Olimpiadi estive: Città del Messico 1968
Numero Olimpiade: XIX
Data: 12 ottobre-27 ottobre
Nazioni partecipanti: 112
Numero atleti: 5516 (4735 uomini, 781 donne)
Numero atleti italiani: 171 (156 uomini, 15 donne)
Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tiro, Tuffi, Vela
Numero di gare: 172
Ultimo tedoforo: Enriqueta Basilio
Giuramento olimpico: Pablo Garrido
Come era accaduto per Tokyo 1964, anche Città del Messico venne scelta per i Giochi del 1968 in un congresso del CIO svoltosi in Germania: allora si era trattato di Monaco di Baviera, questa volta di Baden Baden. Era l'ottobre del 1963, cinque mesi prima era morta, dopo aver compiuto i cent'anni, la vedova di de Coubertin. Città del Messico prevalse su Lione, Buenos Aires e Detroit, sebbene il presidente Kennedy garantisse personalmente del buon diritto e della capacità organizzativa della capitale dell'auto. Il governo francese invece non si spese troppo per Lione perché molti volevano il ritorno dei Giochi a Parigi. Il Comitato messicano per la candidatura offrì preziosi monili ai membri del CIO e il segretario, lo svizzero Otto Mayer, disse di non poter certo vietare tale gentile iniziativa. Molte riserve venivano avanzate in merito all'altitudine della megalopoli messicana (che allora contava 7 milioni di abitanti), situata a 2280 m, quota tale da determinare grossi problemi di respirazione in qualsiasi intensa attività fisica. I critici furono comunque messi a tacere con l'ovvia considerazione che se nella città vivevano milioni di persone potevano anche viverci e gareggiare gli atleti. Tale affermazione sarebbe stata suffragata dai fatti proprio il 10 ottobre 1968, due giorni prima dell'inizio delle gare olimpiche, quando il ciclista danese Ole Ritter stabilì a Città del Messico il primato mondiale dell'ora coprendo 48,653 km, impresa replicata dal belga Eddy Merckx nel 1972 e dall'italiano Francesco Moser nel 1984, sempre a Città del Messico. In un certo senso la scelta della capitale messicana fu presentata come una sollecitazione alla scienza e un incentivo all'organizzazione di gare preolimpiche sperimentali, per es. una sorta di piccola Olimpiade l'anno prima dei Giochi (Tokyo ci aveva provato, però timidamente, nel 1963), per favorire la conoscenza dell'ambiente e l'acclimatamento degli atleti.
La prima Olimpiade ospitata da una città latinoamericana ebbe comunque una connotazione politica che superò in maniera drammatica quella sportiva sia prima sia durante le gare, con protagonisti gli studenti messicani e gli atleti della rappresentativa statunitense, per la precisione i neri dello sprint. Lo sport ebbe insomma il suo Sessantotto, come in qualche modo tutto il mondo. Era quello l'anno del maggio francese ma anche dell'assassinio di Martin Luther King e di Bob Kennedy, del radicamento della guerra in Vietnam, dei grandi attentati in Medio Oriente, dei massacri in Biafra e dei carri armati sovietici a Praga. Lo sport non poteva restare del tutto estraneo. A tutto ciò si aggiunse il fatto che a febbraio, durante i Giochi invernali di Grenoble, il presidente Brundage era riuscito a fare riammettere il Sudafrica nel CIO, sulla base di un voto epistolare piuttosto contorto e confuso. Immediata era stata la reazione dei paesi africani con la minaccia di boicottaggio dei Giochi di Città del Messico nel caso in cui ci fossero stati gli atleti di Pretoria. Subito il CIO fece marcia indietro, escludendo la partecipazione del Sudafrica e rubricando il voto epistolare come un semplice e inefficace sondaggio.
