GUERRINI, Olindo
Nacque a Forlì il 4 ott. 1845, da Angelo e da Paola Giulianini. Trascorse l'infanzia a Sant'Alberto di Ravenna, dove il padre gestiva la farmacia del paese, e, dopo aver appreso in casa "i primi rudimenti di grammatica e di geografia", fu ammesso al collegio municipale di Ravenna, di cui lamentò l'educazione "pedante, formale", senza vita, ridotta al solo tecnicismo, aggiungendo: "La religione era seccante per pratiche esteriori infinite, le quali mi resero odioso per tutta la vita il culto ed i suoi ministri in genere" (La mia giovinezza, in L. Stecchetti, Mercutio, Sbolenfi, Bepi…, Bologna 1916, pp. 30 s.).
Restò in collegio cinque anni. All'indomani dell'unificazione, il padre lo volle affidare al collegio nazionale di Torino, dove frequentò i corsi ginnasiali. Uscitone dopo il secondo anno di liceo, trascorse un periodo di "scioperataggine", ma riuscì comunque a ottenere la licenza. Nel 1865 si trasferì a Bologna e si iscrisse a quella Università, laureandosi in giurisprudenza, nonostante lo scarso interesse che nutriva per quel tipo di studi. Nel 1866 fu arruolato come sergente nella guardia nazionale, ma non si mosse dalla sua regione. A Bologna, dove fu raggiunto dai genitori, si stabilì poi definitivamente, trovando occupazione presso la locale Biblioteca universitaria.
Dalle numerose pagine autobiografiche che rievocano questi anni risultano, da un lato, un'insofferenza nei confronti delle regole troppo rigide e delle costrizioni più soffocanti che determina in lui atteggiamenti di vita scapigliata; dall'altro, un senso costante dei legami familiari e del lavoro, che ne rappresenta l'aspetto per così dire borghese. L'oscillazione fra queste due componenti non dà luogo nel G. a drammatici conflitti o insanabili lacerazioni, ma, smussando ogni eccesso o punta estrema, si compenetra in una più tranquilla adesione ai piaceri e ai doveri della vita, anche quando sembri prevalere l'oltranza provocatoria o polemica. È la matrice di un umorismo solo in apparenza problematico, che piuttosto si stempera nella bonomia scherzosa e nel rovesciamento comico, riconducibili spesso a una dimensione più propriamente provinciale e cittadina.
Nel 1877 il G. pubblicò a Bologna un volume di versi intitolati Postuma, attribuendoli a un fantomatico cugino, Lorenzo Stecchetti, che sarebbe morto di tisi a trent'anni. Le ragioni di questo sdoppiamento sono forse da attribuire al carattere crudo e provocatorio dei componimenti, che bene potevano esprimere gli sdegni e il malessere di un giovane scettico e disincantato, prematuramente destinato alla morte.
Agli influssi carducciani, di tipo agonistico e antagonistico, si affiancano infatti le suggestioni della scapigliatura più iconoclastica e oltranzista: quella di E. Praga, per esempio, che era morto l'anno prima, dopo aver proposto, con Penombre, l'esempio più vistoso del poeta maudit. Sono sparsi a piene mani, nei versi di Postuma, i motivi di una insistita posizione anticonformistica e ribelle, all'insegna di una volontà di épater le bourgeois (particolare scalpore fece Il canto dell'odio). In alcuni momenti funziona lo stesso modello di E. Praga, Ch. Baudelaire, di cui si colgono non le ripercussioni profonde di un'esperienza poetica sofferta e tormentata, ma gli spunti più esterni e superficiali, ulteriore regresso in fatto di provincialismi (non mancano tuttavia, a effetto di contrasto, momenti più distesi e riposati, sul piano della descrizione paesaggistica e dell'idillio borghese).
La misura di questa esperienza, piuttosto circoscritta e limitata (ma il successo di pubblico fu enorme, facendo registrare ben 32 edizioni dell'opera vivente l'autore), resta quella di una polemica che si richiama, nella maniera più esplicita e spesso scontata, alle ragioni dell'ideologia di sinistra, democratica e socialisteggiante (e comunque non anarchica o rivoluzionaria).
