Olimpiadi invernali: Lillehammer 1994
Numero Olimpiade: XVII
Data: 12 febbraio-27 febbraio
Nazioni partecipanti: 67
Numero atleti: 1737 (1215 uomini, 522 donne)
Numero atleti italiani: 104 (78 uomini, 26 donne)
Discipline: Bob, Biathlon, Freestyle, Hockey su ghiaccio, Pattinaggio, Pattinaggio Artistico, Sci alpino, Sci nordico, Slittino
Numero di gare: 61
Ultimo tedoforo: Stein Gruben
Giuramento olimpico: Vegard Ulvang
Quelli di Lillehammer, località scelta dal CIO a Seul durante i Giochi estivi del 1988, dovevano essere i Giochi del ritorno al tranquillo posto di montagna, dopo la pesantezza cittadina di Sarajevo sepolta da troppa neve, dopo la dimensione surreale di Calgary, città di piena pianura con i posti delle gare sulla neve a 100 km e le piste di ghiaccio urbane bloccate dal terriccio portato dal vento, dopo la fatica di Albertville, grosso centro abitato diventato snodo stradale per distribuire il traffico olimpico sulle impervie strade di montagna di tante valli. Si pensava a una edizione classica, fra riti, saghe nordiche e apparizioni di gnomi (i trolls), fra gente appassionata e votata a seguire le gare dal vivo nella maniera più totale e più semplice. Furono invece i Giochi della svolta televisiva, del nuovo corso, quasi a voler significare nei fatti l'importanza di quella che ad alcuni era apparsa solo una mera formalità per non intasare il calendario e per diluire gli impegni degli sponsor, cioè lo sfasamento dei Giochi invernali rispetto a quelli estivi. Per gli italiani furono Giochi trionfali, come nessun'altra edizione olimpica precedente, anche estiva.
Lillehammer era poco più che un villaggio, un po' di case intorno a una strada, un solo vero albergo, e tante abitazioni di emergenza inventate costruendo case prefabbricate, di quelle che sorgono intorno ai grandi cantieri per il riposo degli operai: gli atleti, i giornalisti e i vari addetti ai lavori furono sistemati tutti dentro casupole in legno e plastica, che in seguito sarebbero state spostate più a nord, dove si dovevano creare insediamenti provvisori per varie operazioni sul territorio: ricerche petrolifere, disboscamenti mirati, iniziative minerarie.
Alla cittadina di Lillehammer, sede ideale per i Giochi invernali intesi nel senso più tradizionale, circondata da neve e ghiaccio, pianure di betulle e montagne di pini, confluirono ogni giorno, con treni speciali da Oslo, centinaia di migliaia di spettatori che viaggiavano la notte e ripartivano la sera. Lo spettacolo di 200.000 persone che alla mattina arrivavano felici per vedere le gare, scendevano dai treni, e scivolavano a volte sul ghiaccio, era commovente.
Più o meno tutti furono concordi nel definire quell'edizione la più bella di sempre: mancavano naturalmente testimoni diretti di Chamonix 1924, prima volta olimpica del mondo della neve e del ghiaccio, ricercatissimi erano quelli dell'ultima edizione prima della guerra, Garmisch 1936. Concordi comunque i giudizi e anche le sensazioni: impossibile reperire altrove, nei ricordi e nelle cifre, una simile moltitudine appassionata ed esperta, dissanguata dai costi del trasferimento e tuttavia felicissima. Non fu neppure possibile affiancare a Lillehammer 1994 Oslo 1952, sempre in Norvegia, perché nella capitale c'era stato, sì, un pubblico enorme e consapevole, ma troppe gare, specie di sci alpino, si erano svolte fuori e anche lontano dalla città, fra gente non solo impreparata e sorpresa, ma in certi casi persino ostile a una disciplina che ritenevano profanatrice dell'unico vero sci, quello nordico. Come Oslo, comunque, Lillehammer godette per la sua intera durata di un sole splendente, situazione certamente rara in Norvegia.
