oggetto transizionale
Secondo il pediatra e psicoanalista inglese Donald W. Winnicott, che coniò l’espressione nel 1951, l’o. t. è un oggetto materiale capace di soddisfare, nel lattante, la rappresentazione di un qualcosa relativo al possesso e all’unione con la madre. Un paradosso – specificherà Winnicott – perché esso non appartiene né alla realtà interna né al mondo esterno ed è stato nello stesso tempo creato e trovato dal bambino. Precursore del simbolo (➔), l’o. t. viene, dunque, a dare forma a quell’area d’illusione (➔) che congiunge madre e bambino. Così, orsacchiotti, fazzoletti, copertine, come pure un angolo di tessuto, un nastro o un filo di lana, o ancora una particolare sensibilità a suoni, luci o immagini, compaiono nella vita del bambino (tra i tre e i dodici mesi) proprio nel momento in cui l’illusione d’essere tutt’uno con la mamma inizia a sgretolarsi e il piccolo sente incombere una minaccia di rottura. Morbidi e soffici, impregnati di odori inconfondibili che appartengono tanto alla mamma quanto al bambino, ripetutamente sfiorati, stretti e succhiati dal bebé, essi permettono al lattante di sopportare il proprio stato di separatezza, facilitando l’angoscioso e inevitabile passaggio dal me al non-me, dal mondo interno al mondo esterno, attraverso l’invenzione di una zona intermedia, di margine, tra il dentro e il fuori, tra me e l’altro.
Prima che Winnicott introducesse le concettualizzazioni relative a fenomeni e oggetti transizionali, nella letteratura psicoanalitica non c’era alcun esplicito riferimento a un possibile spazio tra ‘interno’ ed ‘esterno’. Sigmund Freud aveva descritto la sequenza evolutiva dal principio di piacere (➔ piacere/dispiacere, principio di) al principio di realtà delineando in tal maniera il percorso che ogni bambino deve compiere, mentre Melanie Klein aveva posto l’accento sul mondo interno e sulle fantasie che lo alimentano, trascurando l’impatto del mondo esterno sulla percezione del bambino. Winnicott era arrivato invece alla messa a fuoco di una terza area (molti peraltro sono i termini usati da Winnicott per riferirsi a questa dimensione; terza area, area intermedia, spazio potenziale, luogo di riposo, sede dell’esperienza culturale) a partire dal fatto che egli vedeva un legame tra l’uso del pugno, delle dita e del pollice, da parte di un neonato, e l’uso, da parte del bambino più grande, dell’orsacchiotto o di un giocattolo morbido. Scrive Winnicott nel suo saggio Oggetti transizionali e fenomeni transizionali (1951): «Ho introdotto i termini di oggetto transizionale e fenomeno transizionale per designare l’area intermedia di esperienza tra il pollice e l’orsacchiotto, l’erotismo orale e la vera relazione d’oggetto». Seppure posto all’origine del gioco e collocato, nel pensiero winnicottiano, alla radice del simbolismo e della creatività, l’elemento fondamentale dell’o. t. non è il suo valore simbolico, ma la sua esistenza reale. Tant’è che quando il bambino si stringe al suo orsetto oppure si accarezza il viso con la copertina sa benissimo che questi oggetti non sono la mamma, anche se egli, paradossalmente, li utilizza considerandoli mamma.
Orsacchiotti e copertine, come mostra emblematicamente il celebre Linus, si trovano così ad assumere un significato affettivo molto intenso, diventando una parte quasi inseparabile del bambino e andando a costituire il primo possesso di qualche cosa che non è l’Io (not me possession). Si tratta di oggetti intermedi, oggetti ‘non me’, sebbene percepiti ancora come parte di me, ma non in quanto oggetti interni, bensì in quanto possessi. In questo senso i lavori di Eugenio e Renata Gaddini sugli oggetti precursori sono molto utili perché servono a differenziare dall’o. t. altri fenomeni e oggetti molto comuni che, pur avendo la capacità di consolare il bambino – per es. il succhiotto, la lingua, il dito, i capelli o le orecchie tanto del bambino quanto della madre –, o sono proposti dalla madre oppure non sono separati dal bambino o scoperti o ‘inventati’ da lui. Passaporto dalla solitudine, ogni o. t. è investito da un legame di assoluto possesso da parte del bambino, che potrà coccolarlo, strapazzarlo, stropicciarlo sino a mutilarlo, lasciando che diventi pure sporco e maleodorante. Molti genitori sono consapevoli che lavando o riaggiustando uno di questi oggetti introdurrebbero una rottura nella continuità dell’esperienza del bambino che potrebbe, addirittura, distruggere il significato e l’importanza che lo stesso oggetto riveste per lui.
Il destino dell’o. t. è di essere gradualmente disinvestito. Con questo Winnicott intendeva dire che, nella situazione di sanità, «l’oggetto transizionale non va dentro, né i sentimenti verso di esso sono necessariamente soggetti a rimozione. Non viene dimenticato e non viene rimpianto». Questo aspetto rende l’o. t. unico non solo nel percorso evolutivo del bambino, ma anche per lo sviluppo della teoria psicoanalitica. Fino agli studi di Winnicott, infatti, gli oggetti venivano o internalizzati o perduti; per la prima volta si parla, invece, di un oggetto che non è internalizzato né perduto, quanto piuttosto ‘relegato nel limbo’. Semplicemente perché, spiegava Winnicott, «gli eroi non muoiono: scompaiono».