I mesi precedenti l'inizio dell'Olimpiade videro accendersi in Messico, ai tempi governato da Gustavo Díaz Ordaz del Partido revolucionario institutional, presidente repubblicano ma dotato di poteri quasi monarchici, una forte tensione fra gli studenti della capitale e le forze di polizia, accusate di reprimere brutalmente ogni pur piccola espressione di protesta, anche e soprattutto se rivolta a ottenere più diritti e più libertà. Il 28 luglio il governo accusò gli studenti di sfruttare l'occasione dei Giochi per dare risonanza a una loro manifestazione in cui la polizia era intervenuta, causando ufficialmente molti feriti, ufficiosamente otto morti. Il 2 agosto oltre 100.000 studenti paralizzarono con un corteo il centro di Città del Messico, chiedendo fra l'altro la soppressione del corpo speciale dei granaderos ai quali era affidato il compito della repressione più dura. Il 24 agosto si avviò un periodo ufficiale di tregua, con apertura di negoziati, ma presto la buona volontà reciproca finì. Il 10 settembre un altro grande corteo studentesco denunciò ‒ sotto gli occhi delle prime delegazioni sportive straniere, arrivate in Messico con largo anticipo sulla data di apertura dei Giochi per curare l'acclimatamento dei loro atleti ‒ le forti limitazioni delle libertà e il continuo ricorso a metodi polizieschi, rovesciando sul governo l'accusa di usare la manifestazione olimpica come cassa di risonanza per istanze estranee allo sport. Gli scontri si susseguirono ogni giorno sino alla sera del 2 ottobre, quando nella piazza detta delle Tre Culture (quella azteca, quella dei conquistadores spagnoli, quella del Messico moderno), nel quartiere di Tlatelolco, durante un grande raduno studentesco polizia, esercito e granaderos aprirono il fuoco ad altezza d'uomo, con il pretesto di rispondere ad alcuni spari partiti dalla folla dei manifestanti. I morti furono centinaia (secondo le cifre ufficiali 400, sicuramente molti di più). Tra i feriti ci fu anche la giornalista italiana Oriana Fallaci, colpita da una scheggia mentre si trovava su un balcone finito sotto tiro. Sull'episodio scese la cortina delle censura governativa e venne disposto un colossale blocco informativo, mentre la caccia allo studente proseguiva. Le due parti si accusarono reciprocamente di aver fatto uso di mercenari e di terroristi di altri paesi per innescare la sparatoria.
A neanche nove giorni dall'inizio dei Giochi la presenza di stranieri a Città del Messico era ormai notevole e gli studenti non facevano fatica a contattarli per raccontare loro gli orrori di quella repressione. Un forte movimento di opinione si levò dentro la 'famiglia' olimpica e ci furono pressioni sul CIO perché la manifestazione fosse spostata in California. Ma Brundage, che appena consumata la strage di Tlatelolco aveva subito dichiarato che i Giochi si sarebbero svolti regolarmente, tenne duro perché a suo avviso la guerra fra governo e studenti, fra studenti e polizia era una questione interna messicana. Fra i più impegnati fautori del 'no' ai Giochi di sangue furono gli italiani del CONI, dirigenti e atleti, capitanati dal capo ufficio stampa Donato Martucci, che rischiò l'espulsione per eccesso di critiche al governo messicano.
Puntando sul nazionalismo dei cittadini della capitale e di tutto il paese, l'esecutivo di Díaz Ordaz riuscì comunque non solo a inaugurare i Giochi regolarmente, ma anche a offrire una manifestazione tutto sommato bella, calda, pacifica, gradita ai messicani che nella grande maggioranza ambivano a rimuovere le immagini di quella piazza piena di giovani morti. Così la popolazione della capitale aiutò a far dimenticare Tlatelolco, forse per un naturale senso di allegria oppure per non perdere l'occasione di mostrare al mondo, e specialmente agli odiati statunitensi, que gran cosa es ser Mexicanos. I Giochi furono dunque festosi, culminando nella cerimonia di chiusura, quando spettatori e atleti si trovarono insieme al centro dallo stadio olimpico per ballare, cantare e dirsi arrivederci. Fu un successo per il governo messicano ma anche per i suoi oppositori interni, che poterono godere, nel nome del Messico olimpico, di una inusuale visibilità per il loro paese, povero ma sempre più lindo y querido.
