Oggetto dell'appello ed evoluzione giurisprudenziale
Viene analizzata la più recente evoluzione giurisprudenziale sulla determinazione dell’oggetto del giudizio d’appello, alla luce delle riforme che sono intervenute nel 2012 (con il d.l. n. 83/2012, convertito dalla l. n. 134/2012) e che hanno ulteriormente accentuato la connotazione dell’appello civile nel nostro sistema processuale come revisio prioris instantiae, già affermata con le precedenti riforme del 1990.
Nel nostro sistema processuale l’appello è il primo e il più ampio mezzo ordinario di impugnazione ed è l’unico mezzo di gravame in senso stretto, diretto ad introdurre il giudizio di secondo grado a cognizione piena sul merito della causa (sia in fatto che in diritto)1. Si tratta di un mezzo di gravame improntato al principio devolutivo non automatico, ma limitato, nel quale, cioè, il giudizio sul rapporto sostanziale oggetto del primo grado può essere rinnovato nei limiti delle specifiche censure (su possibili errores in iudicando o in procedendo) contenute nella domanda d’appello o meglio nei limiti dei «motivi» che in essa sono esplicitati. Il giudice del gravame, infatti, non è chiamato a rescindere la sentenza impugnata attraverso la valutazione dei vizi in essa esistenti e denunciati dall’impugnante, bensì a giudicare ex novo – con pronuncia che si sostituisca a quella impugnata (salvi i casi eccezionali dell’appello con rinvio al giudice di primo grado, di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c.) – sul merito della controversia sulla quale essa si è pronunciata2. Per questa ragione esso è tradizionalmente qualificato come impugnazione a critica libera, nel senso che consente alla parte di muovere liberamente le sue critiche alla sentenza di primo grado3. Con l’appello, dunque, la causa passa alla piena cognizione del giudice superiore, ancorché nei limiti dei “motivi specifici” di appello; ed è in questo senso che si può ancora parlare di effetto devolutivo dell’appello. Queste caratteristiche, che oggi ritroviamo nella disciplina dell’appello, sono il frutto di successivi interventi del legislatore che si sono succeduti nel corso del tempo e che hanno via via rimodellato l’originaria struttura del giudizio di appello, pur mantenendone inalterata la natura propria di mezzo di gravame a critica libera. Ora, premesso che non esiste un modello «ideale» di appello, nel significato weberiano del termine4, diciamo che, dal punto di vista dell’analisi storica e comparata5, due sono i modelli dell’appello che, a grandi linee, possono configurarsi: quello dell’appello come novum iudicium e quello dell’appello come revisio prioris instantiae. Il primo modello si incentra sulla possibilità che l’oggetto della controversia venga sottoposto alla valutazione di un giudice diverso dal giudice di primo grado, con effetto devolutivo automatico e con possibilità anche di allargamento del thema decidendum di primo grado attraverso nuove allegazioni, nuove domande ed eccezioni e nuove prove, costituende o documentali. Il secondo modello, invece, si ispira all’appello come revisio prioris instantiae, e dunque come controllo del giudizio compiuto dal giudice di primo grado sulla base di motivi (in jure e in facto) specificamente indicati dall’appellante, senza alcuna automaticità dell’effetto devolutivo.
È opinione diffusa che, con la riforma introdotta con la l. 26.11.1990, n. 353, nel nostro sistema processuale l’appello – pur continuando a costituire un mezzo di gravame a critica libera e ad efficacia sostitutiva della sentenza di primo grado – si sia trasformato da novum judicium, secondo l’impostazione che ad esso dava il codice del 1940, in una revisio prioris instantiae6. Di conseguenza, sebbene la proposizione dell’appello anche dopo la riforma del 1990 non fosse vincolata all’indicazione di motivi limitati, tassativamente indicati dal legislatore sul modello del ricorso per cassazione, essa era comunque subordinata alla prospettazione di «motivi specifici» di appello, la cui assenza nell’atto di appello (principale o incidentale) avrebbe determinato la declaratoria di inammissibilità dell’appello proposto7. Si è accentuato, perciò, il superamento – già avvenuto con il codice del 1942 – dell’effetto devolutivo pieno e automatico dell’oggetto del giudizio di primo grado al giudice di appello e l’affermazione della regola del tantum devolutum, quantum appellatum. Intendendo per appellatum non solo ciò che della sentenza di primo grado viene fatto oggetto di appello principale o incidentale, ma anche ciò che viene semplicemente «riproposto» ai sensi dell’art. 346 c.p.c. Le riforme che hanno nuovamente interessato l’appello nel 2012 (con il d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito dalla l. 7.8.2012, n. 134) non hanno “alterato”, nella struttura e nella funzione, questo modello di appello, che era il risultato della riforma del 1990. Come dimostra, del resto, l’evoluzione giurisprudenziale che si è avuta a seguito di queste riforme con specifico riferimento alla determinazione dell’oggetto del giudizio di appello.
