CARAFA, Oliviero
Del ramo dei Carafa della Stadera, figlio di Francesco e di Maria Origlia, nacque nel 1430 e fu il successore del grande e potente Diomede, come capo della nobile famiglia napoletana. Destinato alla carriera ecclesiastica, ottenne il primo canonicato nel duomo di Napoli a sette anni, ebbe come precettore Alessandro Tartagna e coronò con una laurea conseguita nel collegio di Napoli gli studi giuridici, che compì anche negli atenei di Perugia e di Ferrara.
Su richiesta e raccomandazione di Ferdinando I d'Aragona, da poco salito al trono, il 18 nov. 1458 successe nell'arcivescovato di Napoli a Giacomo Teobaldi. Ricevuta il 29 dicembre la consacrazione a Torre del Greco dal vescovo di Nola, il 13 gennaio dell'anno successivo prese possesso della sede arcivescovile. L'attività del giovane presule rimane nell'ombra, ma egli comunque era nella grazia del re, che lo creò nel 1465 viceprotonotario del Regno e presidente del Sacro Regio Consiglio e caldeggiò pressantemente presso Paolo II la sua elezione a cardinale. Questa avvenne il 18 sett. 1467 col titolo dei SS. Pietro e Marcellino. Probabilmente da questa epoca il C., che nei primi mesi dell'anno aveva concesso al padre il feudo di Torre del Greco, appartenente alla mensa arcivescovile, si trasferì a Roma, dove si rivelò subito come uomo sensibile a tutte le istanze culturali ed artistiche - che lo portarono poi ad essere uno dei massimi esponenti del mecenatismo del tempo - entusiasmarsi per l'attività tipografica, iniziatasi a Roma con il trasferimento nello stesso anno di C. Schweinhein e A. Pannartz, dei quali divenne un estimatore.
Anche per l'occupazione di Negroponte da parte di Maometto II avvenuta nel 1470, l'idea della crociata, vanamente, pure se con estrema passione, vagheggiata da Pio II, il quale - secondo il notar Giacomo - avrebbe posto il C. a capo dell'armata faticosamente congregata e rapidamente dissoltasi alla sua morte in Ancona nel 1464, si riaffacciò con urgenza a Sisto IV, che era salito al soglio pontificio nell'agosto del 1471. A Natale di quell'anno il papa nominò cinque cardinali, suoi legati a latere, che inviò nelle corti europee per risvegliare nei capi di Stato la coscienza della necessità di aderire all'allestimento di una crociata contro il Turco, capeggiata dal pontefice.
Il C., che era nel 1470 passato al titolo di S. Eusebio, destinato forse in un primo tempo a recarsi presso Luigi XI, fu inviato al re di Napoli, del quale egli si poteva considerare l'emissario a Roma, e che in quel periodo, nonostante facesse parte della lega, rinnovata con Firenze e Milano l'anno prima, stava operando un riavvicinamento a Venezia ed al papa. Il desiderio di Sisto IV si realizzò appunto per l'adesione al progetto di Venezia e di Napoli, le quali collaborarono alla costituzione di una flotta comprendente un'ottantina di unità, di cui la metà veneziane e ventiquattro napoletane. A capo della flotta pontificia, costituita da diciotto galee, messa a punto, superate varie difficoltà che avevano determinato una certa lentezza di preparazione e con notevole spesa, nel maggio del 1472, fu posto il Carafa.
Il 28 di quel mese, dopo aver celebrato la messa in S. Pietro, il C., ricevuta la benedizione e l'abbraccio del papa, che si recò in corteo al porto fluviale, salpò alla volta di Napoli, ove giunse il 6 giugno. Qui quale legato del papa, arcivescovo della città ed ammiraglio della flotta pontificia, gli furono tributati grandi onori. Lasciata Napoli e congiuntasi la flotta pontificia con quella aragonese e con le navi veneziane, comandate da Pietro Mocenigo, le ottanta galee toccarono Rodi, dove si aggregarono altre due unità, e doppiata Cefalonia e Sarno si diressero contro Setalia sulla costa dell'Asia Minore.
L'assalto alla città dal mare ebbe effetti più appariscenti che sostanziali. Fatte saltare le catene, le navi al comando del C., penetrate nel porto, sottoposero ad un bombardamento la città danneggiando i depositi portuali ed i sobborghi, ma lasciando praticamente intatte le fortificazioni. Rientrata poco appresso la flotta napoletana in patria e sottoposta la città di Smirne alla conquista ed al saccheggio da parte dei "crociati" veneziani il che provocò la reazione del papa le diciotto triremi del C., mentre si avvicinava l'inverno, voltarono le prore e, fatto un primo scalo a Rodi, dove il C. si adoperò per appianare una vertenza sorta fra i Cavalieri, ed un secondo scalo a Napoli, arrivarono a Roma il 23 genn. 1473.
