Euffreducci, Oliverotto
Nacque, probabilmente nel 1473, da Giovanni e da Caterina di Nicola Fogliani a Fermo, dove la sua famiglia si era stabilita nel 1380 assumendo un ruolo di primo piano nella vita civile e politica della città, appartenente allo Stato della Chiesa. Rimasto ben presto orfano, E. crebbe sotto la tutela dello zio materno Giovanni Fogliani che lo affidò alle cure di Camillo e Paolo Vitelli (→), dai quali apprese il mestiere delle armi. Alle dipendenze dei Vitelli, E. prestò servizio seguendo le armi francesi nella spedizione nel Regno di Napoli del 1495. Alla fine del 1497 combatté in favore di Firenze contro Pisa, ribellatasi al dominio fiorentino. In un dispaccio del 23 novembre 1498 M. preannunciava a Luca degli Albizzi l’intenzione di E., d’accordo con il Fracassa – ossia Gaspare Sanseverino – e in linea con la volontà del suo capitano Paolo Vitelli, di condurre una controffensiva contro i veneziani, collegati ai pisani, nel Casentino (M. a Luca degli Albizzi, 23 nov. 1498, LCSG, 1° t., pp. 136-37).
Tuttavia, l’andamento del conflitto fu favorevole ai pisani ed E., insieme a Paolo Vitelli, venne accusato dal governo fiorentino di tradimento e arrestato. In un dispaccio del 29 settembre 1499, precedente la cattura di E., M. sottolineava proprio l’importanza che avrebbe avuto la sua testimonianza per fare piena luce sul tradimento di Paolo Vitelli, già finito invece nelle mani delle autorità fiorentine: «voliamo usiate omni diligenzia in fare di avere nelle mani messer Oliverotto da Fermo e messer Ghembino dal Borgo, e’ quali iudichiamo conscii di tutti i suoi secreti» (M. ai commissari in campo contro Pisa, 29 sett. 1499, LCSG, 1° t., p. 322).
Alla fine, tuttavia, la detenzione di E. fu molto breve, in quanto venne ritenuto estraneo al tradimento di Paolo Vitelli, che fu condannato e giustiziato dai fiorentini. Decisivo per la liberazione di E. fu l’intervento dei priori di Fermo, che lo difesero, dipingendolo nei panni del mero esecutore degli ordini del suo capitano in una lettera del 9 ottobre 1499. Da quel momento, E. passò al servizio di Vitellozzo Vitelli, con cui riprese ben presto la guerra in Toscana, questa volta dalla parte di Pisa, devastando per quasi due anni il contado fiorentino.
Accanto all’originaria istanza di vendetta della morte di Paolo Vitelli, l’impegno militare di Vitellozzo e di E. in favore di Pisa si legò al vincolo di servizio contratto nei confronti del duca Valentino (Cesare Borgia), con cui i primi contatti risalivano a un incontro avvenuto a Milano sul finire del 1499. Dopo aver partecipato su incarico del Borgia all’assedio di Faenza alla fine del 1500, nella primavera del 1501 E. andò a Pisa con duecento cavalli per preparare un attacco diretto del Borgia. Nonostante il veto del re di Francia facesse desistere il Valentino da un intervento in prima persona, i suoi subordinati mantennero alta la tensione con Firenze, in linea con le mire nutrite su Livorno e Piombino (Chabod 1993, p. 290; Vivanti 1999, p. 1692).
In particolare E., a fine maggio, tentò – pur vanamente – di conquistare il castello di Ripomarancie, in mano ai fiorentini e, in seguito, rimessosi dalle gravi ferite subite nel corso dell’attacco, tenne in allarme il governo fiorentino con una serie di movimenti svolti nei pressi di Càscina: una precisa istruzione di M. al locale commissario conteneva l’ordine di bloccargli il passaggio, qualora si fosse presentato con i suoi soldati (M. al commissario di Càscina, 7 e 8 luglio 1501, LCSG, 2° t., pp. 138-39; cfr. Vivanti 1999, p. 1692).