In questo senso il G. è vicino agli esponenti della cosiddetta scapigliatura democratica (da C. Arrighi ad A. Bizzoni, da F. Cameroni a C. Tronconi, fino al F. Cavallotti poeta), che, affermatasi a Milano a partire dagli anni Settanta, guardava al modello zoliano come a un esempio di impegno politico e letterario. Sul piano della poetica anche il G. rifiuta e combatte il cosiddetto idealismo, che discendeva dalla tradizione tardoromantica, ossia da quella che F. De Sanctis aveva definito la scuola cattolico-liberale. Ai sentimentalismi più o meno edulcorati e castigati il G. contrappone una visione materialistica della realtà, aperta ai piaceri dei sensi e refrattaria a ogni metafisica: di qui, anche, il serpeggiare di una vena erotica e anticlericale che determinò accese reazioni cui egli replicò pubblicando, nel 1878, altri due volumetti, Polemica (Modena) e Nova polemica (Bologna), i cui versi si collocano sul medesimo registro, oltranzista e provocatorio, della raccolta precedente, riproponendone i modi e le forme.
Nella prefazione a quest'ultima raccolta, poi ripresa in un opuscolo intitolato Del verismo (ibid. 1880), il G. esponeva le ragioni, molto apprezzate da G. Carducci, della propria poetica, presentandola come una forma di smascheramento delle ipocrisie e dei falsi pudori e difendendola dalle accuse pretestuose di immoralità. Resta il fatto che il ruolo del G., pur riconosciuto corifeo di questo tipo di poesia, fu piuttosto effimero e limitato, esaurendosi nella ricerca di un realismo piccolo-borghese privo di vere prospettive di sviluppo (a meno di vedervi qualche incunabolo di situazioni e atmosfere riprese poi dai crepuscolari, che tuttavia le osservarono con il disincanto di una più sottile mediazione ironica). Già nel 1904 B. Croce, che definiva il G. "un bonario canzonatore" e cercava nei suoi versi soprattutto gli "accenti seri e commossi", avrebbe ricordato che nulla rimaneva di "quelle polemiche sbrigliate, conteste di divagazioni, esagerazioni ed equivoci, e appena rischiarate qua e là da qualche motto arguto".
Nel frattempo il G. era venuto pubblicando, su varie riviste, prose critiche e autobiografiche, in parte riunite nel 1883 presso l'editore romano Sommaruga in quattro volumetti, sotto il titolo Brandelli.
Vi si registrano impressioni e ricordi, immagini di incontri e di esperienze vissute. Se non mancano i consueti spunti polemici di tipo politico e anticlericale (ad esempio la condanna delle superstizioni e della degenerazione del culto dei santi), prevalgono tuttavia i toni di un bozzettismo scorrevole e arioso, facilmente godibile nella scioltezza di rappresentazione delle cose viste.
Oltre a recensire opere letterarie, per le quali esprimeva le sue antipatie e preferenze (queste ultime per autori come F. Rabelais, G. Carducci ed É. Zola), il G. si occupava di epistolari, rivelando il suo gusto per il biografismo aneddotico; altri brani toccavano questioni di tipo giuridico-amministrativo, relative al diritto d'autore e al funzionamento delle biblioteche. Le pagine più strettamente autobiografiche e gli interventi critici giudicati più significativi verranno riproposti nel volume Brani di vita (Bologna 1908), diviso in due sezioni, Ricordi e Polemiche, quest'ultima aperta dagli scritti intitolati Per un sonetto e Un sonetto in corte d'appello, in cui il G. ricostruiva minutamente, a sua difesa, le cause e l'andamento del processo che lo colpì per aver pubblicato sul Lamone, il 25 sett. 1898, una poesia contro il vescovo di Faenza G. Cantagalli.
A ulteriore smentita di ogni immagine intemperante, lo stesso G. ricordava di aver vissuto, dopo il matrimonio, nel 1874, con Maria Nigrisoli (dalla quale ebbe tre figli: Angiolina, morta a quattro anni; Guido, futuro medico e cattedratico; e Lina), una "vita studiosa tra la biblioteca e la casa, badando all'educazione dei figli" e distraendosi "con lunghe gite in bicicletta, lavoretti di fotografia e cure di una [sua] villa a Gaibola". Già consigliere comunale a Ravenna nel 1870, lo fu ancora a Bologna nel 1889, per dimettersi però nel 1891. All'attività politica preferì comunque l'impegno giornalistico, svolto sia su testate nazionali (dal Capitan Fracassa alla Cronaca bizantina, dall'Illustrazione italiana alla Nuova Antologia, dalla Rassegna settimanale alla Rivista d'Italia), sia su fogli, per lo più satirici, di circolazione cittadina e locale (per esempio Il Matto, da lui fondato nel 1874, e La Patria di Bologna, in cui pubblicava con lo pseudonimo di Mercutio, usato anche altrove).