Un vero trionfo accolse il C., che fece il suo ingresso nella città seguito dai prigionieri turchi e che fece appendere alle porte di S. Pietro i pezzi delle catene del porto di Setalia, ancora oggi conservati nella basilica. Dell'impresa navale compilò una narrazione, rimasta finora inedita, Pietro Ursuleo, dedicata al pontefice, il cui solo primo libro è conservato nella Bibl. Apostolica Vaticana, alle cc. 1-8 del ms. Ottob. lat. 1938.
Nel giugno dello stesso anno il C. diede conferma del suo ruolo di rappresentante del re aragonese a Roma, recandosi ad accogliere con altri cardinali a pochi chilometri dalla città Eleonora, figlia di Ferdinando, che accompagnata da molti nobili napoletani e ferraresi andava a Ferrara a raggiungere lo sposo, il duca Ercole d'Este, in onore della quale a Roma si svolsero banchetti sontuosi e feste particolarmente prodighe.
Il 24 luglio 1476 il C. divenne cardinale vescovo di Albano. Egli, insieme ad altri quattro cardinali, aveva seguito dal 10 giugno a Viterbo il papa, che poi si spostò a Campagnano, a Vetralla ed infine a Foligno, fuggendo l'epidemia di peste che era insorta in Roma. A metà settembre il C., che faceva rare visite nella sede arcivescovile, si recò a Napoli per celebrare le nozze per procura di Beatrice d'Aragona con Mattia Corvino. Nella piazza dell'Incoronata egli procedette alla solenne cerimonia dell'incoronazione della nuova regina d'Ungheria.
Nel 1478 egli, dopo aver ricoperto per tutto l'anno precedente l'ufficio di camerlengo, assunse la carica di protettore dell'Ordine domenicano, che lo portò in seguito a svolgere un importante ruolo nelle vicende savonaroliane e che detenne fino alla morte. Nello stesso anno ricevette la commenda di San Nicola di Casole (Otranto) e nel 1479 quella dell'abbazia di San Giovanni in Lamis (Foggia).
Con la guerra di Ferrara, scoppiata nel 1482, i rapporti fra il papa, schieratosi con Venezia contro Ercole I d'Este, e Ferdinando I d'Aragona, che partecipò attivamente, inviando il figlio Alfonso, alla, guerra a fianco di Firenze e di Milano, subirono una violenta rottura. Per la prima volta il C. si trovò impotente fra i contrastanti interessi del pontefice e del re protettore suo e della sua famiglia, cui era profondamente legato. Durante la guerra Alfonso d'Aragona si spinse minacciosamente fin sotto le mura di Roma. Lo allontanarono e neutralizzarono le armi di Roberto Malatesta, che lo sconfisse a Campomorto il 21 ag. 1482. Il C. in questa circostanza non desistette comunque dal cercare di ristabilire la pace fra il re ed il papa e ricevette anche un pubblico ringraziamento dal Senato romano per questi suoi tentativi.
Morto Sisto IV (12 ag. 1484) il C. fu nel conclave uno dei candidati di Ferdinando d'Aragona, il quale però si adattò all'elezione al pontificato di G. B. Cybo, che ottenne anche il voto del Carafa. Conclusasi la pace di Bagnolo, pochi giorni prima della morte di Sisto IV, Alfonso d'Aragona, che tornava a Napoli dal Ferrarese, il 20 ottobre si fermò a Roma e fu accolto alla porta di S. Maria del Popolo da sei cardinali, fra i quali il C., che lo scortarono fino ai palazzi apostolici. La calda accoglienza di Innocenzo VIII si trasformò in aperto contrasto col duca di Calabria quando questi chiese il vicariato di Benevento, Terracina e Pontecorvo, ottenendo soltanto il fermo rifiuto del papa. Ancora una volta il C. non aveva saputo, o voluto, ottenere dal pontefice il soddisfacimento delle mire aragonesi.
Il C. si mantenne leale verso ambedue i contendenti anche quando Innocenzo VIII, dopo l'adesione alla congiura dei baroni ribelli, mosse guerra al re di Napoli. Né, come era forse desiderio del sovrano, avrebbe potuto tenere altro atteggiamento e probabilmente non ebbe parte nelle trattative che portarono alla fragile pace dell'11 ag. 1486. Almeno formalmente però il C. mantenne il suo ruolo di rappresentante del re alla corte di Roma ed il 30 agosto andò a ricevere a porta S. Lorenzo l'ambasciatore regio, Antonio di Alessandro, ed intervenne quale testimone nei palazzi apostolici alla ratifica della pace da parte del papa.
Nel frattempo il C. era passato, il 31 genn. 1483, ad occupare la sede di cardinale vescovo di Sabina, continuando ad accumulare commende; dopo aver ceduto il 20 sett. 1484 l'arcivescovato di Napoli al fratello Alessandro con la riserva del regresso, il 19 ott. 1485 divenne abate commendatario dell'abbazia di Cava dei Tirreni e di quella di Montevergine, ambedue in seguito unite alla Congregazione di S. Giustina di Padova, succedendo al cardinale Giovanni d'Aragona, figlio del re di Napoli, morto a Roma il 19 dello stesso mese.