L'attenzione sportiva come al solito ricadde principalmente sull'atletica leggera. Evento clou fu il massimo record del mondo di tutti i tempi, l'impresa più sensazionale, la misura più incredibile: gli 8,90 m di Bob Beamon, nero statunitense, nel salto in lungo. Il volo sfuggì a molti nello stadio, perché in quel momento un andirivieni di atleti per altre gare copriva a tantissimi spettatori la pedana del miracolo, e non ne esiste neppure una chiara sequenza televisiva. D'altronde lo stesso Beamon non si rese conto di avere sovvertito quel giorno le leggi della gravità, della velocità e dell'esecuzione di un salto in lungo. Abituato alle misure in piedi e pollici del suo paese, non capì subito la portata della cifra in metri apparsa sul tabellone, vicino a dove era atterrato. Soltanto quando gli dissero che aveva saltato 29 piedi e 2 pollici e mezzo realizzò quanto aveva fatto e improvvisò una danza di gioia. Il primato precedente, del sovietico Igor Ter Ovanesian, era di 8,35 m e quella misura di Beamon rimase insuperata sino al 1991, quando Mike Powell, un altro nero statunitense, saltò a Tokyo 8,95 m, senza aver avuto bisogno dell'aiuto dell'altura. La performance di Beamon fu infatti favorita dall'aria rarefatta, anche se è interessante ricordare che, secondo una tabella comparativa dei vari vincitori e primatisti mondiali di quel 1968, per eguagliare Beamon si sarebbero dovuti correre i 100 m in 9,4″ anziché in 9,9″, i 200 m in 16,97″ anziché in 19,8″, i 400 m in 37,23″ anziché in 43,8″, saltare nel triplo 18,15 anziché 17,39 m. I progressi degli anni successivi hanno riavvicinato Beamon al resto del mondo ma la sensazionalità assoluta dell'impresa del 18 ottobre 1968 ha resistito nel tempo.
Se i salti in piano, come quello di Beamon, e le prove di sprint furono avvantaggiati dalla rarefazione dell'aria (sui 100 m Jim Hines vinse per gli USA in 9,9″), l'effetto contrario si ebbe nelle corse lunghe, fortemente condizionate dalla povertà di ossigeno. Ne risultarono favoriti gli atleti nati e cresciuti in alta montagna, in primo luogo etiopi e kenyoti. I Giochi del 1968 di fatto segnarono l'avvento di tutto un continente, l'Africa, sulle scene massime dell'atletica leggera. Gli africani vinsero tutte le gare del mezzofondo e del fondo, dai 1500 m alla maratona (negli 800 m prevalse invece l'australiano Ralph Doubell sul kenyota Wilson Kiprugut) e a imporsi non furono soltanto quelli degli altopiani. I 5000 m andarono al tunisino Mohamed Gammoudi, che quattro anni prima era arrivato secondo sui 10.000 m, dietro al marine statunitense William Mills. Alla vigilia il favorito era il kenyota Kipchgoge Keino, atleta dall'età discussa (lui diceva 28 ma sembrava più vecchio), che era convinto di arrivare primo sui 1500, 5000 e 10.000 m, ma mancò subito la prova più lunga, costretto al ritiro a un chilometro dalla fine. Vinse il suo connazionale Naftali Temu, davanti all'etiope Mamo Wolde e a Gammoudi; altro grande sconfitto fu l'australiano Ron Clarke, da ragazzo ultimo tedoforo di Melbourne 1956, primatista del mondo su tutte le lunghe distanze, ma incapace di vincere le grandi gare. Keino trionfò nei 1500 m, battendo Jim Ryun, statunitense del Texas, che bello, alto, biondo e sicuro di sé avrebbe dovuto essere secondo le valutazioni della vigilia un personaggio faro dei Giochi. Sui 3000 m siepi ci fu un tripudio kenyano: primo Amos Biwott che poggiava il piede sull'ostacolo prima della fossa con l'acqua, anziché valicarlo, per prendere ancora più slancio e conservare asciutti i piedi sorvolando il piccolo stagno artificiale. La maratona ‒ il cui tracciato sfiorò piazza delle Tre Culture ‒ vide il successo di un atleta anziano, Mamo Wolde dell'Etiopia, ufficialmente trentottenne ma all'aspetto più vecchio, guardia del Negus come Abebe Bikila. Questi, stremato, si fece portare via da un'ambulanza al km 17; dopo poco la sorte gli avrebbe riservato un tremendo contrappasso a causa di un incidente d'auto che lo costrinse su una sedia a rotelle sino alla morte nel 1973. Il Kenya arrivò anche all'argento, dietro agli USA, nella staffetta 4 x 400 m.
