Olimpiadi estive: Montreal 1976
Numero Olimpiade: XXI
Data: 17 luglio-1° agosto
Nazioni partecipanti: 92
Numero atleti: 6084 (4824 uomini, 1260 donne)
Numero atleti italiani: 212 (185 uomini, 27 donne)
Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Judo, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallamano, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tiro con l'arco, Tuffi, Vela
Numero di gare: 198
Ultimi tedofori: Stéphane Préfontaine e Sandra Henderson
Giuramento olimpico: Pierre Saint-Jean
Il tragico assalto dei fedayn a Monaco 1972 aveva mostrato quale formidabile cassa di risonanza potessero costituire le Olimpiadi. La tregua olimpica dei tempi antichi ‒ che era poi una tregua vincolante soltanto per i territori nei quali passavano gli atleti che dovevano recarsi a Olimpia per i Giochi, non era certamente la pace universale ‒ non funzionò neanche a Montreal 1976, sia pure senza drammi, piuttosto a colpi di diffide, minacce, abbandoni.
Tutto ebbe inizio da uno sport non olimpico, il rugby, per una vicenda che coinvolse una nazione molto sportiva e molto vicina nella tipologia dei suoi atleti agli ideali decoubertiniani, la Nuova Zelanda, una cui squadra di rugby si era recata in tournée in Sudafrica. I due paesi coltivano come nessun'altra nazione al mondo la pratica di questo sport, a livelli quasi sacrali. Nel CIO la questione del Sudafrica, che con il regime dell'apartheid contemplava il razzismo nella stessa Costituzione del paese, si trascinava dalla chiusura dei Giochi di Roma 1960. Escluso da Tokyo 1964, lo sport sudafricano, non inviso all'assolutamente illiberale presidente Brundage, in occasione dei Giochi invernali del 1968 a Grenoble era stato oggetto, per effetto di un colpo di mano, di un voto epistolare favorevole alla sua riammissione: i membri del Comitato olimpico, in maggioranza di età avanzata e di tendenze conservatrici, non avevano neanche ben capito di cosa si trattasse. La portata del voto non sfuggì invece agli Stati africani, che costrinsero Brundage a smentire sé stesso e ad annullare la votazione. Da allora il Sudafrica si era accontentato di aver rapporti sportivi con il resto del mondo fuori dal programma dei Giochi, nel tennis, nell'automobilismo di Formula 1 e appunto nel rugby. Nessuno in sede olimpica aveva mai protestato contro chi, per es. l'Italia, aveva gareggiato in tornei di tennis o in corse automobilistiche che avevano visto la partecipazione sudafricana. Che la grana scoppiasse a causa di un match di rugby, uno sport di cui in fondo erano relativamente pochi nel mondo i praticanti, è sospetto. In realtà ci si volle appunto servire dell'Olimpiade come cassa di risonanza. Alla vigilia dei Giochi, 26 paesi africani già a Montreal chiesero che la Nuova Zelanda venisse rimandata a casa. Il CIO però tenne duro, rifacendosi ai precedenti del tennis e dell'automobilismo. Allora quasi tutte le nazioni dell'Africa abbandonarono la manifestazione, sia pure dopo grandi discussioni, specialmente fra Stati francofoni e Stati anglofoni, quasi a rispecchiare i problemi del bilinguismo canadese. Restarono soltanto le delegazioni del Senegal e della Costa d'Avorio. Fu il primo di tre boicottaggi consecutivi, se vogliamo quello più nobile, perché ispirato a concetti antirazzisti (gli altri due nacquero da pure e semplici considerazioni politiche). Monaco 1972 aveva ridimensionato ‒ provvisoriamente ‒ l'importanza in gara degli atleti africani, quelli 'lanciati' dall'alta quota di Città del Messico 1968, e dunque le assenze non furono ritenute gravi. In extremis venne anche risolto il problema di Taiwan, che voleva partecipare sotto il nome di Cina: fu il governo canadese a intervenire, dicendo che non poteva accettare quella denominazione, e quindi la rappresentativa di Taipei lasciò i Giochi, chiedendo senza successo la solidarietà dei loro massimi sponsor politici, gli statunitensi, i quali però non se la sentirono di boicottare i Giochi canadesi.
