Olimpiadi estive: Parigi 1924
Numero Olimpiade: VIII
Data: 4 maggio-27 luglio
Nazioni partecipanti: 44
Numero atleti: 3076 (2937 uomini, 139 donne)
Numero atleti italiani: 201 (198 uomini, 3 donne)
Discipline: Atletica, Calcio, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallanuoto, Pentathlon moderno, Polo, Pugilato, Rugby, Scherma, Sollevamento pesi, Tennis, Tiro, Tuffi, Vela
Numero di gare: 126
Giuramento olimpico: Georges André
Parlando della VII Olimpiade si è visto come il sindaco di Lione, Herriot, avesse stipulato con Anversa un accordo per differire al 1924 la candidatura della sua città all'organizzazione dei Giochi, nel caso in cui la città belga avesse confermato la sua di-sponibilità per il 1920: una sorta di cambiale in bianco che Herriot presentò all'incasso dopo la conclusione dell'Olimpiade belga. Ma già alla sessione del CIO di Losanna del 1919 avevano chiesto i Giochi del 1924 Amsterdam, L'Avana con una lettera del sindaco, e Roma. Nel 1921 la lista crebbe notevolmente, venendo a comprendere anche Atlantic City, Barcellona, Budapest ‒ nonostante l'embargo all'Ungheria ‒, Halifax, Los Angeles (con l'aggiunta di Pasadena), Boston, Chicago, Praga e altre due città francesi, Reims e Parigi.
Il 17 marzo 1921 de Coubertin scese in campo, con una lettera aperta ai membri del CIO, ricordando che il 1924 avrebbe segnato la ricorrenza del 30° anniversario della costituzione del Movimento olimpico e che quindi Parigi, che aveva ospitato il celebre congresso della Sorbona, aveva speciali meriti per la richiesta dell'VIII Olimpiade. In occasione della sua rinuncia a presiedere ulteriormente il CIO il barone si pronunciò nuovamente a favore di Parigi, suggerendo al contempo Amsterdam per la IX edizione (la città olandese di fronte alla possibilità di una designazione anticipata e plebiscitaria per il 1928 rinunciò subito al 1924). Parigi era ‒ a dire di de Coubertin ‒ il suo 'ultimo desiderio' e il membro cecoslovacco del CIO Guth-Jarkovsky lo trasformò in esplicita proposta alla sessione. Roma protestò, ma la proposta ricevette l'appoggio di 14 membri del Comitato, contro quattro contrari e un astenuto. La delegazione italiana, indignata, abbandonò la sessione e Losanna.
A rafforzare la candidatura di Parigi ci pensò anche il delegato francese Alfred Mégroz, che si dichiarò di-sposto, in caso di approvazione della candidatura di Parigi, a mettere in piedi sempre in Francia anche una 'settimana di sport invernali' sotto l'egida del CIO. L'iniziativa ricevette l'avallo del Comitato olimpico internazionale il 5 giugno 1921: Parigi ebbe dunque i Giochi dell'VIII Olimpiade mentre la settimana invernale fu programmata a Chamonix, per essere in un secondo momento e retrospettivamente considerata la prima edizione dei Giochi Olimpici invernali.
Per la prima volta, dunque, il CIO scelse in un sol colpo due sedi consecutive dei Giochi. Parigi decise subito di fare le cose in grande e già il 21 giugno il conte Jean de Castellane gettò le basi per la costruzione degli impianti necessari. Garanzia somma per de Cou-bertin era la presenza come segretario generale del Comitato organizzatore di Frantz-Reichel, suo amico personale, atleta ad Atene 1896 e capitano della vittoriosa squadra francese di rugby a Parigi 1900. Figlio di un dirigente dell'Unione delle società atletiche francesi, pugile, amante di escursioni in aerostato, Frantz-Reichel divenne nel 1924 presidente della Federazione internazionale dell'hockey e fu fra i fondatori dell'AIPS, l'associazione internazionale del giornalisti sportivi (Frantz-Reichel era di fatto il modo in cui firmava i suoi articoli, senza il nome di battesimo).
