FORZETTA, Oliviero
Uomo d'affari trevigiano (1300 ca.-1373), documentato, attraverso una nota autografa del 1335 (Gargan, 1978) pubblicata alla fine del sec. 18° dal canonico Rambaldo Avogaro degli Azzoni (1719-1790), anche come collezionista di manoscritti, oggetti d'arte e antichità.Figlio del notaio Niccolò, che aveva accumulato una notevole sostanza mediante prestiti a usura, anche Oliviero conseguì non ancora ventenne il titolo di notaio, ma, seguendo l'esempio del padre, alla professione notarile preferì quella di prestatore di denaro ad alto interesse, attività che svolse non solo a Treviso ma anche a Venezia (Gargan, 1978). Come numerosi altri usurai e mercanti del suo tempo, a riparazione dei beni acquistati con mezzi che l'etica medievale considerava illeciti (pro male ablatis), nel suo testamento, dettato il 16 luglio 1368, nominò erede universale la Confraternita di s. Maria dei Battuti, un'istituzione benefica di Treviso. Ciò che fa impressione in questo abile e spregiudicato uomo d'affari del Trecento - che sebbene provvisto del titolo di notaio fu fondamentalmente 'omo sanza lettere' - è la passione intensa che egli nutrì per i codici e gli oggetti d'arte e antichità, grazie alla quale riuscì a raccogliere in un'epoca tanto precoce una biblioteca e una collezione artistico-archeologica che avrebbe potuto sostenere il confronto con più di una raccolta rinascimentale.Della biblioteca di F. esistono due inventari: completo il primo, redatto il 29 novembre 1374 a un anno ca. dalla sua morte, quando i libri vennero divisi tra i conventi trevigiani di S. Margherita degli Agostiniani e di S. Francesco dei Frati Minori, ai quali F. li aveva lasciati per testamento; parziale ma più dettagliato il secondo, compreso nel catalogo della biblioteca degli Agostiniani di Treviso del 1378.La biblioteca di F. costituiva una delle raccolte private più sorprendenti di tutto il Trecento italiano, non soltanto per l'alto numero dei volumi - che erano in tutto centotrentasei e in molti casi contenevano due o più opere - ma anche e soprattutto per la sua composizione, che si può definire già di tipo umanistico. Scarne sono infatti le sezioni che nelle biblioteche medievali erano di norma le meglio fornite (Sacre Scritture, Padri della Chiesa, opere giuridiche e scientifiche), mentre figuravano in numero straordinariamente alto i classici, che evidentemente F. doveva prediligere, tanto da riuscire a procurarsi, oltre a quasi tutti gli autori e i testi più diffusi, anche alcune opere che nel Trecento erano ancora abbastanza rare, come le Odi e gli Epodi di Orazio, alcuni testi filosofici di Apuleio e forse anche gli Epigrammi di Marziale. Naturalmente la cultura medievale è tutt'altro che trascurata, ma anche in questo ampio settore F. compì delle scelte molto personali, raccogliendo soprattutto codici di uso scolastico e opere di vario genere di filosofi e trattatisti, tra le quali il De mundi universitate di Bernardo Silvestre, il De amore di Andrea Cappellano e la Monarchia di Dante.Della collezione artistica non è stato invece ancora ritrovato nessun inventario posteriore alla nota del 1335, ma il fatto che nel testamento venissero nominati separatamente disegni, dipinti e sculture ("omnia sua designamenta, picture et scurtilia"; Gargan, 1990, p. 21) fa presumere che anch'essa, al pari della raccolta libraria, fosse davvero imponente. In compenso la nota del 1335, a una lettura più attenta e meditata, consente di circoscrivere meglio l'ambiente culturale e artistico veneziano dei primi decenni del Trecento, con il quale F. fu in stretto rapporto e che certamente contribuì a far nascere e ad alimentare la sua passione collezionistica e antiquaria.Il canonico Rambaldo Avogaro degli Azzoni rinvenne questa singolare testimonianza in un quaternus rationum autografo che doveva essere uno di quei libri contabili personali sul quale i mercanti e gli uomini d'affari, insieme alla contabilità giornaliera, erano soliti registrare appunti e promemoria di vario genere; questa sorta di diario-agenda di F. sembra perduto e non è possibile quindi sapere che