Per alcuni anni - grosso modo fino al 1885 - la sua ricerca critica si era venuta orientando anche verso gli studi più propriamente eruditi, di impronta positivistica, favoriti dai materiali inediti che le biblioteche erano in grado di fornirgli. Dopo avere curato l'edizione dei Versi di Guido Peppi poeta forlivese del sec. XV (Bologna 1878), pubblicò sempre a Bologna, nel 1879, l'ampia monografia La vita e le opere di Giulio Cesare Croce.
Per la prima volta il G. ricostruiva con ricchezza di documentazione la personalità umana e culturale del cantastorie bolognese, sottolineandone, da un lato, i rapporti con l'ambiente sociale, e distinguendo, dall'altro, un tipo di poesia popolare-cittadina che sta fra la letteratura colta e la tradizione orale, con particolare attenzione alla ricerca delle fonti e alla risonanza presso i destinatari. L'interesse per questo tipo di letteratura, che sottolinea gli elementi materiali-corporei della realtà e che venne poi definita carnevalesca (dalle indicazioni teoriche di M. Bachtin fino agli studi di P. Camporesi), si rivela anche nelle numerose poesie d'occasione scritte per il carnevale (stampate su fogli volanti, sono in gran parte andate perdute). Vi si affaccia quella vena comica e satirica, legata a una immediata e precisa individuazione dei bersagli polemici, che si ritrova anche nei Sonetti romagnoli, dal G. scritti in dialetto in un lungo volgere di anni e pubblicati postumi, nel 1920, dal figlio Guido, che dava così compimento a un desiderio del padre.
Non stupisce allora che, fra le tante edizioni curate o prefate dal G., ci siano i Canti carnascialeschi, trionfi, carri e mascherate (Milano 1883) e Le feste pel conferimento del patriziato romano a Giuliano e Lorenzo de' Medici di P. Polliolo (Bologna 1885), oltre alle Commedie e satire in versi di L. Ariosto (Milano 1883), alle Commedie di G.M. Cecchi (ibid. 1883), alle Novelle di A. Firenzuola (Firenze 1886). Alla già ricordata passione per la fotografia e per la bicicletta (In bicicletta. Scritti vari di argomento ciclistico, Catania 1901) si era intanto venuto affiancando l'interesse per la cucina: dalla conferenza all'Esposizione di Torino del 1883, su La tavola e la cucina nei secoli XIV e XV, all'edizione del Frammento di un libro di cucina del secolo XIV (Bologna 1887). Sul finire della vita il G. lavorava a una raccolta di ricette sulla cucina povera, che uscì postuma con il titolo L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa (Roma 1918; Ravenna 1973).
Il carattere multiforme e polivalente dei suoi interessi (tra i divertissements c'è anche una Bibliografia per ridere, Roma 1883) si rivela in altre iniziative editoriali: dalla traduzione delle Lettere di Mérimée ad A. Panizzi (Bologna 1881) alla proposta di un Ricettario galante del principio del secolo XVI (ibid. 1883), fino all'edizione del Libro dei colori, trattatello anonimo del XV secolo sui segreti dei materiali pittorici, edito (ibid. 1887), nella "Scelta di curiosità letterarie inedite o rare", curato con C. Ricci (nel medesimo anno, a cura di entrambi usciva anche, sempre a Bologna, il Diario bolognese di J. Rainieri).
La collaborazione con Ricci, che lavorò sotto la direzione del G. nella stessa Biblioteca universitaria, aveva già dato luogo a un volume di Studi e polemiche dantesche (ibid. 1880); ma il frutto più noto del sodalizio doveva essere rappresentato, di lì a poco, dal Giobbe. Serena concezione di Mario Balossardi (Milano 1882), poemetto giocoso in quattro canti di strofe irregolari e di versi polimetri, preceduti da un'Epistola e dal prologo In cielo, e chiusi dall'epilogo In terra.
