Eguaglianza, offensività e proporzione della pena
Il presente contributo, partendo dalla ricognizione dell’uso dei concetti di uguaglianza, offensività e proporzione come “norme-principio”, evidenzia le opportunità di una loro applicazione congiunta nel campo delle sanzioni penali: nel rapporto tra pena e fatto e in quello tra pene e fattispecie diverse di reato. La comprensione dei limiti e delle potenzialità dei principi in parola è poi condotta distinguendo il loro uso come criteri di produzione normativa, come controllo di legittimità o come guida ermeneutica. Viene quindi focalizzata l’attenzione sull’uso “interpretativo”, dimostrando che la definizione del quadro di tipicità dell’illecito spesso risente del trattamento sanzionatorio per esso stabilito. Individuati tre filoni interpretativi (additivo, manipolativo e “integrativo di determinatezza”) si sottolinea l’importanza della proporzionalità come meta-principio regolativo degli altri due per risolvere le polarità tensive con altri principi costituzionali.
I termini “eguaglianza”, “offensività” e “proporzione” ‒ usati come concetti giuridici nel diritto penale ‒ vengono solitamente considerati rappresentativi di norme-principio, da intendersi, secondo l’accezione che qui si privilegia, come norme espressive di “valori”1 che entrano in giudizi di bilanciamento con altri valori, in contrapposizione alle norme-regola, descrittive di fattispecie, in cui sussumere fatti, cui sono collegati determinati effetti giuridici2.
Nella loro valenza di “principi” tali concetti hanno esibito una molteplicità di usi in varie direzioni: in senso meta-normativo (cioè come norme relative ad altre “norme”), sono stati utilizzati come “criterio di produzione” cui il legislatore dovrebbe attenersi, cioè come modello di un determinato diritto penale3 per la politica, nell’ambito delle scelte discrezionali a questa rimesse per il futuro; de iure condito, invece, sono stati usati come “criterio di controllo” del diritto già prodotto, cioè come criterio per la valutazione della sua legittimità, in particolare nella sede rimessa al giudizio della Corte costituzionale.
Nell’ambito di questa valenza di controllo è poi emersa la possibilità di usare i principi in parola anche in chiave interpretativa, cioè come strumento di selezione o addirittura di integrazione dei significati attribuibili agli “enunciati” normativi. In particolare è osservabile un percorso che, attraverso la “costituzionalizzazione” del principio ‒ vale a dire attraverso il riconoscimento che il valore espresso dal principio è tutelato dalla Costituzione o da altre Carte fondamentali cui è attribuito un rango assiologicamente sovraordinato alle altre norme ‒ conduce a selezionare o integrare, in via interpretativa o di applicazione, i significati degli enunciati normativi compatibili con tale valore e, quindi, quando ciò non sia possibile, a promuovere la caducazione delle disposizioni non conformi agli stessi, nelle forme previste dall’ordinamento e, segnatamente, attraverso la dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale.
Posto che il principio di uguaglianza è espressamente codificato nella Costituzione all’art. 3, il processo di costituzionalizzazione4 ha interessato in particolare i principi di offensività e di proporzione, che sono stati desunti implicitamente come specificazione e sviluppo di altri principi a costituzionalizzazione espressa, secondo procedimenti argomentativi che hanno esibito i nessi concettuali e funzionali tra i medesimi e tra questi e lo stesso principio di uguaglianza che, in considerazione della sua generalità, ha assunto la valenza di “grande principio” o “metaprincipio”5 ‒ vale a dire principio regolativo dell’operare di altri principi ‒ così da necessitare anch’esso di sviluppi e particolarizzazioni in rapporto ai principi specifici del diritto penale.
Nel corso del predetto percorso di costituzionalizzazione è potuta così emergere la profonda sinergia tra eguaglianza, offensività e proporzione nel senso di richiedere risposte sanzionatorie modulate (proporzionate) in modo corrispondente (uguale) alla concreta attitudine offensiva delle diverse condotte realizzate. Ciò è avvenuto secondo due linee principali: una “interna” alle singole fattispecie di reato in relazione al rapporto tra fatto e pena; un’altra “esterna”, in relazione al rapporto tra le pene previste per differenti fattispecie di reato contemplate nell’ordinamento.
Nel rapporto tra “fatto” e “pena” all’interno di una medesima fattispecie criminosa si sono ritenute illegittime, in linea di principio, le “pene fisse”, in quanto impediscono in radice la ricordata modulazione della pena sulla concreta offensività delle diverse condotte corrispondenti al modello descritto nella norma incriminatrice, ma si è anche ammesso che, in casi eccezionali, possano rispettare i limiti costituzionali alla potestà punitiva in funzione di tutela individuale e di giustizia proporzionale e si è finito per ravvisare l’eccezione in quasi tutti i casi esaminati, sulla base di argomentazioni che, quasi impercettibilmente, si sono spostate dal versante dell’offensività e dell’uguaglianza a quello della proporzione6.
