Olimpiadi invernali: Salt Lake City 2002
Numero Olimpiade: XIX
Data: 8 febbraio-24 febbraio
Nazioni partecipanti: 77
Numero atleti: 2399 (1513 uomini, 886 donne)
Numero atleti italiani: 111 (65 uomini, 46 donne)
Discipline: Biathlon, Bob, Curling,
Freestyle, Hockey su ghiaccio, Pattinaggio, Pattinaggio artistico, Sci alpino, Sci nordico, Skeleton, Slittino, Snowboard
Numero gare: 78
Ultimi tedofori: la squadra statunitense di hockey su ghiaccio vincitrice a Lake Placid 1980
Giuramento olimpico: Jim Shea
Le 'Olimpiadi della paura', come furono denominati alla vigilia i Giochi tenuti a Salt Lake City nello Utah (USA), furono inaugurate l'8 febbraio 2002, con una cerimonia abbastanza sottotono, durante la quale otto atleti statunitensi portarono la bandiera nazionale recuperata fra le rovine delle Torri Gemelle. La manifestazione, secondo taluni troppo vicina all'11 settembre 2001, fu blindatissima e fu percorsa da brividi extrasportivi di commozione ed emozione. Il presidente Bush aprì i Giochi sotto la sorveglianza di agenti di polizia, soldati della guardia nazionale, cecchini e uomini dell'FBI e della CIA. La città, nonostante il dispiegamento di forze di sicurezza, apparve comunque meno triste del previsto. Si pensava che il lutto nazionale eccezionale unito all'austerità dei mormoni, in maggioranza nella zona e molto rigidi nell'imporre limitazioni a tutto ciò che è divertimento e pesanti divieti concernenti specialmente le pratiche del fumo, dell'alcol e del sesso, portasse a una edizione addirittura tetra dei Giochi: invece riuscì a circolare persino una certa allegria di popolo, e tutto sommato la comunità olimpica dimostrò di saper reagire a qualsiasi tipo di tragedia.
Per l'Italia quell'edizione ebbe anche un valore 'didattico' in vista dei Giochi del 2006, assegnati dal CIO a Torino, 50 anni dopo l'edizione invernale di Cortina e 46 anni dopo quella estiva di Roma. Salt Lake City, città pressappoco grande come Torino, doveva denunciare eventuali problemi organizzativi e soprattutto suggerirne le soluzioni. Ci fu anche un legame esplicito ufficiale fra Salt Lake City e Torino quando il presidente del Comitato organizzatore locale, il potente vescovo mormone Mitt Romney, citò alcuni giovani del mondo che sognavano di disputare i Giochi Olimpici prossimi venturi e scelse per l'Italia Michela Basso, sciatrice quattordicenne di Cuneo.
Furono per l'Italia Giochi meno ricchi di quelli facili e splendidi insieme di Lillehammer 1994, ma migliori sotto ogni punto di vista di quelli di Nagano 1998. La prestazione della squadra azzurra fu più che dignitosa, con 13 medaglie e alcuni di quei 'miracoli' che inorgogliscono il pubblico nazionale, il cui interesse per certe discipline si risveglia in realtà solo nell'occasione olimpica.