L'atletica dello sprint fu invece connotata dagli statunitensi in due modi: per le vittorie (sia maschili sia femminili; per contro le sovietiche non conquistarono neppure una medaglia d'oro) e per la contestazione politica, antirazziale. Si è già detto dell'oro di Hines nei 100 m, conquistato in una finale corsa interamente da atleti neri, la prima della storia. Il culmine della contestazione fu raggiunto in occasione della premiazione dei 200 m: gli afroamericani Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo (secondo era l'australiano Peter Norman), si presentarono sul podio senza scarpe, con calze nere, un braccio alzato al cielo e il pugno ‒ sinistro quello di Smith, destro quello di Carlos ‒ serrato in un guanto nero, mantenendo durante l'inno la testa bassa e rivolgendo gli occhi alla medaglia e non verso la bandiera. Finita la premiazione abbandonarono il podio in fretta e lasciarono lo stadio in silenzio. Gli atleti statunitensi erano arrivati ai Giochi esibendo il badge di un'associazione per i diritti umani e già nelle prime dichiarazioni si erano dimostrati intenzionati a 'fare qualcosa' per ricordare la pesante situazione della comunità nera negli Stati Uniti. 'Fecero qualcosa' pure Hines e Charles Green, primo e terzo nei 100 m, quando chiesero di non essere premiati da Brundage, Lee Evans, Larry James e Ronald Freeman che salirono sul podio dei 400 m (Evans corse in 43,8″, record del mondo) con il basco nero, e forse anche Beamon che si presentò alla premiazione senza scarpe (ma si parlò di attenzione richiamata così su di esse a scopo pubblicitario). Smith e Carlos, che furono espulsi dal villaggio olimpico, sono rimasti comunque con Beamon i personaggi simbolo di quell'Olimpiade.
Il resto delle competizioni fu sempre ad altissimo livello. Ci fu il quarto successo consecutivo nel disco dello statunitense Al Oerter, presentatosi paradossalmente tutte e quattro le volte non da favorito, cioè con qualcuno che lo precedeva nel ranking mondiale o nella valutazione degli esperti. Nel salto in alto si ebbe la grande svolta di un altro statunitense, Dick Fosbury, con il regolo superato di schiena a 2,24 m; da Mosca Valery Brumel giudicò 'senza futuro' la novità, che poi tutti avrebbero adottato. Wyomia Tyus vinse per la seconda volta nei 100 m, prima nella storia dei Giochi, ma non riuscì a imporsi nei 200 m. In campo femminile, dove ancora non si registrò il predominio delle tedesche orientali, le medaglie furono variamente distribuite. Una delle più sorprendenti fu quella della francese Colette Besson sui 400 m.
