Oligopolio
1. Introduzione
All'origine della nozione di oligopolio è l'idea che un mercato con pochi venditori, o di "concorrenza fra pochi" (v. Fellner, 1949), abbia caratteristiche tanto speciali da costituire una categoria a sé stante, distinta dalla semplice concorrenza e a maggior ragione dalla concorrenza detta 'pura' o 'perfetta'. L'idea presuppone quindi che il grado di concentrazione dell'offerta sia un fattore strutturale che esercita un'influenza determinante sulle caratteristiche del processo concorrenziale; tanto che non si dovrebbe parlare di mercati concorrenziali in senso proprio se non a condizione di un numero molto elevato di venditori, o, in altri termini, di un grado di concentrazione estremamente basso. Sorgono però almeno due interrogativi. In primo luogo, dove si colloca la soglia che divide i 'grandi' dai 'piccoli' numeri, l''alta' dalla 'bassa' concentrazione, insomma in base a quale criterio pratico si potrà classificare un mercato reale come appartenente ai mercati concorrenziali o agli oligopoli? E in secondo luogo, anche supponendo di aver chiarito quand'è che un numero si può considerare 'piccolo', quale meccanismo assicura che esso rimanga tale, e non si tratti invece di uno stato di cose temporaneo che un flusso netto di entrate o uscite di imprese trasformerà presto in una situazione di concorrenza vera e propria o di monopolio? In altri termini, a quali condizioni l'oligopolio è una struttura stabile anziché semplicemente una situazione di passaggio che prelude o allo stabilirsi della concorrenza piena o alla sua totale eliminazione?
Ripercorrendo i tentativi dell'analisi economica di rispondere a questi interrogativi, troviamo che tutte le teorizzazioni dell'oligopolio ruotano intorno al collegamento fra il numero di venditori presenti sul mercato e la visibilità dell'interdipendenza reciproca. È tipico delle situazioni di rivalità fra pochi individui che la scelta di una linea di condotta venga fatta nella consapevolezza che questa influenzerà in modo percepibile i propri rivali, così da provocare eventuali reazioni i cui effetti di ritorno ricadranno su chi ha preso la decisione. È vero che la concorrenza, qualunque sia il grado di concentrazione del mercato, è sempre - quasi per definizione - una situazione di oggettiva interdipendenza. Tuttavia, dove la concentrazione è minore, può essere ragionevole supporre che l'interdipendenza perda visibilità e non pesi molto nelle decisioni: ognuno presume che gli effetti delle proprie scelte, disperdendosi su un gran numero di rivali, passino inosservati, o che, se osservati, non sia facile attribuirne a lui la responsabilità. In situazioni di offerta molto concentrata la concorrenza si presenta quindi come un rapporto di rivalità diretta fra soggetti che si osservano e cercano di capirsi reciprocamente. In situazioni di bassa concentrazione invece il rapporto si fa asimmetrico; ognuno è in concorrenza con tutti gli altri, ma non pensa che tutti gli altri siano in concorrenza con lui: è come se il rivale fosse un'entità impersonale, il 'mercato', di cui si ha interesse a capire le mosse senza peraltro supporre che il mercato possa avere un analogo interesse per noi. La separatezza dell'oligopolio come forma di mercato si basa in ultima analisi sulla significatività della distinzione fra queste due accezioni di concorrenza - come rivalità diretta o come rivalità mediata da un meccanismo impersonale.
Le specificità dei mercati oligopolistici sono d'importanza centrale per la comprensione delle economie industriali moderne. Si può dire che non ci sia oggi prodotto finale che in qualche stadio della sua produzione non passi per mercati concentrati in cui prevalgono condizioni di concorrenza fra pochi. Ogni prodotto arriva quindi all'utilizzatore finale a prezzi che risultano da una combinazione di comportamenti competitivi dei due tipi - concorrenza impersonale per quelle componenti del prodotto che vengono scambiate su mercati poco concentrati, e rivalità diretta fra i fornitori di componenti scambiate su mercati oligopolistici. Questo non significa necessariamente che si debba vedere nella storia industriale moderna una tendenza sistematica e irreversibile della concorrenza fra pochi a sostituirsi alla concorrenza impersonale nel regolare la formazione dei prezzi. Certamente un fattore che ha spinto in questa direzione è stato lo sviluppo di tecnologie con elevate economie di scala a costo di alti investimenti iniziali, perché queste premiano le imprese di grandi dimensioni e al tempo stesso rendono più difficile l'entrata di nuovi concorrenti. Nello stesso senso può aver operato la tendenza della concorrenza a basarsi sulla differenziazione del prodotto anziché sull'offerta di vantaggi di prezzo ai compratori, perché questo tipo di concorrenza aumenta l'investimento in organizzazione commerciale necessario per entrare sul mercato, costituendo quindi un fattore non tecnologico di economie di scala. Questo incentivo alla concentrazione tuttavia è contrastato dallo sviluppo di imprese multiprodotto, che sfruttando l'organizzazione commerciale simultaneamente su più mercati rendono più difficile costruire barriere all'entrata efficaci. Inoltre, molte innovazioni, di processo o di prodotto, sono risultate favorevoli a tecnologie produttive 'leggere', attivabili a bassi costi fissi in strutture di piccola dimensione, riaprendo alla concorrenza settori prima dominati da poche grandi imprese. Nella stessa direzione spinge anche la progressiva decomposizione dei processi produttivi, che moltiplica i mercati delle parti componenti, la cui produzione può spesso essere ottenuta con piccoli impianti. In conclusione, sembra più giusto vedere la proporzione fra i due tipi di concorrenza come il risultato storicamente variabile di forze contrastanti generate dall'interno dello sviluppo industriale piuttosto che come manifestazione di una tendenza di fondo unidirezionale.
Dalle osservazioni ora fatte risulta anche che la configurazione dei mercati è a sua volta in gran parte determinata dalla stessa attività concorrenziale nelle sue manifestazioni non di prezzo - concorrenza tecnologica, di processo e di prodotto, e concorrenza commerciale e differenziatrice. Si potrebbe parlare quindi di un ruolo strutturante della concorrenza non di prezzo, come cosa distinta dalle forme specifiche che la concorrenza di prezzo prende all'interno delle strutture di mercato create dalla prima. Benché nella realtà tutte le manifestazioni della concorrenza si presentino congiuntamente, il distinguerle ci consente di separare lo studio della dinamica delle forme di mercato dalle proprietà strutturali interne di ciascuna di esse. Volendo concentrarci nella trattazione che segue sulle caratteristiche specifiche della concorrenza come rivalità diretta e sulle difficoltà che essa pone all'analisi economica, ricostruiremo la problematica dell'oligopolio occupandoci della sola concorrenza di prezzo e trascurando gli altri aspetti dei comportamenti oligopolistici che hanno l'effetto di modificare la struttura stessa del mercato. Faremo riferimento quindi a 'industrie' caratterizzate da un prodotto perfettamente omogeneo, da uniformità e stazionarietà della tecnologia, e da compratori perfettamente informati, così da escludere forme di concorrenza basate sulla diversificazione del prodotto, sulla corsa all'innovazione tecnologica, o sulle spese di vendita. Per estensioni dell'analisi dell'oligopolio agli aspetti qui trascurati, rimandiamo fra gli altri a Eaton e Lipsey (v., 1989), Delbono (v., 1990), Shaked e Sutton (v., 1987). Per un altro problema di cui non sarà possibile occuparsi nella presente trattazione, quello del disegno e dell'applicazione di norme antitrust ai mercati oligopolistici, rimandiamo a Osti (v., 1995).
