Olimpiadi estive: Seul 1988
Numero Olimpiade: XXIV
Data: 17 settembre-2 ottobre
Nazioni partecipanti: 159
Numero atleti: 8391 (6197 uomini, 2194 donne)
Numero atleti italiani: 255 (213 uomini, 42 donne)
Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Judo, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallamano, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tennis, Tennis da tavolo, Tiro, Tiro con l'arco, Tuffi, Vela
Numero di gare: 237
Ultimo tedoforo: Sohn Kee-chung
Giuramento olimpico: Sohn-Mi-Na e Hur Jae
La scelta della capitale sudcoreana per i Giochi della XXIV Olimpiade fu fatta nel 1981, al congresso di Baden Baden, il primo tenuto dopo quello di Varna del 1973. Lo aveva convocato Juan Antonio Samaranch, eletto l'anno precedente alla guida del CIO, allo scopo di discutere dopo il boicottaggio dell'Olimpiade moscovita di alcuni argomenti fondamentali per la sopravvivenza dell'organizzazione, e cioè quale futuro doveva immaginarsi per i Giochi, per la cooperazione internazionale e per il movimento olimpico nel suo insieme, vale a dire CIO, Federazioni internazionali, Comitati olimpici nazionali. La capacità di guida di Samaranch, insieme alla visione di come avrebbe dovuto cambiare l'olimpismo per adattarsi alle nuove realtà economico-sociali che andavano profilandosi nel mondo, emerse proprio in quell'occasione.
La scelta di Seul, seppure in qualche modo resa obbligata dalle circostanze, poteva essere considerata quale solido indizio di una politica nuova, anche se non priva di rischi. La Corea del Sud era, infatti, formalmente ancora in guerra con la Corea del Nord e priva di rapporti diplomatici con ben 37 paesi, rappresentati nel CIO dai rispettivi Comitati olimpici nazionali: tra questi, tutti quelli appartenenti al Patto di Varsavia, oltre alla Cina e a Cuba. Il governo di Seul era una dittatura militare, guidata all'epoca dall'ex generale Chun Doo Hwan, e all'interno del paese cominciava a crescere l'opposizione politica, in specie tra i giovani e nelle università, con una pressante richiesta di democratizzazione. Tutto, insomma, pareva sconsigliare la scelta di Seul per evitare ulteriori traumi al Movimento olimpico dopo il boicottaggio dell'Olimpiade di Mosca. Inoltre, il problema di Pyongyang e dei rapporti con la Corea del Nord incombeva: quale sarebbe stata la reazione di Kim Il Sung, il dittatore legato all'URSS che regnava su quella parte della penisola coreana?
A Baden Baden soltanto due furono le candidature per i Giochi del 1988, a riprova di quale difficile momento stesse passando il Movimento olimpico. Entrambe erano asiatiche: la giapponese Nagoya e, appunto, Seul. Nagoya appariva nettamente favorita e in verità pochissimi scommettevano sulle possibilità della capitale coreana. Tuttavia si verificarono, nei giorni immediatamente precedenti il voto, alcuni fatti che avrebbero fortemente influenzato la scelta: i messaggi inviati da migliaia di cittadini di Nagoya contro l'organizzazione dei Giochi nella loro città; la protesta, a Baden Baden, di centinaia di giapponesi appartenenti a gruppi di ambientalisti contrari all'assegnazione perché le nuove installazioni olimpiche avrebbero distrutto l'ultimo parco esistente in una città già sovrappopolata; le pressioni americane e di uomini d'affari e politici coreani (tra i quali, soprattutto, Kim Un Yong) in favore di Seul; l'interesse di Horst Dassler, proprietario dell'Adidas e influentissimo personaggio all'interno del CIO, a che l'Olimpiade facesse da battistrada all'apertura di nuovi mercati; il desiderio di non pochi membri del CIO di dispiacere al membro sovietico, Konstantin Andrianov, deciso oppositore della scelta di Seul. Alla fine, il risultato fu ‒ con sorpresa di molti ‒ 52 a 27 per Seul.
Fatta la scelta, le preoccupazioni di Samaranch aumentarono. Quella di Seul era da considerarsi la prima vera Olimpiade organizzata sotto la sua presidenza, in quanto i Giochi di Los Angeles dipendevano da decisioni assunte prima del suo arrivo al vertice del CIO, e avrebbe potuto essere un avvenimento capace di segnare in maniera storica gli anni della sua presidenza. Ma perché ciò avvenisse occorreva, innanzitutto, lavorare contro il pericolo di un ennesimo boicottaggio. Samaranch, il cui retroterra era quello di diplomatico, si mise all'opera con accanita pazienza.