La genesi dell'opera, illustrata da Ricci in occasione della ristampa del 1919 nella collana "Classici del ridere" dell'editore Formiggini, è legata in qualche modo alla polemica fra G. Carducci e M. Rapisardi, il quale avrebbe annunciato: "Ai detrattori del Lucifero risposi col Lucrezio, ai detrattori del Lucrezio risponderò con la serena concezione del Giobbe". Di qui l'idea burlona di anticipare Rapisardi (che pubblicò il suo Giobbe nel 1882) e di creare poi un battage pubblicitario, pilotato dall'editore E. Treves, che, giocando per qualche tempo sulla sconosciuta identità degli autori (qualcuno pensò addirittura a Carducci, altri allo stesso Rapisardi), innescò a catena nuove polemiche. Ad alimentarle era anche il carattere irriverente del componimento, che, utilizzando gli strumenti della satira e della parodia (sulla linea tassoniana della Secchia rapita), prendeva di mira gli attori e le vicende della vita culturale del tempo (giornalisti e scrittori, filosofi e professori universitari, quotidiani e riviste), dando spazio, sotto il travestimento della favola biblica, anche ai retroscena, alle beghe e ai pettegolezzi correnti. Proprio in questa attualità un po' scandalistica consistette la forza d'urto del Giobbe di Balossardi, che suscitò grande scalpore e incontrò nell'immediato un notevole successo, via via attenuatosi per il venir meno delle ragioni dell'interesse contingente (non tutti i riferimenti sono oramai perspicui o facilmente interpretabili).
Del 1897 sono le Rime di Argia Sbolenfi (ibid.), dal nome di un personaggio bolognese trasformato dal G. in una macchietta caricaturale. La sedicente figlia di costui appare come autrice di versi che solo in minima parte toccano motivi poetici tradizionali. Sono, per la maggior parte, componimenti satirico-burleschi, da cui emerge una forte componente misoginica, alla quale fa da controcanto un linguaggio non di rado scurrile, soprattutto là dove il doppio senso sottolinea le smanie e le frustrazioni sessuali della protagonista-poetessa. Insieme con le sgrammaticature (oltre a non essere attraente, Argia è anche ignorante, soprattutto all'inizio), non manca la ricerca di soluzioni sperimentali (da un componimento in spagnolo maccheronico a un tipo di sonetto, definito sbolenfio, che consiste soprattutto nell'impiego di parole e rime sdrucciole). Si trattava comunque di versi piuttosto corrivi, tanto che lo stesso G., nella già ricordata difesa del suo sonetto incriminato, dice che quello di Argia Sbolenfi era lo pseudonimo riservato a firmare le cose sue peggiori. La raccolta venne pertanto esclusa dall'edizione definitiva delle Rime (ibid. 1903), che comprende, oltre a Postuma e a Polemica (la vecchia e la nuova), una sezione di Adiecta; a loro volta le rime aggiunte rispetto alle raccolte precedenti sono suddivise nel Liber Caiaphas, Interludium e Civilia.
Con un nuovo pseudonimo il G. sottoscrisse l'ultimo lavoro cui pose mano, le Ciacole di Bepi, attribuite a Pio X e pubblicate sul Travaso delle idee di Roma dal 1905 fino alla morte del pontefice; scritte e versificate in dialetto veneto, abbandonano i toni del consueto anticlericalismo per insistere piuttosto sugli aspetti umani di una figura che s'immagina rimpianga la vita di un tempo, sentendosi quasi prigioniera del ruolo cui è costretta. Una prima scelta fu raccolta in volume con il titolo Opera nova chiamata Ciacole de Bepi (Roma 1908).
Il G. morì a Bologna il 21 ott. 1916.