Questo punto di difficoltà, rappresentato dalla delimitazione del limite oltre il quale la risposta sanzionatoria non possa più considerarsi proporzionata alla concreta attitudine lesiva del fatto ‒ così da evidenziare diseguali trattamenti di situazioni di pari offensività o, viceversa, ingiustificate omologazioni di condotte di diversificata offensività ‒ è emerso con chiarezza ancora maggiore in relazione alle “pene variabili”.
La delicatezza dell’operazione, infatti, è commisurata all’esigenza, anch’essa di rilievo costituzionale, di rispettare l’esercizio della discrezionalità legislativa da parte degli organi competenti in relazione alla loro responsabilità politica per le scelte di penalizzazione, soprattutto in ordine alla misura delle sanzioni, così da non sovrapporre valutazioni discrezionali di merito dell’organo giurisdizionale a quelle parlamentari. Per tale ragione la Corte costituzionale italiana ha tradizionalmente preferito seguire la strada “esterna” e restringere le pronunce di illegittimità ai casi in cui fosse rilevabile una ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio con quello previsto per altri reati, usati come tertia comparationis, sulla base di valutazioni attinenti i rapporti tra beni giuridici tutelati nelle fattispecie a confronto, il grado di offensività espresso dalle condotte incriminate e le sanzioni previste per ciascuno, così da ricondurre la violazione non a valutazioni soggettive del giudice delle leggi, ma a situazioni di incoerenza in riferimento alle scelte già operate dal legislatore.
Seguendo questa strada, ad esempio, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del delitto di “rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza” ritenendo la pena prevista irragionevolmente diversa rispetto a quella per il delitto di mancanza alla chiamata (art. 151 c.p.mil.p.), in presenza dell’identità dell’oggetto di tutela, così da poter fissare la sanzione nei limiti edittali previsti per quest’ultimo reato7. In senso analogo, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo il reato di diffusione di pubblicazioni di propaganda elettorale prive del nome del committente responsabile perché caratterizzato da un trattamento sanzionatorio arbitrariamente più severo rispetto alla fattispecie invocata come tertium comparationis8.
Le esigenze di concretizzazione della pena rispetto al fatto e alla persona hanno invece trovato maggiore spazio solo nella giurisprudenza più recente, dapprima facendo riferimento alle possibilità in tal senso riconosciute dal legislatore in situazioni omologhe. Un’applicazione particolare è rappresentata, da ultimo, dalla possibilità di estendere la modulazione della pena, tramite attenuanti speciali previste per un reato, ad altre fattispecie considerate omologhe e per le quali dette attenuanti non erano previste. In questa ottica, ad esempio, è stato dichiarato illegittimo l’art. 630 c.p., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità, ritenendo manifestamente irrazionale, in rapporto al sequestro a scopo di estorsione, la mancata previsione di una circostanza attenuante analoga a quella applicabile alla fattispecie “gemella” del sequestro terroristico o eversivo (art. 270 bis c.p., a cui è appunto applicabile l’attenuante di cui all’art. 311 c.p.)9. Un passo ulteriore sembra essere stato fatto in altre sentenze10 con le quali sono state dichiarate illegittime pene accessorie (perdita della potestà genitoriale) previste necessariamente nel caso della commissione di determinati reati: in queste ipotesi il vulnus costituzionale non è stato individuato tanto nella misura “fissa” della sanzione, ma nell’“automatismo” delle conseguenze rispetto alla variata offensività dei fatti sussumibili nella fattispecie astratta, ciò che ha evidenziato declinazioni dei principi in esame nel diritto sostanziale già sperimentati dalla Corte costituzionale in riferimento a istituti processuali, quali le presunzioni di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere previste dall’art. 275 c.p.p.11.
La prudenza storicamente dimostrata dalla Corte costituzionale, nell’accogliere questioni di legittimità sollevate su questi punti, non può comunque ritenersi casuale e deve ritenersi fisiologicamente commisurata ai limiti che gli stessi organi di giustizia costituzionale pongono alla loro possibilità di intervento, sia in ordine alle possibili ricadute in malam partem delle pronunce costituzionali in campo penale, sia in ordine alla riconduzione dell’intervento della Corte costituzionale nei limiti di soluzioni costituzionalmente obbligate.
Invero, se il divieto di interventi in malam partem da parte del giudice delle leggi potrebbe comunque costituire un chiaro criterio discretivo rispetto all’ammissibilità degli interventi della Corte nel censurare i trattamenti sanzionatori, anche a prescindere da ogni considerazione sul forte ridimensionamento che il divieto ha avuto nello sviluppo della giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni12, più costrittivo risulta invece il limite dovuto all’inesistenza di soluzioni costituzionalmente obbligate, ciò che ha portato a diverse dichiarazioni di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in proposito13.
Questo potrebbe spiegare perché le decisioni di accoglimento riguardano tutti casi, sopramenzionati, in cui era più agevole individuare automaticamente il trattamento sanzionatorio risultante dalla dichiarazione di illegittimità.