Per prima cosa, cercò di vincere l'opposizione di Pyongyang offrendo ai nordcoreani una serie di opportunità. Per venire incontro alle loro richieste di distribuire gli avvenimenti tra Nord e Sud, Samaranch offrì a Kim Il Sung l'organizzazione delle competizioni di tiro con l'arco e tennis da tavolo, due discipline molto popolari in quel paese. Inoltre alcune gare di calcio e ciclismo avrebbero potuto svolgersi in Corea del Nord. Pyongyang rispose con una controproposta: cerimonia d'apertura simultanea a Seul e nella capitale nordcoreana, assegnazione di alcune discipline al Nord, in particolare l'intero torneo di calcio. Nel seguito di una trattativa che parve infinita e si protrasse per anni, non mesi, molte idee furono presentate ai dirigenti nordcoreani, tra cui una di particolare significato era stata studiata dal presidente della IAAF, Primo Nebiolo, in stretta collaborazione con Samaranch, e prevedeva lo svolgersi della maratona olimpica a cavallo del 38° parallelo, la linea di confine tra le due Coree. L'idea era certamente suggestiva, essendo la maratona uno degli sport più praticati dai coreani e di sicuro la gara di più forte impatto storico e immaginativo, simboleggiando la fatica dell'uomo, la sua capacità di vincere ogni genere di difficoltà. Cosa sarebbe stato più adatto a riunire le due Coree quarant'anni dopo la guerra? Neanche questa offerta, però, fu considerata sufficiente dai nordcoreani. In verità è molto probabile che nessuna proposta sarebbe mai stata accettata dalla Nord Corea. Infatti, per organizzare delle competizioni olimpiche occorrevano gli impianti; occorreva metter in piedi un comitato formato da gente esperta nella preparazione di grandi eventi e, soprattutto, occorreva aprire il paese alla presenza straniera, a cominciare da quella dei rappresentanti del CIO e delle Federazioni internazionali coinvolte. Infine, bisognava dare libero accesso non soltanto agli atleti, ai dirigenti, ai giudici di gara, al personale medico e di assistenza, ma anche e soprattutto ai giornalisti. Avrebbe mai voluto la Corea del Nord permettere l'ingresso a migliaia di giornalisti accreditati ai Giochi, senza possibilità di rifiutare a nessuno un viaggio a Pyongyang e nelle altre località eventualmente toccate dall'organizzazione dei Giochi? I dirigenti del Movimento olimpico, e segnatamente Samaranch e Nebiolo, constatarono rapidamente che le trattative erano destinate a fallire e che la carta che la Nord Corea intendeva in realtà giocare era quella di provocare un boicottaggio dei paesi del blocco sovietico, così da danneggiare la riuscita dei Giochi di Seul.
Per questo, mentre da un lato Samaranch si mostrava aperto a considerare le richieste nordcoreane, dall'altro lavorava incessantemente con i dirigenti politici dell'area comunista per evitare il pericolo del boicottaggio. In questa sua attività, il presidente del CIO superò persino, in numero di viaggi e contatti, i record toccati da un famoso diplomatico noto per i continui spostamenti, l'ex segretario di Stato americano Henry Kissinger. A favorire Samaranch nel suo lavoro contribuì in maniera determinante il cambiamento che, nel frattempo, andava profilandosi nei paesi dell'Est Europa e, in particolare, in Unione Sovietica. Michail Gorbaciov era, infatti, diventato segretario generale del Partito comunista sovietico e la politica del paese aveva cominciato ad aprirsi in maniera inimmaginabile ai tempi di Breznev, Andropov o Chernenko. In effetti, Gorbaciov si dimostrò il più importante alleato di Samaranch riguardo alla riuscita dei Giochi di Seul. Anche la Cina, che era già stata presente in massa a Los Angeles, aveva garantito la sua presenza a Seul. La minaccia di boicottaggio era ormai svanita e la Corea del Nord aveva trovato, nella sua richiesta di non inviare atleti ai Giochi, un solo alleato importante nel mondo sportivo: Cuba.
Intanto, la Corea del Sud si era preparata a ospitare l'Olimpiade con uno sforzo imponente e senza risparmio di spese. In verità, potenza industriale nascente, il paese intendeva utilizzare i Giochi come occasione irripetibile per presentare al mondo un'immagine che l'opinione pubblica internazionale neppure sospettava: quella di una nazione aperta alla modernità, all'innovazione, agli scambi commerciali e culturali, pronta a invadere i mercati con la forza dei suoi prodotti. Presidente del Comitato organizzatore dei Giochi era il leader del partito di governo, nonché presidente dell'Assemblea legislativa, l'ex generale Roh Tae Woo che, in seguito, sarebbe poi divenuto capo dello Stato. Ma dietro di lui, chi manovrava e manteneva i contatti con il CIO e le Federazioni internazionali era il potente Kim Un Yong: la sua carriera, per molti versi eccezionale, come uomo politico, dirigente sportivo, agente segreto, consigliere di capi di Stato e ambasciatore, fu successivamente stroncata da una serie di scandali, sia in sede CIO (dove si salvò, nel 1999, con una semplice ammonizione) sia all'interno del suo paese, con accuse di malversazioni nella conduzione della Federazione internazionale di taekwondo (di cui era stato a lungo presidente) e di altri atti di corruzione, tanto da essere arrestato agli inizi del 2004 (il CIO, di cui era vicepresidente, lo ha sospeso da ogni incarico, oltreché dalla qualità di membro, in attesa che venga definitivamente accertata la sua posizione).