Fonti e Bibl.: Sull'archivio Guerrini conservato presso gli eredi ha lavorato L. Avellini, O. G. e i suoi lettori, in Storia illustrata di Ravenna, III, Milano 1990, pp. 209-224; ma v. anche, di U. Foschi, Inventario delle carte di O. G., in Boll. economico… di Ravenna, XXVII (1972), 12, pp. 1085-1096, e Inediti di O. G., ibid., XXXV (1980), 4, pp. 3-10. Contributi sparsi all'epistolario del G. in M. Menghini, Lettere inedite di O. G., in Accademie e biblioteche d'Italia, XIV (1941), pp. 264-279, e in C. Marabini, Stecchetti familiare (con lettere inedite), in Nuova Antologia, agosto 1963, pp. 449-462; altre lettere, conservate a Ravenna nella Biblioteca dell'Ente Casa Oriani e nella Biblioteca comunale Classense, sono state edite da E. Dirani - G. Bosi Maramotti in I Quaderni del Cardello, V (1994), pp. 41-155, 157-208. Tra le testimonianze e gli interventi critici: G. Carducci, Novissima polemica (1878), in Edizione nazionale delle opere di G. Carducci, XXIV, Bologna 1944, pp. 289-317; F. Cavallotti, Del verismo e della nuova metrica, in Id., Anticaglie, Roma 1879, pp. 5-120; L. Capuana, F. Fontana e L. Stecchetti, in Id., Studi sulla letteratura contemporanea, s. 1, Milano 1880, pp. 158-174; L. Lodi, L. Stecchetti: ricordi, prose e poesie, Bologna 1881; D. Garoglio, Le rime di Argia Sbolenfi, in Id., Versi d'amore e prose di romanzi. Saggi critici, Livorno 1903, pp. 33-41; G. Zanichelli, Le poesie di L. Stecchetti, in Rassegna nazionale, 1° sett. 1903, pp. 26-40; B. Croce, O. G. (1904), in Id., La letteratura della nuova Italia, II, Bari 1914, pp. 131-149; P.E. Giudici, Stecchetti, Firenze 1910; C. Bonardi, Reminiscenze e imitazioni nella letteratura italiana durante la seconda metà del sec. XIX, VI, L. Stecchetti (O. G.), in La Critica, IX (1911), pp. 249-253; X (1912), pp. 17-23 e 95-102; G.S. Gargano, Per un poeta scomparso: L. Stecchetti, in Il Marzocco, 29 ott. 1916, p. 1; A. Sorbelli, O. G.: il critico e l'erudito, in Nuova Antologia, 16 nov. 1916, pp. 178-185; L. Stecchetti, Mercutio, Sbolenfi, Bepi, con ricordi autobiografici, prefaz. di F. Martini, Bologna 1916; A. Sorbelli, Bibliografia stecchettiana, in La Bibliofilia, XVIII (1916-17), pp. 193-212; XIX (1917-18), pp. 67-84; S. Cavazzuti, A proposito dei giudizi di B. Croce su O. G. e F.D. Guerrazzi, La Plata 1922; B. Pinchetti, La lirica italiana dal Carducci al D'Annunzio (lineamenti estetici). G. Carducci. I poeti veristi, Bologna 1928, pp. 254-273; M. Bonfantini, Intorno a Stecchetti, in La Libra, 1929, n. 1, pp. 1-7; B. Croce, Il "Giobbe" (1938), in Id., La letteratura della nuova Italia, V, Bari 1939, pp. 367-377; G. Mazzoni, Sotto la torre degli Asinelli, in La Lettura, 1941, pp. 366-370; A. Baldini, Postuma (1877), in Id., Fine Ottocento…, Firenze 1947, pp. 125-131; G. Squarciapino, Roma bizantina, Torino 1950, passim; E. Cecchi, Poeta sfortunato, in Id., Corse al trotto, Firenze 1952, pp. 101-106; A. Bignardi, Diz. biogr. dei liberali bolognesi (1860-1914), Bologna 1956, p. 20; L. Federzoni, in Id., Bologna carducciana, Bologna 1961, pp. 185-191; A. Parisi, O. G. e la poetica verista, Salerno 1964; Poeti minori dell'Ottocento, I, a cura di L. Baldacci, Milano-Napoli 1968, pp. 811-845; P. Giudici, I romanzi di A. Fogazzaro e altri saggi, Roma 1970, pp. 311-342; L. Stecchetti: Rime, lettura di P. Santi, con interventi di A. Lolini, M. Luzi e V. Magrelli, Ravenna 1983; U. Foschi, O. G. a 150 anni dalla nascita, Ravenna 1985; A. Carrannante, "La Rivista critica della letteratura italiana", in La Rassegna della letteratura italiana, XCVI (1992), 1-2, p. 127; U. Pagani, O. G. uomo e poeta: originalità e debiti, Ravenna 1996; M. Martelli, Introduzione. Pretesti dei "Postuma", e C. Mariotti, Profilo biografico di O. G., in O. Guerrini, Postuma, Roma 2001, pp. XI-XLIV e XLV-LXIX.