EUFFREDUCCI, Oliverotto
Nacque a Fermo probabilmente nel 1473 da Giovanni e da Caterina di Nicola Fogliani.
La sua famiglia, di nobili origini, si era stabilita nel 1380 a Fermo, dove aveva avuto un ruolo di primo piano nella vita civile e politica della città, facente parte dello Stato della Chiesa. Giovanni, ad esempio, fu membro del Consiglio della cernita dal 1476 e due anni dopo venne eletto priore al posto del padre Lodovico, ormai avanti negli anni; morì ancora giovane combattendo contro i pirati turchi.
L'E., rimasto orfano in tenera età, crebbe sotto la tutela dello zio materno Giovanni Fogliani, insieme con i due fratelli, Tommaso, che morì nel 1498 durante l'assedio di San Pietro degli Agli, e Battista, che divenne un esponente politico di rilievo, tanto che nel 1496 fu eletto podestà di Milano.
L'E. intraprese ben presto la carriera militare al servizio prima di Paolo e Camillo Vitelli e poi del loro fratello Vitellozzo, compiendo numerose imprese e prendendo parte a importanti campagne militari: così nel 1495 seguì i Vitelli, che erano al servizio del re di Francia Carlo VIII, nel tentativo di conquistare il Regno di Napoli, ma l'esito della guerra, che durò circa due anni, fu sfavorevole ai Francesi. Camillo Vitelli morì nella battaglia di Circelle, Paolo fu fatto prigioniero, mentre l'E. e Vitellozzo riuscirono a scampare alla strage. Ritornato a Fermo, l'E. si offrì di combattere in favore della città impegnata nella guerra contro Ascoli e si distinse valorosamente nella difesa della rocca di Ripatransone - il più importante presidio di Fermo - respingendo gli attacchi dei nemici, che inseguì fin sotto le mura del castello di Offida: per questo il governo lo nominò il 6 luglio 1497 commissario generale con pieni poteri.
Stipulata la pace con Ascoli, l'E. sostò per qualche tempo a Fermo allo scopo soprattutto di raccogliere nuove milizie. Alla fine del 1497 tornò al servizio dei Vitelli e fu assoldato dalla Repubblica fiorentina che stava organizzando una campagna per riconquistare Pisa, ribellatasi al suo dominio. In questa guerra lunga e travagliata, che per i giuochi di alleanze coinvolse indirettamente la maggior parte degli Stati italiani, l'E. combatté accanto a famosi condottieri come Gian Paolo Baglioni, Francesco II, marchese di Mantova, Iacopo (IV) Appiani, signore di Piombino. Nel gennaio del 1499, durante uno scontro, venne fatto prigioniero dai Veneziani e consegnato al provveditore Domenico Venier. Liberato poco dopo, continuò a combattere anche se la guerra volse infine a favore dei Pisani.
Accusato dal governo fiorentino di tradimento insieme con i Vitelli, mentre Vitellozzo riuscì a fuggire riparando a Pisa, l'E., insieme con Paolo, fu fatto prigioniero presso Cascina dai commissari Braccio Martelli e Antonio Canigiani e fu condotto a Firenze per essere processato. Grazie tuttavia all'intervento dei Priori di Fermo, che il 9 ott. 1499 scrissero alla Signoria fiorentina, adducendo a giustificazione dell'operato del loro concittadino il fatto che egli aveva solo obbedito al suo capitano, l'E. venne liberato, mentre Paolo Vitelli fu giustiziato. Deciso a vendicare la morte dell'amico, l'E. raggiunse Vitellozzo, recatosi a Milano presso il re di Francia Luigi XII per chiedere giustizia per il fratello. A questo periodo risale il primo contatto del Vitelli con Cesare Borgia, duca del Valentinois e figlio dell'allora pontefice Alessandro VI, che - approfittando della caduta del duca di Milano Lodovico Sforza - stava organizzando, con il favore del sovrano francese, una grossa impresa per la conquista della Romagna. In seguito, le vicende che portarono nuovamente in auge lo Sforza, impedirono al Borgia di realizzare il suo piano di conquista nell'Italia centrale; pertanto l'E. e il Vitelli tornarono in Toscana a combattere in favore di Pisa, e per quasi due anni misero a ferro e a fuoco le terre del contado fiorentino.