Un altro problema rilevante nell'organizzazione dei Giochi e sul quale Samaranch e il CIO avevano cominciato a porre il massimo d'attenzione era rappresentato dai contratti televisivi. Nell'era della presidenza di Avery Brundage il Comitato olimpico aveva snobbato l'importanza della televisione, non soltanto sotto l'aspetto promozionale, ma soprattutto sotto quella finanziario. Brundage aveva a lungo sostenuto che poiché l'Olimpiade aveva fatto a meno delle trasmissioni televisive per sessant'anni, altrettanto avrebbe potuto continuare a fare in quelli successivi. In realtà, l'apporto finanziario dei diritti televisivi stava diventando essenziale e Samaranch, che intendeva procedere a uno sviluppo rapido del Movimento, se ne rendeva perfettamente conto. Così, dopo il successo dei Giochi di Los Angeles 1984, per i quali l'ABC aveva versato nelle casse olimpiche 225 milioni di dollari (furono 309 per i Giochi invernali di Calgary 1988), la negoziazione dei diritti per l'Olimpiade di Seul assunse l'aspetto di una battaglia finanziaria. Alla fine i diritti di ritrasmissione furono vinti dalla NBC, che se li garantì con un'offerta di 300 milioni di dollari. La cifra era inferiore a quanto i sudcoreani si aspettavano, specialmente dopo che l'International management group, un'organizzazione americana di marketing sportivo, aveva stimato il valore dei Giochi in 750 milioni di dollari, una somma, in verità, davvero elevata soprattutto considerando che per la differenza di fuso orario tutte le più importanti finali si sarebbero svolte in orari impossibili per gli spettatori americani ed europei. Il CIO riuscì, alla fine, a firmare contratti per 403 milioni di dollari, includendo i diritti pagati dall'EBU (European broadcasting union) e dai network giapponesi.
Le varie Federazioni internazionali avevano programmato gli orari delle competizioni senza minimamente tener conto delle esigenze televisive. In questo panorama, un ruolo di primo piano fu giocato dalla IAAF e dal suo presidente, Primo Nebiolo. Scaltro negoziatore, Nebiolo aveva appositamente ignorato l'interesse della NBC a mostrare in diretta alcune finali, in particolare quella che si prospettava come la sfida del secolo tra lo statunitense Carl Lewis e il canadese Ben Johnson sui 100 m. Quando la NBC, tramite l'israeliano Alex Gilady, vicepresidente per lo sport, nonché membro del CIO, richiese a Nebiolo di modificare l'ora di svolgimento delle gare, un'altra trattativa si aprì, questa a tutto vantaggio della IAAF. Infatti Nebiolo accettò di cambiare l'ora di semifinali e finali dei 100 m (uomini e donne) e di alcune altre gare, anticipandole agli orari, inconsueti, compresi tra mezzogiorno e l'una del pomeriggio, allo scopo di favorire l'audience americana; ma pose la condizione che la NBC versasse 20 milioni di dollari su un fondo intestato alla IAAF. E così avvenne. Fu un colpo d'astuzia del dirigente italiano che con quei soldi costitutì la IAF (International athletic foundation), con sede a Montecarlo, avente per presidente onorario il principe ereditario Alberto e per scopo la promozione dell'attività atletica nel mondo. Ancora oggi la Fondazione opera in questo campo, con iniziative di vario tipo e attraverso la pubblicazione di libri specializzati in storia dell'atletica e tecniche di allenamento; tra le sue manifestazioni vi è anche l'annuale Gala dell'atletica, che richiama a Montecarlo, per una solenne premiazione, i migliori atleti della stagione.
Risolta la questione televisiva, i Giochi di Seul promettevano dunque di diventare un successo. Per la prima volta, i professionisti dello sport si vedevano riconosciuto il diritto di competere ai Giochi (con la sola eccezione, al momento, per i pugili professionisti, i giocatori di basket della NBA e i calciatori professionisti al di sopra dei 23 anni). Anche il tennis era stato riammesso con una deliberazione avvenuta nella sessione del CIO del 1987, a Istanbul. Dopo 64 anni questa disciplina riappariva nei programmi dell'Olimpiade e il torneo avrebbe visto presenti i migliori giocatori. A testimonianza del peso di quel ritorno l'argentina Gabriela Sabatini, star del tennis, fu la portabandiera del suo paese nella cerimonia d'apertura (il torneo femminile venne vinto dalla tedesca Steffi Graf, che in finale batté proprio Sabatini). Inoltre, il tennis da tavolo ‒ o ping-pong, reso celebre perché utilizzato per una ripresa di contatti in campo diplomatico tra Cina e Stati Uniti ‒ veniva per la prima volta introdotto ai Giochi: Corea del Sud e Cina si sarebbero divise le vittorie nelle quattro gare in programma.
Non c'erano in vista altri gravi problemi. Anche le preoccupazioni sulla sicurezza ‒ che poteva esser minacciata soltanto dalla Corea del Nord ‒ apparivano poco realistiche: che vantaggio avrebbe potuto ricavare la dirigenza di quel paese ad attaccare un'Olimpiade nella quale tutti i suoi alleati politici, o presunti tali, erano presenti? Durante i Giochi, poi, le forze americane dispiegate in Sud Corea avevano programmato una serie di esercitazioni a immediato ridosso della zona smilitarizzata, a scopo dimostrativo. Neppure la caduta di un aereo sudcoreano, nel novembre del 1987, per una bomba di matrice nordcoreana, e la morte dei 115 passeggeri, era riuscita a far deragliare il corso degli avvenimenti. Così come non rappresentarono un rischio per l'Olimpiade le manifestazioni studentesche contro il governo militare di Seul nell'immediata vigilia dei Giochi.