Il problema principale era rappresentato dallo stadio, dal momento che il Pershing, usato per i Giochi Interalleati del 1919, appariva inadeguato. Lo stanziamento finale assommò a 16 milioni di franchi e fu garantito dal primo ministro Aristide Briand: la scelta cadde su Colombes, sede dei Giochi 1900 e del Racing Club de France. Si decise di rifare la pista e di aggiungere un campo per il rugby, uno stadio del nuoto e terreni per il tennis, con uno stanziamento addizionale del Racing di 4 milioni. Il progetto, scelto nel 1921, portava la firma di Louis Faure-Dujarric, esponente della Scuola delle belle arti, che eseguì i lavori in due anni. Aveva capacità di 60.000 spettatori, più 10.000 in tribune supplementari smontabili, per un costo di 6 milioni di franchi: oltre ai campi per il rugby e tennis furono allestiti anche una sala di scherma e impianti per gli allenamenti. La strada su cui si apriva l'ingresso dello stadio fu denominata 'Boulevard Pierre de Coubertin'.
Meno affascinante appariva il disegno del villaggio olimpico, che consisteva essenzialmente di baracche con un ristorante, una libreria e un ufficio postale. Il costo della diaria era di 30 franchi, il soggiorno minimo 25 giorni e la residenza degli atleti doveva necessariamente essere fissata nel villaggio, nonostante le proteste di molti membri del CIO. Per 380.000 franchi fu costruita una linea ferroviaria di 8 km che attraverso il bosco di Colombes collegava la Gare St.-Lazare sulla Senna alla Gare Olympique.
Il 23 marzo 1923 vennero diramati gli inviti. L'unica nazione che non lo ricevette fu la Germania, tuttora bandita per le vicende della Prima guerra mondiale: ancora troppo vivo il ricordo del milione e 400.000 francesi caduti in guerra. La decisione fu ratificata dalla sessione del CIO di Roma (aprile 1923), che respinse anche la proposta di invitare i fuorusciti della rivoluzione sovietica avanzata dal membro del CIO principe Urusov. In quella sede si stabilì anche di abolire tutti i trofei accessori: le coppe offerte da re, regine e altre personalità sarebbero andate al Museo Olimpico. Per la prima volta, si previde uno speaker per il pubblico e si allestì un sistema di trasmissione telegrafica a distanza delle informazioni, utilizzando anche il telefono per le notizie durante la maratona. E fece il suo debutto anche la radio.
Sul piano della partecipazione, nonostante il mancato invito alla Germania, si registrò l'adesione di 44 paesi. La Cina, che aveva iscritto quattro tennisti, si ritirò a seguito della rivolta contadina che nel settembre avrebbe deposto l'imperatore e fatto proclamare la repubblica. I partecipanti furono 3076, fra i quali 139 donne, per 126 gare, più 5 concorsi d'arte; dimostrazioni di pelota, canoa fluviale e savate vennero inserite assieme ad alcune competizioni giovanili. L'apertura fu fissata per il 4 maggio, con il torneo di rugby, l'inaugurazione ufficiale fu il 5 luglio, la chiusura il 27. In sostanza, a parte rugby e calcio, il polo e una parte del programma di tiro e di scherma, si cercò di concentrare i Giochi in tre settimane.
L'Italia fu presente con 201 atleti, un record per le spedizioni azzurre. Della squadra facevano parte tre donne, tutte tenniste (con Rosa Gagliardi anche Giulia Perelli, singolarista e doppista, e P. Bologna, subito fuori e impossibilitata a disputare il doppio per la rinuncia di Forlanini), e due ascari eritrei, Marek Mangascià e Tekle Reddà, che si ritirarono nei 10.000 m. Casa Italia ospitò 150 atleti. Solo i calciatori andarono in albergo, all'Hotel St.-Georges, dal quale spesso scappavano in cerca di divertimento a Pigalle. Sotto la guida di Vittorio Pozzo c'erano la coppia Virgilio Rosetta-Umberto Calligaris della Juventus, in attacco Virgilio Levratto, lo 'sfondareti', a centrocampo Adolfo Baloncieri e Mario Magnozzi. Battuto (su autorete) il mitico portiere spagnolo Ricardo Zamora, dopo la vittoria sul Lussemburgo (2-0), con l'estremo difensore Bausch che su un tiro secco di Levratto si morsicò un pezzetto di lingua, gli azzurri persero per 2-1 con la Svizzera, dopo un gol di Max Abegglen contestato per fuorigioco. Gli svizzeri arrivarono in finale piegando la Svezia, e qui si inchinarono alla superiorità dell'Uruguay (0-3), la nazionale più forte del mondo, 17 vittorie su 17 prima dei Giochi, 50-1 il bilancio delle reti, nonostante il Peñarol, campione nazionale, non avesse concesso i suoi giocatori. Si rivelò la 'perla nera', José Leandro Andrade, apprezzato pianista, che fu con altri tre 'parigini' anche campione mondiale 1930, 43 volte nazionale, ancora olimpionico nel 1928. Andrade, che si diede poi al varietà, ebbe anche un nipote 'mondiale' nel 1950, Victor Rodríguez Andrade.