La presenza della Germania dell'Est si avvertì maggiormente nel nuoto, con Roland Matthes dominatore del dorso, dallo stile troppo bello per essere in qualche modo imitabile. Lo statunitense Donald Schollander, il trionfatore di Tokyo, vinse l'oro con la staffetta 4 x 200 m stile libero e l'argento nei 200 m stile libero. Pronosticava l'exploit del connazionale Mark Spitz, il cui turno sarebbe però venuto a Monaco 1972 (qui si 'limitò' all'oro nelle staffette 4 x 100 m stile libero e 4 x 200 m stile libero, all'argento nel 100 m farfalla e al bronzo nei 100 m stile libero). L'australiano Michael Wenden fu il campione dello sprint, lo statunitense Michael Burton quello del mezzofondo. Fra le donne la statunitense Debbie Mayer vinse i 200, i 400 e gli 800 m, altro primato. Nel nuoto abbastanza stranamente si parlò meno che nell'atletica dei problemi di respirazione e le maschere a ossigeno furono meno frequenti in piscina che allo stadio.
Proprio dalla piscina partì la grande festa popolare della capitale messicana per la vittoria sui 200 m rana di Felipe Muñoz, enfant du pays, non segnalato da nessun pronostico. Deluse invece il mezzofondista Guillermo Echevarría, dato per favorito. Muñoz era detto el tibio, "il tiepido", per via del fatto che i suoi genitori erano nati uno a Río Frío, l'altra ad Aguas Calientes. La sua vittoria provocò in città una notte di festeggiamenti. Niente di simile accadde quando il pugile peso mosca Ricardo Delgado diede al Messico l'altra medaglia d'oro di quei Giochi (o forse fu la consapevolezza inconscia e pudica del fatto che sul ring non c'era il cronometro e le giurie decidevano al di là e al di sopra dei valori veri).
Un'altra grande festa accompagnò la boda del siglo, il "matrimonio del secolo" celebrato durante i Giochi fra Vera Caslavska, la bella ginnasta cecoslovacca già medaglia d'argento a squadre a Roma 1960 e tre volte d'oro e una d'argento a squadre a Tokyo 1964, e il suo connazionale Josef Odlozil, argento quattro anni prima nell'atletica leggera sui 1500 m. Con Praga ancora controllata dai carri armati sovietici, la dissidente Caslavska venne in pratica adottata da una nazione intera, il Messico, da sempre apertissima agli esuli e ai contestatori politici di tutto il mondo. Caslavska, che sarebbe diventata allenatrice delle ginnaste messicane, prese posses- so di tutti i media, divenendo il volto più popolare dell'America Latina, specialmente attraverso Televisa, la televisione messicana che serve tutto il subcontinente. In seguito fu letteralmente travolta da una serie di drammatiche vicissitudini: il divorzio da Odlozil, la depressione con ricovero in clinica, l'uccisione del secondo marito da parte del figlio suo e di Odlozil, al quale neppure il presidente della Cecoslovacchia Havel, suo amico personale, poté concedere la grazia, la morte di Odlozil in una sparatoria.
Il pugilato propose, come ormai da copione, un altro atleta destinato ai fasti mondiali fra i professionisti, il diciannovenne George Foreman. Il grande campione nero rischiò molto nella semifinale dei massimi contro l'azzurro Giorgio Bambini. Era sotto ai punti quando, a pochi secondi dalla fine del match, gli riuscì il colpo fortunato, Bambini crollò colpito alla mascella e si rialzò quando il conteggio dei 10 secondi si era concluso. Il destino di Foreman si intrecciò poi con quello di Cassius Clay e i due diedero vita nel 1974 a Kinshasa, nello Zaire ex Congo Belga, al match del secolo, vinto da Clay, che già si faceva chiamare Muhammad Ali e che fu scelto dai congolesi come campione dell'Africa Nera contro l'altro nero 'alla zio Tom', amico dei bianchi. Era dai Giochi di Helsinki 1952 che il pugilato amatoriale olimpico lanciava vincitori statunitensi nelle categorie più pesanti, quelle destinate ai grandi fasti del professionismo. Allora furono Floyd Patterson nei medi ed Edward Sanders nei massimi, ai quali fecero seguito soprattutto Cassius Clay, Joe Frazier e appunto Foreman che già nel 1973 arrivò a battersi per il titolo mondiale, strappandolo allo stesso Frazier, con un'impresa che lo portò ad accettare la sfida di Kinshasa contro un Clay che stava tornando sulla grande scena a colpi di incontri con avversari medi, anzi decisamente mediocri.
