato), è riferito ai dannati, a indicare il travaglio della pena che essi subiscono nell'Inferno: If IV 41 sol di tanto offesi / che sanza speme vivemo in disio, cioè " tormentati " (Venturi), " afflitti " (Vandelli, Casini-Barbi), " colpiti, travagliati " (Chimenz), ovvero " puniti " (Porena, Sapegno; e già Benvenuto: " in hoc solo punimur "); IX 123 sì duri lamenti, / che ben parean di miseri e d'offesi.
In If VII 111 vidi genti fangose in quel pantano, / ignude tutte, con sembiante offeso, il participio è inteso generalmente nel senso di " crucciato ", " sdegnoso ", " proprio di chi è vinto dall'ira " (Vandelli); mentre, secondo il Torraca, e già il Boccaccio, l'offesa sarebbe da spiegare col fatto, enunciato nei vv. 112-114, che questi dannati " non facevano che percuotersi e mordersi tra loro "; più completa la glossa del Mattalia, che legittima le due interpretazioni, intendendo l'espressione con sembiante offeso nel senso pregnante di " col sembiante di chi ha ricevuto offesa, quindi: crucciato, furioso "; ma neppure è da escludere che il participio valga, come in If IV 41 e IX 123, " tormentato ", " travagliato ".
Molto controversa, e per varie ragioni, l'interpretazione del verso in If V 102 Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Il Petrocchi (ad l.) c'informa che la veste testuale del v. 102 è sicura e che le varianti (mondo, n'offende, ecc.) sono quindi da escludere; ma la certezza della lezione non aiuta molto ai fini dell'interpretazione. La prima questione che si pone all'esegeta è di ordine sintattico: bisogna cioè stabilire a quale membro della terzina sia da unire e 'l modo ancor m'offende. Ora, dalla quasi totalità degl'interpreti antichi e moderni la frase viene collegata al sintagma che immediatamente la precede (la bella persona / che mi fu tolta), sicché in essa Francesca esprimerebbe il risentimento per il modo in cui fu privata del suo bel corpo; risentimento, a sua volta, variamente motivato: o come sdegno della donna per la maniera brutale in cui sarebbe stata uccisa (il che, non essendo dichiarato da D., ha dato origine a numerose supposizioni da parte di commentatori antichi, supposizioni riecheggiate anche da alcuni fra gl'interpreti moderni, ad es., dal Torraca); ovvero come amarezza di Francesca per il carattere repentino della morte, che non le avrebbe permesso di pentirsi, e quindi la danneggerebbe ancora in quanto dannata (interpretazione presente in larga parte dell'esegesi antica e sostenuta, fra i moderni, dal Parodi [Poesia e storia nella D.C., Vicenza 1965, 42], Casini-Barbi, Grabher, Porena, Momigliano); o, infine, come cruccio della donna per l'infamia derivatale dalla morte datale in flagrante dal marito (Croce [La poesia di D., Bari 1948, 19], Mattalia e già, ma meno decisamente, Benvenuto). A queste tre possibilità di esegesi se ne contrappongono altre, basate su una diversa interpretazione sintattica della frase, secondo cui essa non sarebbe da collegare con la precedente relativa, bensì con la proposizione principale (Amor... / prese costui). Tale interpretazione sintattica, proposta già dal Buti e sostenuta dal Landino e, in seguito, dal Moschetti (E 'l modo ancor m'offende. Chiosa dantesca, in " Atti e Memorie R. Accademia Scienze Lettere ed Arti in Padova " L [1933-34] p. 9 estr.), è stata ripresa dal Pagliaro e difesa con dovizia di argomentazioni, di cui la più importante è il parallelismo istituito fra la terzina 100-102 e la seguente (e, in particolare, tra ancor m'offende e ancor non m'abbandona del v. 105): cfr. Saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1953, 333 ss., e Ulisse 136 ss. Le argomentazioni del Pagliaro sono state accolte dal Sapegno, mentre il Mattalia sostiene che il parallelismo asserito dal Pagliaro " non è assoluto " e che " ancor non m'abbandona consegue necessariamente a sì forte, mentre e 'l modo ancor m'offende è una determinazione aggiuntiva ". Comunque, da questa seconda interpretazione sintattica della frase sono derivate due proposte esegetiche, nettamente divergenti fra loro e già