oïl
L'avverbio affermativo francese antico (in francese moderno oui: 〈 hoc ille [fecit] >), assente nell'italiano di D., compare varie volte nel De vulg. Eloquentia. Una prima volta quando D., spiegando come un originario idioma unitario europeo nunc tripharium videatur, precisa: nam alii oc, alii oïl, alii sì affirmando locuntur, ut puta Yspani, Franci et Latini (VE I VIII 6); quindi nello stesso capitolo, § 9, i parlanti francese sono detti loquentes oïl, e poi in I IX 2 si ripete la formula del precedente capitolo: nam alii oc, alii sì, alii vero dicunt oïl; infine soprattutto è interessante l'espressione lingua oïl che D. usa in X 2, parallelamente all'altra affine [lingua] oc (v. OC). Infatti secondo il più recente indagatore della storia della formula, il Koll, non si rinvengono nel Medioevo altre attestazioni di ‛ langue d'oil ' e simili con valore linguistico, anche se ne va presupposto l'uso orale, mentre i primi esempi (francesi) da lui ricordati, che sono dell'avanzato '300, hanno sempre valore politico-geografico (in documenti in latino vi corrisponde " Lingua Gallicana "). Evidentemente meno indicativi sono i versi (riportati anche dal Marigo) di un sirventese di Bernart d'Auriac: " E sap mi bo, / qu'era sabran Aragones / qui son Frances, / e •ls Catalas... auziran dire per Arago / oil e nenil en luec d'oc e de no ".
L'unico autore francese antico che D. citi nominalmente nel De vulg. Eloq. è ovviamente un poeta lirico, Thibaut, e cioè Tebaldo di Navarra (v.). Per il resto, tracciando in VE I X 2 un panorama della letteratura francese, D. si limita per così dire ai ‛ generi ' a suo avviso dominanti, anonimi e indifferenziati. Ma le stesse citazioni di testi lirici sono scarse e chiaramente subordinate. Intanto, di fronte al ricco ventaglio di nomi e allegazioni provenzali (e italiane), c'è un solo nome francese: appunto Tebaldo, da D. chiamato sempre antonomasticamente Rex Navarrae, e da lui probabilmente privilegiato perché, come suggerisce il Marigo, " figura più frequentemente di tutti colle sue canzoni, e spesso al primo posto, nei canzonieri francesi, proprio con quel ‛ Li roi de Navarre ' antonomastico, dal quale certo deriva il Rex Navarrae dantesco "; anzi la seconda canzone che D. cita come sua, Ire d'amor qui en mon cor repaire (VE II VI 6), è invece opera di Gace Brulé (v.). Ciò indica anzitutto i limiti obiettivi dell'informazione posseduta da D. sui trovieri (la cui conoscenza e diffusione in Italia non erano del resto lontanamente paragonabili a quelle dei trovatori provenzali); anche se torna a suo merito indiscutibile, in tale scarsità d'informazioni, il deciso accostamento di tali testi a quelli trobadorici.
A parte ciò, il numero e il carattere delle allegazioni finisce per rivelare il ruolo secondario che D. assegnava alla tradizione lirica francese. Infatti la prima citazione di una canzone di Thibaut, De fin amor si vient sen et bonté (VE I IX 3), ha un mero scopo d'indicazione linguistica, cioè la presenza nelle lingue dell'ydioma tripharium della stessa parola, amor; la seconda, che significativamente ripropone la stessa canzone prima ricordata, è introdotta per illustrare l'abitudine comune ai doctores delle tre lingue d'iniziare le loro cantiones illustres con un endecasillabo (II v. 4). Solo l'ultima allegazione francese (di Ire d'amor) potrebbe avere funzione più importante, poiché esemplifica un fatto stilistico così centrale per D. come la suprema constructio: ma pur nell'ambito di un passo che contiene l'elenco di poeti più abbondante dell'intero trattato, è in gioco una sola canzone francese, contro cinque provenzali e cinque italiane, la quale ha l'aria di star lì soprattutto allo scopo di completare il panorama trilingue (e il suo posto errato nei manoscritti indica forse che la citazione è stata aggiunta in un secondo tempo). Assai sintomatico è poi il fatto che manchi qualsiasi poeta francese a rappresentare i sommi contenuti, i magnalia, in II II 9; e forse anche che citazioni francesi spariscano del tutto negli ultimi capitoli dell'opera, dedicati alla metrica della canzone. E non è il caso di soffermarsi sulle inesattezze linguistiche che maculano, non sempre necessariamente per colpa dei copisti, quelle citazioni (v. l'editio maior del Rajna, pp. 42, 151).