Eroe di questi Giochi fu Paavo Nurmi, uno dei più grandi atleti di sempre. Il 'finlandese volante' era nato a Turku, antica capitale del regno, il 13 giugno 1897. Figlio di un ebanista, si guadagnò da vivere fin da ragazzino spingendo un carretto per le consegne verso la stazione. Si iscrisse al Turun Toverit, senza mostrare almeno all'inizio grandissime doti, ma solo una maniacale attitudine all'allenamento. All'età di 10 anni corse i suoi primi 1500 m in 5′43″, l'anno dopo era già a 5′02″. La sua carriera in pista ebbe inizio il 2 giugno 1914, mentre l'Europa era scossa da venti di guerra: vinse i 3000 m juniores in 10′06,9″. Un anno dopo era a 9′30,6″, nel 1919 scese a 8′58,1″. Si cimentò nei 10.000 m nel 1916, con un 34′35″ che già la diceva lunga; congedato dalla ferma di due anni a Pori, fece in tempo a prepararsi per i Giochi di Anversa, i primi della Finlandia indipendente. Arrivò il primo record nazionale, 8′36,2″ nei 3 km, seguito dalle qualificazioni olimpiche che lo videro primeggiare nei 5000 m (15′00,5″) e il giorno dopo sui 1500 m in 4′05,5″. Ma l'Olimpiade non fu rose e fiori: nella prima finale belga, sui 5000 m, il 17 agosto, fu impegnato duramente dal piccolo francese Jean Guillemot, di due anni più giovane. All'ultimo dei numerosi attacchi del rivale, Nurmi si arrese e Guillemot poté vendicare la sconfitta patita otto anni prima da Bouin contro Kolehmainen. A 4,4″ dal francese, Nurmi con 15′ esatti stabilì comunque il suo personale. Tre giorni dopo, venne il riscatto sui 10.000 m: Nurmi impostò una volata lunga e precedette di 1,4″ il rivale in 31′45,8″, ancora record personale. Il secondo oro di Anversa arrivò nella corsa campestre, 8 km vinti in volata sullo svedese Erik Backman, dopo che Guillemot si era ritirato per una distorsione al ginocchio.
Nurmi analizzò sconfitta e vittorie, e decise che il suo ritmo di gara doveva essere migliorato. Per farlo, si risolse a gareggiare con un cronometro in mano, per controllare personalmente i tempi di passaggio. Il record del mondo arrivò nel 1921, a Stoccolma, sui 10.000 m, in 30′40,2″; fu il primo di 23 primati globali stabiliti in dieci anni, l'ultimo sulle 2 miglia nel 1931 a Helsinki. L'ammirazione del mondo per il 'silenzioso di Turku' fu esaltata dalle sue famose 'doppiette', nel 1924, l'anno di Parigi: il 19 giugno a Helsinki si prese un'ora di riposo fra i 1500 m e i 5000 m, e piazzò due record del mondo, 3′52,6″ e 14′28,2″. Fu la prova generale per l'Olimpiade: il 10 luglio a Colombes, i 1500 m furono suoi a mani basse in 3′53,6″. La finale dei 5000 m, come Nurmi ben sapeva dal programma, si sarebbe corsa tre quarti d'ora dopo, 42 minuti per l'esattezza. Lì ebbe avversari di rango: il connazionale Ville Ritola e lo svedese Edvin Wide. Quest'ultimo si staccò a metà gara, ma Ritola tenne fin sul filo di lana e solo un quinto di secondo lo separò da Nurmi. Due giorni dopo, in un caldo asfissiante, Nurmi dominò la corsa campestre di oltre 10,5 km, lasciando Ritola a quasi un minuto e mezzo: i due contribuirono in maniera decisiva all'oro a squadre sulla stessa distanza, e il quinto oro, ancora a squadre, venne nei 3000 m a squadre, ancora con Ritola secondo, a rispettabile distanza (ma non si assegnò il titolo individuale, che per Nurmi sarebbe stato il sesto oro). Ai 10.000 m aveva dovuto rinunciare, ma Ritola gli rese onore vincendo la gara a suon di record del mondo, 30′23,2″, il che costrinse Nurmi a riprendersi il mondiale a fine agosto correndo in 30′06,1″ a Kuopio (arrotondato a 30′06,2″).