2. Oligopoli collusivi
Un primo punto di vista da cui considerare l'influenza del numero dei venditori o produttori sul funzionamento di un mercato è accennato in Adam Smith (v., 1904, vol. I, pp. 382-383), e si rifà all'idea che i pochi si coalizzano a danno dei molti più facilmente che non viceversa. Su un mercato con molti compratori e pochi venditori, un accordo fra questi ultimi diretto a sospendere o comunque ad attenuare la concorrenza fra di loro porterebbe a un'offerta ridotta e a prezzi più alti rispetto a quanto ci si potrebbe attendere se tenessero una linea di condotta meno cooperativa. Da questo punto di vista l'oligopolio tenderebbe in realtà a confondersi con il monopolio: un cartello di venditori per spartirsi il mercato in quote, a prezzi concordati in modo tale da massimizzare i profitti congiunti, è una situazione molto simile a quella di un monopolista con più stabilimenti e/o punti di vendita che cerca di trarre dal mercato il massimo profitto possibile. Rimane però una differenza sostanziale nel fatto che l'accordo costitutivo del cartello, per essere stabile, non deve contenere incentivi alla sua violazione, cioè dev'essere articolato in modo da scoraggiare pratiche competitive individuali a scapito degli altri aderenti al patto. Questo richiede una struttura sanzionatoria che, non potendo in generale appoggiarsi sull'ordinamento giuridico (generalmente contrario a pratiche monopolistiche), dovrà affidarsi interamente alla capacità dei contraenti di ritorcere il danno economico sul violatore. Un'impresa che considerasse, per esempio, l'opportunità di cercare di espandere la propria quota di mercato portando il prezzo al di sotto del livello concordato, non potrebbe aspettarsi che le altre lascino fare senza reagire; al contrario, la sanzione consisterà proprio nel generalizzarsi della concorrenza di prezzo a tutte le imprese del cartello, cioè nel passaggio a una situazione competitiva che per il potenziale violatore sarebbe meno vantaggiosa di quella iniziale.
Secondo questo punto di vista, l'analisi dei mercati oligopolistici non è altro che un caso particolare dello studio dei cartelli fra imprese (v. Stigler, 1964), cioè di situazioni di esercizio congiunto di potere monopolistico: l'unica peculiarità è che il monopolio congiunto ammette sempre la possibilità di passare a uno stato di concorrenza, ma solo come una minaccia, che finché è efficace non verrà portata a effetto. Le indicazioni che ne derivano sulla soglia che divide questa forma di mercato dalla concorrenza riguardano, più che il numero in sé delle imprese partecipanti, la consapevolezza che esse hanno della loro situazione di interdipendenza, e la capacità di individuare e penalizzare le deviazioni dalla linea di condotta concordata. Perché l'accordo di cartello abbia successo occorre che le azioni di ogni impresa producano effetti visibili su tutte le altre, di modo che: a) ognuna percepisca chiaramente l'interesse comune a concordare una linea d'azione non competitiva; b) nessuna azione non conforme all'accordo abbia probabilità di passare inosservata eludendo il meccanismo sanzionatorio. Troviamo quindi, come abbiamo anticipato nel cap. 1, che la caratteristica principale che definisce l'oligopolio come forma di mercato a sé è, prima ancora che il numero dei partecipanti, la condizione di visibilità della loro interdipendenza. L'associazione con i piccoli numeri ne discende di conseguenza, in quanto appare del tutto naturale supporre che il costo per organizzare e tenere in piedi un cartello cresca con il numero degli aderenti (ibid.). Questo però non consente di arrivare alla conclusione di Chamberlin (v., 1960⁷), secondo cui in qualunque situazione di piccoli numeri i produttori tenderanno a organizzarsi in forma di cartello: a parità di numeri, contano altri fattori più difficilmente classificabili e rilevabili, come appunto la trasparenza informativa del mercato e la percezione soggettiva del grado d'interdipendenza. Come dice Fellner (v., 1949, pp. 14-15) la soglia che divide concorrenza da oligopolio dipende più da elementi mentali sfuggenti che da dati strutturali oggettivamente rilevabili.
3. Oligopoli non collusivi: il modello di Cournot di concorrenza fra pochi
Un punto di vista diverso sull'oligopolio, centrato sulla concorrenza invece che sulla tendenza a creare coalizioni, è quello classico formulato da Auguste Cournot, e sviluppato poi, fra gli altri, da Joseph Bertrand, Francis Y. Edgeworth, Heinrich von Stackelberg e gran parte della letteratura contemporanea sulle forme di mercato. A Cournot (v., 1838) si deve il primo tentativo nella storia dell'analisi economica di costruire una teoria dei mercati abbastanza generale e precisa da includere tutti i casi possibili in funzione dell'unico parametro N, numero dei produttori presenti. Il caso N=1 rappresenta il monopolio, N>1 la concorrenza, con caratteristiche che tendono a quelle di concorrenza piena ('indefinita') per N che tende a infinito. Si può quindi anche vedere la concorrenza come un caso che allo stato puro esiste solo idealmente come limite praticamente irraggiungibile, mentre l'oligopolio è il caso più generale, per il quale basta avere N finito e maggiore di 1. D'altra parte, accontentandosi di un'approssimazione di misura predefinita all'ideale concorrenziale, si potrà calcolare un numero intero N° finito, crescente al crescere del grado di approssimazione desiderato, tale che ogni N>N° definirà un mercato che, con quel grado di approssimazione, può essere ritenuto concorrenziale: lo spazio dell'oligopolio sarà allora dato da 1〈N≤N°. Esaminiamo più in dettaglio questa formulazione.
Cournot immagina una situazione molto stilizzata in cui un certo numero di imprese identiche per quanto riguarda la tecnologia (quindi i costi) producono un bene perfettamente omogeneo. La produzione non richiede costi fissi, né vi sono limiti alla capacità produttiva di ogni impresa. Cournot suppone anche che costi medi unitari e marginali siano nulli, ma non è necessario seguirlo in questa semplificazione: indicando con la variabile xi la produzione (offerta) di un generico produttore i, basterà supporre che i costi totali sostenuti da i in corrispondenza di qualunque livello di xi siano dati da cxi, dove la costante c≥0 (uguale per tutti i produttori) rappresenta il costo medio e marginale. Indicando il prezzo di vendita con la variabile p, l'espressione (p-c)xi rappresenta quindi i profitti totali per ogni livello di xi.
Ogni impresa può operare sul prezzo indipendentemente dalle altre per cercare di aggiustare a proprio vantaggio le vendite. Tuttavia, data l'assoluta omogeneità del prodotto, uno stato di equilibrio di questo ipotetico mercato non può ammettere differenze di prezzo. Le condizioni che definiscono l'equilibrio si riducono perciò alle due seguenti: a) che il prezzo sia unico e a un livello che garantisca l'eguaglianza fra la somma delle quantità offerte dalle imprese e la domanda per l'industria; b) che a nessun produttore convenga modificare quel prezzo, ovvero che le vendite che ognuno si aspetta di poter realizzare cambiando prezzo diano profitti minori o tutt'al più uguali a quelli correntemente realizzati.
Se indichiamo con X la somma delle quantità offerte da tutte le imprese, e con D(p) la funzione che indica la quantità domandata in corrispondenza di ogni prezzo p, la condizione (a) vuole D(p)=X; pertanto, la produzione di ogni generica impresa i deve soddisfare la condizione:
xi = D(p)-X-i
(dove xi sta per la produzione dell'impresa i, e X-i per la somma di tutte le offerte meno quella di i). Un particolare valore del prezzo, p*, e associato a questo un particolare valore dell'offerta complessiva, X*, costituiscono un equilibrio se la condizione (1) è soddisfatta per ogni impresa i, e se il profitto (p*-c)x*i che questa realizza è maggiore o uguale al profitto (p-c)xi che si aspetta di poter realizzare passando a un prezzo p diverso da p*. Ma su che base i può formarsi un'idea del livello di vendite xi che potrebbe realizzare a p≠p*? Anzitutto si può supporre che, qualunque sia p, il livello aggregato delle vendite sia sempre determinato dalla domanda di mercato, e quindi che i si aspetti che la condizione (1) debba comunque continuare a valere. L'effetto atteso di una variazione del prezzo da p* a p sarà allora misurato dalla differenza fra x*i=D(p*)-X*-i e xi=D(p)-X-i, ovvero da una differenza che dipende da come variano la domanda di mercato e l'offerta delle altre imprese in conseguenza del passaggio del prezzo da p* a p.
Nel definire l'equilibrio dobbiamo quindi tener conto di due elementi congetturali, relativi alla reattività della domanda e dell'offerta degli altri di fronte a variazioni di prezzo. Sul primo elemento congetturale, Cournot segue la tradizione esplicita o implicita di gran parte dell'analisi economica, attribuendo agli operatori economici una perfetta conoscenza dei caratteri strutturali dei mercati su cui operano: le aspettative di qualunque impresa sulla reazione del mercato a una variazione di prezzo coincidono con l'effettiva reattività della domanda al prezzo. È sul secondo elemento congetturale che Cournot introduce un'ipotesi originale, da cui dipendono tanto la definitezza che la discutibilità della sua teoria dei mercati. Quest'ipotesi vuole che ogni impresa si aspetti dalle altre un comportamento invariante al mutare del prezzo, per cui, se i prende l'iniziativa di offrire il proprio prodotto a un prezzo p diverso da p*, la sua previsione è che le altre imprese accetteranno il nuovo prezzo senza cambiare la quantità offerta, che resterà al livello precedente X*-i. L'effetto previsto di una variazione del prezzo da p* a p sulla quantità venduta dall'impresa che prende l'iniziativa sarebbe quindi misurato, secondo questa ipotesi, dalla sola differenza di quantità domandata, D(p)-D(p*).