L'Olimpiade fu indubbiamente uno straordinario successo organizzativo e di immagine per la Corea del Sud. Un investimento colossale, per la costruzione degli impianti e l'ammodernamento della città, venne largamente ripagato dal nuovo ruolo che il paese, da quel momento, assumeva. La prova di efficienza e di pragmatismo, di duttilità nel risolvere i problemi, di apertura verso nuove frontiere fece risaltare la capacità creativa e il desiderio di modernità della Corea del Sud, nonché una voglia e una capacità di competere, soprattutto con il Giappone ‒ al quale la Corea era stata asservita per lungo tempo ‒ che lasciò stupefatti i giornalisti affluiti a Seul da tutto il mondo. Un momento di grande commozione per il pubblico coreano fu rappresentato, a questo proposito, dall'ingresso nello stadio olimpico, durante la cerimonia di apertura dei Giochi, dell'ultimo tedoforo: il settantaseienne Sohn Kee-chung che, nell'ormai lontano 1936, aveva trionfato nella maratona olimpica di Berlino sotto il nome giapponese di Kitei Son e per i colori di quel paese, secondo le regole imposte dalla potenza occupante.
Quella sera del 17 settembre 1988 sfilarono nella stadio olimpico di Seul le bandiere di 160 paesi (un paio di questi però, come Brunei, senza rappresentanza di atleti): praticamente tutti i Comitati nazionali olimpici riconosciuti dal CIO, con la sola eccezione di Nord Corea, Cuba, Nicaragua, Albania, Etiopia e Seychelles. Per la prima volta dal 1972 il Movimento olimpico era di nuovo unito: i Giochi si annunciavano davvero universali.
La finale dei 100 m maschili era considerata l'avvenimento centrale non soltanto dei Giochi atletici, ma dell'Olimpiade intera. Oltre 80.000 persone avevano riempito lo stadio per assistere alla corsa del secolo, circa duecento le reti televisive collegate mentre migliaia di giornalisti della stampa scritta si accalcavano nei posti loro riservati, insufficienti per contenerli tutti. Nei turni eliminatori, Carl Lewis aveva fatto grande impressione vincendo facilmente batterie e quarti di finale in 10,14″ e 9,99″. Ben Johnson, al contrario, cercando di mascherare la sua ritrovata condizione di forma ‒ in agosto aveva abbandonato il tour europeo dopo esser stato sconfitto da Lewis e Calvin Smith nell'importante meeting di Zurigo ‒ aveva commesso un grave errore. Nei quarti di finale, a 10 m dal traguardo, aveva preso a rallentare vistosamente e, sulla linea di arrivo, venne superato dal britannico Linford Christie e dall'americano Dennis Mitchell. Soltanto i primi due erano ammessi alle semifinali direttamente: altri due posti venivano assegnati in base ai tempi. Per fortuna (o sfortuna?) di Johnson il 10,17″ ottenuto l'avrebbe, infine, qualificato.
Le semifinali furono ancora un show di Carl Lewis (9,99″) e una dimostrazione di forza di Johnson che, vistosi addebitare una prima partenza falsa, riuscì tuttavia a controllare le sue reazioni, al via successivo, e vincere facilmente in 10,03″ la semifinale, nonostante un forte vento contrario. Johnson aveva anche introdotto un nuovo tipo di partenza, che prevedeva una specie di balzo fuori dai blocchi: grazie alla straordinaria forza muscolare, il canadese riusciva così a mettersi in azione assai prima di ogni altro concorrente. La finale fu quasi senza storia. Ben Johnson, in corsia sei, uscì dai blocchi allo sparo e balzò in avanti; Lewis, in terza, ebbe le solite difficoltà di accelerazione nei primi metri, anche per via della lunghezza delle sue gambe. La corsa sembrò presto decisa: senza un attimo di cedimento, neppure nell'ultima parte di gara, Johnson piombò sul traguardo in 9,79″, migliorando il suo primato del mondo di 4 centesimi. Lewis, soltanto in virtù della sua straordinaria capacità di accelerazione dalla metà gara in poi, riuscì a superare Linford Christie e Calvin Smith, terminando secondo in 9,92″, in ogni caso il suo miglior risultato cronometrico di sempre.
Il resto della storia ‒ che non si svolse in pista, ma nelle segrete di un laboratorio di analisti di Seul ‒ avrebbe oscurato per sempre il risultato della gara. La finale dei 100 m si era disputata il sabato e la domenica le analisi sui campioni di urina dei primi tre finalisti decretarono che uno di loro aveva utilizzato anabolizzanti. Nella notte tra domenica e lunedì il principe Alexandre de Merode, presidente della commissione medica del CIO, comunicò ai dirigenti canadesi l'accertata positività di Ben Johnson. Nella giornata di lunedì anche il campione B venne esaminato, confermando la presenza di stanozololo nei reperti organici del campione olimpico. La procedura imponeva la squalifica immediata e il ritiro della medaglia d'oro. Ciò avvenne nel primo pomeriggio di martedì, quando ancora nessuno, al di fuori dei diretti interessati e pochi alti dirigenti del CIO e della IAAF, conoscevano la notizia, che esplose nella notte sollevando un putiferio. Da quando, nel 1968, erano cominciati i controlli antidoping a Città del Messico (da Montreal 1976 si era poi dato poi il via in particolare a quelli sulle sostanze anabolizzanti), 42 atleti erano stati dichiarati positivi in occasione dei Giochi Olimpici. Ben Johnson era dunque il 43° e, considerato il numero, non ci sarebbe stata materia per grande scandalo. Ma, in realtà, Ben Johnson era il primo grande campione a esser sorpreso a ingannare. Tutto il mondo conosceva il suo nome, tutto il mondo ammirava il suo sprint. La rivalità con Carl Lewis, che Johnson aveva battuto l'anno precedente in occasione dei Campionati del Mondo di Roma, ne aveva accresciuto la fama. Dunque lo scandalo fu enorme.