In questo senso, la portata che al principio di proporzione è stata attribuita in ambito sovranazionale con riferimento al diritto penale ‒ all’esito della sua formalizzazione nella Carta dei diritti dell’Unione europea14, da un lato, e di alcuni arresti della Corte di Strasburgo, dall’altro, che ha ravvisato violazioni convenzionali in casi di previsione della pena detentiva per i reati di diffamazione commessi nello svolgimento di attività giornalistica15 ‒ potrebbe spingere verso interventi che, in sede di giudizio costituzionale interno, portino ad escludere la legittimità di talune tipologie di pena in rapporto a determinate fattispecie astratte di reato per la quale esse sono previste, sfruttando la sinergia del principio di proporzione con quello della finalità rieducativa ex art. 27, co. 3, Cost., e con la necessaria tutela di altri valori costituzionali preminenti (come la libertà di manifestazione del pensiero o altro).
Riservandoci di ritornare in seguito sul punto, in questa sede preliminare ricognitiva occorre invece immediatamente rilevare che esiste un terzo e meno scontato filone dell’operare dei predetti principi, quello esibito nel rapporto tra “tipicità” e “pena” ‒ nel senso dell’influenza che il trattamento sanzionatorio esplica sulla definizione-precisazione degli elementi costitutivi della fattispecie ‒ su cui è dato registrare un particolare dinamismo e sul quale sembra necessario focalizzare maggiormente l’attenzione in quanto, probabilmente, bisognoso di più equilibrati assetti, anche perché, in relazione a quest’ultimo filone, si è maggiormente registrato quell’uso interpretativo dei principi in parola che, coinvolgendo direttamente anche i giudici comuni, pone in termini ancora più estremi la tensione con altri principi costituzionali, compresi quello della certezza del diritto ‒ nella forma della conoscibilità e prevedibilità del precetto penale ‒ e, invero, delle stesse garanzie connesse al principio di legalità16.
Per quanto concerne l’utilizzo interpretativo dei principi in parola, nel senso di desumere da essi la determinazione o precisazione degli elementi costitutivi del reato, certamente il principio di offensività ha rappresentato il campo di elezione di un simile uso (in relazione al reato impossibile, ai reati di pericolo, ecc.)17. Tuttavia l’enfasi posta sul ruolo del principio in parola ‒ considerato orgogliosamente come originale contributo italiano alla dogmatica penalistica, in chiave di esaltazione di un diritto penale del fatto, contrapposto al diritto penale dell’autore, da inscrivere in una teoria del reato improntata al paradigma causale della lesione al bene giuridico che evolve verso una legittimazione penale della sola tutela di diritti fondamentali18 ‒ ha talvolta messo in ombra la rete concettuale che lo connette al principio di uguaglianza o di proporzione, che meglio avrebbe potuto garantire un diritto penale che trovi la sua legittimazione in una reazione sanzionatoria proporzionata ed eguale rispetto all’offesa recata a beni giuridici19.
Non a caso questa rete e connessione concettuale tra i predetti principi è invece emersa nella pratica della giurisprudenza (specie costituzionale) e, benché talvolta percepita quasi come un difetto o deminutio del principio di offensività20, consentirebbe di rendere più concreta e fruibile, in sede applicativa, una ricostruzione della sua portata e dei suoi limiti sistematici, in particolare in relazione alle frizioni con il principio di legalità. Si eviterebbero così gli opposti estremi di soluzioni “astratte” o “casuistiche” ‒ entrambe di prevedibile degenerazione nell’arbitrarietà ‒ ai problemi generati dalle ricordate tensioni con il principio della riserva di legge, evidenziando invece le profonde differenze che esistono tra i diversi utilizzi che di quegli stessi principi sono stati effettuati e che risultano esemplarmente rappresentati da tre recenti sentenze, rispettivamente, della Corte costituzionale, delle Sezioni Unite e della sesta sezione della Corte di cassazione.
Dette pronunce possono considerarsi emblematiche di tre differenti tendenze cui è da ultimo approdato l’uso dell’offensività, dell’uguaglianza e della proporzione, tendenze che potrebbero essere sinteticamente identificate come uso additivo, manipolativo e integrativo di determinatezza dei principi in parola.
2.1 L’uso interpretativo “additivo”
Con la prima pronuncia ‒ C. cost., 19.5.2014, n. 139 ‒ la Corte costituzionale, in riferimento ad un caso di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, ha ribadito che costituisce «precipuo dovere del giudice di merito di apprezzare, alla stregua del generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria offensività della condotta concreta» se essa, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, sia, in concreto, palesemente priva di qualsiasi idoneità lesiva dei beni giuridici tutelati (sentenza n. 333 del 1991). Il legislatore ben potrà, anche per deflazionare la giustizia, intervenire per disciplinare organicamente la materia, fermo restando il rispetto del citato principio di offensività che ha rilievo costituzionale”.