Per quanto riguarda i Giochi degli italiani, le medaglie d'oro furono tre, poco anzi pochissimo rispetto ai fasti di Roma 1960 e Tokyo 1964. Nobilissime però furono le vittorie, in specialità classiche e in un certo senso 'nostre' (canottaggio, ciclismo e tuffi) e accompagnate da quattro medaglie d'argento e nove di bronzo, a testimoniare di una presenza comunque valida in molte zone del programma.
Klaus Dibiasi vinse il titolo dalla piattaforma, prevalendo su un messicano, Alvaro Gaxiola, a priori appoggiato dalla giuria. L'azzurro fu secondo dal trampolino e si cominciò a parlare di lui come del più grande tuffatore di ogni tempo (fama che conservò fino a quando non si impose Greg Louganis, statunitense di origine greca, fermato in seguito dall'AIDS più che a causa dell'età). Nel ciclismo Pierfranco Vianelli arrivò primo nella prova su strada, davanti al danese Leif Mortensen e allo svedese Gösta Pettersson, che avrebbero poi fatto tra i professionisti quella grande carriera che invece la 'nemesi' del titolo olimpico, come di quello mondiale, vietò allo stesso Vianelli. Pettersson arrivò pure a vincere un Giro d'Italia, nel 1971. Con i tre fratelli Sture, Erik e Tomas fu per tre volte consecutive, dal 1967 al 1969, campione mondiale della 100 km a squadre, specialità in cui a Città del Messico il quartetto svedese aveva colto il secondo posto, dietro all'Olanda e davanti all'Italia. Il terzo successo italiano, nel canottaggio, venne nel due con, che poi sarebbe divenuto a lungo dominio dei fratelli Abbagnale. Gli autori furono due veneti, Primo Baran e Renzo Sambo, coadiuvati dal piccolo timoniere piemontese Bruno Cipolla, appena quindicenne.
Le altre medaglie furono comunque importanti, su tutte quella di bronzo di Giuseppe Gentile nel salto triplo. Gentile, dal fisico statuario, che sarebbe poi stato scelto da Pier Paolo Pasolini per la parte di Giasone nel film Medea con Maria Callas, nelle qualificazioni volò subito a 17,10 m, primato mondiale. Da lì prese il via una competizione appassionante in cui l'italiano, il brasiliano Nelson Prudencio e il sovietico Viktor Saneyev si palleggiarono primati e piazzamenti: Gentile migliorò ancora sé stesso e il mondiale sino a 17,22 m; salì il vento a favore, pur rimanendo sempre entro i 2 m/s regolamentari, e Saneyev passò a 17,23 m, Prudencio a 17,27 m; alla fine in due giorni il primato del mondo venne battuto dieci volte e la gara fu vinta da Saneyev con 17,39 m, secondo Prudencio, terzo Gentile al quale venne difficile sorridere sul podio, anche se aveva superato sé stesso e per due volte, in occasione dei due record assoluti, tutto il resto del mondo. Sullo slancio di questa prestazione Gentile in quell'anno conquistò anche il primato italiano del lungo (7,91 m), 32 anni dopo il 7,73 m ottenuto da Arturo Maffei a Berlino sotto gli occhi di Hitler. L'altro grande bronzo dell'atletica italiana fu di Eddy Ottoz, aostano allenato sui 110 m ostacoli da Alessandro Calvesi, di cui sposò la figlia. Ottoz lottò sino alla fine con Willie Davenport, nero statunitense favoritissimo, scomponendosi leggermente nel finale e arrivando terzo con lo stesso tempo del secondo, 13,4″.