Fioccarono gli inviti, accompagnati da ingaggi che orientarono Nurmi verso remunerative trasferte: nel 1925 andò negli Stati Uniti, dove si esibì in 55 gare nello spazio di 5 mesi, 10 delle quali al coperto, tutte vinte tranne due. La gente faceva la fila per vederlo, in un'occasione Nurmi piazzò il primo '3 miglia' della storia indoor sotto i 9 minuti, mentre Ritola senza Nurmi si accontentò della miglior prestazione al coperto sui 5000 m. Il dominio di Nurmi fu tale, che negli anni successivi si concesse solo il gusto della vittoria, macchiando però il suo record in occasione dei Giochi di Amsterdam, quando nei 5000 m Ritola riuscì finalmente a batterlo, di 2″, vendicando così l'ennesima sconfitta, subita due giorni prima sui 10.000 m. A quel punto, Nurmi aveva collezionato 9 ori e 3 argenti olimpici, ma voleva chiudere in bellezza, a 35 anni, a Los Angeles 1932. Puntò alla maratona, ma sulla nave che lo trasportava oltre l'Atlantico gli comunicarono la squalifica per violazione delle norme sul dilettantismo. Continuò a gareggiare in patria, con lo status di 'dilettante nazionale' conferitogli dalla Federazione finlandese, guidata dal futuro presidente della Repubblica, Urho Kekkonen. Nel 1933 vinse ancora un titolo nazionale, sui 1500 m. La sua statua, scolpita da Wäinö Aaltonen, campeggia dal 1924 all'ingresso dello stadio (poi olimpico) di Helsinki; a lui, assieme a Kolehmainen, davanti a molti ex dirigenti dell'IAAF che lo avevano squalificato, fu conferito l'onore di accendere il sacro fuoco ai Giochi del 1952. Fu l'ultima grande apparizione pubblica. Morì il 2 ottobre 1973 a Helsinki, le esequie di Stato alla presenza di Kekkonen e molti altri campioni del passato furono un evento memorabile, come l'intera sua carriera.
Memorabile a Parigi fu anche l'apparizione di Johnny Weissmuller, un nuotatore diventato poi il più famoso Tarzan dello schermo e che non avrebbe potuto illuminare le vicende sportive americane senza un sotterfugio, scoperto solo di recente, dopo che nel 1997 una discendente dei Weissmuller, o meglio Weissmüller, ebbe avviato su Internet una ricerca genealogica sui suoi avi. Ne trovò traccia nei registri battesimali di una chiesetta di un paesino che oggi è il quartiere numero VII di Timisoara, in Romania e allora era chiamato Freidorf in tedesco e Szabad-Falva in ungherese. Lì Peter Weissmüller, un lavoratore giornaliero di lingua tedesca, residente a Varjat, già vedovo a 25 anni, il 7 giugno 1903 si risposò con la ventitreenne Erszebeth Kirsch. Il 2 giugno 1904 nacque un bambino, Janos. Il lavoro scarseggiava, sicché Peter ed Erszebeth decisero di emigrare negli USA: il 14 gennaio 1905 si imbarcarono a Rotterdam e il 26 arrivarono a New York sulla SS Rotterdam. Sui registri figurano i nomi di Peter ("di razza tedesca") di Erszebeth e di un bambino "Johann, di 7 anni e mezzo", un'età assolutamente sbagliata. I tre si stabilirono in un primo momento a Windber, in Pennsylvania, presso la famiglia di un cugino. Quando si trasferirono a Chicago nel 1910, Weissmüller padre chiese la cittadinanza americana per sé e la sua famiglia e dichiarò che Jonas era nato nel 1904 a Windber, non in Ungheria. In questo modo, il bambino risultò cittadino americano, mentre le pratiche per la naturalizzazione del padre andarono avanti fino al 1937. Fu così che il figlio di un tedesco e di una ungherese, nato in un villaggio ungherese oggi quartiere di una città romena della Transilvania, poté rappresentare gli USA a Parigi nel 1924.
Johnny a Chicago imparò a nuotare nelle acque del lago Michigan, per superare le difficoltà della crescita. Gareggiò con la sua scuola, il St. Michael, poi abbandonò gli studi prima di approdare all'Illinois Athletic Club nell'ottobre del 1920. Sedicenne alto e magro, aveva uno stile orribile ma il coach Bill Bachrach, che ne intuì le doti, lo dirozzò imponendogli di nuotare con lo sguardo fisso al suo cappello, posato sul bordo della vasca. Così Weissmuller, 1,90 m per 79 kg, imparò il crawl a respirazione alternata, nuotando alto in acqua. La sua prima miglior prestazione mondiale venne nel marzo 1922, in giugno nella vasca di Alameda centrò il primo tempo inferiore al minuto nei 100 m stile libero, 58,6″. È difficile contare tutti i record che ottenne in seguito, fra distanze spurie e codificate, ma fanno impressione i 51 titoli AAU. La sua impresa più rilevante fu nel 1927 un 51″ nelle 100 yards, fatto registrare assieme ad altri due primati mondiali ad Ann Arbor nel Michigan. Fu anche il primo a nuotare le 440 yards stile libero in meno di 5 minuti.