Successivamente, alla fine del 1500, richiamato dal Borgia insieme con il Vitelli, l'E. partecipò all'impresa per la conquista di Faenza contro Astorre Manfredi. Ma la resistenza della città eTavvicinarsi dell'inverno indussero il Valentino a sospendere le operazioni; l'E. approfittando della tregua tornò a Fermo, dove il 28 febbr. 1501 prestò giuramento per assumere l'ufficio di regolatore della contrada Fiorenza, a cui era stato eletto fino dal 10 luglio 1498. Infatti, pur essendo lontano da Fermo per impegni militari, l'E., alla morte del fratello Tommaso, era stato nominato dal Consiglio della cernita regolatore della contrada Fiorenza (una delle sei contrade in cui si divideva la città) e più tardi, il 3 dicembre, eletto console della stessa contrada (l'assenza dell'E. da Fermo è testimoniata dagli atti della seduta del Consiglio della cernita del 1° genn. 1499).
Nella primavera del 1501, sempre al servizio del Borgia, l'E. si recò a Pisa con 200 cavalli leggeri che avrebbero dovuto costituire un corpo di spedizione avanzato in Toscana per una successiva campagna militare contro Firenze e lo Stato di Piombino. Dopo la conquista di Faenza (ampiamente descritta nei particolari dal Vitelli in una lettera all'E.), il Valentino si diresse in Toscana, deciso a sferrare un attacco definitivo contro Firenze. Ma l'intervento del re di Francia lo fece desistere dall'impresa; l'E., che si era accampato con le truppe a Ripomarance in attesa di collegarsi col Borgia, dovette ripiegare, dopo aver tentato un assalto contro il castello difeso strenuamente dai Fiorentini e dopo esserne stato respinto con forti perdite al punto di essere lui stesso ferito gravemente.
Soccorso, venne portato a Pisa, dove le sue condizioni sembrarono così precarie che si sparse la voce della sua morte. I Priori di Fermo chiesero, allora, al governo fiorentino il permesso di far giungere fino a Pisa i suoi parenti per riportare il cadavere in patria. Ma l'E., grazie alla sua fibra robusta, guarì presto; pur trovandosi sempre a Pisa, il 27 giugno 1501 fu estratto priore della contrada Fiorenza: ma non tornò a Fermo. Il successivo 18 luglio, infatti, ricevuti dai Pisani 200 ducati come stipendio, partì da Pisa con una lettera di istruzioni di quel governo indirizzata al Vitelli; quest'ultimo, insieme con il Valentino e con i Francesi, si preparava a una nuova impresa nel Regno di Napoli. Non si sa quale sia stato l'effettivo contributo dell'E. a questa spedizione, che si risolse in brevissimo tempo con la sconfitta del re Federico d'Aragona, ma sembra che si sia distinto valorosamente nella presa di Capua.
Al ritorno da Napoli il Borgia si fermò a Roma per partecipare al matrimonio della sorella Lucrezia con il duca di Ferrara Alfonso d'Este, mentre il Vitelli e l'E. si diressero verso Piombino per riprendere l'assedio interrotto nel luglio precedente in seguito alla discesa dei Francesi in Italia. Durante il percorso, l'E. espugnò il castello di Casavecchia, di proprietà dei Varano signori di Camerino. Poco dopo l'E. si recò a Roma per svolgere un delicato incarico diplomatico da parte del Comune di Fermo, gravemente indebitato con la Camera apostolica. La missione ebbe esito positivo, e l'E. si trattenne a Roma fino alla fine dell'anno, sia per partecipare al prolungarsi delle grandiose feste per le nozze di Lucrezia Borgia, sia per concordare col Valentino un piano di azione per impadronirsi di Fermo.