L'ipotesi permette di dare una forma analitica esatta alla condizione (b) di equilibrio. Una situazione p*, in cui (1) sia soddisfatta per tutte le imprese, è di equilibrio se nessuna variazione di prezzo a partire da p* genera una variazione di domanda a partire da D(p*) che permetta a un'impresa che sfruttasse interamente tale variazione di domanda di realizzare profitti più alti. Supponendo per semplicità di esposizione che la funzione di domanda sia di tipo lineare, e indicando con b il coefficiente costante (positivo) che indica di quanto deve diminuire (aumentare) il prezzo perché la domanda assorba una unità in più (in meno) del prodotto, questa condizione prende la forma:
(p*- c) = bxi*. (2)
Dalla (2) discendono le caratteristiche salienti della relazione fra equilibrio di mercato e numero di imprese presenti. In primo luogo osserviamo che, essendo b positivo, la (2) implica che la differenza (p*-c) sia maggiore di zero. L'equilibrio di un mercato funzionante secondo le ipotesi di Cournot, a differenza dei mercati in concorrenza perfetta, è un equilibrio in cui le imprese realizzano profitti al di sopra dei costi. C'è pertanto anche una perdita di efficienza rispetto all'ideale di concorrenza perfetta, misurata dalla differenza fra prezzo e costo marginale. Osserviamo in secondo luogo che il primo membro della (2) è uguale per tutte le imprese; di conseguenza, anche il valore di x*i di equilibrio dev'essere uguale per tutte le imprese, ovvero x*i=X*/N=D(p*)/N. Ciò consente di riscrivere la condizione (2) in modo da utilizzare la nozione di elasticità della domanda. Questa, ricordiamo, è una misura (riferita a ogni punto della funzione di domanda) della variazione relativa di quantità domandata conseguente a una variazione relativa unitaria del prezzo: nel nostro caso, in cui fra variazioni di prezzo e variazioni di quantità il rapporto è costante e dato da b, l'elasticità è data dall'espressione e(p)=p/bX. Nell'equilibrio di Cournot, in particolare, abbiamo e(p*)=p*/Nbx*i=p*/N(p*-c), che ci permette di scrivere la (2) nella forma:
formula. (2*)
La (2*) mostra come nell'equilibrio di Cournot valga una relazione inversa fra il margine di profitto sul prezzo (il cosiddetto mark-up), da un lato, e il numero di imprese e l'elasticità della domanda in equilibrio, dall'altro. La condizione (2*) mette in evidenza anche l'analogia fra equilibrio di Cournot ed equilibrio di monopolio: per N=1, infatti, prezzo di Cournot e prezzo di monopolio coincidono. Sotto condizioni di regolarità della domanda abbastanza generali, si dimostra che al crescere di N il valore di equilibrio di p* deve necessariamente diminuire, e quindi che domanda e produzione aggregata di equilibrio crescono con N ma meno che proporzionalmente. Pertanto, la produzione di ogni impresa e il margine di profitto sul prezzo risultano funzioni decrescenti di N, con valore massimo in N=1 (monopolio), e limite 0 per N che tende a infinito.
È chiaro a questo punto perché Cournot intendesse la concorrenza perfetta come uno stato puramente ideale, che non si riscontra nella realtà ma è pensabile solo come limite. Per N→ ∞, il prezzo tende al costo medio e marginale, e la dimensione di ogni impresa tende asintoticamente a zero (per estensioni di questo risultato di convergenza a casi più generali v. Novshek, 1980). L'analisi di Cournot può essere utilizzata per calcolare il numero minimo di imprese che, nei limiti di un'approssimazione di misura predeterminata, permette di classificare un mercato come, a tutti gli effetti pratici, concorrenziale. Se conveniamo infatti di considerare praticamente trascurabile un margine di profitto sul prezzo che non superi un valore preassegnato ε>0, possiamo calcolare quel numero Nε tale che per qualunque intero N>Nε il corrispondente equilibrio di Cournot dà 1/[N e(p*)]>ε. Il valore trovato per Nε definisce quindi la soglia che divide i mercati oligopolistici da quelli che, a meno di un'approssimazione di misura ε, possiamo considerare competitivi."
4. Concorrenza, collusione e ruolo dei costi fissi
Forse proprio in virtù della sua semplicità didattica, il modello di Cournot rimane il principale punto di riferimento di tutte le successive teorizzazioni dell'oligopolio. Da un lato esso mette in luce una relazione fra numerosità dei produttori o concentrazione del mercato e prezzo-quantità di equilibrio che può essere estesa a situazioni più complesse e articolate. Dall'altro lato fa vedere che anche nella teorizzazione più elementare questa forma di mercato pone di fronte a un problema che è fonte di inesauribili difficoltà teoriche, quello della formazione delle aspettative delle imprese sul comportamento delle loro rivali. In questo capitolo illustreremo alcune estensioni possibili (per il problema delle aspettative v. oltre).
Osserviamo innanzitutto come il modello di Cournot consenta di rendere più definite quelle teorie, richiamate nel cap. 2, che vedono nell'oligopolio semplicemente una pre-condizione per la formazione di cartelli monopolistici. Come accennato sopra, l'idea che l'evoluzione più probabile delle situazioni oligopolistiche sia nel senso di un patto extra legem che rende praticamente indistinguibile oligopolio da monopolio, si basa sul presupposto che gli aderenti al patto siano in grado di sanzionarlo efficacemente scoprendo e punendo gli eventuali violatori. Se la sanzione più facilmente realizzabile alla violazione del patto sta nel passaggio a una situazione di concorrenza generalizzata, ecco che una teoria della concorrenza fra pochi è il necessario complemento di una teoria dell'oligopolio collusivo. Assumendo che il modello di Cournot dia una rappresentazione adeguata della concorrenza fra pochi, disponiamo di un'esatta misura quantitativa di quello che il violatore del patto si avvia a perdere, e possiamo conseguentemente anche valutare la 'forza' del patto. Si può dimostrare infatti che il profitto aggregato realizzato da N imprese in equilibrio di Cournot è anch'esso funzione decrescente di N, pertanto è massimo per N=1 (monopolio) e via via minore quanto più ci si avvicina a situazioni competitive. Allora, se N imprese si accordano per sospendere la concorrenza fra di loro e imporre al mercato il prezzo di monopolio, esiste certamente una regola di spartizione del profitto aggregato del cartello che attribuisce a ogni impresa più del profitto che guadagnerebbe nell'equilibrio di Cournot. Con una spartizione in parti uguali, per esempio, la misura della sanzione che attende l'eventuale violatore del patto di cartello sarebbe rappresentata dalla differenza fra 1/N del profitto di monopolio e il profitto individuale del corrispondente equilibrio di Cournot con N imprese.