È logico che a Parigi fosse il favorito oltre che il beniamino del pubblico femminile. Alle Tourelles il 18 luglio vinse nell'ultima vasca la finale dei 400 m, in cui deteneva il mondiale con 4′57″, precedendo nettamente lo svedese Arne Borg, di gran lunga il miglior europeo. Due giorni dopo, gareggiò nei 100 m contro l'hawaiiano Duke Kahanamoku e il più giovane fratello Sam, oltre a Borg: Duke guidò per tre vasche, ma Weissmuller lo superò nell'ultima, precedendolo di 2,4″ (Sam di 2,8″, Borg di 3″) e chiudendo in 59″ (il suo personale era 57,4″). La conclusiva staffetta 4 x 200 m fu una passeggiata, con record del mondo, per la prima volta sotto i 10′. I 100 m e la staffetta furono disputati nello stesso pomeriggio, ma non bastò: al mattino, a seguito di un reclamo degli Stati Uniti, c'era stata fra Belgio e USA la ripetizione dell'ultimo match per il secondo posto della pallanuoto (la lotta per l'argento era a girone), vinto dai belgi il giorno precedente per 2-1 e Weissmuller fu schierato. Il risultato rimase lo stesso ma valse comunque un bronzo.
Quattro anni dopo, ad Amsterdam, Weissmuller si aggiudicò due ori nello stesso giorno, l'11 agosto: 100 m in 58,6″ e frazione conclusiva della 4 x 200 m, che demolì il record di Parigi, anche perché gli USA furono impegnati a fondo dai nuovi astri, i giapponesi. Johnny smise allora di gareggiare, dopo essere rimasto imbattuto dall'agosto del 1921 su tutte le distanze dalle 100 yards ai 400 m stile libero e aver realizzato almeno 25 migliori prestazioni mondiali. Non resistette al richiamo del cinema: apparve per la prima volta nel 1929 in una serie di documentari e poi come Adone nel quadro figurativo del musical Gloria alla donna americana. Nel 1932 fu notato nella piscina dell'albergo dallo sceneggiatore Cyril Hume, che lo suggerì al regista W.S. Van Dyke, per il quale stava riducendo un racconto di Edgar Rice Burroughs, l'inventore di Tarzan. Van Dyke offrì un provino a Weissmuller, che accettò, con la promessa di pranzare con Greta Garbo. Interpretò quindi Tarzan l'uomo scimmia, accanto a Maureen O'Sullivan, 'doppiata' nelle scene di nuoto dalla futura madre di un altro campione, Don Schollander. Weissmuller invece nuotava in prima persona, cedendo il passo a uno stuntman solo fra le liane degli alberi. In una pausa della lavorazione, si rivolse alla O'Sullivan con la battuta "Io Tarzan, tu Jane" diventata poi famosissima, come l'urlo, costruito dalla MGM in studio (e brevettato), mescolando il barrito di un elefante, una voce umana, il suono di uno strumento a fiato e il fischio di una locomotiva. Nonostante Johnny non fosse certo un grande attore e le sue battute fossero ridotte al minimo per la voce sgradevole e l'incapacità di imparare i testi, i film della serie originale della MGM ‒ sei, cui se ne aggiunsero altrettanti della Rank ‒ ebbero enorme successo. Successivamente Weissmuller fu 'Jim della jungla' in 16 film della Columbia fino al 1955 e anche in una serie TV. Ebbe cinque mogli, l'ultima delle quali, Maria Brock, gli restò accanto a Fort Lauderdale, in Florida, fino alla morte, che lo colse, povero e ormai paralizzato da otto anni, ad Acapulco il 20 gennaio 1984, per edema polmonare dopo l'ultimo di una serie di infarti.