Il 18 luglio 1501, però, E. lasciò Pisa per raggiungere il Valentino, Vitellozzo e i francesi che si accingevano a una nuova spedizione nel Regno di Napoli, recandosi poi a Roma ai festeggiamenti per gli sponsali di Lucrezia Borgia. In questa occasione, inoltre, E. concordò con il Valentino un piano di azione per impadronirsi di Fermo, dove entrò con un forte contigente armato l’8 gennaio 1502. Da una parte, E. procedette all’eliminazione dei cittadini più influenti, tra i quali spiccava il suo stesso parente Giovanni Fogliani, e dei suoi oppositori. Dall’altra, mediante la concessione di cariche e onori, guadagnò il consenso di gran parte dell’aristocrazia alla riforma dello Stato con cui aboliva molte delle magistrature esistenti e svuotava di ogni autonomo rilievo quelle mantenute in vita.
E. dovette ottenere anche l’avallo di Alessandro VI e degli Orsini al suo colpo di Stato, elargendo ricchi donativi, pagati con i beni incamerati a seguito dell’eliminazione dei notabili ostili al nuovo corso. Nel contempo, utilizzò parte del denaro così accumulato per rafforzare le fortificazioni della città e il suo esercito. Peraltro, le enormi spese provocate dal mantenimento dell’esercito e dalla dipendenza politica ed economica dalla Santa Sede, con annesse ripetute ed esose richieste di finanziamento fatte dal papa e dal Valentino, alimentarono un significativo malcontento interno, rivelando la fragilità del potere del nuovo signore di Fermo.
Soprattutto, però, la signoria di E. era minacciata dal progetto del Valentino di creare, con il sostegno del re di Francia, un proprio grande Stato nell’Italia centrale. La realizzazione di tale disegno, infatti, avrebbe portato con sé l’eliminazione delle signorie instaurate dallo stesso Borgia nelle persone dei suoi più fidi capitani. Pertanto, il 9 ottobre 1502 alla Magione, presso Perugia, E. formò insieme a Giampaolo Baglioni e a Vitellozzo, e con il concorso di Giovanni Bentivoglio, Pandolfo Petrucci e Paolo Orsini, una lega antiborgiana. Tuttavia, l’alleanza si sfaldò rapidamente a seguito della defezione di Paolo Orsini, che costrinse anche E. e Vitellozzo a riappacificarsi con il Valentino.
La riconciliazione fu comunque soltanto di facciata come certificò l’agguato perpetrato dal Valentino ai danni di E., Vitellozzo, Francesco e Paolo Orsini a Senigallia il 31 dicembre 1502. Il Borgia, non appena seppe del raduno dei suoi capitani nella città, appena espugnata – su suo ordine – proprio da E., li raggiunse, li fece arrestare ed eliminare, mentre i loro uomini erano accampati al di fuori di Senigallia. Anche E., nonostante avesse i suoi soldati dentro la città, subì lo stesso destino degli altri e le sue truppe furono massacrate.
M., inviato in missione presso il Valentino dalle autorità fiorentine, pur non essendo presente a Senigallia, proprio con riguardo all’esecuzione di Vitellozzo e di E. riferiva, sulla scorta di una conversazione avuta con uno dei componenti del seguito del Borgia: «Ho parlato questo dì a lungo con uno di questi primi e […] disse che […] questo Signore aveva fatto morire Vitellozzo e Liverotto come tiranni e assassini e traditori» (M. ai Dieci, 2 genn. 1503, LCSG, 2° t., pp. 530-31).