Si fece anche il nome del C., benché poi si preferisse il settenne Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo, come abate commendatario dell'abbazia di Montecassino, lasciata vacante dallo stesso cardinale d'Aragona, alla preparazione ed all'esecuzione delle onoranze funebri del quale presiedette il C., celebrando più messe in onore del defimto in S. Pietro ed a S. Sabina.
Anche se il suo apporto rimane per lo più poco evidente, il C. divenne negli anni successivi un membro sempre più importante della Curia, tanto che Ferdinando il Cattolico usava rivolgersi a lui, per raccomandare i suoi protetti al papa. Peraltro i suoi rapporti con la corte napoletana mentre Ferdinando I negava la libertà all'Aquila ed il censo al papa, inducendo questo a scomunicarlo il 29 giugno 1489 e a dichiararlo decaduto dai diritti sul Regno di Napoli nel settembre, andarono nettamente deteriorandosi. Sarà il Pontano che, con la sua missione a Roma del dicembre 1491, porterà il 28 genn. 1492 le parti contendenti alla pace.
Alla morte nel luglio di Innocenzo VIII il C. non era quindi né il candidato, né il portavoce di Ferdinando d'Aragona, anche se la sua candidatura, che poggiava più sulla sua potenza economica, sul prestigio morale e sulla sua fama di mecenate, che su calcoli politici, fu un fatto reale, che lo portò nei primi scrutini del conclave seguito alla morte del pontefice ad ottenere il maggior numero di voti fra tutti i cardinali votati. Coalizzatasi poi, a seguito di manovre decisamente simoniache, la maggioranza dei cardinali intorno al nome di Rodrigo Borgia, si arrivò alla elezione di questultimo, che il 26 agosto fu consacrato con il nome di Alessandro VI. Il C. si dimostrò ostile al nuovo papa e manifestò i suoi sentimenti anche allontanandosi da Roma subito dopo l'elezione.
Alessandro VI, dopo un iniziale contrasto con il re di Napoli, nell'estate del 1493 si riconciliò con lui ed il C. si adoperò nelle trattative che portarono alla conclusione del fidanzamento del figlio del papa, Jofré Borgia con Sancia figlia illegittima di Ferrante. L'8 maggio del 1494 Alfonso II, successo al padre, veniva incoronato a Napoli da un legato del papa, con grave delusione del C., che naturalmente avrebbe voluto essere designato a porre la corona sul capo di Alfonso, il quale aveva inviato a Roma per ottenere il riconoscimento del papa come ambasciatore speciale l'arcivescovo di Napoli, Alessandro, fratello del Carafa. Comunque quando il 25 dicembre il papa, mentre l'esercito di Carlo VIII era alle porte di Roma, investì Ferdinando, figlio di Alfonso, del ducato di Calabria, il C. presenziò alla cavalcata che seguì alla cerimonia dell'investitura. Entrato a Roma il monarca francese, il 31 dicembre, ad onta dell'atteggiamento ostile del papa, il C. fu uno dei pochi che si rifiutarono, di rendergli omaggio e, ritirandosi il 7 gennaio il pontefice in Castel Sant'Angelo nel vano tentativo di resistere alle richieste del re, il C. lo accompagnò, rimanendo con lui insieme con altri cinque cardinali, fino a che questi scese a duri accordi con il re il 15 genn. 1495, nei quali fu però significativamente taciuto ogni accenno alla questione napoletana. Il C. da parte sua pare donasse al sovrano 30.000 scudi per assicurare la protezione ai numerosi membri della sua famiglia nel Regno.
Conclusasi l'avventura francese in Italia e succeduto sul trono di Napoli a Ferdinando II lo zio Federico, il 13 genn. 1497 l'arcivescovo Alessandro Carafa compì la solenne traslazione nel duomo di Napoli delle reliquie di s. Gennaro - rinvenute nel 1480 - dall'abbazia di Montevergine, di cui era abate commendatario il C., il quale aveva ottenuto dal papa il permesso di traslarle. Per la conservazione di esse il C. fece costruire una cappella, il "succorpo di S. Gennaro", che iniziata nell'ottobre dello stesso anno fu compiuta nel 1506. Per essa, concordemente ritenuta finora opera di Tommaso e di Gian Tommaso Malvino, si avanza l'ipotesi che fosse frutto di una progettazione del Bramante. La cripta rettangolare, divisa in tre navate da dieci colonne, restaurata da un discendente del C. nel 1891, costituisce uno dei più notevoli monumenti rinascimentali di Napoli; in essa, che, rimasta la cappella gentilizia, divenne la tomba del C., campeggia a lato dell'altare una statua scolpita a tutto tondo rappresentante il committente inginocchiato in preghiera. Di essa, quando non era ancora compiuta, nel 1503 o nel 1505, fece una minuta descrizione in ottava rima un fra' Bernardino Siciliano, pubblicata nel 1897 da A. Miola (Il soccorpo di San Gennaro..., in Napoli nobilissima, VI, pp. 161-66, 180-88).