Dopo i più recenti interventi normativi che hanno riguardato l’appello, vi è stato chi ha sostenuto che, sebbene l’appello continui a connotarsi come revisio prioris instantiae, ad efficacia devolutiva del giudizio di primo grado e sostitutiva della sentenza impugnata, di fatto avrebbe subito una profonda metamorfosi8. Esso, cioè, si sarebbe trasformato da mezzo di gravame, attraverso il quale viene sottoposto ad un altro giudice la revisione del giudizio compiuto in primo grado (nei limiti dei «motivi» d’appello) in mezzo di impugnazione sui vizi della sentenza di primo grado. Ebbene, che a seguito delle più recenti modifiche legislative il nostro giudizio di appello abbia visto accentuata la sua connotazione di revisio prioris instantiae, seguendo in questo il modello tedesco dell’appello più che quello francese, crediamo sia difficile da negare. Non è un caso, infatti, che il legislatore del 2012 si sia ispirato proprio alla Z.P.O. tedesca per orientare i suoi interventi sia nella riformulazione dell’art. 342, sia nell’ideazione del filtro di inammissibilità di cui agli artt. 348 bis e ter. E tuttavia, non convince l’idea che queste modifiche abbiano anche determinato un mutamento del modello, facendo diventare il nostro giudizio di appello un vero e proprio rimedio di tipo impugnatorio e facendogli perdere la tradizionale connotazione di mezzo di gravame. Questo per la semplice ragione che l’appello nel nostro sistema continua ad essere improntato all’effetto devolutivo, sia pure “filtrato” – nel pieno rispetto del principio della domanda – attraverso la formalizzazione dei motivi di gravame. Piuttosto, ci pare che con le più recenti innovazioni legislative il legislatore abbia inteso – più che mutare il modello dell’appello del nostro sistema processuale, che continua a presentare le caratteristiche proprie della revisio prioris instantiae – migliorarne il funzionamento pratico, con l’obiettivo, da un lato, di ridurre il carico di lavoro dei giudici d’appello, soprattutto con riferimento agli appelli proposti con finalità meramente dilatorie, e, dall’altro, di individuare percorsi decisori più veloci e semplificati rispetto a quelli ordinari, soprattutto con riferimento agli appelli manifestamente fondati o infondati o inammissibili/improcedibili. Ciò è avvenuto mediante il ricorso da parte del legislatore a strategie diverse. Da questo punto di vista, tre sono le novità che meritano particolare attenzione:
• l’introduzione di un vero e proprio filtro di inammissibilità dell’appello negli artt. 348 bis e ter, fondato su una valutazione prima facie della probabile fondatezza/infondatezza dell’impugnazione proposta e diretto a chiudere il giudizio d’appello con ordinanza;
• l’accentuazione, nella riformulazione dell’art. 342, dei requisiti di forma-contenuto per l’atto di proposizione dell’appello, rendendo più gravosa l’attività delle parti di introduzione dell’atto di appello, insieme al restringimento ulteriore – rispetto a quanto era già accaduto con la riforma del 1990 – dei nova in appello, con l’esclusione, almeno come regola generale, anche di nuovi mezzi istruttori dal giudizio di appello (accanto alla già prevista esclusione delle nuove domande e delle nuove eccezioni rilevabili solo ad istanza di parte);
• l’ammissione, anche in appello, dell’utilizzazione generalizzata del modello decisorio di cui all’art. 281 sexies, anche immediatamente in sede di udienza per decidere sull’istanza di inibitoria, ove la causa sia già matura per la decisione (art. 351, ult. co.).
Di queste novità, quella che assume maggiore rilevanza ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio d’appello è senza dubbio la seconda, ovvero l’accentuazione dell’onere di formalizzazione dei motivi di appello e la riduzione dell’ambito dei nova di natura probatoria.
Come già detto, anche dopo la modifica dell’art. 342 (e, per il rito del lavoro, dell’art. 434) avvenuta nel 2012 l’appello continua a configurarsi nel nostro sistema processuale come mezzo di gravame a critica libera (sia pure “vincolata” dal punto di vista formale), ma a cognizione del giudice del gravame “limitata” al quantum devolutum. Proprio perché l’appello introduce un riesame non della sentenza di primo grado, ma (nei limiti della domanda di appello) della stessa controversia che fu esaminata in primo grado, si può dire che anche con riferimento all’evoluzione che esso ha subito nel nostro sistema da novum iudicium a revisio prioris instantiae l’oggetto del giudizio di appello non è mutato e continua ad essere quello stesso della causa già decisa in primo grado. Quel che è mutato è l’operare dell’effetto devolutivo dell’appello: da automatico, qual era quando l’appello assumeva le caratteristiche del novum iudicium, è divenuto “limitato” e “selettivo”. Con rilevanti conseguenze su alcuni importanti profili, alcuni dei quali ben messi a fuoco dall’evoluzione giurisprudenziale in argomento degli ultimi anni.
Funzionale all’applicazione del principio della domanda anche nel secondo grado di giudizio è, anzitutto, la «motivazione dell’appello» ora imposta all’appellante dagli artt. 342 e 434 c.p.c.9 Al pari del giudice di primo grado che deve decidere su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa e non può pronunciarsi d’ufficio sulle eccezioni che siano rilevabili solo ad istanza di parte, anche il giudice d’appello – nell’appello ad effetto devolutivo limitato, come il nostro – deve decidere sull’appello principale e su quello incidentale nei limiti dei motivi di appello proposti e non può sollevare d’ufficio eccezioni rilevabili solo ad istanza di parte o sulle quali si sia formato il giudicato parziale o interno10. Ciò comporta conseguenze ben precise proprio sul piano della determinazione dell’oggetto del giudizio d’appello, sia con riferimento all’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice, sia in relazione al potere di riproposizione delle domande ed eccezioni non accolte che l’art. 346 riconosce in capo alle parti, sia, infine, per quel che riguarda gli elementi nuovi – sul piano allegativo e probatorio – che le parti possono introdurre per la prima volta in appello, ai sensi dell’art. 345.
In altri termini, l’oggetto del giudizio d’appello è il risultato della combinazione di tre diversi fenomeni processuali: dell’effetto devolutivo “limitato” proprio del nostro appello; del giudicato parziale o interno che si determina nel passaggio dal primo al secondo grado di giudizio; della possibilità di introdurre elementi nuovi che non hanno costituito oggetto del giudizio di primo grado. I primi due fenomeni ci indicano cosa dell’oggetto di primo grado passa alla valutazione del giudice d’appello e determinano concretamente i limiti dell’effetto devolutivo dell’appello; il terzo, cosa pur non essendo stato oggetto di valutazione del giudice di prime cure può comunque essere ancora sottoposto alla valutazione del giudice dell’impugnazione e determina l’ampiezza della cognizione del giudice d’appello anche oltre i limiti dell’effetto devolutivo.
Ma procediamo con ordine.
