Olimpiadi invernali: St. Moritz 1928
Numero Olimpiade: II
Data: 11 febbraio-19 febbraio
Nazioni partecipanti: 25
Numero atleti: 464 (438 uomini, 26 donne)
Numero atleti italiani: 17 (17 uomini)
Discipline: Bob, Hockey, Pattinaggio, Pattinaggio artistico, Sci nordico, Skeleton
Numero di gare: 13
Giuramento olimpico: Hans Eidenbenz
La svizzera St. Moritz fu eletta capitale dei secondi Giochi Olimpici invernali nel 1928. I reggitori dello sport mondiale avrebbero voluto mantenere un abbinamento perenne fra le edizioni estive, già collaudate dal 1896 e gli sport del freddo e della neve, ma così non fu. Infatti Amsterdam, già designata per i Giochi estivi, avrebbe potuto ospitare le discipline del ghiaccio, ma non certo quelle dei monti e della neve. E così fu prescelta St. Moritz, con grande soddisfazione della gente di Engadina ma pure dei turisti piuttosto snob che frequentavano la stazione probabilmente più famosa nel mondo per le vacanze d'inverno. Gli elvetici, già collaudati dall'organizzazione di gare di skeleton, bob, cavalli sulla neve, hockey e altro, accolsero il gravoso impegno con profonda coscienza e se ne occuparono con un po' di preoccupazione non solo per gli aspetti tecnici da mettere a punto ma anche perché essendo la prima volta che ospitavano un evento sportivo così importante non volevano fallire.
Le nazioni previste erano 27 che divennero poi 25. I concorrenti inizialmente dovevano essere addirittura 1000, ma si ridussero a meno della metà, numero peraltro ragguardevole in rapporto alle discipline del tempo. La partecipazione italiana fu molto voluta e seguita dagli sportivi, soprattutto lombardi, e dai giornali, ma ancor più dalle autorità del tempo, ovviamente fasciste, che tenevano a far sapere che, se nordici e americani ci avevano preceduti di decenni nella pratica dello sci e del pattinaggio, dei nostri atleti era evidente "lo spirito di razza e l'amor di patria", sicché gli avversari dovevano temere la nostra geniale improvvisazione, il calore delle azioni e l'ardimento degli animi. Il presidente del CONI era Lando Ferretti, sportivo autenticamente appassionato, naturalmente presente a St. Moritz. Ma a esortare gli atleti italiani con patriottici telegrammi e 'alalà', fu più di altri il segretario del partito fascista Augusto Turati. Uno dei dispacci diceva: "i nostri atleti daranno tutti se stessi per tradurre in realtà quello che non è un sogno". E il generale Zoppi assicurava: "Nella fidente vigilia giunga ai campioni sapientemente preparati dal CONI l'augurio fervidissimo degli alpini che dalle alte vette delle Alpi ove svolgono le consuete manovre invernali guardano e sperano".
Naturalmente gli sport della montagna erano ancora in sottordine rispetto al football, al ciclismo, al pugilato che dominavano la scena e gli spazi delle pagine sportive dei quotidiani e della già affermata Gazzetta dello Sport. E l'alpinismo era più seguito degli sport agonistici. Nemmeno l'articolo di apertura intitolato Seconda Olimpiade dei Giuochi Invernali occupò l'intero spazio della prima pagina della Gazzetta. Il sottotitolo diceva: "Gli azzurri affrontano animosamente l'impari battaglia" e l'unica fotografia ritraeva il tenente Enrico Silvestri comandante della pattuglia militare, che avrebbe partecipato alla gara di fondo e tiro, sfida dimostrativa ma assai enfatizzata dalle autorità, molto di più di ogni altra competizione a seguire.
La cerimonia di apertura avvenne l'11 febbraio, le rappresentative sfilarono in ordine alfabetico, l'Italia tredicesima. In testa al corteo bande in eleganza, carrozze trainate da splendidi cavalli, nello stadio un podio ligneo e gli alfieri delle bandiere nazionali a semicerchio, di fronte a chi si alternava a parlare e a pronunciare il giuramento alla lealtà sportiva.
Le prove furono le stesse di quattro anni prima a Chamonix con una disciplina in più, sorprendente per molti non svizzeri e pochi altri, lo skeleton, slittino metallico con il quale l'atleta, indubbiamente audace, si lanciava sdraiato e prono nel budello ghiacciato della famosa pista Cresta Run, già nota per il bobsleigh. Quest'ultimo 'a cinque', uno in più della tradizione, ritornato poi 'a quattro' e tale rimasto per sempre.
L'Italia non sognava medaglie e, secondo il diffuso spirito di de Coubertin, si accontentava di una presenza dignitosa e onorevole. Gli azzurri, assenti sul ghiaccio, erano 17, per sci, bob e skeleton. I risultati migliori giunsero proprio da queste due ultime discipline, sfiorando addirittura la medaglia di bronzo con Agostino Lanfranchi nello skeleton. Fece sognare il saltatore Vitale Venzi, il quale in una prova nel giorno di vigilia raggiunse la misura di 59 m che, se supportata dallo stile, avrebbe potuto fargli guadagnare il podio. Venzi partecipò anche alla combinata fondo-salto, ma la sua prestazione fu mediocre e, anche a causa di una pessima sciolinatura, nel fondo si classificò ventunesimo pur essendo arrivato secondo nel salto, preceduto soltanto dal cecoslovacco Rudolf Burkert, gran sorpresa in generale e stupefacente per i nordici. I norvegesi vinsero primo, secondo, e terzo posto. Burkert guadagnò in modo inatteso il bronzo nel salto speciale. Le altre 11 medaglie dello sci furono 8 norvegesi e 3, altrettanto sorprendenti perché guadagnate nella stessa gara, la 50 km, svedesi. Questi ultimi, per quanto si sentissero forti, non avrebbero mai immaginato di essere in grado di dominare. Intuizione e bravura nella scelta delle scioline sembrerebbero aver determinato il loro primo trionfo nella storia olimpica, rimasto memorabile anche per le avverse condizioni atmosferiche, che registrarono una tremenda ondata di vento caldo, il favonio o scirocco, piuttosto insolito nelle alte quote di Engadina. Anche gli italiani, meno esperti nei segreti delle sciolinature, ne subirono gli effetti e l'indubbio campione Matteo Demetz fu appena ventesimo, lontano dal primato dei non scandinavi guadagnato dai connazionali quattro anni prima a Chamonix. Altrettanto male andò nella 18 e nella 50 km, i tempi di quest'ultima negativamente memorabili: quasi 5 ore per il vincitore, Per Erik Hedlund, oltre 5 ore per il secondo, Gustaf Jonsson, e ben 5h47′47″ per Demetz. Nessun finlandese vinse medaglie.