L'inizio delle gare di Salt Lake City 2002 diede ragione a questo tipo di attesa: Stefania Belmondo, dieci anni dopo Albertville 1992, si aggiudicò un'altra medaglia d'oro nello sci di fondo, questa volta sui 15 km a tecnica libera, all'età di 33 anni, dopo tante tribolazioni fisiche, per gli interventi agli arti inferiori, e psicologiche, per la rivalità con Manuela Di Centa e per l'incubo del doping altrui a sconvolgere valori e umiliare fatiche: merito di una volontà che è banale ma insieme inevitabile e onesto definire d'acciaio. Ebbe una partenza disgraziata, un bastoncino le si spezzò nella calca; gliene diede uno in sostituzione Marco Albarello ma era troppo lungo, finalmente uno ski-man del suo gruppo di lavoro le fornì l'attrezzo giusto; occorse grinta per riprendere soprattutto le russe Larisa Lazutina e Yuliya Chepalova. Stefania fece tutta la gara con le prime, fino allo scatto finale su Lazutina, espertissima di dosaggio delle proprie forze. E poi il suo rituale della felicità, le grida e le lacrime, i sorrisi e i tremiti, la gioia e subito la sensazione di non poterla godere in pieno, con tutti gli impegni che ancora l'aspettavano. Ci fu anche la ovviamente fredda stretta di mano di Manuela Di Centa, presente come rappresentante del CIO, che dovette premiarla, lei che era stata la regina assoluta dei Giochi di otto anni prima. Nella gara della sua ottava medaglia olimpica (due d'oro), da affiancare alle tredici mondiali (cinque d'oro), Belmondo andò sul podio con Larisa Lazutina e Katerina Neumannova, ceca. La squalifica di Lazutina, scoperta in flagranza di uso di darbopoietina alfa, una sostanza considerata l'evoluzione dell'eritropoietina usata per aumentare il numero dei globuli rossi, comportò poi la modifica di quelle e altre classifiche del fondo femminile. Così Gabriella Paruzzi, settima, divenne sesta e Sabina Valbusa passò da undicesima a decima.
Nella 10 km, vinta dalla norvegese Bente Skari e con Chepalova al secondo posto, Belmondo si classificò quinta in gara, ma a tavolino si aggiudicò il bronzo, sempre per l'accertato doping altrui. Nella 30 km a tecnica classica femminile, dove erano giunte rispettivamente seconda e terza, Gabriella Paruzzi e Stefania Belmondo si videro attribuire la medaglia d'oro e quella d'argento in seguito alla squalifica di Lazutina, vincitrice della prova. Nell'inseguimento Belmondo fu tredicesima (poi dodicesima) preceduta da Paruzzi decima (nona) e Valbusa undicesima (decima). Prima giunse la russa Olga Danilova, poi squalificata come Lazutina per assunzione della stessa sostanza dopante.
I medici del CIO fermarono la staffetta russa del fondo femminile prima della partenza: un controllo dell'emoglobina poco prima del via aveva evidenziato un valore di ematrocrito troppo alto per Lazutina. Niente gara per lei e di conseguenza per le sue compagne Danilova, Nina Gariljuk e Chepalova, grandi favorite. L'Italia, che si era aggiudicata la medaglia di bronzo a Lillehammer e a Nagano, non approfittò della buona ventura e giunse appena sesta: stavolta a Belmondo non riuscì l'inseguimento magico, dopo che Marianna Longa, Gabriella Paruzzi e Sabina Valbusa avevano messo insieme un distacco troppo pesante. La classifica vide prima la Germania allo sprint estremo con la Norvegia. La medaglia di bronzo fu conquistata dalla Svizzera.
Il doping interessò anche il fondo maschile: lo spagnolo di origine tedesca Johann Muehlegg, che aveva avuto il passaporto di suddito del re Juan Carlos nel 1999 dopo screzi con la Federazione germanica, fu privato delle tre medaglie che aveva vinto nei 50 km, nei 10 km a inseguimento e nei 30 km a tecnica libera, secondo una decisione sancita in riunione dell'esecutivo del CIO ad Atene quattro giorni dopo la chiusura dei Giochi, essendo anche lui risultato positivo alla darbopoietina. Vi furono grandi polemiche per il fatto che i giudici avevano concesso a Muehlegg di gareggiare anche dopo un reato chimico accertato. Sottoposto a controlli assortiti, specie prima della 50 km, Muehlegg era stato infatti autorizzato a prendere il via e aveva vinto la prova sul russo Mikhail Ivanov e sull'estone Andrus Veerpalu. Ma poi fu declassato nonostante una sua complicata e intensa difesa, che addusse come motivazioni diete e cibi molto speciali e criticò l'eccessiva pignoleria dei controllori nei suoi confronti. L'oro dei 30 km dopo la squalifica di Muehlegg andò all'austriaco Christian Hoffmann e salirono di un gradino in classifica Pietro Piller Cottrer (quarto) e Cristian Zorzi (nono). Nella prova a inseguimento sui 10 km il primo italiano fu Giorgio Di Centa, fratello di Manuela, passato dal quinto al quarto posto, dopo la squalifica del vincitore Muehlegg.