Quanto al necessario coordinamento dei poteri ufficiosi del giudice d’appello con la salvaguardia del principio della domanda, anzitutto si deve escludere che, nell’ambito dell’appello ad effetto devolutivo “limitato”, come il nostro, il giudice di secondo grado possa riesaminare d’ufficio questioni esaminate nel corso del giudizio di primo grado o che riguardano “porzioni” della decisione di primo grado non investite dalla domanda di appello. Se così non fosse, infatti, non potrebbe prodursi né il giudicato parziale sulle parti di sentenza del giudice di primo grado non interessate dalla domanda di appello, né il giudicato interno sulle questioni decise dal giudice di primo grado e anch’esse non interessate dalla domanda d’appello. Su questo limite all’esercizio dei poteri ufficiosi del giudice, tuttavia, occorre intendersi. Anzitutto, tale limite all’esercizio del rilievo ufficioso riguarda solo quelle questioni che abbiano formato oggetto di decisione del giudice di primo grado e non siano state fatte oggetto né di appello principale, né di appello incidentale. Si pensi, ad es., ad un’eccezione di merito proposta dalla parte ma rilevabile anche d’ufficio e che sia stata respinta in primo grado in modo espresso ed inequivoco. Perché tale eccezione sia devoluta al giudice d’appello deve essere fatta oggetto della domanda di appello (principale o incidentale), perché altrimenti su di essa si forma il giudicato parziale, ai sensi dell’art. 329, co. 2, e dunque il giudice d’appello non potrà in tal caso esercitare il potere di rilievo ufficioso della stessa eccezione, che, pure, in via astratta avrebbe11. In secondo luogo, il limite in questione non riguarda (non può riguardare) le questioni poste nel corso del giudizio di primo grado da una delle parti e dal giudice non esaminate perché assorbite. In tal caso, infatti, la previsione dell’art. 346, secondo cui le domande e le eccezioni non esaminate dal giudice di primo grado e non riproposte dalle parti si intendono rinunciate, non riguarda il potere di rilievo ufficioso del giudice con riferimento, evidentemente, alle questioni che possano formare oggetto di eccezione rilevabile d’ufficio12. Ne deriva che, mentre la mancata riproposizione ad opera delle parti incide anche sull’effetto devolutivo dell’appello con riferimento alle domande e alle eccezioni in senso stretto (essendoci per esse un potere esclusivo delle parti di riproposizione ai fini del prodursi della devoluzione in appello), ciò non vale per le eccezioni in senso lato, rispetto alle quali la preclusione della devoluzione richiede che entrambi i soggetti titolari del potere di rilevazione (parte e giudice) vi rinuncino. In effetti, a tale conclusione sono pervenute le stesse Sezioni Unite, sia quando – come vedremo nel prossimo § – sono state chiamate a delimitare l’ambito applicativo dell’art. 346 rispetto all’appello incidentale (sent. n. 11799/2017), sia, in precedenza, nel 2014, quando hanno affrontato il tema della rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto13. In entrambi i casi, le Sezioni Unite hanno riconosciuto che le questioni rilevabili d’ufficio possano essere rilevate dal giudice d’appello anche laddove, pur non esaminate dal giudice di primo grado, non siano state riproposte dalle parti. In terzo luogo, va sottolineato che comunque il limite in oggetto non riguarda le questioni (in iure o in facto) già sollevate nel corso del giudizio di primo grado o rilevabili d’ufficio dallo stesso giudice d’appello che costituiscano antecedente logico o che siano implicitamente connesse alla “porzione” di sentenza e di rapporto sostanziale controverso devoluta al giudice d’appello, sempre che i fatti sui quali si fondino tali questioni siano stati allegati. E dunque, tali questioni possono essere rilevate d’ufficio dal giudice d’appello anche se non sono state fatte oggetto esplicitamente di un motivo di appello, in quanto con riferimento a queste non opera il giudicato parziale o quello interno. Come ha chiarito anche la Corte della legittimità, infatti, l’esame del giudice d’appello, pur limitato alle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati e, come tali, compresi nel thema decidendum del giudizio14. E dunque, pur all’interno di un modello di appello come quello attualmente vigente nel nostro sistema processuale, improntato al principio del tantum devolutum, quantum appellatum, non si può escludere comunque la possibilità che il giudice d’appello fondi la propria decisione su questioni di questa natura. In questo caso, in effetti, non si fa altro che estendere anche al giudice d’appello quanto pacificamente si ammette per il giudice di primo grado quando gli si riconosce la possibilità, senza violare l’art. 112 c.p.c., di estendere il suo dovere decisorio anche alle cd. domande implicite15.
Quanto, invece, all’onere di riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c., esso riguarda le domande e le eccezioni, già proposte in primo grado e non accolte o anche solo non esaminate perché assorbite. Con la conseguenza che, ove così non fosse, esse si intendono rinunciate dalla parte che le aveva proposte in primo grado. Ora, in proposito, come noto, si è discusso a lungo per stabilire quando sia necessario proporre appello incidentale e quando, invece, sia sufficiente riproporre al giudice d’appello le domande e le eccezioni già proposte al giudice di primo grado e assorbite. Sulla questione, tuttavia, sono intervenute di recente le Sezioni Unite enunciando il principio di diritto secondo cui, qualora il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda principale e non abbia deciso sulla domanda di chiamata in garanzia, ove l’attore appelli la decisione di rigetto della domanda principale, non è necessaria anche la proposizione da parte dell’appellato di un appello incidentale, essendo sufficiente la mera riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c.16. La medesima questione, peraltro, è stata nuovamente rimessa alle Sezioni Unite con riferimento all’ipotesi in cui si abbia a che fare con un’eccezione della parte (nel caso di specie, l’eccezione di prescrizione) espressamente rigettata, sebbene la stessa parte sia risultata per il resto totalmente vittoriosa17. Anche in questo caso, infatti, è stato chiesto alle Sezioni Unite di sciogliere il dubbio sulla necessità della parte, laddove voglia una nuova disamina da parte del giudice d’appello sulla medesima eccezione, di proporre appello incidentale o se possa semplicemente riproporla ai sensi dell’art. 346. E le Sezioni Unite, con la sent. 12.5.2017, n. 11799, hanno chiarito, pronunciandosi ai sensi dell’art. 363, co. 3, c.p.c., che, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, co. 2, c.p.c. Né è sufficiente in tal caso la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, soltanto ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure.