La defezione africana fu un problema aggiuntivo per i Giochi di Montreal, che già avevano incontrato grandi difficoltà di ordine economico. Il lievitare dei costi dei lavori causò il rinvio a data da destinarsi dell'ambizioso progetto di copertura mobile dello stadio olimpico che in futuro si sarebbe dovuto utilizzare per baseball, football americano e hockey su ghiaccio, insomma per il grande sport professionistico nordamericano. Il sindaco Jean Drapeau, che voleva rinvigorire con una grandissima festa olimpica l'immagine di una Montreal pronta a diventare la capitale di un Quebec francofono autonomo da Ottawa, se non addirittura indipendente (non erano passati molti anni da quando nel 1967 il generale De Gaulle in visita in Canada aveva pronunciato le famose parole "Vive le Québec libre!"), ne subì un forte ridimensionamento. Il governo federale non si fece carico del debito olimpico e i cittadini di Montreal e di tutto il Quebec dovettero accollarsi per anni tasse speciali per sanare il deficit accumulato. Drapeau due anni prima dei Giochi aveva parlato di una spesa di 100 milioni di dollari canadesi, alla fine gli esborsi ammontarono a 1440 milioni di dollari, contro delle entrate di 411 milioni.
Durante i Giochi vi furono ripetuti tentativi di affermazione dei francofoni locali. Alla cerimonia di apertura, tuttavia, gli ultimi due tedofori furono insieme un ragazzo di lingua francese e una ragazza di lingua inglese (voleva essere simbolo di unione, ma non mancò chi ci vide piuttosto un segno di divisione). Un episodio grottesco avvenne alla chiusura, quando un uomo completamente nudo riuscì a penetrare nello stadio fino in mezzo al campo dove era in corso un balletto, a dispetto di un sistema di sicurezza che per evitare il ripetersi dei tragici avvenimenti di Monaco era stato molto severo, spingendosi a perquisizioni e divieti anche fastidiosi.
Non fu una edizione memorabile. Statisticamente quella fu la prima volta in cui la nazione organizzatrice non riuscì a vincere neppure una medaglia d'oro: il bilancio del Canada si fermò a 5 medaglie d'argento e 6 di bronzo. Non fu chiaro se lo scarso entusiasmo della popolazione per i Giochi fosse dovuto alla mancanza di vittorie della squadra nazionale, o viceversa se la mancanza di vittorie canadesi fosse la conseguenza dello scarso incitamento della popolazione. Gli Stati Uniti (34 ori, 35 argenti, 25 bronzi), nonostante giocassero quasi in casa, furono superati nel medagliere, oltre che dall'URSS (49 ori, 41 argenti, 35 bronzi), anche dalla Germania Est (40 ori, 25 argenti, 25 bronzi). Quarta, ma con un forte distacco, la Germania Ovest (10 ori, 12 argenti, 17 bronzi), mentre l'Italia (2 ori, 7 argenti, 4 bronzi) fu quattordicesima, appena davanti alla Francia: bilancio record in senso negativo.
A differenza di tutte le altre edizioni, a Montreal il richiamo esercitato dall'atletica, a livello sia mediatico sia di partecipazione di spettatori, fu meno forte di quello del nuoto e persino della ginnastica artistica femminile, per via dell'attenzione che attrasse su di sé un'atleta bambina, la rumena Nadia Comaneci. Il fatto è che l'atletica senza l'Africa, con gli Stati Uniti in tono minore e con troppa Germania, offrì meno stimoli del passato. La Germania Est non solo era arrivata a dominare le scene femminili, ma ormai era fortissima anche in quelle maschili (a Montreal vinse persino la maratona, con Waldemar Cierpinski che diede quasi un minuto a Frank Shorter, il vincitore statunitense di Monaco 1972). Dietro allo squadrone tedesco orientale agiva la scienza di Stato, con i suoi potentissimi mezzi, ma a quei tempi si cominciava appena a parlare di doping, con controlli blandi e inaffidabili.
Nell'atletica maschile, comunque, vi furono punti di interesse: il primo, assolutamente non messo in rilievo sul posto, riguardò il predominio degli atleti caraibici nelle gare di sprint o di velocità prolungata: Hasely Crawford di Trinidad e Tobago prevalse nei 100 m, il giamaicano Donald Quarrie nei 200 m, mentre il cubano Alberto Juantorena, detto 'el caballo', fu autore della straordinaria doppietta nei 400 e negli 800 m, impresa mai riuscita a nessuno prima di lui. Oltre che con Cierpinski, il podismo 'bianco', in assenza degli africani, conquistò i 1500 m con il neozelandese John Walker, i 5000 e i 10.000 m con il finlandese Lasse Viren, che replicò il doppio trionfo di quattro anni prima. Sui 110 m ostacoli il francese Guy Drut riuscì a battere il cubano Alejandro Casañas, sui 400 m ostacoli il nero statunitense Edwin Moses dettò legge imprimendo il primo sigillo olimpico a una carriera favolosa che si sarebbe fermata con la medaglia di bronzo ai Giochi di Seul 1988. Nei salti si ebbe la curiosità di due polacchi vincitori nell'alto e nell'asta, Jacek Wszola e Tadeusz Slusarsky. Nel triplo ebbe la meglio il trentunenne sovietico Viktor Saneyev, alla sua terza medaglia d'oro consecutiva.