È evidente che un atto di pietà e di religiosità quale quello compiuto dal C. in questa occasione non poté non avere anche il chiaro significato, in quel momento politico, di attaccamento non solo alla città di Napoli, ma tanto più alla monarchia aragonese allora appena rostaurata. Si direbbe anzi che in esso si compendino la devozione del C. per la casa d'Aragona e la sua concezione religiosa intesa come esaltazione della fede cattolica, anche nelle forme esteriori, cui l'arte in tutte le sue manifestazioni doveva essere al servizio.
A Roma infatti era ormai compiuta la cappella Carafa nella chiesa di S. Maria della Minerva, sorta per volontà del cardinale, che aveva già nell'ottobre del 1486 acquistato una casa addossata al transetto della chiesa, il suolo della quale servì alla costruzione della cappella. Per la sua decorazione il C. aveva chiamato a Roma Filippino Lippi, raccomandatogli da Lorenzo de' Medici, legato da vecchia amicizia con la famiglia Carafa ed in particolare con il grande Diomede. L'artista fiorentino, con il grande arco marmoreo che incornicia la cappella e gli affreschi, che al di sopra di un classico zoccolo monocromo ricoprono i due lati, il fondo ed il soffitto, e la pala d'altare, che, circondata da un fregio marmoreo, raffigura s. Tommaso presentante il cardinale alla Vergine Annunziata, nonché con i numerosi particolari simbolici, quali il libro e la stadera, emblemi di questo ramo della famiglia, la caraffa con l'olivo, figurazione del nome del cardinale, l'anello cuspidato, l'emblema dei Medici, fuse, raggiungendo un'organica sintesi rappresentativa, i valori religiosi, morali, la concezione della dignità ecclesiastica del C., con la grandiosità della classicità romana e con l'umanità delle forme rinascimentali toscane. Gli affreschi della parte sinistra della cappella, in cui era una porta che dava in una cappellina sepolcrale, dove effettivamente fu deposto il corpo del C. alla sua morte, sono andati perduti per l'erezione di un monumento marmoreo in onore di Paolo IV Carafa fatta da Pio V. La cappella, che il C. dotò della rendita di tredici case, fu compiuta nel 1493 ed il papa stesso si recò a visitarla, concedendole l'indulgenza plenaria, come ricorda una lapide.
In seguito alla crisi morale che lo colse alla morte del figlio duca di Gandia, Alessandro VI, nel concistoro del 19 giugno 1497, decise di istituire una commissione per la riforma della Chiesa che doveva riguardare sia i problemi spirituali sia quelli temporali, gli alti prelati come il basso clero ed i fedeli. Di essa faceva parte il C., insieme ad altri cinque cardinali, due auditori di Rota, un vescovo, ed altri collaboratori.
Dai documenti conservatici, costituiti dal Vat. lat. 3881, che rappresenta un lavoro preparatorio, compilato secondo le direttive dei sei cardinali, e dal Vat. lat. 3884, contenente il testo del progetto di riforma, risulta chiaro che la commissione, pur animata dalla volontà di eliminare gli scandali, che travagliavano la Chiesa e la Curia in particolare, con specifica attenzione ai problemi derivanti dalla simonia dilagante, dal lusso dei cardinali e dall'uso del cumulo delle cariche, vedeva nel ritorno ad uno stato precedente la soluzione di questi problemi e non era volta verso un rinnovamento totale ed aperto a nuove concezioni.
Alle cc. 110-114 del citato Vat. lat. 3884 è trascritta una relazione compilata dal C., nella quale egli auspica norme che vietino di abitare e financo di entrare nei palazzi apostolici alle donne, anche se parenti del pontefice, invita a sorvegliare l'operato dei ministri, i cui errori ricadono sulle istituzioni, si pronuncia contro la vendita degli uffici e dei benefici, trova immorale la nomina dei coadiutori con diritto alla successione nei vescovati; inoltre, condannando la simonia, indica nell'applicazione delle costituzioni anteriori il semplice rimedio per debellarla.
Considerando questo progetto del C. salta subito all'occhio quali erano i contrasti che l'avevano opposto fin dall'elezione ad Alessandro VI, perché chiaramente il divieto per le donne di abitare nel Vaticano si riferiva alle figlie ed alle amanti del papa simoniaco. Il senso del contrasto con Alessandro VI consisteva però in una disapprovazione di metodi e di scopi, che non toccava mai l'istituzione, ed egli, che pure doveva essere considerato un oppositore del papa, non fu fra i cardinali che riuniti nel 1495 intorno a Carlo VIII invocavano il concilio per deporre papa Borgia, anche se la protezione che egli accordò per anni al Savonarola fece pensare ad un suo appoggio all'idea del concilio.