L'implicito giudizio limitativo che scaturisce da questo trattamento dei lirici francesi sembra poter essere confermato dalla caratterizzazione comparativa della letteratura d'oïl che D. schizza in VE I X 2. Per valutare correttamente questo passo occorrerebbe in realtà inquadrarlo, anzitutto, nella questione delle conoscenze e letture concrete che D. aveva di letteratura francese: questione che comunque non è possibile affrontare qui, ma che, nonostante alcuni punti che si possono considerare abbastanza chiariti (principalmente quali siano stati i tramiti testuali delle allusioni dantesche alla materia brettone: v. ROMANZI ARTURIANI), appare per tanti aspetti ancora ben aperta (tanto per cominciare: è proprio lecito negare a D. ogni conoscenza della Chanson de Roland?). È chiaro infatti come il senso di quel passo muta a seconda che si ritenga che esso rispecchi abbastanza da vicino il raggio di conoscenze che D. possedeva in materia, o che invece possa rappresentare una voluta e forzosa limitazione di quanto egli pur sapeva dello sviluppo e della portata di quella letteratura. Il problema è anche strettamente connesso a quelli che riguardano la consistenza stessa del canone dantesco: poiché ammettendo che a D. si debba attribuire il Fiore (v.) e relativo Detto d'Amore, si acquisisce di colpo un dato, quale la frequentazione giovanile, diretta e interessata del Roman de la Rose (pur già inducibile dall'opera ‛ canonica ', almeno all'altezza della Commedia), che si riflette immediatamente sull'interpretazione del passo menzionato del De vulg. Eloq., e in genere di tutto l'orientamento dantesco verso la lingua e cultura di Francia; e molto più limitatamente, qualcosa può importare anche l'attribuzione o meno a D. del discordo trilingue Aï faux ris (dove la terza lingua, con l'italiano e il latino, è il francese).
Pare comunque lecito sottolineare come il D. maturo esibisca, o almeno lasci intravvedere, un atteggiamento che si può senz'altro definire anti-francese, in politica ma anche e coerentemente sul piano culturale (v. da ultimo i giusti richiami in questo senso di C. Dionisotti, Geografia e storia della Letteratura italiana, Torino 1967, 109 ss.): tale atteggiamento, se il Fiore è di D., comporta in grado cospicuo una sostanziale revisione delle proprie stesse posizioni culturali (e in esso si potrebbe d'altra parte inserire il problema dell'assoluto silenzio che egli ha riservato a questa sua prova). Ma basta pensare, quasi sulla soglia della Commedia, all'episodio di Francesca, dov'è talmente trasparente la liquidazione morale (difficilmente scindibile in D. da quella letteraria) delle stesse favole arturiane che in anni non lontani egli dichiarava pulcerrimae (appunto in VE I X 2), e a cui ancor prima si era nostalgicamente volto nel sonetto Guido, i' vorrei. Anche qui però si vorrebbe sapere di più, e con più sicurezza. Certo leggendo l'attacco portato in Cv I X 11 e XI a coloro che disprezzano il volgare italiano e commendano li altri, massimamente quello di lingua d'oco, e fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza (XI 14), nasce il più che legittimo sospetto che D. sottintendesse una non meno dura condanna di coloro (ed erano di fatto più pericolosi, se in prima fila c'era stato addirittura l'autore del Tresor) che privilegiavano l'uso del francese: conseguenza estrema di questo sospetto è la nota interpretazione che del canto di Brunetto Latini ha dato il Pézard. In ogni caso la caratterizzazione che D. offre della lingua e letteratura d'oïl nel De vulg. Eloq. va vista sullo sfondo e in prosecuzione della battaglia sostenuta nel I libro del Convivio contro l'egemonia potenziale delle culture d'oltralpe.
Veniamo dunque a VE I X 2. Sono a confronto le tre lingue dell'ydioma tripharium, ognuna delle quali può avanzare i suoi titoli di benemerenza: Allegat ergo pro se lingua oïl, quod propter sui faciliorem ac delectabiliorem vulgaritatem [da intendersi non come " divulgazione " (Marigo), ma come " natura di volgare " (Pellegrini)] quicquid redactum sive inventum est ad vulgare prosaycum, suum est: videlicet Biblia cum Troianorum Romanorumque gestibus compilata et Arturi regis ambages pulcerrimae et quamplures aliae ystoriae ac doctrinae.