È indubbio che la conquìsta della signoria di Fermo da parte dell'E. non avrebbe potuto realizzarsi senza il beneplacito del Borgia, il cui dominio si era ormai saldamente affermato nell'Italia centrale. D'altra parte, favorendo un suo fedele seguace quale l'E., il Borgia si assicurava, indirettamente, anche il controllo di Fermo, la cui potente oligarchia cercava invece di svincolarsi dalle dipendenze del governo pontificio. E Fermo - per la cui conquista veniva in tal modo evitata una guerra lunga e dispendiosa - sarebbe stata per il Borgia un prezioso punto di forza per le future campagne che aveva in animo di intraprendere contro i Varano di Camerino e il duca d'Urbino Guidubaldo da Montefeltro.
L'8 genn. 1502 l'E. rientrò inaspettatamente a Fermo con un forte contingente di armati fornitigli dallo stesso Borgia e, con l'aiuto di alcuni complici (fra cui il fratello Battista, Prospero Mantovani e vari altri), si impadronì del potere. La prima azione da lui compiuta dopo il suo ingresso a Fermo fu quella di eliminare i principali esponenti politici del governo e dell'aristocrazia cittadina, fra cui lo zio Giovanni Fogliani, il figlio di lui Gennaro e il genero Raffaele Della Rovere, e quindi Giacomo Buongiovanni, Pier Leonardo Paccaroni, Pier Lodovico del Papa e Pietro Gualteroni, tutti uccisi a tradimento. L'opera dell'E. riuscì grazie anche alle discordie che dividevano l'aristocrazia cittadina, parte della quale si assoggettò al nuovo signore, ottenendone in cambio cariche e onori.
L'E. manifestò subito l'intenzione di riformare l'assetto istituzionale di Fermo, facendo bruciare il "bossolo degli ufficiali", cioè il simbolo della libertà e dell'autonomia del Comune. Tuttavia volle che le magistrature cittadine riconoscessero formalmente e ufficialmente la sua.autorità e il giorno dopo la strage compiuta durante l'assedio del palazzo pubblico, sede del governo, convocò il Consiglio generale, che a larga maggioranza approvò la riforma dello Stato da lui proposta e gli riconobbe il diritto di incamerare i beni già appartenenti a Giovanni Fogliani. L'E. abolì quindi tutte le magistrature esistenti, anche se per mantenere una parvenza di continuità con il passato conservò quella del Priorato, a cui affiancò un gonfaloniere di Giustizia eletto annualmente; istituì il nuovo ufficio, anch'esso di durata annuale, dei Dodici governatori della città (due membri in rappresentanza di ciascuna contrada), che avrebbero risposto direttamente a lui del loro operato. Il Consiglio generale del Popolo non venne abolito ma rimase svuotato della sua autorità e non fu più convocato; analoghe limitazioni ebbero il podestà e il capitano del Popolo con potere di giudizio sulle cause civili, criminali e miste, con l'obbligo di osservare gli statuti e i decreti del Comune e di essere soggetti a sindacato. Il controllo politico e istituzionale dell'E., che ebbe un potere pressoché assoluto sul governo della città, si esplicava soprattutto nel sistema di elezione delle magistrature, ormai palesamente arbitrario e non più soggetto alle norme statutarie.
Il colpo di Stato attuato a Fermo dall'E. non poteva essere accettato pacificamente, almeno sul piano formale, dal governo pontificio. Il papa protestò con i Priori di Fermo, invitandoli a ristabilire l'ordine politico precedente, arrestando l'E. e i suoi seguaci con l'aiuto del luogotenente della Marca. Ma con un'abile mossa diplomatica, l'E. inviò ad Alessandro VI una delegazione con ricchi doni e molto denaro (da destinarsi anche agli Orsini, fautori della politica papale, allo stesso luogotenente della Marca e a vari altri autorevoli personaggi della Curia). All'oratore Girolamo Montano, a Giovanni Antonio Euffreducci, e a una delegazione di notabili della città fu dato incarico di motivare l'iniziativa dell'E. spinto a impadronirsi di Fermo dal popolo stesso perché ristabilisse l'ordine e la giustizia venute meno per colpa del precedente govtrno oligarchico. Le condizioni poste dal pontefice per concedere il perdono all'E. furono tuttavia gravose, prevedendo il pagamento di tutti i debiti contratti con la Camera apostolica con l'aggiunta di una somma a risarcimento dei delittì compiuti e l'imposizione di nuove tasse sugli uffici. L'E. si oppose a quest'ultima richiesta ritenendola lesiva della libertà comunale dal momento che avrebbe implicato l'approvazione delle elezioni alle cariche pubbliche da parte del governo pontificio. La risoluzione della vertenza fu affidata all'oratore Girolamo Bertacchini, che agì di concerto con altri ambasciatori di città dell'Umbria e delle Marche, desiderose di arginare l'ingerenza e l'esosità fiscale della Chiesa.