Un argomento che il C. non toccò nella sua relazione fu quello del cumulo delle cariche. Egli non era infatti certo immune da questa pecca, anche se probabilmente riteneva che ad un principe della Chiesa non fosse disdicevole riunirne in sé molte e svolgere la funzione di ridistributore di esse. Infatti si era riservato il regresso dell'arcivescovato di Napoli; era amministratore della diocesi di Caiazzo probabilmente dal 1494 e l'avrebbe passata ad un nipote nel 1507; era stato amministratore di quella di Salamanca e di Cadice dal 15 nov. 1491 fino al 1494; aveva trasmesso al nipote Vincenzo l'amministrazione del vescovato di Rimini, detenuta dal 31 ott. 1495; era abate commendatario, del monastero di S. Sepolcro in Catalogna, per la quale carica darà occasione ad infini e richieste di rinuncia da parte di Ferdinando il Cattolico; nel 1498 cedette la commenda del monastero di Pulsano (Manfredonia) al nipote Giacomo Tocco.
Ciononostante, anche se continuò fino alla morte, come si vedrà, questi movimenti nella scacchiera del potere ecclesiastico, il C. sembrò comportarsi come un uomo in buona fede, circondato da fama di sincerità e di serietà, che dava lustro alla dignità ecclesiale, anche se la sua insaziabilità di benefici sembra avvalorata dal suo recedere dall'opposizione ad Alessandro VI in occasione del progetto di questo di creare nuovi cardinali nel 1493, una volta ricevuta la promessa di un cappello cardinalizio per un suo nipote.
Un importante aspetto della personalità del C. emerge nella protezione che egli accordò, anche se solo per un certo tempo, a Girolamo Savonarola. Come si è detto il C. era protettore dell'Ordine domenicano dal 1478 e come tale superiore diretto del frate ferrarese, tornato a Firenze dal 1490. Divenuto priore del convento di S. Marco, il Savonarola fece capo direttamente al C., quando, con l'arrivo a Roma nel maggio del 1493 di A. Rinuccini e di D. Buonvicini, prese le mosse la vicenda savonaroliana. I due frati chiedevano al cardinale protettore che il convento di S. Marco fosse separato dalla Congregazione lombarda e potesse dipendere direttamente da lui stesso e dal generale. Il C. fece sua la richiesta e nell'estate ottenne da Alessandro VI l'assenso alla separazione.
Circa un anno più tardi, mentre Carlo VIII stava per iniziare la sua spedizione in Italia, il Savonarola ottenne un'altra vittoria con l'annessione a S. Marco dei conventi di S. Domenico di Fiesole e di S. Caterina di Pisa. Questa volta però il frate aveva visto soddisfatte le sue aspirazioni non dal cardinale protettore, che a lungo aveva temporeggiato ponderando la legittimità e l'equità della richiesta, ma direttamente dal papa, cui la Signoria aveva inviato a questo scopo Puccio Pucci, un ambasciatore che, per essere cognato di Giulia Farnese, era particolarmente adatto ad ottenere la condiscendenza di papa Borgia.
Cacciati i Medici da Firenze e tornato in città il Savonarola, dopo la breve fuga a Lucca, questi intensificò tanto gli attacchi alla Curia romana da incorrere nella proibizione del papa di parlare dal pulpito. Fu ancora una volta il C. che gli ottenne il permesso - concesso verbalmente - di riprendere la predicazione. Il favore che indubbiamente il C. accordò al frate era ancora vivo il 7 nov. 1496, quando Alessandro VI emanò il breve che, prevedendo una nuova Congregazione tosco-emiliana, doveva nell'intento del C., che ne era stato l'ispiratore, allargare l'area della riforma savonaroliana, e che divenne invece un'arma antisavonaroliana nelle mani del Borgia.
Vicario della Congregazione fu Francesco Mei, a sostituzione di Ludovico da Ferrara, morto quasi appena eletto; la residenza vicariale S. Maria sopra Minerva a Roma; per i primi due anni ebbe i pieni poteri il cardinale protettore. Da questo momento fra' Girolamo, che, pure se non concordava con il C. in vari ed importanti giudizi, come per esempio sull'azione da lui ritenuta positiva che la venuta di Carlo VIII poteva avere per la Chiesa e per l'Italia, era però convinto della buona fede dell'uomo e di goderne la simpatia e l'appoggio, prese posizione contro la nuova Congregazione e denunciò pubblicamente la volontà del papa e della sua corte di volerlo con questo mezzo allontanare da Firenze ed obbligare al silenzio.