Alla luce delle due pronunce delle Sezioni Unite del 2016 e del 2017, dunque, in sede di appello occorre distinguere fra appello vero e proprio (principale o incidentale), che deve riguardare, secondo le indicazioni del novellato art. 342, una o più parti della sentenza, e la mera riproposizione, di cui all’art. 346. In termini generali, si avrà il primo tutte le volte che il giudice di primo grado abbia: a) pronunciato esplicitamente su una questione (intesa come «punto, eccezione, domanda») da cui sia dipesa la decisione; b) pronunciato implicitamente sempre su una questione desumibile dalla decisione esplicita di altra questione; c) omesso di pronunciarsi su una questione che abbia costituito oggetto di domanda o di eccezione (ma, in questo caso, con le puntualizzazioni che vedremo essere poste dalle stesse Sezioni Unite per le eccezioni)18. Si avrà, invece, la riproposizione contemplata dall’art. 346, quando la questione (intesa sempre come «punto, eccezione, domanda») non abbia costituito oggetto della decisione (né esplicitamente, né implicitamente), né doveva costituire oggetto della decisione (configurandosi, altrimenti, l’omissione di decisione e salvo quanto si dirà a proposito delle eccezioni), perché si tratta di questione assorbita. Da queste chiare conclusioni alle quali sono pervenute le Sezioni Unite, mi pare si debbano trarre alcune conseguenze proprio con riferimento alla possibilità che domande ed eccezioni avanzate in primo grado e non accolte entrino nell’oggetto del giudizio di appello. Partiamo dalle domande. Stando alle conclusioni delle Sezioni Unite sarebbero da sottoporre ad appello incidentale le domande (esplicitamente o implicitamente) rigettate ed alla riproposizione quelle assorbite dalla decisione del giudice di prime cure. Ebbene, è facile rilevare che, mentre questa distinzione è agevole quando le molteplici domande proposte in primo grado siano fra loro in cumulo oggettivo, più difficile è laddove esse siano state avanzate in cumulo alternativo o in forma graduata. Infatti, nel caso di domande cumulate in via alternativa o in forma graduata, l’accoglimento di una di esse non sempre implica il rigetto dell’altra. È chiaro che, se così dovesse essere, pare obbligata la strada dell’appello incidentale ad opera dell’attore vittorioso in primo grado. E parimenti obbligata la strada dell’appello incidentale appare anche quando si sia in presenza di omessa pronuncia sulla domanda alternativa o graduata. Ma, laddove la domanda alternativa o graduata risulti semplicemente assorbita dalla decisione di primo grado, non avrebbe alcun senso imporre l’appello incidentale e molto più convincente appare la soluzione della riproposizione ex art. 346. Ed in effetti è questa la soluzione alla quale approdano le stesse Sezioni Unite nella pronuncia del 2016 (n. 7700), dove la questione era proprio la necessità di superare il contrasto giurisprudenziale sul rimedio (appello incidentale o riproposizione) esperibile ove la domanda di garanzia, avanzata nel corso del giudizio di primo grado, non sia stata esaminata perché è stata rigettata la domanda principale. Anche in questo caso le Sezioni Unite hanno optato per la riproposizione in considerazione del fatto che la domanda di garanzia è rimasta non esaminata e dunque va considerata assorbita dall’esito della decisione di primo grado. A conclusioni non dissimili sono giunte le Sezioni Unite a proposito di domande proposte in primo grado alternativamente nei confronti di due convenuti, con l’accoglimento nei confronti dell’uno e il rigetto nei confronti dell’altro. Anche in questo caso, infatti, il problema della reazione rispetto alla domanda non accolta è stato risolto dalle Sezioni Unite19 nel senso del semplice onere di riproposizione della domanda, così mediando tra le contrapposte tesi dell’automatica estensione anche all’altro convenuto dell’appello proposto avverso la domanda accolta e la tesi (sostenuta dalla prevalente dottrina)20 dell’onere di appello incidentale. Di conseguenza, in tal caso, l’appello nei confronti di una soltanto delle due domande è da intendersi, ai sensi dell’art. 346 c.p.c., come non riproposizione dell’altra domanda avanzata in via alternativa21. Se, poi, ci spostiamo sul versante delle eccezioni, alle conclusioni che sopra ho richiamato le stesse Sezioni Unite aggiungono alcune importanti puntualizzazioni. Anzitutto, esse puntualizzano molto opportunamente – e del resto l’avevano già fatto nel 2014 – che, quando la questione assorbita sia costituita da un’eccezione (di rito o di merito) in senso lato, non potendo operare nei suoi confronti il meccanismo dell’acquiescenza parziale di cui all’art. 329, co. 2, c.p.c., in quanto essa non ha costituito una parte della decisione, essa continuerà ad essere rilevabile d’ufficio dal giudice d’appello, ai sensi dell’art. 345, co. 2, indipendentemente dall’iniziativa del convenuto nel giudizio di primo grado. In secondo luogo, aggiungono che, laddove sia stata avanzata in primo grado un’eccezione di merito dal convenuto, il cui mancato accoglimento non sia dipeso da un suo rigetto espresso o implicito ricavabile dalla motivazione della sentenza di primo grado, essa va soltanto riproposta a norma dell’art. 346 per poter formare oggetto del giudizio d’appello. E questo – osservano i giudici delle Sezioni Unite – a prescindere dal fatto che il mancato esame dell’eccezione di merito sia dipeso dall’assorbimento della stessa eccezione o da omessa pronuncia. La presenza dell’art. 346, infatti, indurrebbe a ritenere che la riproposizione dell’eccezione debba essere utilizzata anche quando il suo non accoglimento sia dipeso non dall’assorbimento, ma dall’omessa pronuncia. Conclusione, questa, che, però, non mi pare pienamente coerente con l’affermazione generale secondo la quale la riproposizione debba essere utilizzata solo laddove la domanda o l’eccezione legittimamente non sia stata esaminata dal giudice, in quanto assorbita dalla decisione. In terzo luogo, poi, prendono in considerazione l’ipotesi in cui le eccezioni di merito siano state proposte dal convenuto in forma graduata, manifestando espressamente un ordine di preferenza per il loro esame. Ebbene, ove la parte abbia utilizzato tale potere di graduazione, che – secondo le Sezioni Unite – non sembra essere vietato dall’ordinamento, visto che l’art. 276 pone un ordine di trattazione solo fra questioni pregiudiziali di rito e di merito, ma non stabilisce un ordine all’interno dell’esame del merito, e il giudice abbia accolto l’eccezione subordinata senza esaminare quella principale, si determinerebbe una violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato. Violazione che per essere fatta valere in appello – e sempre che la parte che l’ha formulata in primo grado intenda farla entrare nell’oggetto del giudizio d’appello – necessariamente richiede l’appello incidentale. E ciò ancora una volta a conferma del fatto che la riproposizione va limitata alle sole ipotesi di legittima omessa trattazione della domanda o dell’eccezione.