Proprio quell'arrivo quotidiano di 200.000 appassionati (ma si parlò di punte anche più alte) da Oslo e dintorni permette adesso di paragonare i Giochi di Lillehammer a una serie di proiezioni cinematografiche: ogni giorno uno spettacolo nuovo, in più tempi, con ricambio di spettatori in sala, una traccia di copione, il programma ufficiale appunto, e soprattutto tanta inventiva. Su tutto imperversavano i mass media con la loro interpretazione moderna, disinvolta dello sport, tutta imperniata sul personaggio, lasciando da parte i grandi motivi sacrali: quelli che avevano appunto alimentato saghe, miti, leggende, da quando ‒ restiamo al mondo della neve e del ghiaccio ‒ sci e pattini erano strumenti di lavoro e spesso di sopravvivenza.
Ci fu una forte valenza ecologica, con pochissimi sacrifici di alberi (ogni albero da abbattere era contrassegnato dal prezzo che l'impresa appaltatrice avrebbe pagato alla comunità locale, dai 1000 ai 5000 dollari), uccelli rapaci disegnati sul ghiaccio della pista di bob per tenere lontani gli uccellini che sarebbero stati in serio pericolo al passaggio dei bolidi, utilizzo al villaggio degli atleti e anche in altre mense di piatti fatti con una farina di fecola di patate (dopo l'uso venivano smistati come cibo per allevamenti di bestiame), infine un palazzo del ghiaccio costruito dentro a una roccia, una specie di modernissima caverna. Per il pattinaggio artistico si scelse però il palasport di Hamar, situato a un'oretta d'auto, un impianto che, tramutato provvisoriamente in velodromo, aveva ospitato nel 1993 un grande primato ciclistico dell'ora a opera del britannico Graham Obree.
Più di 1700 atleti, per 67 nazioni, interpretarono al meglio questa serie di film. Non mancarono neanche le questioni politiche. Le tragiche vicende di quella che ormai era la ex Iugoslavia consigliarono al CIO di non invitare il Comitato olimpico che rappresentava serbi e bosniaci in piena guerra civile, e i serbi di Bosnia organizzarono per conto loro una mini-Olimpiade di protesta proprio sulle colline sopra Sarajevo. Alla cerimonia di apertura non ci fu l'attesa dichiarazione ufficiale del CIO di Samaranch contro la pulizia etnica in Bosnia e non solo, ma soltanto un invito a commemorare tutti insieme, nello stadio, il martirio di Sarajevo, che era stata città olimpica dieci anni prima. Il giuramento fu recitato dal grande fondista norvegese Vegard Ulvang, che poco prima si era pronunciato duramente contro Samaranch, accusandolo di essere stato gerarca franchista ai tempi del 'caudillo' e di mandare avanti comunque una politica sportiva mondiale secondo quella impronta.
L'ultimo tedoforo portò il fuoco al tripode eseguendo un ottimo salto dal trampolino (la cerimonia si svolgeva nello stadio che avrebbe poi ospitato le gare degli uomini volanti) mentre la fiaccola rigava il buio della sera. Si chiamava Stein Gruben, aveva preso il posto di Ole Gunnar Fidjestøl che era caduto in prova, riportando una commozione cerebrale. Star della cerimonia inaugurale, più ancora del re di Norvegia Harald, il quale pure si impegnò pubblicamente in un pronostico di numerose grandissime vittorie dei suoi sudditi, e della grande attrice Liv Ullman, fu Thor Heyerdahl, il navigatore che sulla zattera chiamata Kontiki aveva compiuto un'impresa da leggenda sulla scia dei Vichinghi.
Nella cerimonia d'apertura la Russia e le repubbliche nate dalla dissoluzione dell'URSS, finalmente a posto sotto il profilo burocratico, sfilarono ognuna con la propria bandiera. Ci fu anche la curiosa vicenda di un pattinatore mongolo che doveva rappresentare da solo il suo paese e aveva fatto un viaggio di otto giorni in treno per giungere sino a Lillehammer (dove voleva arrivare in tempo per allenarsi su piste migliori). Una volta a destinazione, aveva saputo che la sua iscrizione era irregolare perché pervenuta in ritardo; era quindi tornato in patria impiegando altri otto giorni di treno, ma appena arrivato a casa gli avevano comunicato che il CIO lo aveva accettato; si era subito rimesso in moto, ma stava ancora in viaggio quando i Giochi furono aperti, e così non sfilò alla cerimonia di apertura.