Il C. rimase profondamente deluso dalla mancanza di entusiasmo per questo suo progetto e dalla disobbedienza del Savonarola. Questi aveva così perduto anche la sua benevolenza, quando il 13 maggio 1497 fu colpito da scomunica. Anche se il C. non approvò questa grave sanzione è certo che non fece niente, nonostante le sollecitazioni, per fare assolvere il frate. Nonché l'assoluzione, come si sa, il Savonarola ottenne, dopo la minaccia di interdetto per Firenze lanciata dal papa il 26 febbr. 1498, in seguito alle sue prediche sempre più violente, la proibizione della Signoria alla sua predicazione ed un sempre maggiore isolamento politico. Avvenuto l'arresto del frate l'8 aprile ed iniziatosi il primo processo, il C. si allontanò da Roma alla volta di Napoli.
Fu questo certamente un modo di premurarsi nei riguardi della Curia, che, se non poteva dimostrare la sua connivenza con il Savonarola nel desiderio della convocazione del concilio, minaccia incombente sul Borgia per tutta la durata del pontificato, contava però degli elementi, fra cui forse anche il papa, che avrebbero trovato ottima l'idea di associare alla rovina di fra' Girolamo quella del potente porporato. D'altra parte il C. si sottrasse anche alle pressioni che gli potevano venire dai frati di S. Marco, una delegazione dei quali infatti, giunta a Roma, lo trovò già assente. Non fu un timore eccessivo quello che mostrò il Carafa. A Firenze si cercò di indagare a fondo sulla natura dei rapporti fra il domenicano ed il cardinale protettore, ma il Savonarola, che nel terzo processo, sottoposto alla tortura, aveva indicato nel C. il capo dell'iniziativa che doveva portare alla convocazione del concilio, ritrattò dopo ventiquattro ore le sue affermazioni.
Il C. arrivò a Napoli, con due galee, il 27 apr. 1498 e, accolto con calore dal re, fu alloggiato in Castel dell'Ovo. I rapporti fra il C. e gli Aragona infatti avevano superato il momento di grande freddezza seguito alla rivolta dei baroni ed alla guerra napoletano-pontificia. Il ritorno del C. a Roma non fu meno solenne del suo arrivo a Napoli ed il 29 gennaio del 1499 nel momento del suo rientro nella città venne ricevuto da vari cardinali ed alti prelati a porta S. Paolo.
Egli riprese così il suo posto attivo ed importante nella Curia, partecipando a numerose cerimonie e prendendo parte alla politica di papa Borgia e persino ad avvenimenti semiprivati quali il battesimo di Rodrigo, figlio di Lucrezia Borgia, l'11 nov. 1499.
Nello stesso anno (il 2 febbraio) il C. era divenuto amministratore della sede vescovile di Chieti, che avrebbe tenuto fino al 20 dic. 1501, quando la cedette cum regressu al nipote Bernardino. Nel 1500 ricevette la commenda dell'abbazia di S. Angelo in Atella, che passò in quell'anno al nipote Giovan Francesco, cui l'avrebbe ritolta sei anni dopo a favore di un pronipote, Gian Gerolamo. L'8 febbr. 1501 egli, che era stato sostenitore della necessità di promuovere una crociata contro i Turchi con il sostegno di tutti i principi cristiani, fu eletto, con altri due eminenti cardinali, depositario delle decime esatte al fine di provvedere alle spese di preparazione della crociata stessa.
Il C. abitava a Roma ad vitam nel palazzo fatto costruire da Francesco Orsini nel sito ove ora sorge palazzo Braschi; al C. è dovuta la collocazione all'angolo del palazzo stesso, eseguita nel 1501, del celebre frammento di gruppo statuario antico detto Pasquino, sulla base del quale fu posta una iscrizione con il ricordo dell'anno e del nome del cardinale. Questi possedeva inoltre a Roma anche una villa di notevole bellezza sul colle del Quirinale, nota come vigna di Napoli, i cui giardini traboccavano di piante rare, di statue antiche ed iscrizioni.
Alla morte di Alessandro VI il C. ebbe un'altra occasione di accedere alla tiara. Dopo un primo momento di drammatica contrapposizione fra il duca Valentino, ritiratosi nei palazzi vaticani con tredici cardinali, ed il resto dei porporati capeggiati dal C., che si erano riuniti alla Minerva, apertosi il conclave, riuscì eletto per il suo breve pontificato Pio III. Al C., che aveva cercato in un primo tempo di differire l'elezione del pontefice sostenendo l'opportunità di lasciare la sede vacante, si era opposto, pare in modo determinante, Gonzalo de Cordoba, che lo giudicava filofrancese, anche se i rapporti del C. con Ferdinando il Cattolico furono intensi ed improntati ad una certa concomitanza di vedute su problemi importanti, quali la riforma della Chiesa e la necessità della crociata. Anche nel conclave dell'ottobre, che innalzò al soglio pontificio Giulio II, il C. fu tenuto per filofrancese. Pure se nello stesso mese egli fu eletto dal papa a far parte di una commissione creata per la pacificazione dei Colonna e degli Orsini, il C. era vecchio e la sua partecipazione alla vita politica ormai meno attiva. D'altra parte la personalità del nuovo pontefice non lasciava molto spazio ad interferenze e quando il 26 ag. 1506 Giulio II, forte dell'accordo stretto a Blois il 22 sett. 1504, mosse personalmente in armi contro Bologna, per scacciarne i Bentivoglio e recuperare alla Chiesa le Romagne, il C. non poté che disapprovare questa partenza come non confacente alla dignità pontificia. Egli fu esonerato dal seguire il papa nell'impresa e rimase a Roma con altri pochi cardinali come vicario.