Una seconda osservazione relativa ai possibili sviluppi ricavabili dal modello di Cournot riguarda il ruolo dei costi fissi nel processo concorrenziale. Un'implicazione certamente poco attendibile del modello è costituita dal fatto che, essendo il margine di profitto positivo per qualunque N finito, la tendenza a entrare sul mercato non si esaurirebbe mai, e correlativamente, in assenza di barriere all'entrata, la produzione di ogni singola impresa tenderebbe inarrestabilmente a zero. Questa conclusione è però un'illusione dovuta all'ipotesi semplificativa di assenza di costi fissi: se invece della funzione di costo utilizzata nel cap. 3 ne consideriamo una comprensiva di una componente fissa, per esempio la funzione k+cxi, le conclusioni cambiano radicalmente. In corrispondenza di ogni livello di prezzo al di sopra di c si ha ora un livello minimo di produzione, definito da k/(p-c), sotto il quale un'impresa avrebbe dei costi scoperti e non potrebbe quindi alla lunga sopravvivere. Vi è allora un numero massimo di imprese che per ogni valore di p il mercato può accogliere, dato dal massimo numero intero minore o uguale di (p-c)D(p)/k. Si può dimostrare che per tutti i prezzi che stanno fra c e il prezzo di monopolio (quindi nell'intervallo in cui necessariamente vengono a trovarsi i prezzi di equilibrio di Cournot) questo massimo numero di imprese accoglibili diminuisce al diminuire di p. Se con pN indichiamo il prezzo di equilibrio di Cournot su un mercato con N imprese, e se N è minore di (pN-c)D(pN)/k, allora ogni impresa copre i suoi costi con un profitto, per cui, in assenza di barriere all'entrata, N tenderà ad aumentare. Al crescere di N tuttavia il prezzo di equilibrio pN diminuisce, e così anche il massimo numero di imprese accoglibili. Numero effettivo e numero massimo di imprese accoglibili convergono quindi l'uno verso l'altro, cosicché il processo di entrata è destinato a incontrare un punto di arresto. Questo punto di arresto, chiamiamolo Nk, è rappresentato da un numero intero non maggiore del massimo numero di imprese accoglibili al prezzo corrispondente pk, e tale che, se una nuova impresa entrasse sul mercato portando la popolazione a Nk+1, la conseguente discesa del prezzo di equilibrio porterebbe il massimo numero di imprese accoglibili al di sotto di Nk+1. Raggiunto Nk ogni incentivo all'entrata cade. In presenza di costi fissi il limite al processo di entrata è quindi finito, e così anche la corrispondente produzione individuale di equilibrio, che si assesta al livello k/(pk-c) o di poco superiore. Questo limite finito rappresenta ora non più un'approssimazione, ma l'esatta realizzazione di una situazione di equilibrio competitivo. È facile vedere che Nk è tanto più piccolo quanto più alto è k, cioè che il grado di concentrazione compatibile con un mercato concorrenziale è in relazione diretta con l'altezza dei costi fissi. Qualunque equilibrio con N〈Nk sarebbe oligopolistico, ma potrebbe sussistere solo in quanto vi siano barriere capaci di bloccare nuove entrate prima che sia raggiunto il massimo numero di imprese accoglibili. Ma allora un oligopolio con costi fissi presuppone una qualche forma di collusione fra le imprese che occupano il mercato contro le imprese potenziali entranti. Torneremo su questo problema più avanti (v. cap. 8).
5. Concorrenza asimmetrica fra oligopolisti: i ruoli di leader e follower
Un modo oggi molto diffuso di presentare le conclusioni di Cournot utilizza il concetto di 'funzione di reazione'. Si può caratterizzare infatti il comportamento dei produttori nell'oligopolio di Cournot come un comportamento che risponde a un principio di adattamento passivo alle scelte degli altri: per ogni possibile livello di X-i, il produttore i adotta quel livello di produzione xi che, tenendo conto dell'effetto della sua decisione sul prezzo di mercato comune a tutti, gli permette di raggiungere il massimo profitto possibile. Questa regola di comportamento può quindi venir rappresentata mediante una funzione, detta appunto 'funzione di reazione', che va da X-i a xi, e che incorpora il principio di massimizzazione del profitto condizionatamente al livello di produzione scelto dalle altre imprese. Ogni punto della funzione di reazione di una generica impresa i è una possibile situazione di equilibrio per quell'impresa. Il mercato è in equilibrio quando tutte le imprese sono in equilibrio, cioè quando le quantità prodotte sono tali che ogni impresa massimizza il profitto date le produzioni delle altre. In questa rappresentazione un equilibrio di Cournot corrisponde quindi a un punto d'intersezione delle funzioni di reazione di tutte le imprese.
Per fissare le idee, poniamo che ci siano solo due imprese (duopolio), che chiameremo 1 e 2, e manteniamo ferme tutte le altre ipotesi fatte nel cap. 3. Ogni impresa i (i=1, oppure 2) ha quindi costi dati da cxi; e se X=x₁+x₂ è la quantità complessivamente prodotta dalle due imprese, il prezzo a cui la domanda di mercato la assorbe è tanto più basso quanto maggiore è X. Sotto queste condizioni si può dimostrare che la quantità ottimale per ogni produttore è funzione decrescente della quantità prodotta dall'altro. Sia xi=Ri(xj) la forma generica di questa funzione, dove i indica uno qualunque dei due produttori, 1 o 2, e j l'altro. Il valore massimo di xi, coincidente con la produzione ottima di un monopolista, si ha quando xj è uguale a zero; mentre xi raggiunge il minimo valore (zero) quando xj è sufficiente o più che sufficiente a saturare l'intera domanda di mercato al prezzo p=c. Inoltre, lungo la funzione di reazione il profitto di i cresce con continuità al crescere di xi, partendo da zero (per xi=0) fino a raggiungere il livello di monopolio, e corrispondentemente al decrescere di xj dal livello di saturazione della domanda fino a zero. Disponendo della coppia di funzioni di reazione dei due produttori, x₁=R₁(x₂) e x₂=R₂(x₁), le quantità di equilibrio di Cournot, x*₁ e x*₂, si possono calcolare come soluzione di un sistema di due equazioni a due incognite.
La presenza di costi fissi (k) non modifica la formulazione delle funzioni di reazione come sopra indicata, ma modifica l'ammontare del profitto associato a ogni livello produttivo. Ciò significa, in particolare, che il livello di produzione relativo a un valore nullo dei profitti non è più xi=0 (se l'impresa i non producesse niente, subirebbe ora una perdita pari a k), ma, come abbiamo visto nel cap. 4, un livello positivo dato da k/(p-c). Corrispondentemente, la produzione del rivale j che, come risultato ottimale, consente a i di realizzare profitti nulli, non è più la produzione che satura la domanda al prezzo p=c, ma un livello minore, ed esattamente quel livello, che chiameremo x°j, in corrispondenza del quale Ri(xj)=k/(p-c). Possiamo interpretare x°j come il livello di produzione che consente a j di escludere i dal mercato. Infatti, se in un'ottica di lungo periodo a ogni impresa è aperta l'opzione di uscire dall'industria (cioè di produrre zero senza perdite), la funzione di reazione di i presenterà una discontinuità in corrispondenza di x°j: non appena la produzione di j supera questo livello, la produzione più conveniente di i passa da valori positivi a zero. La sua funzione di reazione in presenza di costi fissi sarà quindi definita da:
xi = Ri(xj) per xj<xj°,
xi = 0 per xj≥xj°
(supponendo che con profitto zero i decida di uscire dall'industria).
Questa riformulazione del modello di Cournot ci è utile per introdurre la critica e la nuova proposta di soluzione avanzate da Stackelberg sin dagli anni trenta di questo secolo (v. Stackelberg, 1933 e 1943). Stackelberg partiva dalla considerazione che non c'è ragione di supporre che tutte le imprese in un mercato oligopolistico abbiano il comportamento passivo o, secondo la terminologia che si è poi imposta, da follower, implicito nella soluzione di Cournot. La proposta di Stackelberg consiste nell'ipotizzare un'asimmetria di comportamento per cui uno dei produttori, sapendo che i rivali si comporteranno da follower, produce la quantità che massimizza il suo profitto tenendo conto dell'adattamento degli altri, cioè prevedendo che comunque i suoi rivali faranno in modo da trovarsi sulle loro funzioni di reazione. Il produttore che sfrutta la passività degli altri è caratterizzato come il leader del mercato. Nel caso di duopolio, è facile capire in che modo la soluzione di Stackelberg differisce da quella di Cournot. Il leader, mettiamo per ipotesi che sia 1, sa che il follower (in questo caso 2) riduce x₂ al crescere di x₁ nella misura indicata da R₂(x₁): non ha convenienza quindi a fissare la sua produzione al livello x*₁ corrispondente all'equilibrio di Cournot, perché con produzione maggiore di quella costringerà 2 a produrre meno del livello di Cournot x*₂. L'equilibrio finale sarà quindi asimmetrico, e caratterizzato, rispetto all'equilibrio di Cournot, da x₁>x*₁, e x₂=R₂(x₁)>x*₂. Leader ha maggiori profitti, e follower minori, rispetto ai profitti realizzati nell'equilibrio di Cournot.
È interessante chiedersi quale può essere la soluzione di Stackelberg in presenza di costi fissi. In quel caso, come abbiamo visto, la funzione di reazione del follower presenta una discontinuità in corrispondenza della produzione x°₁ del leader che azzera i suoi profitti. Si tratta di vedere se al leader conviene lasciare il follower sul mercato, producendo meno di x°₁, oppure escluderlo con una produzione x₁≥x°₁, trasformando il duopolio in monopolio. È chiaro che, se la produzione di equilibrio monopolistico è maggiore o uguale a x°₁, la soluzione più conveniente per il produttore 1 consiste nell'escludere 2, ed equilibrio di Stackelberg ed equilibrio di monopolio coincidono. Se invece la produzione di equilibrio monopolistico è minore di x°₁, l'alternativa si restringe al confronto fra produrre x〈FO>₁° restando l'unico produttore sul mercato, o produrre quel livello x₁〈x°₁ che massimizza il profitto di 1 sul tratto positivo della funzione di reazione di 2, adattandosi a essere leader di un mercato duopolistico. Se risulta più conveniente la prima opzione, abbiamo di nuovo un risultato di monopolio, ma questa volta con un livello di produzione maggiore e un prezzo minore, rispetto a quelli di equilibrio monopolistico.