La prima medaglia azzurra arrivò il secondo giorno, nel fondo femminile, con Manuela Di Centa prima sui 15 km, davanti alle russe Lyubov Yegorova e Nina Gavrilyuk. Quarta Stefania Belmondo, staccata di 1′49,1″, tormentata dagli strascichi di due operazioni chirurgiche delicatissime all'alluce. Decima Gabriella Paruzzi, futura vincitrice nel 2004 della Coppa del Mondo alla fine di una carriera lunga e bella. Si ripropose in quell'occasione la rivalità, accesa al punto da arrivare agli insulti in gara e in allenamento, fra Di Centa e Belmondo, atlete di pari bravura ma profondamente diverse per carattere, la cui gestione lì a Lillehammer e durante tutta la loro carriera rappresentò un delicato problema per la Federazione. Le due si sfidarono direttamente soltanto pochissime volte e quando furono obbligate a gareggiare insieme nella staffetta azzurra non si passarono il testimone, coprendo frazioni lontane. Di Centa, friulana, classe 1963, si era messa in luce per prima, era atleta di spicco già a Sarajevo 1984 e dimostrò subito grande personalità, capace di dire di no a successive convocazioni in azzurro se non avessero contemplato la gestione personale della sua salute. Stefania Belmondo, piemontese, nata nel 1969, superò la rivale ad Albertville 1992 diventando la prima donna italiana vittoriosa in una prova olimpica di fondo (la 30 km). Di Centa riprese lo scettro proprio a Lillehammer, Belmondo sarebbe tornata al successo olimpico otto anni dopo, a Salt Lake City 2002. Le carriere di entrambe le atlete sono state caratterizzate da alcuni infortuni, nel caso della piemontese legati al tormentatissimo alluce valgo, per la friulana dovuti a disturbi piuttosto gravi di natura endocrina. A fine carriera Manuela Di Centa è divenuta dirigente sportiva, arrivando anche a essere membro ad interim del CIO, Stefania Belmondo è diventata la testimonial dei Giochi invernali di Torino 2006.
Il giorno successivo Manuela Di Centa fu seconda nella 5 km (che si lega poi con la 10 km, disputata come prova a inseguimento, la vincitrice della 5 km parte col vantaggio acquisito in quella gara e le altre cercano di raggiungerla e superarla), preceduta da Yegorova e davanti alla finlandese Marja-Liisa Kirvesniemi. Belmondo arrivò tredicesima. Nella combinata Di Centa non ce la fece a raggiungere Yegorova, saggia amministratrice del suo vantaggio, e arrivò seconda, dopo aver recuperato oltre metà dei 19″ che aveva di stacco, finendo a 8″. Belmondo, partita tredicesima, si piazzò terza, con una performance straordinaria, che la portò a superare anche la fuoriclasse russa Larisa Lazutina: due giorni prima Stefania aveva quasi annunciato di volere smettere con i Giochi che le chiedevano un enorme tributo di sofferenza.
Nella staffetta femminile per l'Italia vi fu la medaglia di bronzo: russe e norvegesi erano probabilmente imbattibili e si trattò comunque una grande prestazione azzurra, davanti anche alla Finlandia che aveva fatto la storia olimpica di questa prova. Non mancarono le consuete polemiche fra le atlete: Belmondo in ultima frazione si disse stanca di dover sempre inseguire, e stavolta per rimediare al non moltissimo che avevano sin lì combinato le sue compagne. La gara fu segnata in prima frazione dalla russa Yelena Välbe, andata via leggera. La prima azzurra, Bice Vanzetta, 32 anni e un raffreddore in corso, perse quasi un minuto. La staffetta era a tecnica mista e il passo alternato, classico, di Di Centa fu il più rapido della seconda frazione. Poi Gabriella Paruzzi tenne il terzo posto che le era stato consegnato, e infine Belmondo recuperò 20″ sulle norvegesi, prima di rassegnarsi, mentre Yegorova portava a termine il successo russo.