Pur dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, la Corte ha di fatto invitato il giudice comune a fare un uso del principio di offensività tale da portarlo a individuare una soglia quantitativa di rilevanza penale della condotta ‒ di problematica esatta determinazione ‒ dove il legislatore non l’aveva prevista, spingendolo, quindi, a procedere per “addizione in bonam partem” in uno spazio di discrezionalità che la Corte medesima ritiene a sé precluso.
2.2 L’uso interpretativo “manipolativo”
Con la pronuncia 29.5.2014, n. 32923 le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno stabilito che, per rispondere del reato di cui all’art. 9, co. 2, della l. 31.7.2005, n. 155 (ovvero anche art. 75 del d.lgs. 6.9.2011, n. 159) il sorvegliato speciale sottoposto all’obbligo o divieto di soggiorno deve porre in essere «condotte eloquenti in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle significative misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano e connotano», prescrizioni la cui elusione comporterebbe una “sostanziale vanificazione delle misura imposta”.
«In tale ottica, il porto e la eventuale esibizione della carta di permanenza, benché condotte doverose, non costituirebbero un obbligo nel senso dell’art. 9, comma 2, della l. 27.12.1956, n. 1423 come successivamente modificata (l’obbligo è quello di soggiornare o non soggiornare in un determinato luogo), ma neanche integrerebbero una prescrizione, perché non si traducono né in una restrizione (spaziale o temporale) della libertà di circolazione, né nell’impegno di assumere l’habitus del bonus civis ... Si tratterebbe semplicemente di una disposizione volta a rendere più agevole l’operato delle forze di polizia…». Inoltre, la sentenza – pur ritenendo ammissibile un diritto penale che individui, come in questo caso, categorie di persone meritevoli di particolare controllo – ribadisce che «il rispetto … del
principio di proporzionalità non consente, in sede ermeneutica, di equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile ad un soggetto “qualificatamente” pericoloso».
In questo modo si usano i principi in parola a fini manipolativi della fattispecie, ridisegnando i confini semantici del concetto di “obbligo” – letteralmente inclusivi del porto e della esibizione della carta di soggiorno, come espressamente previsto all’art. 9, co. 7, secondo cui «alle persone di cui al comma 6 (vale a dire i sorvegliati con obbligo o divieto di soggiorno) è consegnata una carta di permanenza, da portare con sé e da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza» – così da pervenire, sempre in bonam partem, a superare l’indirizzo maggioritario secondo cui, per quanto riguarda il sorvegliato speciale con obbligo o divieto di soggiorno «la violazione di un qualunque obbligo, anche diverso dal divieto di recarsi fuori dal comune del soggiorno, integra l’ipotesi delittuosa e non già …quella contravvenzionale». Tale conclusione era, infatti, supportata dal fatto che «a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 155 del 2005, la violazione di un qualunque obbligo inerente alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno – anche pertanto, se diverso dal divieto di recarsi fuori dal comune di soggiorno – integra l’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 9, comma secondo, della legge n. 1423 del 1956 e mai, come pure già precedentemente previsto, la figura contravvenzionale di cui al medesimo art. 9, comma primo». Gli argomenti letterali, sistematici ed evolutivi, pertanto, sono stati ritenuti soccombenti dalle Sezioni Unite rispetto ad argomenti valoriali-finalistici connessi all’uso dei principi di offensività, proporzione e uguaglianza, così da legittimare il filone interpretativo prima minoritario, secondo cui la condotta in questione sarebbe invece riconducibile alla sola contravvenzione di cui all’art. 650 c.p., che punisce meno gravemente e in via residuale qualsiasi inottemperanza amministrativa, appunto perché questa viene ritenuta l’unica opzione interpretativa ritenuta conforme al principio di proporzione tra incidenza dell’illecito e gravità della sanzione. Il giudice comune non ritiene peraltro insormontabili gli ostacoli letterali, così da dover sollevare questione di legittimità costituzionale, nonostante l’univoca convergenza degli argomenti testuali verso le conclusioni dell’avversato orientamento maggioritario, e considera che il medesimo risultato possa raggiungersi attraverso la esaminata manipolazione interpretativa dell’enunciato.
2.3 L’uso “integrativo di determinatezza”
Con la pronuncia della VI sezione penale ‒ Cass. pen., 6.5.2014, n. 37367 ‒ si è stabilito, in relazione al reato di cui all’art. 419 c.p. (Devastazione e saccheggio), che il concetto di “devastazione” venga riservato a fenomeni «di primaria grandezza, di diffusa e grave distruzione», la cui portata offensiva si concretizzi in una minaccia «alle condizioni stesse di sicurezza della vita associata, e dunque in modo indiscriminato e su scala estesa», in modo che l’ambito di applicazione della fattispecie sia riservata a quei soli fatti il cui disvalore appare meritevole di una sanzione di calibro così pesante. Si tratta di un risultato ermeneutico al quale il solo principio di offensività non sarebbe stato in grado di condurre l’interprete, posto che sembra difficile non ravvisare una qualche forma di offesa all’ordine pubblico in quasi tutti i casi di tumulti e disordini associati alle manifestazioni.