Il brano va minutamente interpretato. Il giudizio sulla natura particolarmente agevole e dilettevole del francese (probabilmente sottinteso anche in VI 3, dove D. afferma di ritenere plerasque nationes et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos) era un luogo abbastanza comune all'epoca, come attestato da due scrittori che avevano appunto scelto la lingua d'oïl per loro opere: Brunetto Tresor I I 7 " La parleure [francese] est plus délitable et plus commune a tous langages " (ediz. Carmody; nell'ediz. Chabaille " a toutes gens "); Martino da Canal Chron. des Veniciens, ediz. Polidori, p. 268: " Et por ce que lengue franceise cort parmi le monde, et est la plus delitable a lire et a oir que nule autre... ", e verosimilmente anche più tardi, cfr. Benvenuto, II 409: " Unde multum miror et indignor animo, quando video Italicos et praecipue nobiles, qui conantur imitari vestigia eorum [i Francesi], et discunt linguam gallicam, asserentes quod nulla est pulchrior lingua gallica " (così press'a poco ripete poi Giovanni da Serravalle, sempre commentando If XXIX 123: cfr. M. Barbi, in " Studi d. " XVIII [1934] 90-91). La coppia redactum sive inventum (" ridotto o immaginato ", Marigo) distinguerà la prosa che manipola e rifonde materia preesistente (v. il successivo compilata) dalla prosa d'invenzione originale; quanto a prosaycum, va certo preso alla lettera, e non è proprio il caso di pensare (come pure faceva il Rajna) che D. potesse comprendere sotto questa etichetta anche prodotti come la Chanson de Roland, considerata ‛ prosa rimata '. Con l'espressione Biblia... compilata, dove Biblia varrà proprio " Bibbia ", D. intenderà (Rajna, Marigo) esempi di compilazione storica come la cosiddetta Histoire ancienne jusqu'à César e i Fet des Romains, che spesso andavano assieme nei codici, e furono vastamente popolari in Italia (cfr. E.G. Parodi, in " Studi di Filol. Rom. " IV [1889] 235-501; L.-F. Flutre, Li Fait des Romains dans la littérature française et italienne du XIIIe et XIVe siècle, Parigi 1932; ID., Les manuscrits des Faits des Romains, Parigi 1933): inaccettabile l'opinione dello Zingarelli (Biblia = " libri ", e si tratterebbe di romanzi in prosa e versi (!) di materia troiana, romana, ecc.). Arturi regis ambages pulcerrimae allude trasparentemente alla materia brettone; non sicuro è però il senso preciso di ambages: contro il Rajna, che infine proponeva " fantasie ", il Martellotti suggerisce, più letteralmente, " peregrinazioni " o simili (Marigo: " errabonde avventure "), o in second'ordine " favole " (e v. la successiva citazione dell'Entrée d'Espagne). Benché non manchino nei testi ‛ brettoni ' (per es. Tristano Riccardiano e Tavola ritonda) avventure personali di Artù, Arturi regis sarà genitivo antonomastico (Rajna: " che fanno capo a "), da confrontarsi puntualmente con Entrée d'Espagne, ediz. Thomas, p. 367: " Ne vos sembleront mie de les flabes d'Artu ". E per le opere di prosa arturiana che D. poteva conoscere in concreto, v. ROMANZI ARTURIANI. I sostantivi ystoriae e doctrinae sono entrambi tecnicismi letterari: il secondo si può tranquillamente tradurre con " opere dottrinali "; historia si distingueva nella terminologia classico-medievale (ad es. Ad Herennium I VIII 13; Isidoro da Siviglia Etym. I XLIV 5) da fabula e argumentum, indicando " gesta res, sed ab aetatis nostrae memoria remota ", e per D. sono ‛ storie ' le Deche di Livio, ma anche i poemi di Virgilio (Eneide) e di Stazio (Tebaide); cfr. Cv IV V 11, XXV 6, XXVI 9. Perciò ystoriae indicherà opere come la Biblia, ecc., non certo le favole arturiane.