Va osservato che la proposta di Stackelberg fornisce una soluzione significativa per il duopolio purché le due imprese abbiano valide ragioni per adottare stabilmente i rispettivi ruoli di leader e follower. Stackelberg riconosce che non è possibile trovare tali ragioni nel principio della massimizzazione del profitto (dato che il leader ottiene profitti maggiori del follower, ogni produttore vorrebbe assumere il ruolo di leader e nessuno quello di follower), e indica la necessità che altri fattori supplementari intervengano (v. Stackelberg, 1943). In modo esplicito, la scelta dei ruoli dev'essere fondata su asimmetrie relative a un diverso 'potere' (in senso generale) dei due produttori. Così sceglie di essere leader chi, per un superiore potere complessivo, è certo di uscire vincente nel caso si scatenasse un conflitto per il dominio del mercato: l'altro, consapevole di questo, accetta di conseguenza di adattarsi alle decisioni del leader, senza poter mai mettere in discussione la propria posizione.
Questo tipo di asimmetria, peraltro, non troverebbe fondamento negli elementi presenti nel nostro modello di riferimento: questo prevede, infatti, che i produttori abbiano le stesse condizioni di costo, il prodotto sia perfettamente omogeneo e i compratori perfettamente informati. L'asimmetria dei ruoli rimanda quindi a un'asimmetria più profonda - vuoi nell"avviamento' commerciale, vuoi nella capacità di finanziarsi - che per essere trattata in modo più adeguato richiederebbe il ricorso a modelli più sofisticati. Basti qui aver accennato che l'accettazione della posizione di Stackelberg sul fondamento dell'asimmetria dei ruoli presenta delicati problemi di rapporto tra il modello formale di riferimento e le ipotesi strutturali poste preliminarmente (v. anche cap. 8).
6. Concorrenza di prezzo al ribasso
Abbiamo detto sopra che uno dei pregi del modello di Cournot è di far risaltare con il massimo di semplicità il problema inevitabile di qualunque tentativo di teorizzare l'oligopolio, cioè il problema delle congetture delle imprese sulla reazione delle altre a un mutamento nella propria linea di condotta. L'ipotesi elaborata da Cournot, secondo cui l'aspettativa prevalente è che gli altri non modifichino le quantità offerte anche in seguito a una variazione del proprio prezzo di vendita, è importante non perché sia più plausibile di altre ipotesi possibili (anzi, lo è forse di meno), quanto perché mostra che basta cambiare quest'ipotesi, non importa come, perché tutte le caratteristiche dell'equilibrio cambino anch'esse, e in modo radicale. In altri termini, la teoria di Cournot mette in evidenza che i livelli di prezzo e produzione sui mercati oligopolistici sono condizionati in grado estremo dalle aspettative prevalenti fra gli operatori sul comportamento dei loro rivali.
Il modello di Stackelberg visto nel capitolo precedente è un esempio di come sia sufficiente che un solo produttore, il leader, abbia aspettative diverse da quelle ipotizzate da Cournot, perché l'equilibrio assuma caratteristiche completamente diverse, pur essendo le aspettative dei followers conformi all'ipotesi di Cournot. Ma una dimostrazione ancora più impressionante dell'importanza delle ipotesi sulle aspettative viene da una famosa obiezione mossa da Bertrand (v., 1883) a Cournot. Aspettarsi che la produzione dei rivali non reagisca a variazioni di prezzo, notava Bertrand, non riflette la nozione corrente di concorrenza (fra produttori di beni omogenei) come corsa al ribasso dei prezzi per conquistare quote di mercato a proprio vantaggio: più conforme a questa nozione sarebbe invece l'ipotesi che un'impresa che alzi o abbassi il proprio prezzo rispetto a quello dei rivali si aspetti che le loro vendite aumentino o diminuiscano di conseguenza. Se poi, più in particolare, prevale l'aspettativa che la domanda di mercato si rivolga interamente a coloro che praticano il prezzo più basso, lasciando senza clientela le imprese che mantengono il loro prezzo al di sopra, allora, concludeva Bertrand, qualunque sia il numero di imprese presenti sul mercato (purché maggiore di uno), non c'è altro equilibrio possibile che a un prezzo uguale al costo per unità prodotta, come in un mercato di concorrenza perfetta (p=c nei termini del modello di Cournot del cap. 3).
Ci si può convincere della necessità logica della conclusione di Bertrand attraverso il ragionamento seguente. Valgano tutte le ipotesi del modello di Cournot del cap. 3, salvo quella che postula X-i costante in seguito a variazioni di prezzo dell'impresa i. Se la domanda si distribuisce tutta in ugual misura fra le imprese che praticano il prezzo più basso, una generica impresa i che cerca di individuare qual è il prezzo che più le conviene applicare baserà le sue aspettative sul più basso dei prezzi applicati dalle altre imprese, chiamiamolo pinf-i. Per pi maggiore o minore di pinf-i l'aspettativa di i sarà, rispettivamente, X-i=D(pinf-i) e xi=0, oppure X-i=0 e xi=D(pi); mentre per pi=pinf-i sarà xi=αD(pinf-i), dove α, frazione di domanda che si rivolge a i, sarà compresa fra un massimo di 1/2 (se solo un'altra impresa applica pinf-i) e un minimo di 1/N (se tutte le altre N-1 imprese applicano pinf-i). Con aspettative di questo tipo si vede subito che, per pinf-i maggiore di c, non conviene mai tenersi al di sopra del minimo prezzo degli altri, perché si avrebbe un profitto nullo quando qualunque prezzo pi compreso fra pinf-i e c darebbe profitti positivi. Con un po' più di riflessione, si vede anche che in un caso del genere nemmeno la scelta pi=pinf-i sarebbe la più conveniente: infatti, passando a un livello di prezzo inferiore (e maggiore di c) le vendite aumentano da αD(pinf-i) a D(pi), con aumento dei ricavi maggiore dell'aumento dei costi (questo è immediatamente ovvio quando pinf-i è maggiore del prezzo di monopolio; ma anche quando è uguale o minore, esiste sempre uno sconto rispetto a pinf-i abbastanza piccolo da garantire questo risultato). In conclusione, finché il minimo prezzo applicato sul mercato è maggiore di c, l'obiettivo di ogni impresa sarà quello di applicare il prezzo più basso di tutti; ma dato che questo obiettivo non può esser realizzato contemporaneamente da tutte le imprese, ne segue che non può esserci equilibrio con prezzi al di sopra di c. Escluso inoltre che si possa avere equilibrio con prezzi al di sotto di c (le imprese che li applicano sarebbero in perdita e avrebbero convenienza ad alzare il prezzo o a uscire dal mercato), l'unica possibilità di equilibrio resta in p=c. Che questa sia effettivamente una situazione di equilibrio si capisce dalla constatazione che con prezzi al livello di costo il massimo livello di profitto realizzabile da un'impresa è comunque zero, sia che l'impresa applichi un prezzo pari a c e venda quello che la sua quota di domanda le consente, sia che applichi un prezzo maggiore di c e non venda niente (il che, in assenza di costi fissi, equivale a uscire dal mercato). Prezzi più bassi di c porterebbero in perdita, per cui nessuna delle imprese presenti sul mercato può avere interesse a differenziare il proprio prezzo dalle altre.
L'aspetto forse più paradossale di questo equilibrio (che chiameremo equilibrio di Bertrand, benché più precisamente si tratti di un equilibrio del modello di Cournot sotto l'ipotesi di Bertrand sulle aspettative delle imprese) è dato dalla sua indipendenza dal numero di imprese esistenti, purché maggiore di uno: basta che il mercato passi da una situazione di monopolio a una in cui sono presenti almeno due imprese perché il prezzo di equilibrio precipiti dal livello di monopolio al livello di concorrenza perfetta, come se il grado di concentrazione fosse del tutto irrilevante. Dal punto di vista della teoria dei prezzi, quindi, l'ipotesi di Bertrand sulle aspettative porta a eliminare l'oligopolio come forma di mercato distinta, intermedia fra il monopolio e la concorrenza.