entrambe presenti nel Buti: " e il modo ancor m'offende; cioè il modo di questo amore, che fu disordinato e smodato... ancora offende me Francesca; prima m'offese nel mondo: ché ne perdei la persona e l'onestà, et ancora m'offende: imperciò che ora ne perdo la vita spirituale, in quanto per questo sono dannata. Altrimenti si può intendere più leggiermente; cioè il modo dell'amore, che prese Paolo della mia bella persona, fu tale, che m'offese nel mondo; cioè m'inaverò e ferinmi il cuore, e così ancora m'offende; cioè m'inavera, e ferisce ora che l'amo fortemente ". Alla prima proposta del Buti hanno aderito il Landino e, con argomenti alquanto diversi, il Moschetti; mentre la seconda è stata ripresa dal Pagliaro, il quale così parafrasa la terzina 100-102: " Amore, che trova rapido accesso in cuore gentile, prese costui della bella persona che mi fu tolta con la violenza; e l'intensità del suo amore fu tale che ancora mi vince, mi menoma in modo che contro esso non ho alcuna possibilità di difesa " (Ulisse 145). Il Pagliaro aggiunge quindi che la sua interpretazione di offende nel senso di " menoma " è suffragata dal fatto che in questo senso il verbo compare anche in altri passi della Commedia (If II 45 e VII 71). Ora, a nostro giudizio, questo del Pagliaro rappresenta un tentativo esegetico indubbiamente suggestivo, ma non del tutto convincente: e non tanto per il modo in cui egli ricostruisce i nessi sintattici della terzina 100-102 (anche se le osservazioni del Mattalia al riguardo non ci sembrano prive di peso), ma proprio per il significato di " menoma ", " vince ", attribuito al verbo con tanta decisione, e per l'interpretazione dell'intera frase che se ne è ricavata. Non entriamo in dettagli, la cui valutazione comporterebbe un esame di tutto il contesto del racconto di Francesca e dell'intero canto V, nonché dell'atteggiamento generale di D. nei confronti delle anime dannate; diciamo soltanto che la constatazione che o., riferito alla condizione dei dannati, indica, almeno in due luoghi (If IV 41 e IX 123), il travaglio della loro pena, mentre non esistono altri passi in cui il verbo, detto delle anime infernali, valga " menomare ", " vincere ", dovrebbe, se non altro, indurre i lettori a cautela nell'escludere la prima interpretazione proposta dal Buti e ripresa, come si è visto, dal Landino e dal Moschetti, nonché, secondo l'altra ricostruzione della sintassi della terzina, le glosse del Parodi, Grabher, Porena, Momigliano, ecc., ovvero quelle del Croce, Mattalia, ecc. Inoltre, l'offense di V 109 (Quand'io intesi quell'anime offense), che, inteso come " vinte e travolte dalla passione e dalla colpa ", piuttosto che " colpite dalla materiale severità del castigo ", è portato dal Pagliaro a sostegno della sua interpretazione di e 'l modo ancor m'offende, potrebbe, almeno con pari legittimità, essere usato, attribuendogli il valore di " travagliate ", " tormentate " dalla pena (in accordo, ancora, con If IV 41 e IX 123), per difendere la tesi che scorge nel v. 102 un'allusione di Francesca alla condizione di dannata in cui ella si trova per colpa dell'amore di Paolo o anche per il modo in cui le fu tolta la bella persona. In conclusione, pur dovendosi giustamente apprezzare i tentativi compiuti dai moderni interpreti, e in primo luogo dal Pagliaro, non ci sembra che l'esegesi del tanto disputato sintagma di If V 102 abbia fatto registrare dei sostanziali passi in avanti rispetto a quanto scriveva il De Sanctis: " Frase oscura, perciò di poco effetto, ma dove è indicato tutto un episodio dell'anima nel momento che le fu tolta la bella persona " (Saggi critici, II, Milano 1921, 195). E tanto dicasi anche per l'offense del v. 109.
Due volte, nel Fiore, la forma ‛ affendere ': Malabocca... / fu 'l nemico che più mi v'affese (XXXII 7); Venusso ... / lor ha giurato... / ched e' non fia nessun che si difenda / ch'ella de la persona no gli affenda (CCXX 7): qui il significato del verbo è più forte che nell'uso moderno, più prossimo alla matrice etimologica, con riferimento a ingiuria fisica.