Infine, le Sezioni Unite, nella pronuncia del 2017, si soffermano in modo approfondito anche sul destino delle eccezioni di rito avanzate dal convenuto in primo grado a seguito di rigetto nel merito della domanda. Ed è su questo profilo che si registra, mi pare, la novità più rilevante sempre ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio di appello. Ebbene, secondo la pronuncia delle Sezioni Unite, laddove le eccezioni sollevate dal convenuto in primo grado siano eccezioni di rito e la decisione del primo giudice sia stata di rigetto della domanda nel merito, quelle eccezioni, a prescindere dal vizio che abbiano sollevato, sono da ritenere sempre implicitamente rigettate. E questo significa, di conseguenza, che: a) esse, per poter entrare nell’oggetto del giudizio d’appello, richiedono di essere appellate in via principale o incidentale e non possono essere, invece, solo riproposte; b) ove non fatte oggetto di appello principale o incidentale, quelle eccezioni di rito non sono neanche rilevabili d’ufficio dal giudice d’appello, operando nei loro confronti il giudicato parziale o interno. In questo caso, semmai, si tratta di comprendere quale debba essere il motivo d’appello.
Ed infatti – rilevano ancora i giudici delle Sezioni Unite –, mentre laddove le eccezioni di rito proposte dal convenuto siano state disattese espressamente o indirettamente dal giudice di primo grado, la parte soccombente (teorica) su esse, ma vittoriosa (pratica) sulla lite, deve proporre appello incidentale e con questo avanzare la medesima eccezione di rito, che sarà esaminata dal giudice d’appello solo ove dovesse ritenere di accogliere l’appello principale proposto dalla controparte, diverso è, invece, il motivo d’appello proponibile quando il giudice di primo grado, nel pronunciare nel merito il rigetto della domanda, abbia omesso di decidere sull’eccezione di rito proposta dal convenuto. In questo caso, poiché l’eccezione di rito doveva essere esaminata prima del merito (per l’ordine delle questioni: art. 276 c.p.c.), il silenzio del giudice ha comportato un error in procedendo, ma non di omessa pronuncia, bensì di inosservanza della regola processuale per cui il merito si sarebbe potuto esaminare solo in caso di infondatezza dell’eccezione di rito22. Peraltro, proprio in relazione a quest’ultima conclusione, occorre anche tener presente quello che le stesse Sezioni Unite hanno affermato nel 2008 (con la famosa sent. n. 24483) in relazione all’art. 37 e alla questione di giurisdizione, e cioè che essa, sia stata o no oggetto di un’eccezione di parte, è da ritenere implicitamente rigettata dalla decisione di merito del giudice di primo grado. E dunque, per poter essere riesaminata dal giudice d’appello presuppone che sia stata fatta oggetto di appello (principale o incidentale). Senonché, la conclusione assunta dalle Sezioni Unite nel 2017 e secondo cui le eccezioni di rito (tutte) sono da ritenere implicitamente respinte (e quindi devono essere oggetto di appello principale o incidentale per poter essere valutate dal giudice di seconde cure) sembrerebbe mal conciliarsi23 con l’altra, emersa nella giurisprudenza della stessa Suprema Corte, secondo la quale – a parte la questione di giurisdizione, che, come abbiamo visto, è da ritenere sempre e comunque implicitamente rigettata ove vi sia stata decisione nel merito da parte del giudice di primo grado – le altre questioni processuali cd. fondanti (capacità di agire, legittimazione ad agire, litisconsorzio, giudicato, ecc.) «non si possono considerare implicitamente risolte, ma sono soggette alla verifica dei giudici delle impugnazioni, perché servono a salvaguardare l’ordinamento dal disvalore ‘di sistema’ costituito dall’emissione di sentenze inutiliter datae»24. In realtà, la conclusione delle Sezioni Unite del 2017, per cui le eccezioni di rito sollevate dal convenuto in primo grado sono da considerare implicitamente rigettate dalla decisione di merito del giudice di prime cure, dovrebbe essere limitata alla sola ipotesi in cui l’eccezione di rito sia stata effettivamente sollevata dal convenuto, mentre l’altra conclusione poc’anzi richiamata esclude che questo implicito rigetto si possa avere (come per la giurisdizione) anche quando la questione di rito non sia stata affatto sollevata dal convenuto. In quest’ultimo caso, non essendo prospettabile la formazione del giudicato interno sulla questione, né trattandosi di questione riproponibile ai sensi dell’art. 346 in quanto non era stata affatto proposta, dovremmo ritenere che si tratti comunque di eccezione proponibile per la prima volta in appello o rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 345, co. 2, salvo che non attenga a vizio che si sia sanato nel corso del giudizio di primo grado.