In campo femminile le due Germanie dominarono lo sprint: a quella Ovest andarono i 100 m con Annegret Richter su Renate Stecher, a quella Est i 200 m con Bärbel Eckert sulla stessa Richter. La polacca Irena Szewinska-Kirszenstein vinse i 400 m, la fuoriclasse sovietica Tatiana Kazankina gli 800 e i 1500 m. La Germania Est si aggiudicò anche le due staffette e tutte le gare di salto e di lancio, a eccezione del peso (oro alla bulgara Ivanka Khristova).
La Germania Est intanto vinceva anche il torneo di calcio sulla Polonia. A chi si mostrava sospettoso di tanti successi i suoi difensori replicavano che il doping non poteva essere messo in questione in un gioco di squadra fortemente interattivo, dove i riflessi contano più della potenza, la fantasia più della forza. I tedeschi orientali conquistarono molte medaglie anche nella canoa e nel canottaggio, fra l'altro battendo i britannici nell'otto.
Il nuoto merita un'attenzione speciale. Le gare maschili furono tutte vinte dagli statunitensi, eccetto i 200 m rana, appannaggio del britannico David Wilkie. In quattro gare il podio fu tutto USA, anche se non vi furono campioni in grado di colpire la fantasia come Schollander o Spitz. L'unico personaggio fu il dorsista John Naber, predicatore metodista. Fra le donne, dove il predominio delle tedesche orientali fu assoluto, lasciando soltanto i 200 m rana alla sovietica Marina Koshevaya e la staffetta stile libero alle statunitensi, si impose Kornelia Ender, grandissima dello sprint, promessa sposa di Roland Matthes (che a Montreal vinse ancora un bronzo nei 100 m dorso) e futura accusatrice dopo la caduta del muro di Berlino delle pratiche dopanti imposte agli atleti da medici e dirigenti della Germania Est.
Nel pugilato vinse l'oro nei pesi massimi il cubano Teófilo Stevenson, già campione a Monaco. Fra i pugili vittoriosi ci furono anche i fratelli statunitensi Leon e Michael Spinks, che poi avrebbero avuto anche loro una carriera mondiale sulla scia di Clay e dei suoi epigoni, prima olimpionici poi strapagati professionisti.
Comunque tutti i personaggi sparirono quando arrivò sulle scene della ginnastica artistica femminile la rumena Nadia Comaneci ‒ 15 anni, 1,53 m per 39 kg ‒, bravissima, graziosissima, gentilissima, un autentico fenomeno mediatico oltre che sportivo. Fu prima nella classifica generale individuale, nella trave e nelle parallele con punteggi altissimi, mai fatti registrare prima, terza nel corpo libero e trascinò le sue compagne al secondo posto, dietro alle sovietiche, nella classifica a squadre. Il mondo olimpico e quello televisivo parteciparono alle sue vicende agonistiche con forte simpatia. Olga Korbut, campionessa di Monaco 1972, che era ancora in lizza, venne surclassata sia sul piano sportivo sia su quello della popolarità. Al ritorno da Montreal iniziò per la Comaneci una serie di vicissitudini drammatiche: un paio di travagliate storie sentimentali, due peraltro blandi tentativi di suicidio, un ritiro annunciato e poi smentito prima dei Giochi di Mosca 1980 ‒ dove vinse ancora due ori e due argenti ‒, la burrascosa relazione con il figlio del dittatore rumeno Ceausescu, la fuga negli Stati Uniti.
Personaggi in negativo furono quelli del sollevamento pesi, finalmente controllati dall'antidoping e scoperti in fallo. Nessun dubbio ci fu però sulla forza vera di Vasiliy Alekseyev, sovietico, capace di sollevare 440 kg nelle due alzate, strappo e slancio, che avevano sostituito le tre del precedente programma olimpico, con l'eliminazione della fase della distensione. Il secondo classificato, il tedesco orientale Gerd Bonk, finì staccato di 35 kg.