Già dall'agosto del 1503 il C., passato in quell'anno al titolo di Ostia e Velletri, aveva ripreso possesso, per la morte del fratello, dell'arcivescovato di Napoli e lo aveva detenuto fino al 1505, quando lo cedette al nipote Bernardino, il quale gli aveva rimesso la diocesi di Chieti. Morto dopo pochi mesi Bernardino, il C., ripresasi l'amministrazione del vescovato di Rimini dal nipote Vincenzo, passò a questo l'arcivescovato di Napoli ed al nipote Giovan Pietro, il futuro Paolo IV, quello di Chieti.
Nel 1509 la Repubblica veneta, dopo la sconfitta di Agnadello, inviò il 7 luglio suoi ambasciatori a Roma, per trattare la pace. Essi furono ricevuti nella casa del C. ed egli fu incaricato insieme al cardinal Raffaello Riario di intavolare le conversazioni, che condussero, dopo la vittoriosa resistenza dei Veneziani a Padova (ottobre), nel febbraio dell'anno successivo alla conclusione della pace fra il papa e la Repubblica, preludio del rovesciamento delle alleanze. Naturalmente fu di nuovo dispensato dal seguire il papa pochi mesi più tardi, quando questi convocò a Viterbo i cardinali che avrebbero dovuto seguirlo per impedire ai Francesi di recuperare Bologna ai Bentivoglio.
Il 24 apr. 1510 il C. divenne amministratore della sede vescovile di Tricarico e nel maggio rinunciò alle rendite della diocesi di Terracina, che amministrava dal 20 ag. 1507.
Morì a Roma il 22 genn. 1511.
Aveva fatto testamento già dal 12 marzo 1509. Secondo le sue volontà fu seppellito provvisoriamente nella cappella di S. Maria sopra Minerva e poi definitivamente nella cappella Carafa del duomo di Napoli. Lasciò eredi universali i fratelli Carlo, conte di Airola, ed Ettore, per il quale aveva uno o due anni prima acquistato la contea di Ruvo di Puglia, ed i nipoti Antonio e Giacomo, figli del fratello Fabrizio. La sua biblioteca, che egli legò al monastero di S. Maria della Pace - per il quale aveva commissionato al Bramante la costruzione del chiostro -, ereditata insieme ad una raccolta di antichità dai canonici regolari di S. Pietro in Vincoli, è andata perduta. A Roma promosse anche, nel 1492, il restauro del soffitto della basilica di S. Lorenzo fuori le Mura, di cui fu abate commendatario; fece restaurare S. Maria in Aracoeli; rifece il chiostro detto della Cisterna in S. Maria sopra Minerva e costruì l'organo di S. Pietro in Vincoli. A Napoli fece erigere, dove sorgeva il monastero di S. Benedetto, il lazzaretto, poi aggregato alla mensa vescovile; edificò il palazzo di famiglia sito presso la chiesa dei SS. Severino e Sossio e restaurò il palazzo arcivescovile; inoltre alla morte del padre lo fece seppellire nella cappella del Crocefisso in S. Domenico Maggiore, apportandovi abbellimenti e facendovi porre una lapide. Discusso è il fatto se la pala del Perugino, ora nel muro della crociera del duomo di Napoli, sia stata commissionata da lui e lo raffiguri in ginocchio davanti all'Assunta o se essa rappresenti il nipote Vincenzo.
Il C., che ebbe al suo servizio l'accademico romano G. B. Almadiano e l'umanista Andrea Brenta, non tenne rapporti soltanto con gli artisti, ma la sua opera di mecenate, che lo indusse nel 1507 a fondare a Napoli un istituto modellato sulla Sapienza di Roma (fallito come tale si trasformò in un convento di clarisse), lo portò ad avere contatti ed a proteggere letterati, umanisti, dotti religiosi, molti dei quali gli dedicarono le loro opere.