La soluzione così prospettata dalle Sezioni Unite con riferimento alla distinzione dell’appello (principale o incidentale) dalla mera riproposizione ci pare si ponga perfettamente in linea con l’evoluzione che a partire dalla riforma del 1990 e poi con ulteriore sviluppo nel corso degli ultimi anni ha subito il nostro appello ed in particolare con la scelta del legislatore del 2012 di prevedere che l’appello (principale o incidentale) deve essere motivato e che i motivi devono essere orientati ad una parte della sentenza impugnata. È evidente che se, a pena di inammissibilità, questo deve essere il contenuto dell’atto di appello, la mera riproposizione, che non ha a che fare immediatamente con la decisione del giudice di prime cure, ma che serve solo a consentire di allargare la cognizione del giudice d’appello anche alle questioni assorbite dalla decisione del giudice di primo grado, ove dovesse ritenere di accogliere l’appello (principale o incidentale) proposto, non si concreta in altro che nella riproposizione delle medesime questioni negli stessi termini nei quali esse sono state avanzate in primo grado. In ogni caso la riproposizione deve essere esplicita e specifica nel senso che non basta il richiamo alle conclusioni rassegnate in primo grado25, mentre non richiede la reiterazione delle istanze istruttorie pertinenti alla domanda o eccezione riproposta, ritualmente proposte in primo grado, le quali devono intendersi implicitamente riproposte con la riproposizione della domanda o dell’eccezione alle quali si riferivano in primo grado. La reiterazione delle istanze istruttorie, invece, viene imposta dalla giurisprudenza – ma con discutibile disparità di trattamento fra le parti – all’appellato vittorioso in primo grado26. L’onere di riproposizione, d’altro canto, vale anche nei confronti dell’appellato che sia rimasto contumace, come ha da tempo riconosciuto la stessa Suprema Corte27. E si tratta di conclusione assolutamente condivisibile proprio alla luce del mutato quadro legislativo che ha portato al superamento dell’effetto devolutivo automatico e generalizzato dell’appello.
La distinzione fra appello vero e proprio e riproposizione, dunque, non rileva solo ai fini della determinazione dell’ambito dell’effetto devolutivo, ma anche per delimitare l’ambito applicativo dell’accresciuto onere formale introdotto nel 2012 con la riformulazione dell’art. 342. Strettamente legata alla riproposizione ex art. 346, poi, è la questione rimessa alle Sezioni Unite dall’ord. interlocutoria della Sezione III, la n. 29499/201728, del termine ultimo entro il quale tale potere di riproposizione va esercitato dalla parte. E cioè se alla riproposizione delle domande ed eccezioni siano applicabili – come pare preferibile29 – oppure no le preclusioni stabilite per il giudizio di primo grado dall’art. 167 c.p.c. Con la conseguenza che, se le Sezioni Unite riterranno applicabile l’art. 167, le domande e le eccezioni rilevabili solo ad istanza di parte andranno riproposte con la comparsa di risposta (e dunque, negli stessi termini dell’appello incidentale, venti giorni prima dell’udienza); in caso contrario potranno essere riproposte anche successivamente, fino al momento della precisazione delle conclusioni.
Sempre dando rilevanza all’applicazione del principio della domanda nel giudizio d’appello si può affrontare anche il problema di quale debba essere – per ripetere una formula giurisprudenziale – la «minima unità» costituente «parte» della sentenza in sede di appello e dunque suscettibile di acquisire il giudicato parziale di cui all’art. 329, co. 2. Si è sostenuto che proprio alla luce della riformulazione dell’art. 342 e della sua scansione in due distinti numeretti delle statuizioni in fatto e in diritto aggredibili con l’atto d’appello si potrebbe ritenere che oggi «parte» della sentenza di primo grado sia ogni singolo elemento (in fatto e in diritto) della fattispecie costitutiva oggetto della decisione impugnata30. Ora, non ci pare che a tal fine possa riconoscersi particolare rilevanza alla riformulazione dell’art. 342, in quanto questa riformulazione prescinde dalla configurazione della «parte» di sentenza alla quale fa riferimento l’art. 329, co. 2. Ed in effetti, anche di recente la Suprema Corte ha riconosciuto che, ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non impugnate, la locuzione giurisprudenziale «minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno» individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. E dunque, che, sebbene ciascun elemento di tale sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, tuttavia l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi della suddetta statuizione minima determina il riesame sull’intera questione che essa identifica ed espande il potere del giudice di riconoscerla e riqualificarla anche agli aspetti non oggetto di motivo di appello31. Conclusione, questa, che mi pare essere pienamente in linea con la conclusione – pure emersa dalla giurisprudenza della Suprema Corte – secondo la quale per «parte di sentenza», ai sensi dell’art. 329, co. 2, deve intendersi una questione controversa fra le parti «caratterizzata da una propria individualità e una propria autonomia, sì da integrare, in astratto, gli estremi di un decisum affatto indipendente»32, ma non anche quello relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata33.