Una medaglia, di bronzo, fu invece conquistata da Cristian Zorzi nella prova di sprint. Zorzi fu battuto dal norvegese Tor Arne Hetland e nell'ultima parte della gara anche dal tedesco Peter Schlikenrieder. Zorzi, detto 'Zorro', aveva gareggiato con una Z tricolore dipinta sulla parte rasata del cranio, per il resto coperto da capelli d'oro luccicante. Trentino di non poche parole, aveva promesso la vittoria a tutti.
Dopo Lillehammer 1994 e Nagano 1998 si pensava a qualche sceneggiatura nuova per la staffetta dello sci di fondo. Invece si trovarono nuovamente di fronte Norvegia e Italia, e si passò dopo tre edizioni dei Giochi al 2-1 per la Norvegia, nonostante l'ultima frazione azzurra fosse corsa da Zorzi che lanciò la volata lunga contro Thomas Alsgaard. Ma il norvegese, che a Nagano aveva battuto Silvio Fauner, reagì e passò in testa, come un ciclista che approfitta nello sprint della scia dell'avversario scattato prima, e vinse per 3 decimi di secondo. Prima Fabio Maj, Giorgio Di Centa e soprattutto Pietro Piller Cottrer avevano messo insieme una grande gara: quarti dietro a Norvegia, Germania ed Estonia, poi secondi dietro alla sola Norvegia, poi appunto con Zorzi davanti alla Norvegia, poi di nuovo dietro alla Norvegia nei dieci metri che contano da soli come gli altri 9990. Terzi i tedeschi, quarti gli austriaci, quinti gli statunitensi, sesti i russi, tragedia per svedesi e finlandesi.
Stefania Belmondo non fu la sola a portare oro al medagliere azzurro: Armin Zoeggeler vinse nello slittino sull'austriaco Georg Hackl e il tedesco Markus Prock, dopo quattro manche di perfetto dosaggio del rischio, che gli fecero accumulare alla fine un vantaggio di 329 millesimi sul secondo e 342 sul terzo. Nello skeleton, disciplina reintrodotta in questa edizione, il personaggio fu Jim Shea, vincitore dell'oro: suo nonno aveva vinto i 500 e i 1500 m di pattinaggio a Lake Placid 1932, suo padre era stato fondista (mediocre) a Innsbruck 1964, Jim era arrivato allo skeleton dopo hockey e bob, vendendosi tutto per pagarsi trasferte e materiale.
Deludente per l'Italia fu il fronte dello sci alpino maschile. Nella discesa predominarono gli austriaci con Fritz Ströbl medaglia d'oro e Stephan Eberharter medaglia di bronzo, mentre i norvegesi Lasse Kjus e Kjetil André Aamodt finirono rispettivamente al secondo e al quarto posto. Il migliore fra gli italiani fu Alessandro Fattori, diciannovesimo. Kristian Ghedina, annunciato come 'uomo anche da podio', giunse invece trentacinquesimo, chiudendo con quell'edizione la sua avventura olimpica. Nessun piazzamento di rilievo per Fattori nel super gigante vinto da Aamodt, con appena 10 centesimi da Eberharter.
Nello slalom gigante un atleta promettente come Massimiliano Blardone fece una pessima seconda manche, dove uscì per caduta anche Alexander Ploner, che a sorpresa era sesto dopo la prima manche. Blardone giunse appena ottavo nella gara vinta dal veterano austriaco Stephan Eberharter che rispose bene allo statunitense Bode Miller e al norvegese Lasse Kjus, i quali diedero il massimo nella seconda manche.