Ancora più sconcertante è il fatto che un risultato così paradossale discenda da un'ipotesi che appare più vicina al senso comune di quanto lo fosse quella di Cournot. Nonostante la sua apparente ragionevolezza, l'ipotesi di Bertrand produce altre implicazioni paradossali, fra cui notevoli sono quelle di non esistenza di prezzi di equilibrio in situazioni in cui l'ipotesi di Cournot porta invece a risultati perfettamente sensati. Riconsideriamo per esempio il caso di produzione con costi fissi, già esaminato nel cap. 4 sotto l'ipotesi di Cournot. Sotto l'ipotesi di Bertrand, la presenza di costi fissi non cambia il fatto che, finché il minimo prezzo applicato dagli altri è maggiore di c, a ognuno conviene applicare un prezzo ancora più basso. Resta vero quindi che non può esserci equilibrio con p>c. D'altra parte nemmeno p=c può ora essere un equilibrio, perché i costi fissi resterebbero scoperti e l'opzione più vantaggiosa per ogni impresa sarebbe quella di uscire dal mercato. La compresenza di costi fissi e aspettative secondo l'ipotesi di Bertrand può risultare quindi incompatibile con l'esistenza di una situazione di equilibrio di mercato.
Un secondo caso notevole di inesistenza di equilibrio di Bertrand è quello, messo in luce da Edgeworth (v., 1897), in cui le imprese, pur avendo costi del tipo cxi, hanno un limite di capacità produttiva che vincola la loro offerta al di sotto di un massimo, indichiamolo con x+, di prodotto possibile. Si supponga che questo limite di capacità, e il numero N di imprese esistenti, siano tali che, a prezzo di costo p=c, la produzione massima di tutte le imprese meno una non basti a soddisfare la domanda, cioè che D(c)>(N-1)x+. Ogni impresa ha allora la certezza di poter agire da monopolista su una frazione di domanda residua data, al minimo, da D(p)-(N-1)x+, e positiva per un intervallo di prezzi al di sopra di c. Siano pm>c, e xm>x+, il prezzo e la produzione di equilibrio di questo monopolio 'residuale' (l'ipotesi xm〈x+ indica che la frazione di domanda residua non deve essere molto più grande di x+). Le scelte più convenienti per ogni impresa i, a questo punto, possono presentarsi solo in uno dei due modi seguenti: o applicare un prezzo appena inferiore al minimo prezzo applicato dalle altre imprese (pinf-i) e utilizzare tutta la capacità produttiva disponibile x+; o applicare il prezzo pm e utilizzare la capacità solo parzialmente fino alla produzione xm. Il primo caso si ha quando pinf-i si colloca in un intervallo che include pm ed è delimitato in basso da un prezzo, chiamiamolo p´, che sta fra pm e c; il secondo caso si ha quando pinf-i è minore di p´. In entrambi i casi conformarsi al prezzo degli altri non risulta mai la scelta migliore; non esiste quindi nessun livello di prezzo di mercato (nemmeno c) dal quale non ci sia convenienza individuale a deviare. Abbiamo qui un altro esempio, dovuto alla presenza di limiti alla capacità produttiva individuale, di incompatibilità fra l'ipotesi di Bertrand e l'esistenza di un equilibrio di mercato. Sotto l'ipotesi di Cournot, un caso del genere ammetterebbe invece comunque un equilibrio, a un prezzo dato dal maggiore fra il prezzo che soddisfa la condizione (2*) del cap. 3 e il prezzo in corrispondenza del quale la domanda eguaglia la produzione ottenibile con il pieno utilizzo della capacità, Nx+.
7. Il problema delle aspettative e il contributo della teoria dei giochi
Paradossi di Bertrand a parte, il problema rimane quello della impossibilità di teorizzare il comportamento di un mercato oligopolistico utilizzando informazioni solamente strutturali, relative a costi, domanda e numero di imprese, senza includere nella teoria anche elementi di difficile definizione quali quelli che stanno dietro la formazione delle aspettative. D'altra parte, un semplice esercizio analitico sull'equilibrio di Cournot (suggerito da un celebre spunto di Bowley: v., 1924, p. 38) mostra che, se si dovesse ritenere in linea di principio accettabile qualunque ipotesi sulle aspettative, il risultato sarebbe l'assoluta vacuità della teoria dell'oligopolio: infatti, qualunque prezzo compreso nell'intervallo fra c e il massimo prezzo accettabile per i compratori (che indicheremo con pa, il prezzo in corrispondenza del quale la domanda di mercato si azzera) può essere razionalizzato come prezzo di equilibrio oligopolistico per qualunque N maggiore di 1, purché si faccia l'ipotesi appropriata sulle congetture delle imprese circa le reazioni dei rivali a mutamenti della loro linea di condotta.
Per illustrare quanto ora affermato, indichiamo con v la variazione nella quantità X-i offerta dai rivali che la generica impresa i si aspetta in conseguenza di ogni lira di scarto in più o in meno del proprio prezzo da quello applicato dagli altri. Per semplicità, assumeremo che v sia costante e uguale per tutte le imprese. È chiaro che l'ipotesi di Cournot corrisponde a v=0, mentre assumere v≠0 significa assumere che ogni impresa si aspetta che le altre reagiranno a ogni sua variazione di prezzo, o in modo tale da far variare le loro vendite in direzione opposta alle proprie (v>0), o in modo da farle variare nella stessa direzione (v>0). In ogni caso, tenendo ferme tutte le altre ipotesi fatte nel cap. 3 (in particolare, continuando a indicare con b la diminuzione o l'aumento di prezzo corrispondente a un aumento o diminuzione unitari di quantità domandata), la condizione di equilibrio (2*) del modello di Cournot diventa ora:
formula. (3)
Qualunque sia N, purché maggiore di uno, si può dimostrare che il prezzo p* che soddisfa la condizione (3) diminuisce con continuità al crescere di v, coprendo un campo di variazione che va dal valore massimo pa (per v=-1/b) al valore minimo c (che è il limite di p* per v che tende a +'). In particolare, p* corrisponde al prezzo di Cournot per v=0, a prezzi maggiori di quello di Cournot (incluso il prezzo di monopolio) per v negativo, a prezzi minori per v positivo.
Singolare è anche il caso di congetture che assegnano a v segno diverso a seconda che la variazione di prezzo considerata sia verso l'alto o verso il basso. Una congettura che può avere una sua plausibilità, per esempio, è che un'impresa si aspetti che, di fronte a un suo aumento di prezzo, le altre imprese non la seguiranno e quindi aumenteranno le quantità; di fronte a una sua diminuzione, le altre la seguiranno aumentando anche in questo caso le quantità (v. Sweezy, 1939; v. Hall e Hitch, 1939). Per caratterizzare questo tipo di aspettative dobbiamo allora considerare una coppia di valori di v, uno positivo, v+, che vale per aumenti di prezzo, e uno negativo, v-, per diminuzioni. Indicando con p+ il prezzo che soddisfa la condizione (3) per v=v+, e con p- quello che la soddisfa per v=v-, si dimostra che p+〈p-, e che qualunque prezzo compreso nell'intervallo fra i due è un prezzo di equilibrio. Con questo tipo di aspettative, quindi, non solo ogni prezzo può essere di equilibrio, ma ogni equilibrio può non selezionare un unico prezzo bensì un intero intervallo: se possibile, si aggiunge così indeterminazione a indeterminazione.Il punto dell'esercizio è di mettere in evidenza la necessità di una teoria delle aspettative per completare la teoria dell'oligopolio: se vogliamo evitare conclusioni vuote, del tipo 'sui mercati oligopolistici tutto è possibile', dobbiamo proporre qualche criterio di discriminazione economicamente fondato fra tipi diversi di aspettative. Questa è forse la principale esigenza che ha generato gli sviluppi più recenti della teoria dell'oligopolio attraverso l'applicazione di concetti e strumenti mutuati dalla teoria dei giochi: una tendenza che non tutti trovano convincente (v., per esempio, Sylos Labini, 1982, p. 46), ma che certamente ha dominato la letteratura sull'oligopolio degli ultimi anni (v., fra gli altri, Shubik, 1959 e 1980; v. Tirole, 1988; v. Shapiro, 1989; v. Polo, 1993).