Particolarmente negativo fu l'episodio che coinvolse il maggiore sovietico Boris Onishchenko: nel pentathlon moderno, alla prova di scherma con la spada, inserì nella propria impugnatura un congegno elettrico che a comando faceva scattare sul tabellone la segnalazione di un colpo inferto all'avversario. Dopo che Onishchenko aveva già vinto con grande facilità vari incontri (nel pentathlon basta una sola stoccata), gli spadaccini britannici si accorsero per primi della stranezza di un tabellone che segnalava il colpo anche nei casi in cui non veniva portato. Toccò a un giudice italiano, Malacarne, ispezionare l'arma e individuare il dispositivo, piuttosto ingegnoso. Onishchenko venne degradato, perse il posto di segretario della Federazione sovietica di pentathlon moderno e finì a fare il bagnino in una piscina di Kiev.
Per quanto riguarda gli italiani, la protagonista fu Sara Simeoni (23 anni, alta 1,77 m), seconda nel salto in alto dietro alla tedesca orientale Rosemarie Ackermann. Simeoni praticava lo stile fosbury insegnatole dal futuro marito Erminio Azzaro, anch'egli saltatore. Il suo argento ebbe maggiore risonanza dell'oro giunto a sorpresa di Fabio Dal Zotto, fiorettista della grande scuola di Mestre, atleta discontinuo, che a Montreal seppe dare il meglio nell'agonismo e nella tecnica e poi scomparve presto dalle scene. La sua vittoria prese in contropiede gli avversari, su tutti il favorito sovietico Alexandr Romankov, i suoi stessi compagni, i dirigenti, la stampa italiana che accorse al Palasport della scherma quando l'azzurro aveva già vinto. La scherma italiana ebbe anche tre medaglie d'argento, quella di Consolata Collino nel fioretto e quelle a squadre degli sciabolatori e dei fiorettisti. Arrivarono poi un secondo posto nella pallanuoto, dietro all'Ungheria, e le medaglie di Klaus Dibiasi e Giorgio Cagnotto: il primo oro dalla piattaforma, il secondo argento dal trampolino. Ma i risultati degli italiani furono nel complesso deludenti: mancarono le medaglie in discipline dove gli azzurri erano tradizionalmente forti, come il canottaggio. Nel ciclismo soltanto Giuseppe Martinelli, secondo nella prova su strada, salì sul podio.
Finiti i Giochi ci furono polemiche sulle lacune della spedizione azzurra. Il totale di 13 medaglie, ben 23 in meno che a Roma e 5 in meno che a Monaco, era insoddisfacente. Per un bilancio così magro bisognava risalire al 1912, Giochi di Stoccolma, dove i podi erano stati 8. Quanto all'oro, la quota 2 era stata registrata soltanto nel 1908 a Londra. Alcuni tentarono di inquadrare il difficile momento sportivo italiano nell'ambito di una globale stanchezza del mondo occidentale, travolto dallo sport di Stato dell'Europa dell'Est e dall'avvento comunque degli africani. Altri invitarono a leggere la nostra partecipazione olimpica al di là delle medaglie, considerando importanti in prospettiva futura i tre italiani arrivati nei primi dieci nei 20 km di marcia, il quarto posto di Pietro Mennea sui 200 m, il sesto di Rodolfo Bergamo nell'alto e di Gabriella Dorio nei 1500 m, l'ottavo di Franco Fava nella maratona, di Carlo Grippo negli 800 m e di Ileana Ongar nei 100 m ostacoli; passando al nuoto si segnalarono il quinto posto di Marcello Guarducci e di Giorgio Lalle rispettivamente nei 100 m stile libero e nei 100 m rana, e due staffette in finale. Altri ancora annotarono che l'unico primato mondiale nell'atletica azzurra, quello sugli 800 m di Marcello Fiasconaro, arrivato dal Sudafrica, era stato tolto dal cubano Juantorena.
Alla delusione si aggiungeva la preoccupazione che i quattro anni mancanti ai Giochi di Mosca 1980 non fossero sufficienti per una seria programmazione produttiva di una effettiva ripresa, tanto più che annunciavano il loro ritiro personaggi del calibro di Dibiasi e dei pallanuotisti Gianni De Magistris e Sandro Gibellini. La prospettiva per Mosca era quella di un'edizione molto difficile, segnata dal ritorno degli africani, e dallo scontro tra gli europei dell'Est, impegnati al massimo nella nazione che guidava la loro politica, i padroni di casa supermotivati, gli statunitensi e i tedeschi occidentali determinati a mostrare la loro forza in casa dei grandi rivali.