Disastro totale degli slalomisti nello speciale, da Giorgio Rocca in giù, in una gara dove i più attesi dal pronostico mancarono tutti l'appuntamento: vinse il francese Jean-Pierre Vidal sul connazionale Sébastien Amiez e sullo scozzese Alain Baxter, che fu però squalificato in seguito ai controlli antidoping e costretto a restituire la medaglia di bronzo, attribuita al quarto classificato, l'austriaco Benjamin Raich. Aamodt, all'età di 31 anni, vincendo combinata e supergigante, raggiunse la cifra record di sette medaglie nello sci alpino in diverse edizioni dei Giochi.
Nella discesa libera femminile, gara rinviata e poi comunque sincopata da interruzioni lunghe anche un'ora e mezza, la ventinovenne francese Carole Montillet, mai salita su un podio nella stagione, costrinse tutti a riconoscere almeno la sua 'bravura di giornata'. Un miracolo, che per 45 centesimi di secondo costò l'oro all'azzurra di Ortisei, 27 anni, Isolde Kostner, capace nella circostanza di battere tutte le grandi del resto del mondo. Picabo Street, la statunitense, amica personale di Bush, che abitava proprio a Salt Lake City, oggetto quindi di grandi aspettative fra il pubblico locale, giunse solo sedicesima.
La croata Janica Kostelic, che stava salendo tutti i gradini del ranking, vinse la combinata alpina. In questa specialità si fece notare fra le italiane Daniela Ceccarelli, atleta ventiseienne di Frascati (Roma) residente in Piemonte. Figlia di un ufficiale di aviazione e moglie di un maestro di sci, gareggiava per la polizia ed era destinata a diventare un nome importante dello sport italiano. Infatti, dopo qualche giorno, si aggiudicò addirittura la medaglia d'oro nel supergigante, un risultato assolutamente non atteso dai pronostici. Ceccarelli, che non aveva mai vinto prima una prova di Coppa del Mondo, prese l'oro a spese della croata Janica Kostelic e dell'azzurra altoatesina Karen Putzer, promessa per il futuro, mentre la più titolata di tutte, Isolde Kostner, fu tredicesima. Nello speciale secondo oro di Kostelic, seguita dalla francese Laure Péquegnot; decima l'azzurra Nicole Gius. Nel gigante femminile attesa, stavolta per Karen Putzer, e delusione: fu appena decima nella gara della incoronazione definitiva della croata Kostelic sulla svedese Anja Pärson e sulla svizzera Sonja Nef. I tre ori di Kostelic rappresentarono un risultato che solo l'austriaco Toni Sailer, a Cortina nel 1956, e il francese Jean-Claude Killy, a Grenoble nel 1968, erano riusciti a ottenere.
Il medagliere italiano si arricchì di un bronzo nello snowboard femminile con Lidia Trettel, fioraia trentina, terza nella gara dello slalom gigante parallelo vinta dalla francese Isabelle Blanc. Nella specialità halfpipe salirono sul podio gli statunitensi Ross Powers, Danny Kass e Jarrett Thomas, con l'italiano Giacomo Kratter al quarto posto.
Nel pattinaggio veloce l'Olanda di Gerard van Velde, vincitore nei 1000 m, e di Jochem Uytdehaage, vincitore nei 5000 e nei 10.000 m, e la Germania di Anni Friesinger, vincitrice nei 1500 m, e di Claudia Pechstein, nei 5000 e nei 3000, furono le sole due nazioni a conquistare tre ori, seguite dagli USA con due ori nei 500 m (Casey FitzRandolph) e 1500 m (Derek Parra) maschili.