È solo sul piano della proporzione sanzionatoria tra pena prevista dal legislatore e offesa tipizzata che è possibile recuperare una più precisa determinazione dei contenuti della condotta, tra quelli attribuibili ai termini e all’enunciato normativo.
Infatti, come è stato osservato21, se si utilizzasse l’art. 419 c.p. per la repressione di qualsivoglia tumulto o disordine, si finirebbe per punire gli autori di meri “scontri di piazza” con una pena più severa di quella applicabile ‒ ad esempio ‒ ai partecipi di un’associazione di tipo mafioso (reclusione da sette a dodici anni) o agli autori di una violenza sessuale, magari a danno di un minore di dieci anni (reclusione da sette a quattordici anni). Proprio la considerazione
comparativa (uguaglianza) del diverso disvalore (offensivo) che contrassegna questi fatti consente di ritenere irragionevole (sproporzionata) la previsione di pene dello stesso calibro. La Cassazione giunge quindi a restringere i possibili significati del termine “devastazione” in modo che comprendano quelle sole condotte che, per la loro estensione e diffusività, travalichino in maniera abnorme l’offesa all’ordine pubblico normalmente arrecata dalla mera sommatoria di atti di vandalismo e resistenza a pubblico ufficiale. In questo modo si arricchisce in determinatezza il contenuto del concetto “devastazione” e i principi di uguaglianza, offensività e proporzione vengono perciò utilizzati come integratori dei requisiti di determinatezza. In modo analogo, del resto, la Corte costituzionale aveva dichiarato non fondata una questione di legittimità del reato di atti vessatori di cui all’art. 612 bis c.p. (cd. “stalking”) ‒ C. cost., 11.6.2014, n. 179 ‒ anche in considerazione del diritto vivente, che consentiva di ritenere sufficientemente precisa la tecnica sintetica di descrizione degli elementi costitutivi del reato se correttamente interpretati alla luce dei principi in parola.
L’analisi che precede consente di acquisire una più precisa consapevolezza dell’articolazione dei principi in esame sia nelle interconnessioni manifestate da un loro uso contestuale, sia nei differenti punti problematici emergenti a seconda del diverso utilizzo che se ne è fatto, ciò che consente di esporre alcune considerazioni sui nodi ancora da sciogliere al riguardo.
Può così osservarsi che la positiva enfasi ‒ richiamata anche nel discorso del primo Presidente della Corte di cassazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 ‒ sul ruolo che il principio di offensività deve avere nel diritto penale rischia di risultare depotenziata, se non addirittura foriera di profonde disarmonie, qualora non si considerino, da un lato, le sinergie che possono scaturire dal suo uso congiunto con i principi di uguaglianza e proporzione e, dall’altro, le profonde differenze di portata che i principi in parola assumono a seconda del loro diverso utilizzo, cioè a seconda che siano utilizzati come criterio di produzione normativa, come controllo di legittimità del diritto vigente oppure come strumenti interpretativi.
In particolare, le tensioni con il principio di legalità (e con la riserva di legge), sorgono soltanto in relazione all’uso dei predetti principi in sede di controllo di legittimità o in sede interpretativa del diritto vigente. Quindi, occorre tenere distinte le (positive) considerazioni che sono state sviluppate in relazione al ruolo-guida che l’offensività, la proporzione e l’uguaglianza hanno per il legislatore, nell’opportuno promovimento di un diritto penale del fatto contro il rischio di un ritorno al diritto penale del tipo di autore22, dalla necessità di tenere presenti anche i limiti connessi al loro diverso contesto d’uso.
Infatti, la tensione dei principi in parola con quello di legalità, quando usati in sede di controllo di legittimità o in sede interpretativa, non può essere trascurata e deve essere analizzata considerando come essa si atteggi differentemente a seconda dell’istituzione giurisdizionale coinvolta (giudice comune o Corte costituzionale).
In gioco, invero, non sono solo i valori della certezza normativa e della prevedibilità di applicazioni future. Già questo non è poco, considerato che tali valori sono da apprezzarsi anche, e soprattutto, nel loro ruolo di garanzia ‒ secondo la terminologia sovranazionale della Corte europea dei diritti dell’uomo ‒ dell’“accesso” alla legge, accesso decisivo non solo per assicurare una responsabilità penale personale, ma anche perché lo stesso diritto penale possa svolgere le funzioni di prevenzione generale ad esso tradizionalmente attribuite, ciò che costituisce la precondizione essenziale e costitutiva di esistenza di qualsiasi diritto penale.
Tuttavia, oltre a tutto questo vi è altro: in gioco è la ancor più pericolosa dissociazione tra responsabilità e potere nelle istituzioni, precondizione essenziale e costitutiva dell’esistenza non del solo diritto penale, ma di qualsiasi ordinamento giuridico.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la natura di “principi” della eguaglianza, proporzione e offensività implica che si operi con “bilanciamenti” e non mediante operazioni sussuntive.