Discreto il risultato del quartetto italiano nella 'prova dimostrativa' per pattuglie militari, disputatasi in condizioni atmosferiche davvero proibitive. Vinsero i norvegesi davanti a finlandesi e svizzeri; gli alpini, tenente Silvestri, sergente Pelissier, soldati Confortola e Maquignaz, furono quarti: un risultato decisamente buono, considerando che Maquignaz cadde rovinosamente in una curva, acuta e in discesa, subendo contusioni al corpo e gravi escoriazioni al volto, per cui arrivò al traguardo vistosamente sanguinante, acclamato da un folto pubblico. La prova, sua e della pattuglia, venne altrettanto esaltata anche dai giornali.
L'altra quasi medaglia azzurra fu guadagnata, come detto, da Agostino Lanfranchi, quarto, mentre nel bob a cinque l'equipaggio italiano si classificò appena diciannovesimo, risultato assai mediocre dopo il sesto posto di Chamonix. L'oro e l'argento andarono ai due equipaggi americani.
Gli italiani non presero parte alle prove su ghiaccio, benché a Cortina d'Ampezzo e in qualche altro luogo alpino, e forse anche a Milano, già ci si esibisse in coreografie pattinate. Tra l'altro, capace ed elegante sapeva essere il conte Alberto Bonacossa, fratello di Aldo, noto alpinista e primo presidente della Federazione italiana dello sci, fondata a Milano il 10 ottobre 1920, nonché autorevole membro del CIO. Ai Giochi, per il pattinaggio in velocità le distanze previste erano le classiche quattro, dai 500 ai 10.000 m, ma il favonio le rovinò, almeno in parte. Alla quota di St. Moritz si presumeva che il ghiaccio fosse sempre naturale. Invece la temperatura, per almeno tre giorni, fu talmente primaverile da imporre l'annullamento della gara sui 10.000 m. Nelle altre dominarono norvegesi e finlandesi. Il fuoriclasse Clas Thunberg, campione nell'edizione precedente, si impose nei 500 e 1500 m, mentre il terzo oro premiò il norvegese Ivar Ballangrud. Soltanto il bronzo dello statunitense John O'Neil Farrell si inserì nel dominio del Nord, felice annuncio che oltreoceano il pattinaggio si stava velocizzando. Va ancora detto che in questi Giochi non era in programma la grande combinata delle quattro gare.
Straordinario, romantico e assai seguito da pubblico festante e policromo, fu il pattinaggio artistico. Gli spettatori si dimostrarono altruisti e imparziali, forse perché furono numerose le nazionalità dei protagonisti in grado di emergere ‒ Austria, Belgio, Svezia, USA, Norvegia, Francia, Finlandia, Canada ‒ e forse anche per lo scenario particolare che il pattinaggio artistico sa creare e nel quale ci si dimentica un po' lo spirito di patria. Le tre prove furono vinte dallo svedese Gillis Grafström, già oro ad Anversa e a Chamonix, dalla norvegese Sonja Henie e dalla coppia francese Pierre Brunet e Andrée Joly, che in seguito, divenuti marito e moglie, continuarono ad affermarsi come Brunet-Brunet.
Ci fu anche l'hockey, naturalmente, ma riservato a pochi. Fra gli assenti anche gli Stati Uniti, unici veri avversari dei canadesi quattro anni prima. Questi ultimi si imposero con straordinaria facilità, ma non con le differenze abissali di Chamonix: 13-0 sulla Svizzera, 11-0 sulla Svezia, e non incassarono mai un gol.
Sonia Henie fu la protagonista della cerimonia di chiusura. A Chamonix, quattro anni prima, saputo di essere arrivata ultima aveva pianto, convinta di non essere stata giudicata con giustizia, e pare avesse mormorato: "mi vedranno fra quattro anni i signori giudici, mi vedranno...". Mantenne la promessa e il Comitato organizzatore la premiò, facendone appunto l'emblema della cerimonia conclusiva, tenuta allo stadio del ghiaccio sotto un cielo stellato e una marea di luci perché gli spettatori tenevano in mano una lampada. Si giocò prima l'incontro di hockey Canada-Svizzera, cui seguirono alcuni cerimoniali, l'ingresso dei portabandiera, le musiche, i discorsi delle autorità. Al termine sul ghiaccio del parterre irruppe la guizzante pattinatrice vestita di celeste, che si esibì per qualche minuto, dapprima accompagnata da una musica solenne e poi da un vivace charleston. Il pubblico applaudì a lungo, gratificato da questo spettacolo di eleganza e potenza. Infine su un lato dello stadio nel buio della notte apparve, realizzata con un gioco di luci, la scritta: "Arrivederci a Lake Placid 1932".