Ma le grandi prove di Di Centa non erano finite: nella 30 km fu di nuovo prima, battendo Marit Wold, norvegese, e Marja-Liisa Kirvesniemi e lasciando le russe lontane. Belmondo, il piede a pezzi, aveva ormai abbandonato Lillehammer.
Grandi soddisfazioni vennero anche dal fondo maschile. Valse moralmente una medaglia il quinto posto dell''anziano' Maurilio De Zolt nella 30 km a tecnica libera, vinta da Thomas Alsgaard su Bjørn Daehlie, entrambi norvegesi, festa grande per il pubblico del luogo. Silvio Fauner fu settimo e Giorgio Vanzetta decimo. Nella 10 km, dietro a Daehlie e al kazako Vladimir Smirnov, arrivò terzo Marco Albarello, che aveva già vinto un Mondiale e mirava all'oro olimpico, tanto è vero che subito si annunciò in gara per Nagano 1998. Fauner, ottavo nella 10 km, ebbe il bronzo nell'inseguimento/combinata, arrendendosi solo ai soliti Daehlie e Smirnov e precedendo Mika Myllylä, finlandese, mentre Vanzetta fu nono e Albarello decimo.
Ma soprattutto vi fu la vittoria nella staffetta 4 x 10 km, una delle più sensazionali affermazioni italiane di tutti i tempi e forse di tutto lo sport azzurro, senza limitazioni settoriali. L'oro italiano pose fine a decenni di supremazia nordica o sovietica. Considerando l'esiguo numero di praticanti, punto oscuro di partenza, la scarsa passione in patria verso un certo tipo di fatica, la mancanza di una tradizione radicata, le differenze di mentalità tra gli italiani e i cultori di questa disciplina, l'impresa fu davvero grande. La vittoria fu questione di centimetri, 4 decimi sulla Norvegia, davanti a un pubblico norvegese che urlò per incitare i suoi beniamini e poi sprofondò nel silenzio quando Fauner vinse lo sprint su Daehlie, un grande, il supermedagliato in oro di tutti i Giochi olimpici, dopo averlo rimontato nel finale. L'Italia lottò sin dal via, con De Zolt, contro Norvegia e Finlandia, separate da 4 decimi; De Zolt perse appena 9,8″ e lanciò Albarello, che fece il miracolo e consegnò la prima posizione a Vanzetta; seconda la Norvegia di Ulvang a 5 decimi e poi la Finlandia a 1,1″. Vanzetta teoricamente era il meno forte, però diede il cambio a Fauner in seconda posizione, subito sulla scia della Finlandia passata al primo posto, e con 6 decimi di vantaggio sulla Norvegia. Fauner per l'Italia e Daehlie per la Norvegia furono gli ultimi frazionisti. Crollò la Finlandia, mentre i due davanti facevano meraviglie, alternandosi al comando e facendo del surplace, come i ciclisti, nell'ultimo chilometro, quando Daehlie voleva che Fauner passasse in testa. L'italiano si presentò sul rettilineo d'arrivo con 2 m di vantaggio, li centellinò, cedendoli in minima parte al norvegese sostenuto dal tifo della folla. Fauner, cadorino, era il più giovane dei quattro azzurri, 25 anni, contro i 33 di Albarello, valdostano, i 34 di Vanzetta, trentino, i 43 di De Zolt, cadorino.
De Zolt fu poi settimo nella 50 km vinta da Vladimir Smirnov (prima medaglia d'oro per il Kazakistan). Secondo fu il finlandese Mika Myllylä , terzo il norvegese Sture Sivertsen. Vanzetta giunse all'ottavo posto.