In un'atletica dominata dalla stella di Nurmi, ci fu anche spazio per la vicenda che ha ispirato uno dei più famosi film a soggetto sull'Olimpiade, Momenti di gloria, diretto da Hugh Hudson nel 1981 e nel marzo successivo vincitore a sorpresa degli Oscar per il miglior film, per le musiche scritte da Vangelis e per il soggetto originale. Gli interpreti sono Ben Cross nella parte di Harold Abrahams e Ian Charleson in quella di Eric Liddell, affiancati da numerosi grandi attori britannici, da Ian Holm (nel ruolo del coach Sam Mussabini, nomination per miglior attore non protagonista) a sir John Gielgud, nelle vesti di lord Burghley. Il film ha per tema centrale il dilemma sull'opportunità o meno di gareggiare la domenica, in effetti assai più sentito all'epoca della prima Olimpiade parigina, quella del 1900. Ma le piccole inesattezze non inficiano il valore della pellicola.
La questione coinvolse due velocisti britannici, l'inglese Harold Abrahams e lo scozzese Eric Liddell. Nella realtà dei fatti che il calendario prevedesse le batterie dei 100 m di domenica fu noto molte settimane prima della partenza per Parigi e impose difficili scelte già in patria, mentre il film immagina che la notizia arrivi ai due atleti al momento dell'imbarco sul traghetto per la Francia. Liddell, fermo nel suo proposito di rispettare il giorno del Signore, rinunciò ai 100 m per concentrarsi su 200 m (medaglia di bronzo alle spalle di Jackson Scholz e del veterano Charles Paddock) e 400 m (medaglia d'oro in 47,6″, riconosciuto come record del mondo, anche se Ted Meredith aveva già corso in 47,4″). Nei 100 m trionfò Abrahams davanti a Scholz, con Paddock quinto. Abrahams, che studiava e si allenava a Cambridge, dopo Reginald Walker (1908) fu il primo non statunitense vincitore sui 100 m. Era di benestante famiglia ebrea emigrata in Inghilterra dall'Europa orientale (il fratello Adams sarebbe diventato un medico famoso, l'altro, Sydney, aveva già gareggiato nei 100 m e nel lungo ad Atene 1906 e a Stoccolma); fu poi apprezzato segretario e presidente dell'atletica britannica e uno degli organizzatori dell'Olimpiade londinese del 1948. Liddell, tre anni più giovane di Abrahams, secondo figlio di un missionario, religiosissimo, nato a Tientsin in Cina, studiava all'Università di Edimburgo. Tornò a Tientsin da missionario nel 1925; fatto prigioniero dai giapponesi, morì di tumore in un lager a Weihsien il 21 febbraio 1945.
L'atletica offrì anche altri momenti di gloria: ciò che non era riuscito a Thorpe, andò a merito di Harold Osborn, americano, che al decathlon affiancò il successo anche in una prova individuale, l'alto, nonostante i giudici storcessero la bocca per la sua 'rotazione costale', che nel 1925 gli avrebbe fatto perdere un record del mondo. Nel lungo arrivò il primo oro di un atleta di colore, grazie a William DeHart Hubbard, un modesto 7,44 m ottenuto perdendo molti cm in battuta. Nel pentathlon Robert LeGendre, sempre battuto da Hubbard e nemmeno iscritto alla gara individuale, aveva saltato 7,76 m, sicuramente aiutato dal vento; ma l'anemometro non c'era e la misura diventò il nuovo record del mondo. Fra i finlandesi, Nurmi, Ritola e i loro compagni da una parte, e gli americani dall'altra fu una dura lotta: alla fine la spuntarono gli USA con 12 ori contro 10.
Fu l'ultima volta del tennis: troppe star, troppi professionisti dichiarati, come Bill Tilden che non rinunciò al suo incarico di giornalista e non fu ammesso. Susanne Lenglen che aveva trionfato ad Anversa lasciò lo scettro alla sua rivale Helen Wills. Sul campo di gara, in pessime condizioni fra sabbia, buche e fondi di bottiglia, si affacciarono i primi interpreti dell''era dei moschettieri' di Francia, Henri Cochet che si arrese in finale al britannico Vincent Richards, mentre Jean Borotra cedette il bronzo a Umberto de Morpurgo.
Una curiosità nel canottaggio: vinse l'oro schierato al settimo posto dell'otto della Yale University un futuro, famosissimo pediatra, Benjamin Spock allora ventunenne, che poi avrebbe venduto 30 milioni di copie del suo Babe and child care, tradotto in 29 lingue.
Solo una malattia improvvisa impedì a Oscar Swahn di gareggiare a quasi 77 anni nel tiro. Lo svedese si era messo in luce nel 1908 a Londra dove aveva vinto l'oro nel tiro al bersaglio mobile con colpo singolo sia individuale sia a squadre e il bronzo nel doppio colpo. A Stoccolma 1912 ‒ dove in squadra c'era anche il figlio Alfred, classe 1879 ‒ con il successo nel bersaglio mobile a squadre, diventò, a 64 anni e 258 giorni, il più vecchio vincitore olimpico, primato ancor oggi suo. Ad Anversa, grazie all'argento a squadre nel colpo doppio, ottenuto a 72 anni e 279 giorni, divenne anche il meno giovane vincitore di medaglie in assoluto. La carriera di Alfred proseguì e a Parigi fu ancora sul podio, argento nel bersaglio mobile a squadre: in totale collezionò 9 medaglie, tre d'ogni tipo, in dodici anni.