In verità, in tutta la vicenda rimangono alcuni punti oscuri. È certo che Johnson, come avrebbero ammesso lui stesso e il suo allenatore, Charlie Francis, davanti alla commissione d'inchiesta canadese presieduta dal giudice Charles Dubin, aveva fatto uso da molti anni di anabolizzanti. Ma, secondo quanto affermato da entrambi e dal dottor George Astaphan, responsabile degli aspetti medici (anche illeciti) della preparazione dello sprinter canadese, non aveva utilizzato lo stanozololo, un prodotto superato e impiegato soprattutto in veterinaria. Da molto tempo, tuttavia, voci e sospetti si rincorrevano intorno al possibile uso di sostanze illecite da parte di Ben Johnson; non solo: da molto tempo, il CIO e le Federazioni internazionali erano sotto pressione per una presunta debolezza nell'affrontare il tema del doping nello sport; infine, la feroce rivalità tra le case produttrici di articoli sportivi (Carl Lewis aveva un ricco contratto con la Nike, Ben Johnson con la minuscola Diadora) e tra manager e allenatori alimentava sempre nuove polemiche, in cui ciascuno lasciava intendere che dall'altra parte si lavorasse in maniera non sempre limpida.
In questo scenario è comprensibile che il CIO volesse dare l'esempio forte di un mutamento di rotta: lotta al doping senza paura di colpire i campioni. Anzi, i campioni dovevano considerarsi, dal momento della squalifica di Ben Johnson, nel mirino dell'antidoping. Tuttavia, nel medesimo momento in cui Ben Johnson veniva allontanato dalla scena sportiva, il britannico Linford Christie (terzo nella stessa finale in 9,97″) fu scagionato dall'aver utilizzato una sostanza contenente efedrina anche grazie all'intervento della principessa reale, e influente membro del CIO, Anna d'Inghilterra.
L'Olimpiade di Seul, dunque, poteva dirsi rivoluzionaria anche sotto l'aspetto del doping. Si apriva una nuova era di iniziative, fatta di controlli più stringenti e con nuovi mezzi tecnici. L'intera squadra bulgara di sollevatori di peso si ritirò dalle competizioni, dopo che Mitko Grablev e Angel Guenchev erano stati sorpresi positivi per utilizzo di anabolizzanti e conseguentemente squalificati. Non è forse un caso che il dottor Astaphan avesse fatto molte visite a Sofia dove, come avrebbe confidato, aveva imparato il segreto di come dispensare sostanze illecite senza che queste risultassero ai controlli antidoping. Appariva evidente, dopo Seul, che questo segreto, ammesso che esistesse, non aveva retto ai più sofisticati sistemi introdotti dal CIO.
Al di là della vicenda Ben Johnson, le gare di atletica di Seul furono spettacolari. Il pubblico coreano non era forse in grado ‒ a causa di una limitata cultura sportiva per quanto riguardava le prove su pista, non certo la maratona ‒ di apprezzarne appieno il valore, ma chi ebbe la ventura di assistere a quelle gare ne fu impressionato. Carl Lewis, dopo la conquista, sia pure per 'squalifica' di Ben Johnson, della medaglia d'oro dei 100 m, si ripeté nel salto in lungo, lasciando Mike Powell a distanza (8,72 m contro 8,49 m) e fu battuto di un soffio sui 200 m dal suo compagno di club Joseph Deloach: 19,75″ contro 19,79″. Non poté però incrementare il suo numero di medaglie, come progettava, con la staffetta 4 x 100 m: gli USA furono infatti squalificati in batteria per un cambio fuori settore tra Calvin Smith e Lee McNeil, una riserva (il posto di McNeil doveva esser rilevato in finale da Lewis).
Tra le corse più avvincenti ci fu la finale dei 400 m, che propose il duello tra Steve Lewis e Harry 'Butch' Reynolds, quest'ultimo detentore del record del mondo. A vincere, in 43,87″, fu, contro ogni pronostico, il diciannovenne Lewis, che riuscì a contenere il ritorno di Reynolds con un tuffo sul traguardo e diventò così il più giovane vincitore di medaglia olimpica dai tempi lontani del sudafricano Reginald 'Reggie' Walker che, nel 1908, aveva ottenuto, alla stessa età, l'oro sui 100 m.
Le sorprese furono molte: Paul Ereng, un giovanissimo e quasi sconosciuto kenyota, che si era messo in luce in alcuni meeting europei immediatamente precedenti i Giochi, dominò gli 800 m contro due avversari del calibro del brasiliano Joaquim Cruz e del marocchino Saïd Aouita. La finale era stata lanciata da José Luis Barbosa, connazionale di Cruz, con passaggio velocissimo di 49,50″ ai 400 m. L'ultimo giro fu una battaglia continua tra Aouita, Cruz e il kenyota Benjamin Kiprotich, ma tra i combattenti si faceva strada Ereng, che vinse in suprema eleganza, in 1′43,45″.