L’ampiezza in base alla quale è possibile effettuare operazioni di bilanciamento è assai diversa a seconda dell’istituzione ordinamentale coinvolta, differenziandosi a seconda della diversa formazione degli organi, della diversa proceduralità argomentativa di ciascuno, degli argomenti spendibili in ciascuna sede, della responsabilità che può essere fatta valere nei confronti di chi il bilanciamento ha fatto.
Pur trovando talora ingiustificata omologazione in indicazioni provenienti dalla stessa Corte costituzionale, risulta evidente, ad esempio, che esiste una profonda differenza nei diversi usi interpretativi dei principi in parola, segnatamente tra quelli che abbiamo chiamato utilizzi additivi o manipolativi ‒ di competenza della sola Corte costituzionale nei limiti di scelte costituzionalmente obbligate ‒ e gli utilizzi che abbiamo chiamato integrativi di determinatezza, di piena competenza del giudice comune e, anzi, doverosi per quest’ultimo.
La soluzione al problema dell’assicurare la più ampia operatività ai principi in parola non sta, quindi, ad avviso dello scrivente, nella semplicistica e indiscriminata estensione dei poteri di bilanciamento al di là dei limiti in cui questi sono esercitabili dalle differenti istituzioni (politiche, giurisdizionali costituzionali e giurisdizionali comuni), ma nella intensificazione delle sinergie tra offensività, uguaglianza e proporzione, riconoscendo in particolare a quest’ultimo principio, quello di proporzione, quel ruolo di meta-principio in ambito giurisdizionale che, anche nel dibattito internazionale, sembra assicurargli centralità come strumento di controllo dell’operato dei giudici (anche costituzionali) e come difesa da derive arbitrarie e soggettive delle singole decisioni giurisprudenziali.
Infatti, quando dalle operazioni sussuntive si passa a quelle di bilanciamento, la controllabilità cessa di essere formale e diventa assiologica-sostanziale.
Ciò non significa che essa diventi esclusivamente politica, ma solo a patto di riconoscere un ruolo alla proceduralità argomentativa valoriale, ciò che avviene appunto attraverso i cd. test di proporzionalità, che possono funzionare non solo quali verifiche ex post di condivisibilità-correttezza del bilanciamento, ma anche quale criterio di ragionamento per giungere dalle premesse alla conclusione in cui si sostanzia la decisione.
In particolare si intende fare qui riferimento ad un più intenso uso giurisdizionale (sia in sede costituzionale che in sede comune) del cd. test quadripartito di “proporzionalità23 come modello argomentativo della decisione. Si tratta, cioè di richiedere l’adempimento, da parte del giudice, di precisi e determinati oneri motivazionali divisi in passaggi che devono essere necessariamente rispettati: sull’ammissibilità degli scopi conseguiti dall’applicazione dei principi ritenuti
prevalenti; sulla idoneità effettiva, della soluzione adottata tramite l’affermazione del principio, a conseguire detti scopi; sulla necessarietà della prevalenza dei valori sottesi all’affermazione dei principi prescelti sugli altri valori sacrificati; sulla verifica della proporzione in senso stretto, nel senso che il peso dell’esigenza di soddisfazione dello scopo sia maggiore (variante: accettabile) rispetto al sacrificio imposto per il suo conseguimento, ovvero nel senso che la soluzione prospettata offra un equilibrato sacrificio di tutti i valori in gioco (maggiore tutela conseguibile con il minor sacrificio).
In altre parole, la proceduralità argomentativa, attraverso l’espressione puntuale degli impegni motivazionali che l’applicazione dei principi al caso vivo comporta, non solo garantisce dalle derive dell’arbitrio soggettivo, ma costituisce anche la garanzia della correttezza della conclusione, a cui si deve però necessariamente giungere a posteriori, condotti appunto dai passi dell’argomentazione. Sembra strano che, in un momento in cui in ambito filosofico e scientifico si sta riscoprendo l’importanza decisiva dell’argomentazione24, attribuendo grande importanza al modello giurisprudenziale, si debba richiamare la peculiarità dell’argomentazione per principi in ambito giuridico. Forse i giuristi e gli operatori del diritto, talvolta, assumono la ragionevolezza solo come una forma di razionalità limitata e contestuale, vista cioè come scelta dimezzi che con ogni probabilità produrranno gli effetti prefissi apoditticamente come fine, o vedono in essa solo un deposito di certezze del senso comune, insuscettibile di essere verificato o falsificato, di tal che rinunciano a vedere nell’argomentazione alcun valore eristico, ma vi individuano solo uno strumento retorico per perseguire fini soggettivi. Al contrario, sembra doversi intendere la ragionevolezza-proporzione come “ragione pratica”, vale a dire come un sapere che orienta all’agire (nel senso della fronesis aristotelica), distinto sia dal sapere della procedura metodica che sussume il caso particolare nella legge generale (episteme aristotelica), sia dalla tecnica che sa scegliere i mezzi più adeguati al fine (tekne aristotelica).