Per rinsaldare meglio il suo potere e pe procurarsi il denaro necessario per saldare i debiti con Roma, l'E. continuò ad eliminare altri notabili di Fermo, incamerandone i beni o distribuendoli ai suoi sostenitori. Il denaro servì anche per intraprendere importanti opere di fortificazione per la difesa della città, come il restauro dalla rocca del Girone, intorno alla quale fece costruire un muro per riparare quel lato della città. Per difendere Fermo dagli attacchi dei pirati fece allestire una fusta che sorvegliasse le coste e progettò pure di costruire un porto alla foce del fiume Ete, per dare così al suo Stato una forza marittima militare e commerciale. Organizzò con cura particolare un esercito di uomini scelti, che provvide ad istruire personalmente, composto da un corpo di cavalieri e da uno di fanti (quest'ultimo fornito di un nuovo tipo di arma, gli scoppietti, fatti venire da Venezia e da Milano). L'importanza attribuita dall'E. all'artiglieria e alle armi da fuoco in generale rientrava nel piano di riforma introdotto dal Borgia nel campo militare e strategico, in base al quale mentre alla fanteria, munita di artiglierie, era affidata l'offensiva in battaglia, alla cavalleria erano delegati compiti sussidiari; con un'iniziativa fortemente innovativa per il suo tempo, l'E. fece installare a Grottazzolina una fabbrica di cannoni.
Seguendo la politica del Valentino, anche l'E. cercò di tessere una rete di alleanze con le città e i Comuni vicini, dove riuscì ad imporre come podestà propri familiari ed amici, o a stipulare patti di aiuto reciproco, ma in realtà a suo esclusivo vantaggio, come fece per il Comune di Offida allo scopo di eliminare i fuoriusciti e i banditi da Fermo. Ciononostante, dovette far fronte ad alcune congiure ordite contro di lui. come quella organizzata dai Varano, con la complicità di Giovanna Della Rovere, prefettessa di Senigallia, e di Giovanni Antonio Acquaviva, che, sebbene scoperta grazie alla delazione di Bernardino del Gualdo, rivelava, in sostanza, la fragilità su cui si basava la signoria dell'Euffreducci. Infatti, il favore del popolo ottenuto soprattutto non imponendo nuove tasse e la riduzione in soggezione della nobiltà non compensavano le enormi spese per il mantenimento dell'esercito e per il finanziamento dato alle imprese del Valentino, col risultato di dissanguare le finanze di Fermo senza che il livello di vita della popolazione e l'economia cittadina potessero avvantaggiarsene. Fu soprattutto la dipendenza politica ed economica dalla S. Sede che impedì all'E. il raggiungimento di un forte potere autonomo in grado di opporsi alle continue richieste in campo militare fatte dal papa e dal Valentino.
Nell'estate del 1502 l'E. partecipò all'impresa organizzata contro Camerino, feudo dei Varano, che si protrasse a lungo anche perché la città veniva segretamente rifornita di grano dagli stessi abitanti dì Fermo e soprattutto dal duca d'Urbino. Contro quest'ultimd si riversò, quindi, l'azione del Borgia, che in brevissimo tempo conquistò lo Stato dei Montefeltro. Subito dopo il Borgia rivolse la sua attenzione alla città di Arezzo, che si era ribellata al dominio fiorentino: mentre le truppe del Vitelli si erano già portate sul luogo delle operazioni, nel giugno vi giunsero anche Giampaolo Baglioni e l'E., che tutti credevano ancora a Camerino; per timore di suscitare le reazioni francesi il Borgia decise tuttavia di desistere da quell'impresa e rinviò le truppe dell'E. e del Vitelli a Camerino per completare la conquista della città, che avvenne nel luglio del 1502.