genere di annotazioni egli fosse solito riportarvi.Al momento di intraprendere uno dei suoi numerosi viaggi d'affari a Venezia in un giorno imprecisato del 1335, F. prese nota scrupolosamente nel proprio taccuino di alcuni codici e oggetti artistici che intendeva acquistare, precisando quasi sempre anche chi avrebbe potuto procurarglieli. Dai bidelli (librai pubblici) egli cercava una serie ben definita di autori classici - ivi compreso un esemplare di Livio che non sembra sia riuscito a procurarsi né allora né in seguito - mentre per alcuni altri codici, per lo più di argomento filosofico o teologico, pensava di ricorrere ai frati domenicani della chiesa veneziana dei Ss. Giovanni e Paolo. Da alcuni orefici F. si proponeva invece di acquistare "teste" di bronzo e di marmo (sculture antiche), "quinquaginta medaias" (una raccolta di monete classiche), "quatuor pastas" (probabilmente stucchi) e alcuni oggetti moderni in avorio; non precisava invece a chi intendesse rivolgersi per procurarsi una "figura brondina" (statua di bronzo), già appartenuta a un esponente della famiglia Morosini, un "puer lapideus" proveniente dalla collezione di Guglielmo Zapparin e i "quatuor pueri de Ravenna lapidei, qui sunt taglati Ravenne in Sancto Vitale" (Gargan, 1990, p. 21), cioè le due lastre ad altorilievo di epoca tardoromana (Venezia, Mus. Archeologico), rappresentanti due coppie di putti reggenti le insegne del dio Saturno, che si riferiscono a un gruppo di rilievi raffiguranti troni di varie divinità, fiancheggiati da putti recanti i simboli del dio.Oltre ai pezzi d'arte classica F. cercava per la propria collezione anche lavori di artisti contemporanei e in particolare si mostrò interessato a possedere dipinti e disegni di due pittori veneziani morti da poco, Pietro (o Perenzolo) e Gioacchino Tedaldo, figli di Angelo, anch'egli pittore, che, come mostra di sapere F., avevano eseguito di preferenza soggetti di carattere naturalistico, ispirandosi verosimilmente a modelli di antiche pitture di contenuto profano. L'ultimo brano della nota rivela che F. fu anche in stretto contatto con due delle personalità più celebri e controverse della pittura veneziana del primo Trecento, Paolo Veneziano e suo fratello Marco, dai quali, a quanto sembra, nel 1335 egli si proponeva di acquistare due disegni in pergamena raffiguranti la Morte di s. Francesco e una Dormitio Virginis in cui Paolo aveva ripreso i soggetti di due tele dipinte "ad modum Theotonicum" (Gargan, 1990, p. 21) dal fratello Marco per la chiesa di S. Francesco di Treviso.Considerata unanimemente la prima testimonianza di una collezione d'arte e archeologia in senso moderno, la nota di F. sembra destinata a rimanere un vero e proprio unicum per tutto il Trecento non solo veneto ma italiano, anche perché, per restare a Venezia, sono stati avanzati forti dubbi circa l'autenticità di un documento del 1351 contenente l'inventario della collezione del futuro doge Marin Faliero (1354-1355). D'altro canto lo stesso F. rimane per molti versi ancora un enigma, pur inserendosi in modo del tutto originale nel contesto culturale veneto nel quale si andava diffondendo il nuovo movimento umanistico che ebbe i suoi precursori fra l'ultimo Duecento e il primo Trecento nei padovani Lovato de' Lovati (1241-1309) e Albertino Mussato (1261-1329) e che in seguito ricevette un impulso decisivo non soltanto in ambito letterario per merito di Francesco Petrarca, che, dopo alcuni soggiorni saltuari, dal 1362 al 1368 fissò la propria dimora sulla laguna per passare in seguito a Padova e ad Arquà.Nonostante le rigide clausole testamentarie, i libri lasciati da F. ai due conventi trevigiani andarono presto dispersi e nessun codice di quel prezioso fondo è stato finora ritrovato. Della collezione artistica si è invece salvato uno dei pezzi certamente più rari, ammesso che F. sia veramente riuscito a procurarselo: quei "quatuor pueri de Ravenna lapidei" (Gargan, 1990, p. 21) che gli artisti del Rinascimento, nel prenderli a modello per le loro opere, ritenevano di Prassitele.
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