Meno brillanti i risultati degli azzurri nello sci alpino. Nella discesa Pietro Vitalini, accreditato del miglior tempo nelle prove, sbagliò già la prima curva e collezionò poi altri errori, giungendo tredicesimo dietro a Peter Runggaldier, il migliore italiano nella gara vinta dallo statunitense dell'Alaska Tommy Moe, poco considerato dai pronostici non avendo mai riportato vittorie in grandi gare internazionali: la sua gara di discesa lì ai Giochi fu anche fortunata e lo vide arrivare per soli 4 centesimi di secondo davanti al norvegese Kjetil André Aamodt; terzo fu il canadese Ed Podivinsky. Nel super gigante fu primo Markus Wasmeier, tedesco, con otto centesimi su Tommy Moe e quattro decimi su Kjetil André Aamodt. Primo degli italiani, assente dalla gara Tomba, fu Vitalini, diciassettesimo. Anche il gigante venne vinto da Wasmeier sullo svizzero Urs Kälin e sull'austriaco Christian Mayer. Norman Bergamelli conseguì un buon sesto posto. La gara di Tomba, già compromessa dal tredicesimo posto nella prima manche, fu rovinata del tutto dal salto di una porta nel finale della seconda manche. Fu Tomba il primo a criticarsi e deridersi; negli ultimi due anni non aveva più vinto un gigante e solo la rimonta dall'undicesimo al quarto posto nell'ultima gara di questo tipo prima dei Giochi, in Svizzera, aveva portato qualche illusione di successo.
Tomba fu di nuovo grande nello speciale, ultima gara in programma alpino, dopo che la combinata aveva visto sul podio tre norvegesi: Lasse Kjus, Kjetil André Aamodt e Harald Christian Strand Nilsen. In quello slalom Tomba alimentò nella stessa occasione rabbia, delusione, speranza e ammirazione. Dopo la prima manche era dodicesimo: aveva scelto di partire con il numero 1 e aveva avuto una pista ancora fresca, affrontata con lamine poco affilate. Nella seconda manche, cambiati gli sci, scese male per un po', poi diede il meglio di sé. Quelli che lo precedevano dopo la prima manche restarono indietro in classifica, chi andando piano, chi sbagliando banalmente, chi addirittura uscendo di pista o cadendo. Cominciarono allora i sogni, come due anni prima ad Albertville, quando Tomba era passato da sesto a secondo. Pete Roth cadde al secondo paletto, Aamodt alla seconda curva. Scese infine l'austriaco Thomas Stangassinger, che aveva 1,84″ di vantaggio: non sbagliò il dosaggio della prudenza con il rischio, conservò 15 centesimi di vantaggio e fu oro. Terzo lo sloveno Jure Kosir, un grande in potenza.
Lo sci alpino femminile vide la medaglia d'oro di Deborah Compagnoni nel gigante, vittoria secondo il pronostico, ma ugualmente bellissima. Compagnoni si mise dietro in classifica tutte le atlete più quotate: Martina Ertl, tedesca, Vreni Schneider, svizzera, Anita Watcher austriaca, Carole Merle francese, in pratica una per ogni paese delle Alpi. L'Italia scoprì per l'ennesima volta il valore delle sue brave atlete.
Nelle altre prove alpine vi fu il quarto posto nella combinata per Morena Gallizio, alle spalle della svedese Pernilla Wiberg, della svizzera Vreni Schneider e della slovena Alenka Dovžan. Molto rispetto per la Compagnoni, decima nello slalom che non era la sua specialità, ma onesta e cavalleresca nel riconoscere il valore delle altre: la svizzera Vreni Schneider che vinse, l'austriaca Elfriede Eder (sorella della più nota Sylvia) e la slovena Katja Koren. Settima si classificò l'azzurra Roberta Serra. Schneider aveva vinto due ori a Calgary, a Lillehammer prese un oro, un argento e un bronzo e diventò la donna 'alpina' più medagliata.