Il bilancio italiano non avvicinò l'exploit di Anversa, ma con 8 ori fu comunque di rilievo. Degli otto successi italiani, stupì il bottino dei sollevatori di peso, tre volte a segno: fra i piuma si impose Pierino Gabetti, un ventenne di Sestri Ponente, che precedette il minuscolo austriaco Andreas Stadler, il quale due anni dopo fu capace di sollevare nello strappo il doppio del suo peso, 117,5 kg; Gabetti fu anche argento quattro anni dopo. Carlo Galimberti, 30 anni, nato da genitori italiani a Rosario di Santa Fe (Argentina), fra i medi ottenne il successo e il mondiale a due braccia; conquistò l'argento nelle successive due edizioni, l'ultima medaglia a 38 anni; nella vita faceva il pompiere e fu decorato per i soccorsi prestati in occasione del terremoto del Vulture nel 1927; il 10 agosto 1939 entrò da solo in un sotterraneo invaso dall'acqua bollente, una caldaia scoppiò e lo uccise. Infine il lombardo di Lodi Giuseppe Tonani, che nel 1920 era stato in squadra per il tiro alla fune e aveva già 36 anni, ebbe l'oro dei massimi. Nelle cinque gare della disciplina, allora prevista su quattro alzate, sfuggirono agli azzurri solo i leggeri e i mediomassimi (dove fu sesto Mario Giambelli).
Nonostante questa bella serie di successi, fece molto più notizia l'argento nella maratona di Romeo Bertini, su una distanza rimasta da allora quella classica di Londra 1908: 42.195 m. Bertini era un contadino di Gessate; corse la prima maratona nel 1913 e dopo la guerra, dove aveva combattuto come bersagliere, l'Agamennone di Milano lo arruolò fra i suoi corridori. Dopo aver vinto diverse corse su strada, decise di puntare alla selezione per Parigi e scese in gara con altri cinque azzurri, fra i quali il veterano di Londra, Ettore Blasi. Dei 58 partenti di 20 nazioni, molti avevano più di 30 anni, 31 il nostro Bertini. Questi rinunciò a seguire i primi, errore commesso dal trentaseienne americano Clarence Harrison DeMar (aveva debuttato nel 1910 e corse fino al 1938, quando fu ancora settimo nella maratona di Boston) che si incaponì nell'inseguimento del finlandese Albin Stenroos, di un solo anno più giovane di lui. Stenroos, che a Stoccolma era stato bronzo dei 10.000 m, non cedette, ma lo dovette fare DeMar, mentre Bertini, maglia bianca e fazzoletto in mano, procedeva con calma, superando avversari illustri come Hannes Kolehmainen. Alla fine precedette di 1″ l'americano, ma ebbe un distacco di 6″ dal vincitore. Nel 1928, dopo aver vinto diverse gare italiane tra cui la maratona di Torino, si fermò prima del 20° km alla maratona di Amsterdam. Impiegato come guardiano allo zoo di Milano, morì a 80 anni.
Contando sul vecchio Giorgio Zampori, i ginnasti furono ancora campioni a squadre, mentre agli anelli conquistò l'oro il barese Francesco Martino, stella della Angiulli, la società che godeva della palestra coperta più ampia d'Italia. Nel ciclismo andò ancora a segno, ma con una formazione completamente diversa da quattro anni prima, il quartetto dell'inseguimento animato da Alfredo Dinale, 24 anni, un 'dilettante fuoriclasse' che vinse anche la Coppa Bernocchi, fece il gregario di Binda e conquistò due tappe del Giro nel 1929, per diventare poi apprezzato seigiornista.
Il 28 agosto di quell'anno, ad Abbazia, fra Trieste e Fiume, si svolse una sfida a duello che vide protagonisti Giorgio Santelli, figlio di Italo, residente a Budapest, oro a squadre con gli azzurri nel 1920, e Adolfo Cotronei, schermidore e giornalista della Gazzetta dello Sport. Il duello, previsto 'all'ultimo sangue', durò in realtà un paio di minuti e si interruppe non appena Santelli toccò Cotronei, producendogli un largo graffio sotto l'occhio. I due si separarono senza riconciliarsi, per salutarsi di nuovo soltanto quattro anni dopo, a Los Angeles nel 1932. All'origine della sfida gli animi esagitati e l'irruenza livornese dell'irascibile e sanguigno Oreste Puliti.