In altre parole sono individuati in questo brano tre generi fondamentali di produzione prosastica, nei quali la lingua e cultura francese deteneva l'egemonia: le compilazioni storiche, la prosa romanzesca di argomento brettone, la letteratura didattico-dottrinale in prosa. E naturalmente il senso del passo indica che D. pensa non solo a produzione scritta da francesi, ma anche a opere di quel tipo stese in francese da italiani, a cominciare verosimilmente dal magno Tresor brunettiano, esempio tipico della terza categoria: solo così anzi il significato di quel quicquid... suum est risulta pregnante. Col che non s'intende dire però che D., qui necessariamente conciso, abbia in mente solo e alla lettera opere scritte in francese: è probabile che sottintendesse anche un richiamo al fenomeno così frequente dell'‛ imitazione ' culturale (traduzioni, adattamenti, ecc.) di testi storici, romanzeschi, dottrinali francesi in opere di autori italiani pur scritte nel nostro volgare. E bisogna insistere sul fatto che, come in tutto il confronto delle tre lingue, qui D. non fornisce tanto una valutazione degl'idiomi in sé presi (questa, di passata, era già stata accennata al § 1), quanto nella misura in cui i pregi rispettivi delle lingue abilitavano le corrispondenti letterature a svolgere un ruolo preminente piuttosto che un altro: press'a poco come quando Ramon Vidal nelle Razos de trobar contrapponeva il francese che " val mais et es plus avinenz a far romanz, retronsas et pasturellas ", al provenzale che " vai mais a far vers et cansons et serventes ". È insomma un paragone letterario-culturale.
E allora la comparazione, apparentemente ironica e obiettiva, lascia trasparire precise ragioni di politica e polemica culturale. Intanto non bisogna esagerare, col Marigo, facendo dire a D. che egli assegna al francese un primato assoluto nella prosa; ed è errato, più che ozioso, ritenere che il rilievo contenga una svalutazione implicita della passata esperienza della Vita Nuova, che cade sotto tutt'altro ‛ genere ' (piuttosto è l'impresa in corso del Convivio, prosa dottrinale ed evidentemente non francesizzante, che non sembra entrare ancora eventualmente nel conto). Come ha obiettato al Marigo il Pézard, D. fa qui una semplice constatazione di superiorità de factu, in atto, che non esclude coscienza di pari o superiore bontà in potenza e de iure dell'italiano, anche nel settore della prosa (se le pagine apologetiche del contemporaneo Convivio dicono qualcosa). Il discorso va approfondito. In primo luogo osservando che, specie se si dà ad ambages il valore più concreto di " peregrinazioni ", pulcerrimae non starà tanto a indicare eccellenza letterario-formale, ma più semplicemente fascinosità di storie, di contenuti. In secondo luogo, e soprattutto: il franco riconoscimento delle prerogative della lingua d'oïl (d'altronde, precisa sempre il Pézard, presentato non come verità assoluta e neutrale ma come interessata apologia dei francesi stessi) è limitato da quanto subito si dice in lode delle altre due lingue. In questo senso anzitutto: che se al francese è riconosciuta piena preminenza nel settore della prosa di ammaestramento e d'intrattenimento piacevole, al provenzale e non al francese spetta di reggere le sorti, ben più decisive per il D. del De vulg. Eloq., della lirica alta e illustre (e subito agli aggettivi facilis e delectabilis si contrappongono i ben più impegnativi dulcis e perfectus del provenzale): il che immediatamente ridimensiona eventuali pretese egemoniche assolute (e qui cade il richiamo al posto marginale che in seguito D. attribuisce alla lirica dei trovieri). In certo modo, anche se là il giudizio venga puntato su una scala di valori individuali e non generali, la prospettiva è già quella che farà proclamare a D. (Pg XXVI 118-119) che Arnaldo Daniello versi d'amore e prose di romanzi / soverchiò tutti (a intendere prose di romanzi nel modo giustamente più ovvio e piano). Ma a guardar bene, una relativa limitazione della letteratura francese risulta anche da quanto D. dice dell'italiano al successivo § 4. Qui, se il primo rilievo (coloro che hanno poetato nel modo più dolce e sottile sono italiani) è soprattutto competitivo verso la Provenza, il secondo lo è anche e soprattutto verso la Francia: Cino, D. e compagni magis videntur inniti gramaticae, quae comunis est, quod rationabiliter inspicientibus videtur gravissimum argumentum: cioè si appoggiano più di tutti al latino, lingua comune a tutti (in Francesco da Barberino Docum. I 35-36 si parla del latino " quod pluribus est comune "); e v. OC. In altre parole D., dopo aver dato atto alla cultura francese della sua vocazione democratica e universalistica, legata al primato in una produzione (come oggi diremmo) di consumo, suggerisce che però l'alta lirica italiana, connaturandosi maggiormente all'insegnamento dei latini e al modello stesso di quella lingua, attinge perciò non solo una ‛ regolarità ' maggiore, ma anche un diverso e più sostanzioso ‛ universalismo '.