Recuperando, quindi, il procedimento del sapere pratico come il procedimento (ermeneutico) che attraverso l’interpretazione applica la legge al caso vivo, si può scoprire l’insostituibile ruolo delle norme-principio e, in particolare, di quelle qui in esame, anche nel loro utilizzo giurisdizionale.
Certo, perché ciò avvenga occorre anche recuperare il valore del dato testuale, cioè dell’enunciato normativo di riferimento cui è applicato il principio, e della necessità di rispettare i propri confini istituzionali, non per una concezione burocratica dei ruoli, ma per garantire la tenuta complessiva dell’equilibrio ordinamentale. La contestualizzazione dell’enunciato, sia cronologica (interpretazione evolutiva) sia rispetto agli altri testi di riferimento (interpretazione
sistematica, interpretazione conforme, ecc.), non vuol dire, infatti, che il testo non funzioni ancora come limite di possibilità dell’attribuzione di significati ‒ sia nel senso dell’esclusione di taluni, sia in quello della necessità di procedere mediante addizioni o manipolazioni per attribuirne altri ‒ di tal che occorre recuperare una più completa consapevolezza del fatto che esiste ancora un confine tra le operazioni “genuinamente interpretative”, da un lato, e quelle di “addizione” o “manipolazione” testuale, dall’altro25; le prime di piena e doverosa competenza del giudice comune, le seconde di competenza della Corte costituzionale nei limiti delle soluzioni costituzionalmente obbligate, specie e a maggior ragione quando si utilizzino norme-principio.
1 Normalmente si distingue tra bilanciamento di “interessi” e bilanciamento di “valori”, talvolta differenziando l’oggetto del bilanciamento a seconda dell’ambito istituzionale: politico, giurisdizionale di costituzionalità, giurisdizionale comune (cfr. Morrone, A., Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enc. Dir., Annali, II, 2008, 185 ss.). Tra i costituzionalisti spesso i principi vengono ricostruiti come medium tra valori e regole (cfr. Zagrebelsky, G., Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino, 2009, 100; Azzariti,G., Interpretazione e teoria dei valori: tornare alla Costituzione, in Palazzo, A., a cura di, L’interpretazione della legge alle soglie delXXI secolo,Napoli, 2001, 241).
2 Sulla distinzione tra regole e principi esiste una copiosa bibliografia: v. almeno i saggi fondamentali di Dworkin, R., Taking Rights seriously, London, 1972; Id., Giustizia per i ricci,Milano, 2013; Alexy, R., Diritti fondamentali, bilanciamento e razionalità, in Ars Interpretandi, 2002, 7, 131 ss.; Nino, C.S., A philosophical Reconstruction of Judicial Review, in Rosenfeld, M., a cura di, Constituionalism, Identity, Difference and Legitimacy. Theoretical Perpsectives, Durham, 1994;Mc Cormick,N., Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Torino, 2001; Atienza, M., El derecho como argumentaciòn. Concepciones de la argumentacion, Barcelona, 2006, 163 ss.; Lombardi Vallauri, L., Giurisprudenza, 1) Teoria Generale, in Enciclopedia giuridica, XV, 1989;Modugno, F., Principi e norme. La funzione imitatrice dei principi e i principi supremi o fondamentali, in Id, Esperienza giuridiche del ‘900,Milano, 2000, 85 ss.; cfr. anche Ferrajoli, L., Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. I, Roma-Bari, 2007, 564 ss; Pino,G., Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, Bologna, 2010, 52 ss. Sulla distinzione tra principi costituzionali di tipo dimostrativo e di tipo argomentativo (o solo politico criminale) – cfr. Donini, M., Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, 25 ss.; Id., Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in Dir. pen. cont., 2013, fasc. 4, 15 – che sembra risentire, però, dei problemi, storicamente determinati, relativi alla loro “giustiziabilità”.
3 Ad es. Donini,M., Il principio di offensività, cit., 16 evidenzia come il principio di offensività orienti verso un modello di diritto penale del fatto contrapposto al modello del diritto penale d’autore (sulla interazione tra principio di proporzione e principio di colpevolezza v., invece, Frisch, W., Principio di colpevolezza e principio di proporzionalità, in www.penalecontemporaneo.it, 18.7.2014).
4 Sulla costituzionalizzazione dei principi in esame e sulla loro evoluzione, v. la brillante ed esaustiva esposizione di Manes, V., I recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia di offensività e ragionevolezza, in www.penalecontemporaneo.it, 10.10.2011, 99 ss.
5 Per l’uguaglianza comemeta-principio del diritto penale, v. Fiandaca, G., Uguaglianza e diritto penale, in Cartabia, M.-Vettor, T., a cura di, Le ragioni dell’uguaglianza,Milano, 2009, 151 ss.