Da segnalare l'avvento delle russe nello sci alpino. Per un centesimo di secondo Svetlana Gladisheva fu argento nel supergigante sull'azzurra Isolde Kostner, di Bolzano, che aveva 18 anni e 332 giorni e diventò la più giovane atleta italiana che sia mai salita sul podio in tutta la storia olimpica. Vinse Diann Roffe per gli Stati Uniti. Gallizio arrivò quinta, Deborah Compagnoni diciassettesima. Isolde Kostner fu terza nella discesa, dove fu prima Katja Seizinger, tedesca fortissima nella prova del rischio, e seconda Picabo Street, statunitense.
A Lillehammer diventarono due le prove della specialità chiamata freestyle: gobbe e salti. Nelle gobbe il canadese Jean-Luc Brassard vinse fra gli uomini, la norvegese Stine Lise Hattestad fra le donne (l'italiana Silvia Marciandi fu decima). Andreas 'Sonny' Schönbächler, svizzero, e Lina Cheryazova, uzbeka, si imposero nei salti.
Altre medaglie italiane ci furono nello slittino. In quello individuale maschile arrivò il bronzo dell'altoatesino Armin Zöggeler, preceduto da un tedesco e un austriaco; fu decisiva per la mancata conquista dell'oro o dell'argento una sbandata nella terza prova. Rispettivamente quarto e sesto due altri altoatesini, Arnold e Norbert Huber, due di cinque fratelli tutti dediti allo slittino e al bob. Nello slittino individuale femminile, ventisei anni dopo la vittoria di Erica Lechner nei Giochi di Grenoble 1968, l'oro toccò a un'altra altoatesina, Gerda Weissensteiner, che superò una tedesca e un'austriaca. L'altra azzurra Natalie Obkircher fu quinta. Weissensteiner, 25 anni, taciturna al punto di dire poche parole in tedesco, pochissime in italiano, si allenava su pista artificiale in Austria con uno slittino di 22 kg realizzato in metalli sofisticati e legno di pero.
Grandi successi anche dagli slittini azzurri biposto, con l'oro per Kurt Bruegger e Wilfried Huber e l'argento per Hansjörg Raffl e Norbert Huber. Terzo l'equipaggio tedesco composto da Stefan Krausse e Jan Behrendt. Si parlò quindi molto della famiglia Huber, cinque fratelli che facevano insieme lo sport e anche la musica, tanto è vero che annunciarono subito una grande festa olimpica danzante nella loro casa in Val Pusteria, ognuno col suo strumento preferito, fra i pianti e i sorrisi di Brigitte Fink, la responsabile del settore.
Un bronzo per l'Italia venne dal bob a due con Günther Huber e Stefano Ticci, dietro a due equipaggi svizzeri. In casa Huber si festeggiò il bronzo che in un certo senso mancava, dopo l'oro di Wilfried e l'argento di Norbert. La famiglia Huber, da sola, a Lillehammer prese lo stesso numero di medaglie di tutta Francia, e più preziose perché la Francia non collezionò medaglie d'oro. Nel bob a quattro il podio fu formato da Germania, Svizzera e ancora Germania; l'Italia (Günther Huber, Antonio Tartaglia, Bernhard Mair e Mirco Ruggiero) fu nona.
Nel bob vi fu l'unica squalifica per doping dei Giochi, a carico dell'austriaco Gerhard Rainer. Stando alle autorità sportive, i controlli furono fatti sul serio, ma alla fine, su 300 analisi, venne segnalato positivo questo solo caso. Da notare che molti atleti erano malati alle vie respiratorie per via del gran freddo e il CIO finì con il chiudere un occhio sull'uso di medicine ad hoc, anche se contenevano efedrina.
La popolazione itinerante che ogni mattina riempiva Lillehammer si spostava in tutti i posti delle gare, c'erano gente e applausi per tutti. Ma fu soprattutto grande il richiamo del pattinaggio di velocità. Nei 5000 m vi fu tripudio per il successo di Johann Olav Koss, splendido atleta di casa, davanti al connazionale Kjell Storelid. Koss replicò il successo nei 1500 m, distanza sulla quale era primatista del mondo. Roberto Sighel, italiano, fu dodicesimo. Nei 500 m vinse Aleksandr Golubev su Sergey Klevchenya, un russo su un altro russo, mentre il titolo dei 1000 m andò allo statunitense Dan Jansen, che a Calgary 1988 aveva commosso tutti cedendo di schianto, quando già era vicino al successo, non tanto per la fatica quanto per aver appreso poco prima della gara la notizia della morte della sorella Jane, che era malata di leucemia. Ad Albertville era caduto, e lo stesso aveva fatto a Lillehammer nella prova dei 500 m.