Medaglia d'argento italiana nella staffetta dello short track, con Maurizio Carnino, Fabio Carta, Nicola Franceschina e Nicola Rodigari, più Michele Antonioli che disputò la semifinale: li batterono soltanto i canadesi, a conferma quasi totale dell'oro di Lillehammer e intanto di un nostro pronto adeguamento alla nuova specialità del pattinaggio. Una scena comica si registrò nella gara dei 1000 m: l'australiano Steven Bradbury detto 'Gino' era quinto, a 40 m dall'arrivo, quando, per una bagarre alla 'rollerball', caddero davanti a lui un cinese, un sudcoreano, uno statunitense e un canadese; Bradbury sfilò di fianco a loro fischiettando e andò a prendersi l'oro, un colpo di fortuna che riscattò una carriera fino a quel momento caratterizzata da una serie impressionante di disgrazie e di disavventure fisiche. Alle sue spalle nei 1000 m si piazzò Apolo Anton Ohno, nato negli Stati Uniti da genitori giapponesi, uomo copertina di tante riviste parasportive per la sua bellezza.
La statunitense Sarah Hughes vinse nel pattinaggio artistico a furor di giudici di bellezza forse più che di giudici di gara. Ma la gara più controversa fu quella a coppie. Il verdetto della giuria premiò i russi Yelena Berezhnaya e Anton Sikharulidze sui canadesi Jaime Salé e David Pelletier. Subito si gridò allo scandalo, in quanto tutti avevano visto che i due dichiarati d'argento meritavano l'oro. Dopo l'intervento dell'italiano Ottavio Cinquanta, presidente della Federazione internazionale di pattinaggio, appoggiato dal belga Jacques Rogge, presidente del CIO, fu presa una decisione straordinaria per la storia dei Giochi: l'oro fu attribuito a entrambe le coppie. Salvato lo sport e salvati i giudici, si trattò di un'ipocrisia, che riconosceva, in pratica, la corruttibilità e anche la corruzione dei giudici stessi. Un piccolo omaggio del CIO ai mormoni fu rappresentato da qualche intervento per vietare a certe atlete costumi da gara troppo arditi.
Nella prova di danza Barbara Fusar Poli e Maurizio Margaglio, che avevano portato l'Italia a livelli mondiali in questa disciplina, si aggiudicarono il bronzo, che per loro era poco, visto che si erano imposti con l'oro mondiale. Una sfortunata caduta di Margaglio in un passaggio facile, per un esercizio ripetuto mille volte in allenamento senza problemi, determinò questo risultato. Imprendibili sia la coppia francese, composta dai rivali storici dei due italiani, Marina Anissina e Gwendal Peizerat, sia quella russa composta da Irina Lobacheva e Ilya Averbukh.
Le due competizioni di salto maschile (K90 e K120) videro al primo posto lo svizzero Simon Amman e soltanto al diciannovesimo l'italiano Roberto Cecon, che pure nelle qualificazioni era stato quarto. Amman, studente ventenne, 50 kg di peso, non aveva mai vinto nulla di importante e un mese prima era caduto in allenamento riportando un serio trauma cranico.
Nessun risultato di rilievo per l'Italia neanche nel biathlon maschile e in quello femminile, che vide protagonista la tedesca Andrea Henkel e nel quale le sorelle Santer, Nathalie e Saskia, troppo sotto stress, non brillarono (una giunse quarantanovesima e l'altra si ritirò). Ole Einar Bjørndalen fondista norvegese che si allenava in Italia a Dobbiaco vinse sui 20 km, sui 10 km, sui 12,5 km a inseguimento e nella staffetta: quattro ori ai Giochi come era riuscito alla pattinatrice russa Lidiya Skoblikova a Innsbruck 1964, e con un solo oro meno dell'iperprimatista statunitense, pattinatore di velocità anche lui, Eric Heiden a Lake Placid 1980.