Non è questo il luogo per richiamare i concetti fondamentali della teoria dei giochi. Ci serve solo ricordare che questa fornisce metodi per analizzare situazioni decisionali (dette 'giochi') caratterizzate dalla interazione fra i decisori, cioè dal fatto che gli esiti della decisione di ogni individuo coinvolto dipendono anche dalle decisioni di altri. In un gioco sorgono facilmente circolarità del tipo: quale sia la linea di condotta che a me conviene di più dipende dalla linea di condotta che altri decidono di seguire, ma quale sia la linea di condotta che a loro più conviene dipende a sua volta da quella che io decido di seguire, per cui un'aspettativa che giustifichi la mia decisione dev'essere un'aspettativa sull'aspettativa degli altri intorno alla mia decisione, e questo ragionamento ricorsivo può essere iterato all'infinito. Un mercato oligopolistico, come abbiamo visto, presenta tipicamente casi del genere. L'ipotesi base del ragionamento economico, l'ipotesi cioè che gli agenti siano decisori razionali, se è fatta propria dagli agenti economici stessi, implica la suddetta circolarità: ciò che ogni imprenditore economicamente razionale in oligopolio si aspetta dagli altri dev'essere coerente con l'ipotesi che gli altri siano tanto razionali quanto lui, quindi a loro volta impegnati a formarsi aspettative su di lui coerenti con la sua razionalità, cioè aspettative sulle sue aspettative sulle loro, e così via.Una soluzione semplice e unitaria di questo problema di aspettative ricorsive viene proposta dalla teoria dei giochi attraverso il concetto di equilibrio di Nash. Per ricordare, si definisce equilibrio di Nash di una situazione interattiva che coinvolge un qualunque numero N>1 di individui una N-pla di comportamenti che ex post, cioè sapendo come sono andate le cose, nessuno ha motivo di rimpiangere o di cambiare. Rispetto al regresso infinito delle aspettative sulle aspettative, un equilibrio di Nash si può pensare come un corto circuito: se ognuno si aspetta che gli altri si aspettino un equilibrio di Nash, la miglior cosa da fare per ognuno è aderire a quell'equilibrio di Nash, giustificando così l'aspettativa degli altri e pertanto anche la propria. È facile vedere infatti che solo l'aspettativa di un equilibrio di Nash può essere simultaneamente giustificata per tutti.
Le applicazioni della nozione di equilibrio di Nash a situazioni oligopolistiche permettono di ritrovare le soluzioni teoriche classiche discusse sopra come casi particolari. La presentazione del modello di Cournot in termini di funzioni di reazione (v. cap. 5), per esempio, mostra chiaramente che l'equilibrio di quel modello non è altro che l'equilibrio di Nash in un gioco i cui giocatori si identificano con oligopolisti ognuno dei quali deve scegliere un livello di produzione ignorando quali sono i livelli di produzione scelti dai rivali, ma conoscendo la propria funzione di costo e la funzione di domanda di mercato, e sapendo che gli altri devono risolvere un analogo problema di scelta. Se invece, nelle stesse ipotesi sull'informazione, si modifica il gioco considerando come oggetto di scelta non il livello di produzione ma il livello di prezzo che ognuno stabilisce per il proprio prodotto, l'equilibrio di Nash del gioco così ridefinito coincide con l'equilibrio di Bertrand. L'equilibrio di Stackelberg infine coincide con l'equilibrio di Nash in un gioco in cui un giocatore (leader) sceglie il suo livello di produzione prima che l'altro (follower) faccia la sua scelta; quando il secondo deve prendere la sua decisione, la scelta del primo gli è nota, per cui le alternative fra cui sceglie non sono più livelli di produzione come tali, ma regole che indicano, per ogni possibile informazione sul livello di produzione del leader, una e una sola produzione del follower. La funzione di reazione rappresenta con certezza la miglior regola possibile, quindi è anche la decisione di equilibrio del follower, mentre la decisione di equilibrio del leader è rappresentata dal livello di produzione che massimizza i suoi profitti dentro la funzione di reazione del follower. Con tecnica analoga si possono costruire anche modelli leader/follower giocati, invece che in variabili di quantità, nella variabile prezzo: questi risultano particolarmente significativi per illustrare la possibilità di arrivare a una collusione tacita fra oligopolisti sotto forma di leadership di prezzo (v. D'Aspremont e Gabszewicz, 1986).
Ci sono altre modificazioni dell'oggetto di scelta e della struttura informativa del gioco oligopolistico di base che permettono di razionalizzare la collusione fra oligopolisti come equilibrio di Nash (v. Friedman, 1971; v. Shapiro, 1989, cap. 3). Per esempio, considerando che un oligopolio è uno stato di cose che dura nel tempo, per cui l'oggetto di decisione è non un livello (di produzione o di prezzo) ma una serie di livelli, ognuno dei quali viene scelto conoscendo del tutto o in parte le scelte fatte dagli altri in passato, si può definire l'oggetto di scelta delle imprese stabilmente coinvolte come una regola che associa a ogni possibile stato dell'informazione sul passato il livello (della variabile di quantità o di prezzo che si ritiene rilevante) che si vuol realizzare nel presente. Un equilibrio di Nash è allora una N-pla di regole del genere caratterizzata dalla proprietà che a nessuno conviene cambiare individualmente la propria regola, date le regole adottate dagli altri. Il mantenimento di un cartello monopolistico fra oligopolisti può così essere spiegato come un equilibrio di Nash fatto di regole di comportamento del tipo: se gli altri aderiscono al patto di cartello, limitando la loro produzione a una quota preassegnata della produzione di monopolio, anch'io aderisco al patto rispettando la mia quota; ma se mi giunge notizia che qualcuno ha trasgredito al patto, anch'io faccio altrettanto producendo di più della mia quota. Viceversa, l'esito non collusivo di una situazione oligopolistica può essere spiegato dall'impossibilità in quella situazione (per esempio, a causa di una struttura informativa non abbastanza trasparente, o di un insufficiente potere deterrente di qualunque rappresaglia credibile nei confronti del potenziale violatore del patto) di trovare una N-pla di regole di comportamento che comportino come equilibrio di Nash il rispetto degli accordi. Queste modellizzazioni, fra l'altro, confermano l'intuizione originaria di Stigler (v., 1964), che il problema dell'oligopolio collusivo sia essenzialmente un problema di teoria dell'informazione; e mettono in evidenza un paradosso rilevante per la definizione di politiche antitrust per i mercati oligopolistici: cioè, quanto più un mercato si avvicina alla condizione di trasparenza informativa propria della concorrenza perfetta, tanto più la situazione è favorevole al mantenimento di accordi collusivi fra i produttori (v. Shapiro, 1989, p. 357; v. Osti, 1995, cap. 4).
Com'è chiaro da questi cenni, l'applicazione della teoria dei giochi all'oligopolio non elimina affatto la molteplicità degli esiti possibili: anzi, è stato detto che "virtualmente, per ogni pratica industriale, c'è un modello di gioco che la razionalizza come equilibrio" (v. Porter, 1991). Il contributo della teoria dei giochi sta principalmente nel fornire una struttura teorica unificata che a partire da una stessa ipotesi di aspettative razionali, quindi non arbitrarie, genera soluzioni diverse a seconda delle diverse strutture decisionali e informative che possono caratterizzare i mercati. Mette quindi in luce, e consente di trattare teoricamente, accanto alle determinanti strutturali classiche dell'economia industriale (tecnologia, domanda e grado di concentrazione) nuove determinanti non strutturali in senso classico, ma di almeno altrettanta importanza: fra queste, i canali disponibili per raccogliere informazioni sulle caratteristiche e i comportamenti dei rivali, e tutti quei fattori che possono orientare le imprese o verso i prezzi o verso le quantità come variabili strategiche.
8. Le barriere all'entrata
Vale la pena a questo punto accennare a un tentativo che è stato presentato dai suoi autori come una soluzione del problema dell'oligopolio, soluzione che, al contrario di tutte quelle esaminate sinora, eviterebbe di dare una posizione centrale alle ipotesi sulle aspettative. Si tratta del modello di barriera di prezzo all'entrata, o più esattamente il modello del 'prezzo limite', che definisce al tempo stesso le caratteristiche della concorrenza fra oligopolisti e le condizioni di permanenza nel tempo di una struttura oligopolistica del mercato. Tale modello afferma nella sostanza che la configurazione di equilibrio per un mercato oligopolistico viene individuata dal prezzo più alto ('prezzo limite') - e dalla corrispondente quantità sulla funzione di domanda per l'industria - tra quanti rendono non conveniente l'entrata per un produttore potenziale che si proponga di aggiungere il proprio output a quello già sul mercato.