Un altro kenyota, John Ngugi, impressionò sui 5000 m, dimostrando di poter dominare, dopo il cross, anche la pista, mentre l'italiano Salvatore Antibo fu protagonista di una gara nei 10.000 m di altissimo valore. Antibo, un siciliano tanto timido quanto implacabile combattente in pista, aveva lanciato la corsa, operando una selezione sin dai primi giri. Poi era toccato al kenyota Kipkemboi Kimeli passare ai 5000 m in un tempo da record del mondo: 13′35,2″. Incollato a Kimeli era il marocchino Brahim Boutayeb, che poi si liberò di Kimeli mentre Antibo cercava disperatamente di ridurre il distacco. Lo sforzo del campione italiano fu davvero straordinario tanto da fargli superare Kimeli sul rettilineo d'arrivo e conquistare così la medaglia d'argento. Per Boutayeb, compagno di allenamenti dell'italiano, la vittoria fu anche un record: nessuno, prima di lui, aveva vinto questa gara all'età di soli 21 anni.
La corsa di maratona fu disputata l'ultimo giorno dell'Olimpiade, come tradizione. La gran parte dei dirigenti della delegazione italiana aveva già lasciato Seul e, tra questi, l'allora presidente del CONI, Arrigo Gattai: ma il trionfo più importante per la squadra azzurra arrivò quel giorno. Seul è città dove l'umidità soffoca chi sta seduto, figurarsi chi deve percorrere 42,195 km a una velocità media di circa 20 km/h. Inoltre il percorso non era facile ma disseminato di lievi e fastidiosi dislivelli. Gelindo Bordin, campione d'Europa nel 1986 a Stoccarda e medaglia di bronzo l'anno precedente ai Mondiali di Roma, era tra i favoriti, ma la maratona è sempre una scommessa tra debolezze del corpo e forza di volontà. La gara di Seul fu esattamente questo, una sorta di corsa a esaurimento, dove la vittoria sarebbe andata a chi fosse riuscito a battere il dolore fisico e l'umano desiderio di risparmiarsi qualche sofferenza. Il tanzaniano Juma Ikanga si prese l'incarico di condurre la gara e dettarne il ritmo iniziale: per 25 km, il gruppo dei migliori ‒ comprendente oltre a Ikanga il giapponese Takeyuki Nakayama, il kenyota Douglas Wakiihuri, campione del mondo in carica, il gibutiano Ahmed Salah, l'inglese Charles Spedding, il giapponese Toshihiko Seko e naturalmente Bordin ‒ viaggiò unito. L'italiano, secondo quanto annunciato alla vigilia, tentava, come si dice in gergo, di 'dormire correndo', cioè di ridurre al minimo il consumo di energie: la vera gara sarebbe iniziata dal 35° chilometro. Così accadde: superata da poco quella distanza, in corrispondenza della quale passò in testa Spedding, Nakayama e Salah accelerarono. Gli atleti più affaticati vennero lasciati indietro. Un paio di chilometri più avanti anche Nakayama cedette alla calura. A 5 km dal traguardo rimanevano tre uomini per tre medaglie: Wakiihuri, Salah e Bordin, gli stessi che, nell'ordine, avevano vinto le tre medaglie ai Mondiali di Roma 1987. A quel punto venne l'attacco di Salah: rapidamente mise 25 m tra lui e il kenyota, altrettanti ve ne erano tra Wakiihuri e Bordin. Alle spalle di quest'ultimo Nakayama lottava ancora per ridurre il distacco e l'italiano non sapeva se preoccuparsi di difendere la terza posizione o cercare di raggiungere il secondo posto. Mancavano 3 km al traguardo e Bordin ‒ recuperando dai crampi provocati dalla disidratazione ‒ decise che era meglio cercare il massimo, piuttosto che difendere il minimo. Mantenendo la sua attenzione fissa su Wakiihuri, si accorse che lentamente la figura del kenyota si avvicinava. Al 40° chilometro lo raggiunse, lo sorpassò e fissò l'attenzione su Salah. Poco prima del 41° km, con uno sforzo supremo, superò anche Salah, sostituendo la smorfia dolorosa del viso con un gran sorriso. Il gibutiano, che l'aveva visto arrivare, rimase di stucco. Bordin entrò per primo nello stadio, mentre alle sue spalle Wakiihuri superava Salah. I tre uomini arrivarono in rapida successione sul traguardo: 2h10′32″ per Bordin, 2h10′47″ per Wakiihuri, 2h10′59″ per Salah. Mai l'arrivo olimpico di una maratona era stato tanto ravvicinato. Gelindo Bordin fu dunque il primo italiano campione olimpico di maratona, esattamente ottant'anni dopo la vicenda londinese di Dorando Pietri.
Gli americani continuarono nel loro dominio delle gare a ostacoli, con il possente Roger Kingdom sui 110 m ostacoli (che replicava il successo di Los Angeles) e con la sorpresa di Andre Phillips, un allievo di Bob Kersee, sui 400 m ostacoli, davanti al senegalese Amadou Dia Ba, un ex saltatore in alto, che conquistò la prima medaglia olimpica per il suo paese. Alle spalle di questi due campioni finì uno dei più straordinari atleti di tutti i tempi, e sicuramente il più grande specialista degli ostacoli bassi, l'americano Edwin Moses, che aveva vinto il suo primo oro nel 1976 a Montreal, quando non era ancora ventunenne.