Tommaso de Vio, la cui elezione a vicario generale prima e a generale dei domenicani poi fu determinata dall'amicizia e dalla protezione accordatagli dal C., gli dedicò nel 1497 i suoi Commentaria in Porphyrii Isagogen ad praedicamenta Aristotelis, la Prima pars summae theologicae di s. Tommaso, edita nel 1508 con il suo commento, ed i Commentaria in libros Aristotelis de anima (Firenze 1509). Il grande giurista Felino Sandei, anch'egli molto legato al C., gli dedicò il suo Compendiosum opus super titulo de Rescriptis et nonnullis aliis, la cui prima edizione uscì a Pisa nel 1484. Il dotto Gian Francesco Pico della Mirandola, fervente seguace del Savonarola, insieme alla moglie Giovanna Carafa, nipote del cardinale, gli dedicò le Disputationes adversus astrologiam divinatricem dello zio Giovanni. L'aristotelico padovano Agostino Nifo gli dedicò il De nostrarum calamitatum causis, Venezia 1505; il carmelitano Battista Spagnoli il De calamitatibus temporum libri tres, Bologna 1489 ed una poesia. Iacopo Sadoleto, il futuro segretario di Leone X, compose una Oratio per la sua morte, edita nel 1940 da A. Altamura (Ilcard. O. C. in un'orazione..., in Rassegna stor. napol., n. s., I [1940], pp. 317-28) e premise una prefazione in suo onore ad una traduzione del De mundo di Aristotele; anche M. G. Vida, ancora giovanissimo, compose un Epicedion in funere rev.mi dom. O. C., Roma 1511; il domenicano, inquisitore del S. Offizio, Filippo Barbieri gli dedicò il suo Opusculum de his in quibus Augustinus et Hieronymus dissentire videtur.... ripubblicato a Roma nel 1481; il già ricordato A. Brenta dedicò ad Alessandro Carafa l'Oratio in convivii laudem apud Oliverium... habita, inedita nel Vat. lat. 6855, cc. 25r-31r, che contiene inoltre due traduzioni dello stesso dedicate al C.; il Brenta dedicò al cardinale anche l'Oratio in Pentecosten, Roma 1483; Antonio Beccadelli gli dedicò il quinto volume del suo Epistolario, con le lettere scritte in nome del re Ferdinando e le famigliari dal 1459 in poi, compilato anteriormente al 1467, quando il C. non era ancora cardinale. Benedetto Gareth, il maggior poeta del Regno, scrisse per lui due sonetti ed una canzone (Le rime del Chariteo, a cura di E. Percopo, II, Napoli 1892, pp. 201 s., 252-57, 418); Matteo Bandello gli dedicò la XIX novella (Le novelle, a cura di G. Brognolino, I, Bari 1925, p. 237) e Masuccio Salernitano la XVII (Il Novellino, a cura di A. Mauro, Bari 1940, p. 153). Composero poesie in onore del C. anche lo storico ed umanista Francesco Maturanzio, segretario di Niccolò Perotti, ed il fortunato poeta, professore della Sapienza, Antonio Biaxander (Antonio Flaminio). Gli dedicarono loro opere o traduzioni o edizioni Marco Antonio Magno, padre di Celio, Benedetto Maffei, il giureconsulto Giovanni Bertachini, Lippo Brandolini, Francesco Elio Marchesi, Alessio Celadonio vescovo di Gallipoli e poi di Molfetta, Gerolamo Donato, Pietro da Feltre ed Alessandro Guarino. Ricordiamo, infine i Carmina ad Pasquillum posita anno MDXI, Roma 1511, carmi latini ed italiani esposti sulla celebre statua l'anno della morte del cardinale. A questo lungo ed incompleto elenco non si può aggiungere il nome dell'umanista greco Demetrio Calcondila, che, proposto al C. quale segretario, chi sa per quale caso non ebbe fortuna e vide declinare l'offerta.
I principî religiosi del C., alla cui meritata fama di mecenate si deve aggiungere quella di esperto giurista, pur improntati ad una semplicità quasi eccessiva (Constitutiones Synodales Sabinae diocesis…, Urbino 1737, pp. 296-98), trassero forza dalla sincerità della sua fede e dal sentito richiamo alle antiche tradizioni; ma più che un uomo profondamente religioso egli fu soprattutto un principe della Chiesa, pienamente e consapevolmente innestato in essa in quanto istituzione e gerarchia.
Egli raccolse la stima generale dei contemporanei, tanto che fu citato da P. Cortesi nel De cardinalatu (San Gimignano 1510, pp. IXr, XIVr, LVIrv, LXIv, CCXXXVIv) più volte come esempio da imitare, e che il suo ritratto trovò forse posto nella Disputa del Sacramento di Raffaello. Alla sua morte si levarono da ogni parte della Curia, della città e d'Italia alti elogi delle sue virtù, ma l'opinione che i contemporanei avevano del C. - le cui cariche e benefici il 24 genn. 1511 erano già in gran parte ridistribuiti, quasi a simbolica purificazione dei suoi difetti - si ricava da una lettera di Gerolamo Lippomano (in Sanuto, Diarii, XI, col. 773), nella quale, dando la notizia della morte del C., senza enfasi ma con estrema efficacia dichiara: "è morto un homo da bene".
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