Rientrato a Fermo, l'E. venne festeggiato per questa vittoria, ma, per rifarsi delle spese della guerra, non esitò ad uccidere a tradimento Girolamo Azzolini e Paolo Tabor, impadronendosi dei loro beni. Ma gli equilibri politici instaurati dal Valentino erano destinati a mutare rapidamente, nonostante l'assenso avuto dal re di Francia (che incontrò a Milano) a creare uno Stato assoluto nell'Italia centrale anche eliminando le signorie da lui stesso instaurate nelle persone dei suoi più fidi capitani. Avvertiti di questo piano da parte del cardinale Giambattista Orsini, il Baglioni, il Vitelli e l'E. si riunirono, il 9 ott. 1502, alla Magione presso Perugia e costituirono una lega alla quale aderirono anche Giovanni Bentivoglio, Pandolfò Petrucci e Paolo Orsini. L'E. ricevette l'incarico di assoldare 5.000 fanti e 200 cavalli leggeri da impiegare nelle Marche col Vitelli e con l'Orsini per ristabilire le signorie in precedenza abbattute dal Borgia, fra cui quelle dei Montefeltro ad Urbino e dei Varano a Camerino. L'E. si recò quindi a Senigallia, dove pose il campo. Ma il fronte della lega si incrinò ben presto: il 25 ottobre, infatti, Paolo Orsini si recò dal Valentino per scendere a patti, ed anche l'E., il 4 dicembre successivo, sebbene a malincuore, firmò i capitoli di pace. Tuttavia non rimase tranquillizzato dalle assicurazioni e dalle promesse del Borgia e, tornato a Fermo, si adoperò per rafforzare le difese e per rifornire di grano la città, temendo un improvviso peggioramento della situazione. Infatti, il fallimento della lega portò in tutti gli alleati la paura della vendetta da parte del Borgia.
Tornato al servizio del Valentino, l'E. partì, il 13 dic. 1502, per una nuova impresa contro Camerino, che poté conquistare senza difficoltà. Poco dopo si incontrò a Cesena col Borgia, che gli affidò il compito di espugnare Senigallia, feudo dei Della Rovere: anche questo incarico venne felicemente assolto dall'Euffreducci. Appena saputo che a Senigallia si trovavano il Vitelli e gli altri suoi capitani, il Borgia partì da Fano, con un grosso contingente di truppe allo scopo di mettere in atto il piano che già da tempo aveva concepito: quello, cioè, di eliminare ogni possibile ostacolo o resistenza all'instaurazione di un suo dominio personale e assoluto nell'Italia centrale.
A Senigallia il 31 dic. 1502 il Borgia fu accolto dal Vitelli, da Paolo Orsini, da Francesco Orsinì, duca di Gravina, e dall'E. che lo scortarono nell'ingresso in città. Una volta dentro le mura, tutti i capitani chiesero licenza per tornare ai loro accampamenti, tranne l'E., che aveva le sue truppe in città. Con una scusa il Valentino li invitò a rimanere presso di lui, adduc.endo la necessità di definire urgentemente per l'indomani il piano d'azione; in realtà ordinò di arrestarli e di ucciderli, mentre le truppe dell'E. furono massacrate.
Le versioni fornite su questo episodio - certamente uno dei più cruenti fra quelli attuati dal Borgia, e reso famoso soprattutto dalla Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini di Niccolò Machiavelli - non sono tutte univoche: la fonte più attendibile appare una lettera inviata a Firenze ai Dieci di balia, tre giorni dopo l'evento, dal commissario fiorentino di Borgo San Sepolcro, Giovanni Ridolfi, che aveva conosciuto il succedersi esatto delle vicende da un testimone oculare, Dionigi da Urbino, che era col Borgia. Contrariamente a quanto scritto dal Machiavelli, ad esempio, sia nella Descrizione sia nella Legazione al duca Valentino in Romagna, dalla lettera del Ridolfi meglio si apprendono i particolari dell'inganno del Borgia e soprattutto quelli relativi all'uccisione dei suoi capitani, che il Machiavelli non poteva sapere perché non solo non si trovava a Senigallia, ma neppurre conosceva la testimonianza di Dionigi da Urbino.