Tra le curiosità la vittoria nel bob femminile, specialità introdotta in questa edizione, di una coppia statunitense in cui una delle due concorrenti, Vonetta Flowers (l'altra era Jill Bakken) fu la prima atleta di colore vincitrice di una medaglia d'oro olimpica invernale. Flowers, proveniente dall'Alabama, Stato chiave del razzismo dominante e per fortuna anche del razzismo sconfitto, faceva atletica ed era passata al bob dopo aver letto un annuncio su un giornale sportivo. L'Italia tentò con la 'strana coppia' formata da Gerda Weissensteiner, medaglia d'oro nello slittino a Lillehammer 1994, e Antonella Bellutti, oro olimpico nel ciclismo su pista a Sydney 2000, ma non funzionò. Un'altra curiosità nel bob maschile: la presenza di un regnante tra gli atleti. Alberto di Monaco, considerato dagli europei l'erede alla guida del Principato e dagli americani il figlio di Grace Kelly, e giunto alla sua quinta Olimpiade, finì penultimo, alla de Coubertin, comunque soddisfatto di aver partecipato.
Il fattore campo, in generale assai spinto, non funzionò nell'hockey, dato che sia fra gli uomini sia fra le donne il Canada sconfisse gli USA padroni di casa nelle due finali (nel torneo maschile gli statunitensi, che avevano liquidato i russi in semifinale, sembravano lanciatissimi).
Finite le gare, si aprì la pagina terribile del 'dopo', e l'edizione dei Giochi di Salt Lake City fu messa in ombra da sospetti, accuse, controaccuse. Vi furono polemiche peraltro assai settoriali, come quella dei sudcoreani contro gli statunitensi che sarebbero stati, nello short track, favoriti notevolmente dai giudici. Ma soprattutto il tema dominante fu quello del doping: perché ogni vittoria parziale dell'antidoping poteva essere vista come la prova di un'affermazione pervasiva delle pratiche illecite, che ormai avevano raggiunto tali cime alte di sofisticazione da far temere che cascassero nelle reti dei controllo soltanto quelli che commettevano errori o erano decisamente sprovveduti. Per Stefania Belmondo, che si proclamò massacrata nella sua carriera da disinvolture chimiche altrui, la medaglia d'argento arrivatale addosso alla fine dei Giochi per la squalifica di Danilova sembrò quasi una beffa. Non sono successi di questo tipo quelli che danno a un atleta vero la felicità vera. Invece sconvolgimenti di classifiche di questo tipo possono dare ad atleti veri infelicità speciale: accadde per gli italiani Giorgio Di Centa e Pietro Piller Cottrer, arrivati quinti davvero per un soffio in due gare, e promossi a un quarto posto che non diede loro certo la soddisfazione che avrebbe dato loro la medaglia di bronzo, ma anzi acuì il rammarico, aggravato dal sospetto che tanti, anche non colpiti dall'antidoping, avessero barato, e che alcuni di quei tanti potessero essere in posizioni alte della classifica.
Il CIO si ritrovò così con i Giochi 'sporcati' e promosse un altro giro di vite dell'antidoping. La scena internazionale fu quasi tutta dominata dalle proteste della Russia. I dirigenti della delegazione parlarono di persecuzione nei loro confronti, sia per le decisioni prese nel pattinaggio artistico sia per i troppo mirati prelievi del controllo antidoping, affermando che gli atleti sarebbero stati innervositi quando anche non dissanguati prima delle competizioni.
Il medagliere vide l'Italia (4 ori, 4 argenti, 5 bronzi) dietro a Norvegia, Germania, Stati Uniti, Canada, Russia e anche Francia (4 ori, 5 argenti, 2 bronzi). Il mondo dello sport invernale, dopo aver faticato per essere pienamente accettato nel consesso olimpico, in fretta aveva assunto ed esasperato problemi e difetti dello sport estivo: denaro, doping, show business, sottomissione alla televisione, proliferazione delle gare, elefantiasi dell'evento, misure di sicurezza eccessive. Intanto la bandiera olimpica di Salt Lake City fu consegnata al sindaco di Torino, sede dei Giochi 2006.