Peraltro, sempre nell’ottica di semplificare la decisione dell’appello e di rendere più stringente l’effetto devolutivo va letta anche l’ulteriore attenuazione nell’art. 345 c.p.c. della possibilità di introdurre elementi nuovi rispetto al giudizio di primo grado, con l’eliminazione della possibilità per le parti di introdurre nuovi mezzi di prova ritenuti «indispensabili» dal giudice d’appello. Con la conseguenza che le uniche attività istruttorie nuove ammesse in appello sono – oltre al giuramento decisorio – soltanto quelle che la parte aveva chiesto in primo grado, ma si era vista respingere, e quelle in relazione alle quali la parte «dimostri di non aver potuto proporre o produrre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile». Ciò che, di fatto, comporta una limitazione delle possibilità di contestazione dell’ingiustizia della sentenza di primo grado e vincola l’appellante a fondare e provare le sue contestazioni e i suoi motivi di appello solo attraverso il materiale probatorio acquisito nel corso del giudizio di prime cure (salve sempre le eccezioni sopra richiamate). Infatti, letta in combinato disposto con l’art. 342 e con l’accrescimento dei requisiti di forma-contenuto dell’atto di appello, l’esclusione (tendenzialmente generalizzata) di introdurre nuovi mezzi istruttori in appello significa imporre all’appellante di supportare le modifiche alla ricostruzione in facto compiuta dal giudice di primo grado sugli stessi risultati probatori già sottoposti all’esame del giudice di prime cure34. E non v’è dubbio che questa restrizione, se rende più stringente l’effetto devolutivo dell’appello, finisce ancora una volta per risolversi in un’ulteriore “sbarramento” alle possibilità di accesso della parte alla revisio prioris instantiae da parte del giudice d’appello. Sempre nell’ottica di rendere più stringente l’effetto devolutivo e rafforzare la natura revisoria dell’appello mi pare si possano leggere anche gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sulla questione delle eccezioni proponibili per la prima volta in appello. In tal caso, infatti, l’orientamento prevalente della giurisprudenza è nel senso che il rilievo della nuova eccezione sia possibile purché i fatti sui quali essa si fonda già risultino dagli atti di causa35. Conclusione, questa, che è in linea sia con il fatto che l’art. 345 parla esattamente di «proposizione» di nuove eccezioni e non anche di allegazione di nuovi fatti, sia con l’impostazione complessiva del sistema che fa maturare all’esito della fase introduttiva del giudizio di primo grado (ed esattamente con la chiusura della prima udienza o dell’eventuale appendice scritta di cui al co. 6, dell’art. 183) la preclusione per l’allegazione dei fatti principali rilevanti per la decisione. Per la medesima ragione non mi pare che possa ripercuotersi sulla configurazione dell’appello come revisio il recente intervento delle Sezioni Unite sul concetto di emendatio della domanda. In tale occasione, infatti, le Sezioni Unite hanno rilevato che la modificazione della domanda (e dunque, l’emendatio) può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della stessa domanda sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che, però, la domanda così modificata risulti strettamente connessa alla vicenda sostanziale oggetto del giudizio (come, ad es., l’iniziale domanda di esecuzione dell’obbligo di concludere un contratto definitivo, ex art. 2932 c.c., in domanda di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo)36. Ebbene, siccome una tale modificazione presuppone l’allegazione di nuovi fatti principali, la sua applicazione in appello dovrebbe essere impedita proprio dall’ormai maturata preclusione per le parti del potere di allegazione dei fatti di causa. Invece, in sostanziale controtendenza rispetto all’obiettivo di rafforzare la natura revisoria dell’appello sembrano essere i più recenti approdi delle Sezioni Unite sull’interpretazione da dare alla natura «indispensabile» per la decisione che deve assumere la prova nuova, nei limitati casi in cui si continua ad ammetterla (rito lavoro e procedimento sommario di cognizione). Ma in questo caso, a dire il vero, emergono esigenze ben diverse dalla salvaguardia della natura revisoria dell’appello. Infatti, quanto al requisito dell’indispensabilità della prova le Sezioni Unite – dopo qualche tentennamento – hanno definitivamente chiarito nel 201737 che «prova indispensabile» è quella «di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo-grado». È evidente, dunque, che in questo modo si persegue o l’obiettivo dell’accertamento il più possibile veritiero dei fatti di causa (rito lavoro) o quello di assicurare in appello la cognizione piena ed esauriente di cui le parti potrebbero essere state private in primo grado (procedimento sommario).
1 Mandrioli, C.Carratta, A., Diritto processuale civile, II, Torino, 2017, 477; Chiarloni, S.Russo, M., Appello (dir. proc. civ.), in Diritto on line Treccani, 2017; Luiso, F.P., Diritto processuale civile, II, Milano, 2015, 381; Balena, G., Istituzioni di diritto processuale civile, II, Bari, 2015, 387; Verde, G., La riforma dell’appello civile: due anni dopo, in Riv. dir. proc., 2014, 971 ss.; Consolo, C., Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2012, 115.
2 Calamandrei, P., Vizi della sentenza e mezzi di gravame, in Id., Studi sul processo civile, I, Padova, 1930, 193 ss.; Id., La cassazione civile, Torino, 1920, 201 ss.; Id., Cassazione civile, in Nuovo dig. it., II, Torino, 1937, 991 ss. V. anche Cerino Canova, A., Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 109 ss.
3 Cerino Canova, A., Le impugnazioni civili, cit., 94; Andrioli, V., Diritto processuale civile, I, Napoli, 1979, 759.
4 Weber, M., Il metodo delle scienze storico-sociali (Gesammelte Aufsätze zur wisseschaftslehre), Tübingen, 1922, trad. it. a cura di P. Rossi, Torino, 1958, 108.
5 V., ad es., Caponi, R., L’appello nel sistema delle impugnazioni civili (note di comparazione anglo-tedesca), in Riv. dir. proc., 2009, 631 ss.; Tedoldi, A., L’appello civile, Torino, 2016, 24 ss.
6 Peraltro, sulla necessità di concepire l’appello come novum iudicium v. Cipriani, F., L’appello civile tra autoritarismo e garantismo, in Giusto proc. civ., 2009, 331; Monteleone, G., La crisi dell’appello civile ed il dissesto delle Corti d’appello: cause e rimedi, ivi, 2011, 863 ss.
7 In questo senso v., in particolare, Cass., S.U., 29.1.2000, n. 16, in Foro it., 2000, I, 1606, con note di G. Balena e di C.M. Barone, e in Corr. giur., 2000, 750, con nota di M. De Cristofaro, sulla scia di Cass., S.U., 6.6.1987, n. 4991, in Foro it., 1987, I, 3037, con nota di G. Balena e in Giur. it., 1988, 1819, con nota di G. Monteleone.