Questa rappresentazione in chiave negativa di E., funzionale a legittimare da parte del Valentino la richiesta di sostegno finanziario a Firenze per l’attacco che stava meditando contro Petrucci (M. ai Dieci, 10 genn. 1503, LCSG, 2° t., pp. 545-47), sarebbe stata in qualche modo ripresa, seppur in una ben più ampia e articolata prospettiva, nel cap. viii del Principe. Nel ripercorrere le fasi salienti della vicenda biografica e politica di E., da un lato, M. sottolineò preliminarmente le capacità militari mostrate da E. al servizio di Paolo e Vitellozzo Vitelli:
Liverotto firmano, sendo più anni innanzi rimaso piccolo sanza padre, fu da uno suo zio materno – chiamato Giovanni Fogliani – allevato, e ne’ primi tempi della sua gioventù dato a militare sotto Paulo Vitegli acciò che, ripieno di quella disciplina, pervenissi a qualche eccellente grado di milizia. Morto di poi Paulo, militò sotto Vitellozzo, suo fratello, e in brevissimo tempo, per essere ingegnoso e della persona e dello animo gagliardo, diventò el primo uomo della sua milizia (viii 13-14).
Dall’altro, inserì il modus agendi politico con cui E. giunse alla signoria di Fermo, nella tipologia dei principati fondati attraverso il compimento di una serie di azioni scellerate (viii 15-20). A tal proposito, risulta estremamente indicativo il netto contrasto che emerge tra il particolareggiato e dettagliato racconto dedicato da M. all’inganno con cui E. assurse alla signoria fermana e la stringata trattazione della strage di Senigallia compiuta dal Valentino, proposta invece nel cap. vii del Principe. Come osserva Gennaro Sasso, infatti, tale discrepanza implica una ben diversa valutazione, da parte di M., dell’azione di E. e di quella del Valentino. Mentre l’agire del Borgia è teso a costruire un grande Stato, rendendo dunque plausibile la scelta degli scelera nella misura in cui sono finalizzati a un progetto politico di ampio respiro,
E. sembra viceversa aver di mira un progetto assai più modesto. Il procedere del Valentino, pur caratterizzato dall’efferatezza, tende all’instaurazione di un principato ‘civile’, con riguardo al concreto esercizio del potere, in quanto supportato dal consenso popolare conseguito attraverso lo sterminio dei grandi di Romagna. I moventi che spingono E. sembrano, al contrario, esaurirsi in una logica meramente autoreferenziale, in nessun modo rivolta a fondare un potere, la cui effettiva gestione sia di tipo ‘civile’: «Ma, parendogli cosa servile lo stare con altri, pensò, con lo aiuto di alcuno cittadino firmano, alli quali era più cara la servitù che la libertà della loro patria, e con il favore vitellesco, occupare Fermo» (viii 15). M. dunque non scorge nella efferatezza degli atti di E. una finalità politica che travalichi la mera ambizione personale (Sasso, in N. Machiavelli, Il Principe e altri scritti, 1962, pp. 88-89, e Sasso 1967, pp. 100-01).
Indirettamente, del resto, i limiti delle scelte di E. sembrano affiorare anche in relazione all’altro caso di principato conquistato per scelera, che è descritto da M. ancora nel cap. viii del Principe. Si tratta del caso di Agatocle (→), assurto al governo di Siracusa (§§ 4-12), la cui vicenda è un esempio delle «crudeltà bene usate» opposte evidentemente a quelle «male usate» (distinzione chiarita ai §§ 23-26; sulla questione cfr. Sasso, cit., 1962, pp. 90-92 e 1988, pp. 352-64), «che si fanno a uno tratto per la necessità dello assicurarsi, e di poi non vi si insiste drento ma si convertono in più utilità de’ sudditi che si può». Lo stesso discorso, evidentemente, non vale per E. anche a causa della brevità della sua signoria, dissoltasi dopo appena un anno a seguito dell’errore fatale che lo porta a cadere nella rete ordita dal Valentino a Senigallia, interrompendone l’opera di consolidamento interno:
Morti tutti quelli che per essere mal contenti lo potevono offendere, si corroborò con nuovi ordini civili e militari: in modo che, in spazio di uno anno ch’e’ tenne el principato, non solamente lui era sicuro nella città di Fermo, ma era diventato pauroso a tutti e’ sua vicini. E sarebbe suta la sua espugnazione difficile come quella di Agatocle, s’e’ non si fussi lasciato ingannare da Cesare Borgia, quando a Sinigaglia – come di sopra si disse – prese gli Orsini e e’ Vitelli: dove, preso ancora lui, in uno anno dopo il commisso parricidio fu insieme con Vitellozzo, il quale aveva avuto maestro delle virtù e delle sceleratezze sue, strangolato (viii 20-21).