Il corpo dell'E. venne sepolto a Senigallia nella chiesa dell'ospedale di S. Maria della Misericordia. La notizia della morte dell'E. si sparse rapidamente: da Fermo furono subito inviati al Borgia due oratori allo scopo di assicurare l'obbedienza della città alla S. Sede, mentre il popolo si sollevò e molti membri della famiglia dell'E. vennero banditi e i loro beni confiscati. Vennero pure ripristinate le antiche magistrature e il legato apostolico della Marca requisì tutte le armi e le truppe, abolendo inoltre tutte le franchige di cui la città godeva, al punto che, per breve tempo, la figura e l'opera dell'E. tornarono in auge quasi come simbolo di libertà e di indipendenza rispetto alle ingerenze ecclesiastiche. Ma Fermo dovette ben presto sottomettersi al Valentino, che ne assunse il dominio diretto tramite un suo luogotenente, Iacopo Nardini, e il nome del'E. fu addirittura bandito.
Fonti e Bibl: Le numerose testìmonianze documentarie sull'E. e sulla sua famiglia si trovano per lo più conservate presso la Bibl. comunale di Fermo, e sono state ampiamente utilizzate da F. Filippini, Liverotto Uffreducci tiranno di Fermo, in Atti e mem. della R. Deputaz. di storia patria per le prov. delle Marche, I (1895), pp. 65- 189, che resta a tutt'oggi la più completa monografia sull'Euffreducci. Per quanto riguarda in particolare la ricostruzione delle vicende che portarono alla strage di Senigallia e alla morte dell'E., si veda Arch. di Stato di Firenze, Dieci di Balia. Responsive 65, cc. 171-213 passim. La Descrizione e la Legazione del Machiavelli si trovano in N. Machiavellì, Tutte le opere, a cura dì M. Martellì, Firenze 1971, pp. 8-11 e 401-496. Altre notizie sull'E. e la sua opera politica sono tramandate da S. dei Conti, Le storie de' suoi tempi dal 1475al 1510, a cura di G. Racioppi, II, Roma 1883, pp. 263-264; A. Giustinian, Dispacci, a cura di P. Villari, I, Firenze 1876, pp. 156, 174, 204, 301-304; M. Sanuto, Diarii, II, Venezia 1879, p. 311; IV, ibid. 1880, pp. 58, 402, 450, 514, 524, 593; A. Pezzati, Diario della ribellione della città di Arezzo dell'anno 1502, in Arch. stor. italiano, s. 1, I (1842), pp. 216, 222, 226; F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di G. Panicada, II, Bari 1929, pp. 16, 39, 49, 52, 58-59; G. De Minicis, Serie cronologica degli antichi signori, de' podestà e rettori di Fermo…, Fermo 1855, pp. 30, 48-49; Id., Cronache della città di Fermo, Firenze 1870, ad Indicem.
Si veda ancora: G. Fracassetti, Notizie storiche della città di Fermo, Fermo 1841, pp. 48-50; M. Leopardi, Vita di N. Bonafede vescovo di Chiusi, Pesaro 1852, pp. 33-36, 40-41; E. Alvisi, C. Borgia duca di Romagna, Imola 1878, pp. 168, 183, 291, 298, 318, 356-359, 366; P. Villari, N. Machiavelli e i suoi tempi, Firenze 1881, I, pp. 412-413; II, pp. 381, 579-580; L. Mancinì, Un nuovo documento su la strage del Valentino in Senigallia, Senigallia 1903; L. von Pastor, Storia dei papi, IV, 1, Roma 1926, p. 288; R. Ridolfi, Vita di N. Machiavelli, Roma 1954, pp. 83, 96; G. Sasso, Machiavelli e C. Borgia, Roma 1966, pp. 1, 53, 85-87, 123, 182; L. Russo, Machiavelli, Bari 1969, pp. 29, 74, 81, 85.