6 C. cost., 2.4.1980, n. 50, infatti, dopo aver affermato il principio di cui sopra, ha tuttavia ritenuto infondata nella specie la questione di legittimità costituzionale in una fattispecie contravvenzionale punita con pena fissa. Nello stesso senso si è espressa la C. cost. con l’ordinanza 31.3.2008, n.91 sull’aumento di pena in misura fissa per la recidiva reiterata aggravata, con l’ordinanza 20.11.2002, n. 475 in un caso di reato punito con pena pecuniaria fissa e pena detentiva dotata di forbice edittale.
7 C. cost., 13.6.1989, n. 409.
8 C. cost., 12.7.2001, n. 287.
9 C. cost., 19.3.2012, n.68.
10 C. cost., 15.2.2012, n. 31 e C. cost., 16.1.2013, n.7.
11 Cfr. C. cost., 18.10.1995, n. 450; 21.7.2010, n. 265;
12 5.2011, n. 164; 22.7.2011, n. 231; 12.12.2011, n. 331; 3.5.2012, n.110; 29.3.2013, n. 57.
12 Nella sentenza 8.11.2006, n. 394, in particolare, la Corte costituzionale ha ritenuto l’irragionevolezza del trattamento differenziato in mitius (norma penale di favore) per i falsi elettorali rispetto alle “comuni” fattispecie codicistiche di falso. A detta sentenza hanno fatto seguito poi, con ulteriori ampliamenti di sindacato, vincolato solo al divieto di introduzione di nuove norme penali, C. cost., 25.1.2010, n. 28 (in materia di norme extrapenali integrative e limitative di un precetto penale più ampio), C. cost., 23.1.2014, n.5 (in un caso di norme penali favorevoli introdotte in difetto di delega) e C. cost., 12.2.2014, n.32 (in materia di norme penali introdotte in una legge di conversione disomogenea rispetto al decreto-legge da convertire.
13 Cfr., ad es., C. cost., 6.12.2006, n.22.
14 Cfr. art. 49, § 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo cui la pena non deve essere sproporzionata rispetto al reato. V. anche art. 52, § 1, secondo cui limitazioni ai diritti e alle libertà possono essere apportate nel rispetto del principio di proporzionalità, solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. Nella spiegazione relativa all’art. 49, si precisa che il paragrafo 3 riprende il principio generale della proporzionalità dei reati e delle pene sancito dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità.
15 Cfr. C. eur. dir. uomo, 24.9.2013, Belpietro c. Italia.
16 La problematicità del rapporto contemporaneo tra legge e giudice v. di recente Gargani, A., La fattispecie di corruzione tra riforma legislativa e diritto vivente: il ‘sentiero interrotto’ della tipicità del fatto, in Dir. pen. proc., 2014, fasc. 9, 1036 ss.
17 Per una recente e documentata disamina, con ampia bibliografia, v. Donini,M., Il principio di offensività, cit., 4 ss.
18 Donini, M., op. loc. ultt. citt.
19 Sui pericoli e sulle insufficienze di un approccio monistico ai principi che ne individui uno solo come egemone v., in rapporto ai principi di proporzione e colpevolezza, Frisch, W., Principio di colpevolezza e principio di proporzionalità, in www.penalecontemporaneo.it, 18.7.2014. Per una esemplare applicazione e argomentazione sulla necessario considerazione sistemica dei principi e dei diritti quando si operi mediante “bilanciamenti” v. C. cost., 9.4.2013, n.85.
20 Donini, M., Il principio di offensività, cit., 4 ss.
21 Zirulia, S., La Cassazione sui tumulti di piazza e responsabilità penale, in www.penalecontemporaneo.it, 18.9.2014.
22 Rischio tutt’altro che remoto, visto il continuo condizionamento (se non sudditanza) della cultura giuridica italiana verso certa cultura di common law, incline a privilegiare considerazioni attinenti lo stile di vita criminale del reo, che potrebbe ottenere accresciuta importanza dalla correlativa attenzione del diritto verso le neuroscienze e, quindi verso il dato biologico-neurale della deliberazione criminale.
23 Più diffuso è il test tripartito (idoneità, necessità, proporzionalità in senso stretto) su cui v. Pino,G., Diritti e interpretazione, cit., 205 ss.;Manes, V., Scelte sanzionatorie e sindacato di legittimità, in Libro dell’anno del Diritto, 2013. Cfr. anche Cohn, M., Three Aspect of Proportionality, in Atti dell’VIII Congresso mondiale dell’ “International Association of Constitutional Law”, Mexico City, 2010.
24 Per un ampio panorama del dibattito internazionale sul punto in filosofia v. Cantù, P.-Testa, I., Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo,Milano, 2006.
25 Considerata la complessità del tema evocato dalla predetta distinzione e la sua ampiezza, tale da meritare un’autonoma trattazione, sia consentito rinviare a Epidendio, T., Riflessioni teorico-pratiche sull’interpretazione conforme, in Dir. pen. cont., 2012, fasc. 4, 26 ss.