Qui come altrove tuttavia l'impostazione trasparentemente ‛ militante ' di D. non gl'impedisce obiettività di referto storico, e la vocazione alla politica culturale s'intreccia, senza distruggerla, a quella di storiografo. Poiché se il quadro che egli schizza è ben lontano (per limiti d'informazione o anche per volontà riduttiva) dal render giustizia all'estrema ricchezza di aspetti e importanza della produzione letteraria d'oïl - escludendone le zone più grandi come la poesia epica e romanzesca e allegorica -, esso risulta ciononostante, nella sua concisione, eccezionalmente preciso nel delineare i settori nei quali e per i quali si è imposta l'egemonia francese sulla cultura italiana del Duecento: che sono soprattutto, com'è noto, proprio quelli da lui indicati.
Bibl. - Toynbee, Dictionary, sub v.; P. Rajna, Arturi regis ambages pulcerrimae, in " Studi d. " I (1920) 91-99; ID., in " Studi d. " XI (1927) 141; Zingarelli, Dante 145 ss.; Marigo, De vulg. Eloq., passim e specialmente 64-65, 75-78; A. Pézard, D. sous la pluie de feu, Parigi 1950, in partic. 124, 337-338; G. Folena, in Umanesimo Europeo e Umanesimo Veneziano, Firenze 1963, 152; S. Pellegrini, Saggi di filologia italiana, Bari 1962, 69; R.M. Ruggieri, L'umanesimo cavalleresco italiano - da D. al Pulci, Roma 1962, 85-87; A. Schiaffini, Interpretazione del ‛ De vulg. Eloq. ' di D., Roma 1963, 69 ss.; C. Grayson, D. e la prosa volgare, in " Il Verri " 9 (1963) 6-7; G. Martellotti, in " Studi sul Boccaccio " IV (1967) 271-272, 275-276; D.A., De vulg. Eloq., a c. di P.V. Mengaldo, I (Introd. e testo), Padova 1968, pp. LXII-LXVI, LXXXIV-LXXXV. - In generale per i rapporti fra D. e la cultura francese cfr. ancora: A. Farinelli, D. e la Francia, Milano 1908, I 1-29; H. Hauvette, La France et la Provence dans l'oeuvre de D., Parigi 1929, passim; e v. poi soprattutto la bibliografia in calce alla voce ROMANZI ARTURIANI. Per l'influenza della lingua e della cultura d'oïl in Italia è sempre indispensabile P. Meyer, De l'expansion de la langue française en Italie pendant le moyen âge, in Atti del congresso internazionale di scienze storiche (Roma, 1-9 aprile 1903), Roma 1904-1907, IV 61-105 (e separatamente, ibid. 1904); inoltre, almeno, G. Bertoni, Il Duecento, Milano 1939³, passim; C. Segre, introduzione a Segre-Marti, Prosa (poi in Lingua stile e società, Milano 1963) e i ‛ cappelli ' del Segre e del Marti nello stesso volume; in particolare per la diffusione della lirica: A. Jeanroy, Les origines de la poésie lirique en France au Moyen âge, Parigi 1889 (1925³) [trad. parziale in La lirica francese in Italia nel periodo delle origini, a c. di G. Rossi, Firenze 1897], 233-273. Edizioni delle poesie francesi citate nel De vulg. Eloq.: E. Monaci, Poesie in lingua d'oc e in lingua d'oïl allegate da D. nel De vulg. Eloq., Roma 1909; B. Panvini, Le poesie del ‛ De vulg. Eloq. '. Testi e note, Palermo 1968. Per l'espressione ‛ lingua d'oïl ': Histoire de Bertran du Guesclin et de son époque..., a c. di S. Luce, Parigi 1876, I 15; H.G. Koll, Die französischen Wörter ‛ langue ' und ‛ langage ' in Mittelalter, Ginevra-Parigi 1958, 151 ss.