La scherma di Parigi non fu propizia all'Italia come quella di Anversa: non c'erano i Nadi, i francesi giocavano in casa, sicché nel fioretto Roger Ducret non ebbe rivali, in una finale senza italiani in cui fu sesto il danese Ivan Osiier, un medico ebreo di Copenaghen che gareggiò otto volte ai Giochi fra il 1906 e il 1948, saltando solo Berlino per protesta contro il nazismo, e che a Parigi festeggiò l'oro della moglie Ellen nel fioretto femminile. Ma gli italiani mancarono perché nella precedente gara a squadre, quando al quinto incontro Lucien Gaudin toccò Bino Bini per il decisivo 5-4 che diede alla Francia un vantaggio di 4-1, sicuramente recuperabile, la squadra italiana si alzò tutta in piedi, protestò animosamente e abbandonò la sala cantando Giovinezza e rinunciando ai successivi assalti contro Ungheria e Belgio; fu quindi quarta e ultima in finale, e tutti gli italiani furono esclusi dalla prova individuale. L'atmosfera dunque era già surriscaldata quando si disputò la spada a squadre, con un altro durissimo match Francia-Italia nel girone finale. Decisero le stoccate subite, 21 dagli azzurri, 16 dai francesi, sull'8 pari la squadra si disunì e cedette poi nettamente al Belgio capitanato da Paul Anspach, che aveva già 42 anni e sarebbe vissuto fino a 99: fu un bronzo con altre polemiche e tutto sembrò acquietarsi dopo la spada individuale, dove Virgilio Mantegazza, sesto, fu il migliore dei nostri.
Ma fu il 15 luglio a infiammare gli animi. Nel torneo di sciabola a squadre, gli azzurri si trovarono di fronte i maestri ungheresi, guidati da Italo Santelli, già guardato dai nostri di malanimo come un 'traditore'. Terreno di successi ungheresi, la sciabola condusse Italia e Ungheria alla finale, dove il confronto fu incertissimo; sull'8 pari furono ancora le stoccate, 50 a 46, a fare la differenza a favore dei nostri: celebrazioni, accuse, articoli grondanti retorica di Cotronei. Seguì la sciabola individuale dove si voleva replicare il successo. Gli italiani decisero che Puliti doveva incontrare minor resistenza possibile nella poule finale dai compagni che erano Marcello Bertinetti, ancora ai vertici dopo Londra 1908, Bino Bini e Giulio Sarrocchi. Il giudice ungherese, Györgyi Kovacs, presentò reclamo sostenendo che le vittorie di Puliti contro gli azzurri erano regalate, e che almeno Bini, splendido nelle eliminatorie e irriconoscibile in finale, andava richiamato. Puliti affrontò Kovacs di petto e disse a Italo Santelli: "Di' a Kovacs che possiamo risolvere la questione a bastonate come facciamo noi fascisti". Santelli riferì alla giuria, che escluse Puliti e gli altri italiani dalla finale. Puliti fu sospeso dalla Federazione internazionale, rientrando solo nel 1927 a Vichy. Lì a Parigi era ancora furibondo quando incontrò Kovacs alle Folies Bergère e lo schiaffeggiò in pubblico con un guanto, sfidandolo pubblicamente a duello. La cosa ricevette eco immensa, Cotronei tuonò sulla Gazzetta, sicché, quando alla stazione di Torino il maestro di scherma Colombetti vide Santelli, lo schiaffeggiò e lo insultò; la milizia a stento lo sottrasse dall'ira dei presenti. Intanto la squadra italiana aveva già designato Rodolfo Terlizzi a sfidare Kovacs, ma ciò non accadde. Vi furono invece i duelli fra Giorgio Santelli per conto del padre e Cotronei ad Abbazia e, nell'autunno, a Nagykanitza al confine fra Ungheria e Serbia fra Kovacs e Puliti, che arrivò in auto accompagnato da un altro giornalista, Renato Casalbore. Il duello durò 59 minuti, Kovacs fu ferito quattro volte, Puliti aveva appena un graffio al mento quando i padrini proposero la sospensione.
A prescindere da questi strascichi, Parigi chiuse bene, anche se c'era ancora molto da lavorare per razionalizzare il programma. Assolutamente inadeguate apparivano fra l'altro le norme sul dilettantismo.