Sergey Bubka, il dominatore incontrastato del salto con l'asta da quando, ventenne, aveva vinto il titolo mondiale a Helsinki, fece il suo esordio olimpico: nel 1984, infatti, non aveva potuto partecipare ai Giochi di Los Angeles per il boicottaggio sovietico. A Seul, ebbe come avversari i connazionali Rodion Gataullin e Grigoriy Yegorov e, a un tratto, parve perdere la gara. Gli rimaneva, a 5,85 m, una prova: la passò in modo superbo, per superare poi ancora 5,90 m, misura che Gataullin non sarebbe riuscito a eguagliare.
I Giochi femminili furono dominati da Florence Griffith Joyner e Jackie Joyner Kersee, fra loro cognate. La vicenda di Florence Griffith, iniziata l'anno precedente a Roma in occasione dei Mondiali, ma sviluppatasi al di là di ogni aspettativa nell'anno olimpico, suscitò molti sospetti, specie sull'onda dello scandalo Ben Johnson. La realtà dei fatti è che Griffith dominò i 100 m, i 200 m, la 4x100 m, conquistando anche la medaglia d'argento nella 4x400 m (nei 100 e 200 m fu capace di compiere due capolavori atletici che non hanno riscontro nella storia sportiva presente e che, di certo, non saranno facili da eguagliare nel futuro: medaglia d'oro e record del mondo, quest'ultimo sui 200 m), e nessun esame antidoping a cui venne sottoposta ‒ cioè uno per ogni finale disputata, oltre a quelli relativi ai turni di qualificazione ‒ risultò mai positivo o dette origine a discussioni. Prestigiose anche le imprese realizzate da Joyner Kersee, vincitrice del salto in lungo con un sensazionale 7,40 m, davanti alla tedesca dell'Est Heike Drechsler. Ma soprattutto nell'eptathlon Joyner Kersee dispiegò tutto il suo talento e la sua determinazione, trionfando con 7291 punti, altro primato del mondo rimasto a lungo imbattuto.
Un'atleta della Germania dell'Est, Christa Luding Rothenburger, vinse la medaglia d'argento nella prova dei 1000 m sprint di ciclismo, disputatasi per la prima volta ai Giochi. Ma a rendere quel secondo posto qualcosa di speciale è il fatto che Luding aveva già vinto, pochi mesi prima a Calgary, il titolo olimpico di velocità su ghiaccio. Grande pattinatrice, Christa era stata medaglia d'oro dei 500 m a Sarajevo nel 1984, quando già aveva cominciato a praticare anche lo sport della bicicletta su consiglio del suo allenatore di allora, Ernst Luding. Con l'impresa di Seul, divenne la prima atleta a vincere due medaglie, nello stesso anno, ai Giochi invernali ed estivi. Un record che non potrà mai più essere eguagliato, considerato che dal 1994 i Giochi invernali ed estivi si svolgono in anni differenti.
Nelle gare di judo, l'austriaco Peter Seisenbacher e il giapponese Hitoshi Saito furono i primi ad aggiudicarsi due medaglie d'oro consecutive (1984 e 1988) in questo sport, nelle rispettive categorie dei pesi medi e massimi. Un altro risultato inconsueto si registrò nelle gare di dressage, dove per la prima volta le tre medagliate furono donne: Nicole Uphoff, tedesca, vinse l'oro; Margit Otto Crépin, francese, l'argento; Christine Stückelberger, svizzera, il bronzo. Nei tuffi, il grande specialista americano Greg Louganis fu il primo uomo a vincere per due edizioni olimpiche consecutive entrambe le gare, cioè dal trampolino e dalla piattaforma. Un'altra curiosità: la schermitrice svedese Kerstin Palmer disputò a Seul la sua settima Olimpiade.
Con cinque medaglie d'oro (50 e 100 m stile libero, staffette 4 x 100 m e 4 x 200 m stile libero e 4 x 100 m misti), una d'argento (100 m farfalla), una di bronzo (200 m stile libero), Matt Biondi, un americano di origine genovese, fu il dominatore dei giochi acquatici. Formidabile atleta, di alta statura, deteneva già il record del mondo dei 100 m stile libero e pertanto il successo in quella gara non fu una sorpresa. Molto più inaspettata, invece, la vittoria sui 50 m contro il suo compagno e amico Tom Jager. I 50 m erano stati da poco reintrodotti nel programma della Federazione internazionale e facevano la loro comparsa per la prima volta alle Olimpiadi, anche se nel 1904, a St. Louis, si era tenuta una gara su una distanza molto vicina: le 50 yards (pari a 45,72 m). Quella sui 50 m fu la penultima gara di Biondi ai Giochi e forse la più bella: vinse infatti in 22,14″, primato del mondo. Nel prosieguo di carriera, Biondi avrebbe portato il numero delle sue medaglie olimpiche a undici (otto d'oro, due d'argento, una di bronzo) che ne fanno uno dei più grandi nuotatori di ogni tempo. Le sue medaglie sono esposte alla National Italian-American hall of fame di Chicago.