8 V., in proposito, Poli, R., Il nuovo giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2013, 136 ss.; Id., Giusto processo e oggetto del giudizio di appello, ivi, 2010, 48 ss.; Id., L’oggetto del giudizio di appello, ivi, 2006, 1397 ss.; Id., Appello come revisio prioris instantiae e acquisizione del documento erroneamente interpretato o valutato dal giudice di primo grado, ivi, 2013, 1186 ss.
9 Carratta, A., Art. 112, in Carratta, A.Taruffo, M., Poteri del giudice, Bologna, 2011, 30 ss.
10 Cass., 26.1.2018, n. 2046, in Rep. Foro it., 2018, voce Appello civile, n. 7; Cass., 22.9.2017, n. 22207; Cass., 17.1.2017, n. 923; Cass., 12.5.1993, n. 5394; Cass., 6.9.1990, n. 9197, in Riv. dir. proc., 1992, 643.
11 Per questa conclusione v. Cass., 19.10.2017, n. 24658, in Rep. Foro it., 2017, voce Appello civile, n. 77.
12 In questo senso v. anche Mandrioli, C.Carratta, A., Diritto processuale civile, cit., II, 483, in nota 23; Proto Pisani, A., Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 489; Tedoldi, A., L’appello civile, cit., 221; Balena, G., La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, 435. In giurisprudenza, ex multis, Cass., S.U., 12.5.2017, n. 11799; Cass., 30.12.1997, n. 13117; Cass., 25.7.1996, n. 6714.
13 Cass., S.U., 12.12.2014, n. 26242 e n. 26243.
14 V., ex multis, Cass., 3.4.2017, n. 8604; Cass., 26.1.2016, n. 1377; Cass., 11.1.2011, n. 443; Cass., 31.1.2007, n. 2096, in Giust. civ., 2007, 841 ss.; Cass., 17.3.2000, n. 3193.
15 Carratta, A., Art. 112, cit., 80 ss.
16 Così Cass., S.U., 19.4.2016, n. 7700, in Corr. giur., 2016, 968, con nota di C. Consolo. Nello stesso senso, poi, anche Cass., 16.1.2017, n. 832; Cass., 10.11.2016, n. 2884.
17 Cass., 1.3.2016, n. 4058.
18 V., in questo senso, anche Cass., 12.2.2016, n. 2855.
19 Cass., S.U., 29.7.2002, n. 11202, in Giur. it., 2003, 658, con nota problematica di C. Consolo; poi, Cass., 2.11.2010, n. 22291; Cass., 2.3.2012, n. 3253.
20 V., per tutti, Tarzia, G., Appunti sulle domande alternative, in Riv. dir. proc., 1964, 302.
21 Così Cass., 12.5.2014, n. 10243.
22 V., in proposito, soprattutto Cass., S.U., 12.5.2017, n. 11799.
23 Così Rascio, N., Impugnazione e riproposizione ex art. 346 c.p.c. al vaglio delle Sezioni unite, in Riv. dir. proc., 2018, 258 ss.
24 Così Cass., S.U., 4.3.2016, n. 4248, in Corr. giur., 2016, 685 ss., con nota di M. Negri; Cass., S.U., 30.9.2008, n. 26019, in Giur. it., 2009, 1460, con nota di A. Carratta.
25 Cass., 11.1.2017, n. 413; Cass., 2.9.2013, n. 20064.
26 Cass., 11.2.2011, n. 3375, in Giur. it., 2012, 378, con nota critica di N. Rascio; Cass., 27.10.2009, n. 22687.
27 Cass., 13.5.2003, n. 7316, in Foro it., 2003, I, 2330, con nota di N. Rascio; così poi anche, ad es., Cass., 17.1.2017, n. 925; Cass., 25.10.2016, n. 21540.
28 Cass., 7.12.2017, n. 29499, in Corr. giur., 2018, 230, con nota di F. Godio.
29 Mandrioli, C.Carratta, A., Diritto processuale civile, cit., II, 484, in nota 26.
30 Cass., 18.6.2015, n. 12606; Cass., 2.1.2001, n. 6, in Giur. it., 2002, 2066, con nota di R. Poli. In dottrina v. anche Poli, R., I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002, 181 ss.; Id., La evoluzione dei giudizi di appello e di cassazione alla luce delle recenti riforme, in Riv. dir. proc., 2017, 130 ss.
31 Cass., 4.2.2016, n. 2217.
32 Cass., 12.1.2006, n. 726; Cass., 17.9.2008, n. 2374.
33 Cass., 30.10.2007, n. 22863.
34 Cass., 26.10.2000, n. 14135, in Foro it., 2002, I, 227, con nota di N. Rascio.
35 Cass., S.U., 7.5.2013, n. 10531, in Foro it., 2013, I, 3500, con nota di R. Oriani; poi anche Cass., 28.7.2014, n. 17069. Nel senso che, ai fini della rilevabilità d’ufficio in appello dell’eccezione sia necessaria la tempestiva allegazione in primo grado (entro l’udienza ex art. 183 c.p.c.) dei relativi fatti, Cass., 3.7.2013, n. 16602, in Foro it., 2014, I, 168, con osservazioni di V. Mastrangelo; Cass., 15.5.2012, n. 7542. In proposito v. anche Cavallini, C., L’eccezione «nuova» rilevabile d’ufficio nel giudizio d’appello riformato, in Riv. dir. proc., 2014, 588; Merlin, E., Eccezioni rilevabili d’ufficio e sistema delle preclusioni in appello, ivi, 2015, 299.
36 Così Cass., S.U., 15.6.2015, n. 12310, in Corr. giur., 2015, 968, con nota adesiva di C. Consolo. Poi nello stesso senso anche con riferimento alla possibilità che la modifica intervenga in appello, Cass., 12.11.2015, n. 23131, in Foro it., 2016, I, 2500, con nota di A. Motto. In argomento v. anche Bove, M., Individuazione dell’oggetto del processo e mutatio libelli, in Giur. it., 2016, 1607 ss.
37 Cass., S.U., 4.5.2017, n. 10790.