In campo femminile il pattinaggio di velocità premiò la statunitense Bonnie Blair nei 500 m, l'austriaca Emese Hunyady nei 1500 m, la russa Svetlana Bazhanova, che prevalse su Hunyady, nei 3000 m. Due tedesche (Claudia Pechstein e Gunda Niemann) e una giapponese (Hiromi Yamamoto) si piazzarono sul podio sui 5000 m.
Nello short track delle donne l'americana Cathy Turner vinse nei 500 m, la coreana Chun Lee-kyung nei 1000 m. La Corea del Sud si aggiudicò anche i 3000 m a squadre dello short track femminile (l'Italia fu quarta). In campo maschile vi fu un sorprendente successo della staffetta azzurra, che superò USA, Australia e Canada. In squadra erano schierati Hugo Herrnoff, bolzanino, Mirko Vuillermin, aostano, Maurizio Carnino, torinese, e Orazio Fagone, catanese (la prima medaglia siciliana nei Giochi invernali). Nel 1997 un drammatico incidente in moto tolse a Fagone l'uso delle gambe, ma l'atleta siciliano ha continuato a dare il suo contributo allo sport azzurro nella nazionale di curling in carrozzina. Vuillermin arrivò all'argento nei 500 m: stanchissimo ma comunque primo all'ultima curva, fece un mezzo passo falso e il coreano Chae Ji-Hoon lo superò. Un altro coreano, Kim Ki-Hoon, vinse nello short track individuale maschile sui 1000 m.
Grande interesse si concentrò sul palazzo del ghiaccio in occasione delle gare di pattinaggio artistico. I russi collezionarono ori: Yekaterina Gordeyeva e Sergey Grinkov prevalsero su una coppia di loro connazionali, Natalya Mishkutenok e Artur Dmitriyev; Aleksey Urmanov fu primo nella prova individuale maschile; nella danza vinsero Oksana 'Pasha' Grishuk e Yevgeniy Platov su altri due loro connazionali. Ma tutta l'attenzione fu rivolta al pattinaggio artistico individuale femminile, per via della sfida fra Nancy Kerrigan e Tonja Harding, protagoniste di una vicenda clamorosa. Qualche tempo prima delle Olimpiadi, negli Stati Uniti, Kerrigan aveva subito un'aggressione, si sospettò organizzata da Tonja Harding tramite il marito, che sarebbe stato addirittura tra gli esecutori materiali: un ferimento alle gambe ideato e attuato per invidia, tecnica e umana, verso la collega, molto migliore di lei. La storia fu riferita con esagerazioni, approssimazioni, mistificazioni, enfatizzazioni. Harding, esclusa dalla selezione olimpica statunitense su denuncia di Kerrigan, pur essendosi guadagnata il diritto di gareggiare ai Giochi, minacciò il ricorso alle vie legali e ipotizzò un danno di 20 milioni di dollari per diffamazione e mutilazione di carriera. Il Comitato olimpico statunitense ebbe paura e la rimise in squadra. Si formarono in America ma anche a Lillehammer due partiti, e moltissimi giornalisti furono dirottati sulla raccolta di nuovi particolari sulla vicenda. Le voci continuarono a circolare per tutta la durata dei Giochi, finché non arrivò il giorno della conclusione finale, che fece registrare un'audience televisiva straordinaria. Fuori dal palasport di Hamar una grande folla di gente rimasta senza biglietto e anche giornalisti, fotografi e cameramen che non avevano avuto accesso perché non bastava l'accredito normale per seguire le prove. Dentro bandiere e fiori, a decine di mazzi per ogni concorrente. Harding scese sul ghiaccio fra le prime con l'accompagnamento di musiche del film Jurassic Park: dopo un inizio a fasi alterne andò verso i giurati, fece vedere che si era rotto un pattino, riprovò, andò benino ma non abbastanza, si piazzò al secondo posto dietro la giapponese Yuka Sato. Arrivato il suo turno, Kerrigan, che usò brani di Neil Diamond, diede fra le ovazioni del pubblico il suo massimo, guadagnando il primo posto della classifica. Poi toccò a una ucraina di 16 anni, Oksana Baiul, che come prestazione tecnica prese meno punti di Nancy Kerrigan, ma come prestazione artistica stravinse e passò al primo posto, fra sorrisi e pianti suoi e di tanti. Le altre non cambiarono la graduatoria. Neanche Katarina Witt, ancora bellissima anche se appesantita dal tempo, che arrivò settima. Dietro all'ucraina e alla statunitense fu terza una cinese, Chen Lu. Harding fu soltanto ottava.