Nessun oro nella scherma, dove gli italiani, data la loro tradizione, se non vincono rischiano di deludere. Il ginnasta romano Gianfranco Menichelli cercò allo spasimo di difendere nel corpo libero il titolo olimpico di quattro anni prima, ma a pochi secondi dalla fine dell'esercizio gli cedette il tendine d'Achille; i giudici gli diedero comunque il voto finale (9,30) e gli esperti dissero che se avesse potuto completare la prova avrebbe potuto ottenere un 9,80 che forse gli avrebbe dato di nuovo il successo.
La partecipazione italiana fu dunque complessivamente buona, così che parvero sin troppo severi i rilievi in sede di rapporto ufficiale del CONI sulla partecipazione azzurra in quanto gli atleti si sarebbero mostrati poco disciplinati. In effetti l'allegria di Città del Messico (nonostante Tlatelolco e i suoi morti) contagiò un po' tutti e in particolare la palazzina degli azzurri nel villaggio olimpico era un posto di vivaci e continui festeggiamenti, ma l'impegno fu sempre notevole. Gli italiani comunque disertarono quasi in massa la cerimonia di chiusura, grande errore se si pensa alla spettacolarità dell'evento, a come e quanto i Giochi in quell'occasione inventarono un'altra occasione di festa globale. Fu l'occasione per dimenticare del tutto i morti di Tlatelolco, le paure di asfissia in alta quota, le diffidenze verso le capacità organizzative dei latinoamericani. A proposito di organizzazione, merita un cenno la grafica messicana per indicare i siti e gli sport dei Giochi, che apparve insieme rivoluzionaria ed efficacissima, dettando i criteri per la segnaletica olimpica a venire.
I francesi, deludenti sia a Roma 1960 che a Tokyo 1964, vinsero sette volte, contro i nostri tre successi, con quattro titoli nel ciclismo, a opera soprattutto del duo di pistards Pierre Trentin e Daniel Morelon, entrambi di origini venete. Negli sport di squadra si registrò la vittoria nel basket degli invincibili Stati Uniti davanti alla Iugoslavia, che fece meglio dell'URSS. Gli sport di squadra non riuscirono tuttavia a fare grande presa sull'opinione pubblica locale. L'Europa dell'Est si aggiudicò i successi nella pallavolo (URSS), nel calcio (Ungheria), nella pallanuoto (Iugoslavia; 'archiviato' il Settebello azzurro, campione olimpico otto anni prima). L'Asia trionfò nell'hockey su prato con il Pakistan e l'India, primo e terza (al secondo posto l'Australia). Specialmente il calcio visse e patì la distonia fra squadre del socialismo di Stato, vere e proprie formazioni nazionali, e squadre del resto del mondo, fatte di giovani, di studenti, persino di dilettanti conclamati. Il successo finale degli ungheresi sui bulgari venne visto come un episodio a parte riguardante il mondo professionistico, mentre la vera finale dei dilettanti venne considerata la partita per il terzo posto fra i giapponesi, che la vinsero, e i giovanotti messicani.
Quelli di Città del Messico furono, infatti, anche i Giochi della polemica verso lo sport di Stato, verso il finto dilettantismo, o professionismo di regime, praticato specialmente nell'Europa dell'Est, che con la creazione di carriere amministrative o militari fittizie aiutava gli atleti, li compensava dei sacrifici e li premiava delle vittorie, creando condizioni di disparità evidente. In situazione opposta c'erano gli amatori con pochi soldi o quelli finanziati dalla propria famiglia (in mezzo, abbastanza efficacemente, gli italiani, in parte aiutati dallo statalismo e dal parastatalismo, cioè dal governo e dal CONI, e in parte dall'industria privata, non ancora definita sponsor).