Nella gara dei 100 m farfalla, tuttavia, Biondi fu sconfitto da Anthony Nesty, un atleta di Suriname, che riuscì a precederlo di un centesimo di secondo. Il successo di Nesty acquistò anche una particolare importanza: a dispetto dei pregiudizi razziali, un atleta di colore aveva dimostrato che la pigmentazione della pelle nulla ha a che vedere con il nuoto. In verità, Nesty, nato a Trinidad, era dovuto emigrare negli Stati Uniti, all'Università della Florida, per nuotare, dato che in Suriname non esistevano piscine.
L'Italia raccolse a Seul un importante terzo posto nei 400 m misti con Stefano Battistelli, mentre Luca Sacchi fu settimo nella stessa finale. Anche Gianni Minervini finì settimo, ma nei 100 m rana. Il nuoto italiano diede, a Seul, segni di risveglio anche con le staffette: la 4 x 200 m stile libero fu quinta, la 4 x 100 m stile libero ottava.
Nel nuoto femminile le dominatrici furono Kristin Otto, della Germania Est, e l'americana Janet Evans. Sulle performance della tedesca, vincitrice di sei medaglie d'oro (50 m stile libero, 100 m stile libero, 100 m dorso, 100 m farfalla, 4 x 100 m stile libero, 4 x 200 m stile libero) sarebbe poi calato il sospetto di doping, specie quando con la fine del regime comunista iniziò un ricerca di documenti su come era organizzato lo sport d'élite in quel paese. Sulle tre medaglie d'oro di Evans, nei 400 m stile libero (in cui migliorò il record del mondo che già deteneva), 800 m stile libero e 400 m misti, invece, nulla da eccepire.
Il torneo di boxe si risolse in una serie scandalosa di verdetti e di risse da angiporto, più che da ring olimpico. Le giurie, spesso parziali, spesso incompetenti, sono una antica piaga di questo sport, ma a Seul fu toccato il fondo. L'International boxing association, la federazione che governa il mondo dilettantistico del pugilato, dovette correre ai ripari con una serie di riforme che sarebbero poi entrate in vigore nel 1992. Della parzialità delle giurie fece le spese anche il pugile italiano Vincenzo Nardiello, durante i quarti di finale contro il coreano Park Si-Hun, categoria pesi medioleggeri. Nardiello aveva mostrato una larga superiorità durante l'incontro, ma la giuria dette il successo al coreano che, già nei precedenti turni, era stato ampiamente favorito. Le proteste di Nardiello e della delegazione italiana, in particolare del capo-delegazione, l'allora segretario generale del CONI Mario Pescante, non ebbero alcun effetto. Nardiello fu estromesso dalla lotta al titolo e, scandalo dopo scandalo, Park Si-Hun divenne campione olimpico con un altro verdetto-truffa nei confronti dell'americano Roy Jones. Giovanni Parisi, invece, vinse senza problemi la medaglia d'oro dei pesi piuma, sconfiggendo il rumeno Daniel Dumitrescu dopo 1′41″, nel primo round.
Una rissa con bottigliate, pugni, colpi proibiti da parte di allenatori, dirigenti e accompagnatori avvenne durante l'incontro, pesi gallo, tra il coreano Byun Jong Il e il bulgaro Alexander Khristov. A rimetterci, a causa di una decisione a favore del bulgaro, fu l'arbitro neozelandese Keith Walker che, minacciato addirittura di più severe conseguenze, dovette lasciare immediatamente Seul e rientrare in patria.
La scherma, campo di battaglia favorito per le speranza olimpiche italiane, presentò a Seul un'agguerrita concorrenza: soltanto Stefano Cerioni, marchigiano, allievo del celebre ex schermitore e poi maestro Di Rosa, ottenne la medaglia d'oro, nel fioretto individuale. Mauro Numa, che aveva dominato a Los Angeles, dovette accontentarsi del sesto posto. Un'altra medaglia, di bronzo, venne nella sciabola con Giovanni Scalzo. La gara fu vinta dal francese Jean-François Lamour che ripeté, così, il successo di Los Angeles. Lamour sarebbe diventato, nel 2002, ministro francese dello sport nel governo Raffarin.
Il calcio olimpico fu, ancora una volta, una delusione per l'Italia, sconfitta nella seconda gara del torneo dallo Zambia per 4-0: un episodio clamoroso che ripropose il problema di come i nostri professionisti snobbassero, anche in chiaro accordo con i dirigenti dei rispettivi club, la partecipazione ai Giochi. Gli azzurri superarono il primo turno e i quarti di finale per poi essere sconfitti in semifinale dall'URSS e perdere anche la finale per il terzo posto contro la Germania Ovest. Il titolo olimpico andò all'Unione Sovietica, che batté per 2-1 il Brasile di Romario, Bebeto e Taffarel.
Carlo Massullo, nel pentathlon moderno, si confermò tra i più forti al mondo conquistando la medaglia d'argento alle spalle dell'ungherese Janos Martinek, e continuando la tradizione di Daniele Masala.
I fratelli Carmine e Giuseppe Abbagnale, una delle coppie più forti nella storia del canottaggio, con il timoniere Di Capua ripeterono il successo di Los Angeles nel due con. La famiglia Abbagnale ritornò in Italia con tre ori: il terzo fu infatti conquistato dal fratello Agostino, nella gara di squadra del quattro di coppia.