Quattro anni dopo, proprio mentre Nagano apriva i suoi Giochi, Tonja Harding e Nancy Kerrigan si incontrarono negli USA in una trasmissione televisiva dedicata al pattinaggio artistico, con un compenso di 100.000 dollari per ognuna. Tonja chiese scusa a Nancy di averla fatta sprangare, ammettendo la sua colpa, peraltro già sancita da un tribunale che l'aveva condannata a pagare i danni, mentre le autorità sportive la avevano squalificata a vita (Tonja si sarebbe poi data al pugilato, esibendosi a Las Vegas).
Per finire con le restanti discipline e gare, i 20 km del biathlon videro il successo del russo Sergey Tarasov, che due anni prima, ai Giochi di Albertville, era finito in ospedale prima delle gare ed era poi stato trasportato a Mosca: un anno di cure, peraltro senza precisazioni sulla natura del suo male (pare una gravissima intossicazione), molti sospetti, il ritorno, la vittoria in Coppa del Mondo. Naturalmente allora si era pensato al doping e a Lillehammer il sospetto tornò, anche per i progressi sensazionali nel fondo di troppi atleti in troppo poco tempo. Ma i controlli assolsero tutti. Per l'Italia speranze tradite da Andreas Zingerle, che pure l'anno prima era diventato campione del mondo: si fermò al sesto posto, ma forse erano le speranze a essere troppo grandi e Zingerle non fu assolutamente piccolo. Sempre nel biathlon un altro russo, Sergey Chepikov, si affermò sui 10 km. Nella staffetta salirono sul podio tedeschi, russi e francesi, l'Italia fu sesta. Fra le donne l'azzurra Nathalie Santer, indicata tra le favorite, finì venticinquesima nella prova sui 15 km, vinta dalla canadese Myriam Bédard sulla francese Anne Briand. Bédard replicò il successo, stavolta sui 7,5 km (Nathalie Santer fu settima). La staffetta femminile andò alle russe sulle tedesche e le francesi.
Il salto dal trampolino da 90 m fu norvegese con Espen Bredesen e Lasse Ottesen davanti a Dieter Thoma, tedesco leggendario; delusione del pubblico, per il salto dal trampolino gigante perché Bredesen si fece superare dal tedesco Jens Weissflog. Quando Bredesen stava in volo tutto il popolo di Lillehammer faceva il tifo e quasi volava con lui, ma il tedesco fu più forte. Terzo l'austriaco Andreas Goldberger. L'italiano Roberto Cecon fu sedicesimo. Nella prova a squadre la Germania prevalse sul Giappone (l'Italia fu ottava).
La Norvegia si impose ancora nella combinata nordica, salto e fondo, individuale, con Fred Børre Lundberg, mentre il Giappone prevalse sulla Norvegia nella prova a squadre.
Infine l'hockey vide una pesante sconfitta (1-7) della nazionale italiana da parte di quella statunitense. Un particolare curioso riguarda il fatto che la rappresentativa americana schierava alcuni oriundi italiani. Il torneo fu vinto dalla Svezia, davanti a Canada e Finlandia.