Questo giudizio di M. su E., non privo di ombre, sembra trovare conferma anche nel Modo che tenne il duca Valentino per ammazzar Vitellozzo, Oliverotto da Fermo, il signor Paolo e il duca di Gravina Orsini in Senigaglia, dove M. si sofferma sull’atteggiamento di E. nell’affrontare la morte:
Ma venuta la notte e fermi e’ tumulti, al duca parve di fare ammazzare Vitellozzo e Liverotto; e conduttogli in uno luogo insieme, li fece strangolare. Dove non fu usato da alcuno di loro parole degne della loro passata vita: perché Vitellozzo pregò che si suplicassi al papa che gli dessi de’ suoi peccati indulgenzia plenaria; e Liverotto tutta la colpa delle iniurie fatte al duca, piangendo, rivolgeva addosso a Vitellozzo (Modo che tenne il duca Valentino, § 57-58).
Da una parte, il comportamento di E. risulta più vile e meschino di quello mostrato da Vitellozzo (Richardson 1979, pp. 82-83); dall’altra, la luce negativa in cui viene raffigurato E. senza soluzione di continuità, rispetto alle riserve già emerse nel Principe, sembra corroborata a contrario dalla rivalutazione, almeno parziale, che M. concede nell’opera a Vitellozzo, in linea con la coeva fase di riavvicinamento tra i Vitelli e i Medici, restaurati a Firenze, culminante nel sostegno dato alla conquista medicea di Urbino nel 1516 dalla famiglia umbra (Richardson 1979, pp. 75-81, e Inglese 1991, pp. 22-27). Vitellozzo, diversamente da E., perde nel Modo, almeno in parte, la caratterizzazione spregevole con cui M. l’aveva rappresentato in precedenza, assumendo i tratti di una figura patetica, dotata di una sua effettiva dignità (Richardson 1979, pp. 81-82).
Bibliografia: Fonti: N. Machiavelli, Il Principe e altri scritti, introd. e commento di G. Sasso, Firenze 1962, pp. 82-93.
Per gli studi critici si vedano: F. Filippini, Liverotto Ufreducci. Tiranno di Fermo, «Atti e memorie della r. deputazione di storia patria per le province delle Marche», 1895, 1, pp. 65-189; G. Sasso, Studi su Machiavelli, Napoli 1967, pp. 100-01 e 117-18; J.-J. Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512). Nascita di un pensiero e di uno stile, Padova 1975, pp. 80-87; B. Richardson, Per la datazione del Tradimento del Duca Valentino del Machiavelli, «La bibliofilia», 1979, 81, pp. 75-85; G. Sasso, Principato civile e tirannide, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 351-490; G. Inglese, introduzione a N. Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani e altri scritti, a cura di G. Inglese, Milano 1991, pp. 5-35; F. Chabod, Scritti su Machiavelli, introduzione di C. Vivanti, Torino 19933, pp. 289-321; R. Zaccaria, Euffreducci Oliverotto, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 43° vol., Roma 1993, ad vocem; C. Vivanti, introd. alla Prima legazione al Valentino, in N. Machiavelli, Opere, a cura di C. Vivanti, 2° vol., Torino 1999, pp. 1689-98; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013, pp. 224-25.