Il riferimento significativo è Joe S. Bain (v., 1949), che vanta una chiara priorità per l'impostazione del modello; poi Paolo Sylos Labini (v., 1957) e Franco Modigliani (v., 1958 e 1959). Questi autori, e in particolare gli ultimi due, hanno presentato il modello del prezzo limite come un modello basato su elementi esclusivamente 'oggettivi' - funzione industriale di domanda e funzioni di costo dei produttori (inclusive di costi fissi) - capace di percorrere una via diversa rispetto a quella fondata sulla considerazione delle aspettative. Pur costituendo tale modello uno dei fondamenti del programma di ricerca in economia industriale basato sulla connessione struttura-comportamento-performance, per lungo tempo la sua struttura logica non è stata sottoposta ad analisi (tra le poche eccezioni, v. Bianchi, 1974 e 1980); questo fino all'articolo di Avinash Dixit (v., 1979) che ha permesso di ricondurre il modello del prezzo limite entro la cornice del modello di duopolio di Stackelberg, e quindi entro una ben precisa struttura decisionale e informativa.Nel modello del prezzo limite l'accento viene posto non tanto sulla concorrenza tra i produttori esistenti (in numero limitato, e quindi di grandi dimensioni rispe
tto alla dimensione del mercato), per i quali anzi si fa un'ipotesi di collusione perfetta, quanto sulla concorrenza tra il gruppo dei produttori esistenti e i produttori potenziali. Mentre l'ipotesi di collusione perfetta risolve, eliminandolo, il problema della interdipendenza tra i produttori già presenti sul mercato, la considerazione della concorrenza potenziale riapre un problema di interdipendenza, questa volta tra un produttore potenziale e il gruppo degli oligopolisti in collusione (che può ora esser considerato come un unico soggetto). Il rapporto tra questi due soggetti viene strutturato negli stessi termini nei quali è formalizzato nel modello di Stackelberg il rapporto tra leader e follower. Il potenziale entrante (follower) massimizza il suo profitto data la produzione del gruppo delle imprese già attive; si muove, cioè, all'interno della propria funzione di reazione. Quest'ultima, data la presenza di costi fissi e l'ottica di lungo periodo entro cui il modello si colloca, presenta la discontinuità di cui abbiamo già parlato nel cap. 5: per livelli di produzione del leader superiori o eguali alla 'quantità limite' (da noi indicata con x° nel cap. 5), la scelta ottimale del follower è di produrre zero, non entrando nel mercato. A sua volta il leader, già presente sul mercato, massimizza i suoi profitti tenendo conto della funzione di reazione dell'altro. Qui però il 'tener conto' assume una connotazione diversa rispetto al modello di Stackelberg, così che ne risulta diversamente formulato il vincolo nel rispetto del quale l'obiettivo del leader viene perseguito: non si tratta più di massimizzare il profitto muovendosi all'interno dell'intera funzione di reazione del follower, ma solo all'interno del tratto nel quale la risposta ottimale del follower è di non entrare. Il leader dovrà quindi individuare il livello produttivo di massimo profitto fra quelli rispetto ai quali la decisione di equilibrio del produttore potenziale è di non entrare nel mercato.Il modello di barriera di prezzo all'entrata e il modello di Stackelberg hanno naturalmente la stessa soluzione se la soluzione del modello di Stackelberg comporta un livello di output positivo per il solo leader. Come abbiamo visto nel cap. 5, un caso particolare di questa situazione si ha quando il leader realizza il massimo profitto monopolistico per una produzione superiore alla 'quantità limite' x°. Secondo la terminologia di Bain, si ha allora l'entrata 'bloccata', a indicare che la deterrenza dell'entrata è in questo caso una conseguenza non intenzionale del comportamento ottimale di un monopolista puro. Questo caso chiarisce anche che, contrariamente alle affermazioni che avevano accompagnato le formulazioni iniziali del modello di barriera di prezzo all'entrata, la soluzione di quest'ultimo non si verifica necessariamente in corrispondenza del prezzo limite (e, di conseguenza, della quantità limite): il prezzo applicato dal monopolista puro può trovarsi al di sotto. Aver ricompreso il modello del prezzo limite entro la particolare logica di rapporti tra i produttori proposta da Stackelberg fa emergere il problema delle basi sulle quali fondare la nuova formulazione del modello rispetto a quella tradizionale. Essa può risultare coerente con le considerazioni che Kurt W. Rothschild (v., 1947), in un articolo pionieristico sull'analisi dei mercati oligopolistici, aveva fatto sull'inadeguatezza della massimizzazione del profitto come criterio interpretativo del comportamento delle imprese presenti sui mercati reali. Sarebbe possibile raggiungere una comprensione più adeguata di tali comportamenti - questa era una delle sue tesi principali - se si tenesse conto che, accanto alla massimizzazione del profitto, le imprese perseguono un altro obiettivo di pari importanza, quello della sicurezza dei profitti stessi. Se interpretiamo la difesa di un mercato da concorrenti pericolosi come condizione necessaria a garantire la sicurezza dei profitti nel tempo, ecco che il secondo obiettivo indicato da Rothschild può tradursi in un vincolo (non dev'essere comunque resa conveniente l'entrata a un concorrente pericoloso) nel rispetto del quale la massimizzazione del profitto venga perseguita.Il modello del prezzo limite può essere considerato anche come una possibile conclusione di alcune riflessioni che Fellner (v., 1949) aveva formulato a proposito del modello di Stackelberg. Se il ruolo di leader è fondato su di una forma generale di 'potere' nei confronti del follower, l'utilizzo di tale potere può non limitarsi alla scelta di un punto sulla funzione di reazione di quello, ma può proporsi altri obiettivi: ad esempio, in un orizzonte temporale necessariamente più ampio, l'esclusione stessa del follower dal mercato, così che la leadership venga utilizzata per costituire e mantenere una posizione monopolistica. Il che è esattamente quanto viene perseguito nel modello del prezzo limite.
Naturalmente anche in questo caso, come abbiamo appena detto, l'accettazione stabile dei rispettivi ruoli da parte dei due produttori è fondata su di una asimmetria strutturale che riconosce al soggetto che sceglie di comportarsi da leader un superiore potere complessivo. Posizione perfettamente nota al follower, che di conseguenza accetta il ruolo adattivo al quale il leader lo confina. All'interno del quadro generale di rapporti tra i produttori proposto da Stackelberg, l'asimmetria strutturale garantisce che, in ogni situazione, il leader possa mettere in atto comportamenti adeguati al proprio ruolo: così, con riferimento in particolare al modello del prezzo limite, c'è la certezza che il leader in caso di entrata metterà efficacemente in atto una lotta di prezzi, ottenendo l'esclusione di chi è entrato malgrado i segnali di dissuasione.
A questo punto vale la pena richiamare l'attenzione sul fatto che i modelli di barriera di prezzo di cui abbiamo parlato, pur presentando necessariamente implicazioni dinamiche, sono stati formulati dai loro autori entro la stessa cornice statica propria dei modelli classici di oligopolio. Entro quella stessa cornice valgono, di conseguenza, le conclusioni a cui siamo pervenuti. Oggi, d'altra parte, l'applicazione della teoria dei giochi ai modelli di oligopolio ha permesso di estendere in ambito dinamico le diverse formulazioni, trattando in modo rigoroso il carattere sequenziale delle decisioni dei concorrenti, e indicando la strada lungo la quale sia possibile fondare la costruzione della leadership. Come abbiamo accennato sopra nel cap. 7, questa linea di ricerca perviene necessariamente a una pluralità di esiti, a seconda delle strutture informative e delle regole decisionali proprie dei diversi giochi ipotizzati. Per quanto riguarda, in particolare, la tesi fondamentale dei modelli di barriera di prezzo - che, cioè, la configurazione iniziale di prezzo abbia rilevanza nelle decisioni di entrata - essa non regge in generale a un'analisi basata sull'ipotesi di razionalità strategica dei concorrenti: perché essa mantenga la sua validità occorre circoscriverla a situazioni di tipo particolare, per esempio situazioni caratterizzate da incertezza del potenziale entrante sulle caratteristiche dell'impresa già presente sul mercato (v. Kreps e Wilson, 1982; v. Milgrom e Roberts, 1982). Va anche osservato, peraltro, che situazioni di questo tipo sembrano assai diffuse sui mercati reali. (V. anche Concorrenza; Differenziazione e diversificazione dei prodotti; Domanda; Giochi, teoria dei; Mercato; Monopolio e politiche antimonopolistiche; Offerta; Prezzi).
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