OLOGRAFIA
. L'o. è un metodo di fotografia in luce coerente in cui un'onda luminosa emessa da un oggetto è, per così dire, "congelata " con le sue informazioni di fase e di ampiezza in un'emulsione fotografica per mezzo di un secondo fascio di luce coerente, e può in un secondo momento esser fatto "rivivere" usando, per illuminare la lastra, un fascio di luce coerente simile a quello usato per congelarlo; in questo modo il soggetto viene ricostruito con tutte le sue proprietà tridimensionali. L'o. ha numerosissime applicazioni pratiche, molte delle quali ancora da perfezionare. Fra le applicazioni già esistenti sono le prove non distruttive, i ritratti tridimensionali, la microscopia olografica, lo studio delle vibrazioni, nuove tecniche di raccolta dei dati, la pulizia dell'immagine, l'estensione del principio dell'o. ottica ad altri fenomeni ondulatori come gli ultrasuoni e le radioonde (o. acustica e o. a microonde).
Storia. - In un primo tempo l'o. fu chiamata "ricostruzione del fronte d'onda". Essa fu inventata da D. Gabor nel 1948, durante una ricerca tendente ad aumentare il potere risolvente dei microscopi elettronici. Era ben noto che questi strumenti non potevano mai raggiungere l'enorme potere risolvente potenziale delle onde di de Broglie, perché non è possibile costruire obiettivi elettronici perfetti. La lunghezza d'onda di de Broglie di elettroni veloci, circa 1/20 di ångström, era sufficientemente piccola per risolvere i piani atomici, ma l'ottica elettronica era imperfetta. Il limite teorico a quel tempo era stimato in circa 4 Å, il doppio di quello richiesto per risolvere i piani atomici, e il limite pratico era di circa 12 Å. Questi limiti erano dati dalla necessità di restringere l'apertura delle lenti elettroniche a circa 5 • 10-3 rad, angolo a cui l'errore di aberrazione sferica è circa uguale all'errore di diffrazione. Se si raddoppia questa apertura in modo da dimezzare l'errore di diffrazione, l'errore dovuto all'aberrazione sferica aumenta di circa 8 volte e l'immagine è irrimediabilmente rovinata. L'intenzione di Gabor era di ottenere delle migliori micrografie mediante un processo in due stadi. Nel primo stadio si faceva interferire su una lastra fotografica onde elettroniche diffratte e diffuse dall'oggetto con un fondo coerente costituito dalla stessa onda elettronica usata per illuminare. Questo interferogramma è l'"ologramma" (dal greco ὄλος = intero e γράϕω = scrivo, poiché contiene l'intera informazione sul campo elettromagnetico registrato, ossia contiene informazioni sia sull'ampiezza sia sulla fase delle onde diffuse e diffratte dall'oggetto). L'immagine che si ottiene sulla lastra doveva poi essere resa comprensibile e ricostruita in un sistema ottico, che era una simulazione in scala e con le opportune correzioni del sistema elettro-ottico.
W. L. Bragg aveva mostrato a Gabor, alcuni anni prima, il suo microscopio a raggi X, un dispositivo ottico a trasformata di Fourier. In esso si pone una piccola fotografia del reticolo reciproco e si ottiene una proiezione delle densità elettroniche. Questo però avviene solo in certi casi eccezionali, quando le fasi sono tutte reali e hanno lo stesso segno. A quel tempo sia Gabor sia Bragg non sapevano che M. Wolfke aveva proposto questo metodo nel 1920, senza realizzarlo sperimentalmente. L'idea del fondo coerente era già stata usata con grande successo da F. Zernike nelle sue notevoli investigazioni sulle aberrazioni delle lenti, ove delle radiazioni luminose erano state mostrate le fasi, e non solo le intensità. Il principio della ricostruzione era invece mancato a entrambi questi autori.
Per mostrare la realizzabilità del suo metodo, Gabor eseguì delle prove sperimentali nel dominio ottico. Fu così provata la possibilità di attuazione pratica di questo metodo per la prima volta nel 1948 in un esperimento ottico. La fig. 1 mostra una delle prime ricostruzioni di un ologramma fatto da Gabor. Gli esperimenti erano a quei tempi assai difficili a causa della scarsa coerenza delle sorgenti allora esistenti. Il miglior compromesso fra coerenza e intensità era fornito dalla lampada a mercurio ad alta pressione, che aveva una lunghezza di coerenza di soli 0,1 mm, sufficiente per circa 200 frange. Per avere coerenza spaziale si usava un diaframma di 3 μ m di diametro. Si aveva così abbastanza luce per fare un ologramma di circa i cm di diametro di oggetti che erano microfotografie di circa 1 mm di diametro, con esposizioni di pochi minuti, usando le emulsioni più sensibili allora esistenti. La piccola lunghezza di coerenza obbligava a usare una disposizione tutta su un asse: quella che oggi è chiamata "o. in linea". Gli sforzi che negli anni Cinquanta furono così intrapresi da Gabor e dai suoi collaboratori per permettere ai microscopi elettronici di raggiungere poteri risolutivi dell'ordine dell'ångström risultarono tuttavia alla fine vani. I microscopi elettronici di allora erano ancora assai lontani dall'aver raggiunto il limite imposto dalle aberrazioni ottiche.
A quei primi lavori di Gabor seguirono studi di G. L. Rogers (1952) che ottenne fra l'altro il primo ologramma di fase, A. Baez (1952), Hussein-El-Sum e P. Kirckpatrick (1952) che lavorarono nelle olografie a raggi X.
Negli anni seguenti l'o. trovò ben poche applicazioni a causa della debole intensità delle sorgenti coerenti disponibili in quei tempi. Essa ebbe però uno spettacolare impulso nel 1961, quando fu disponibile il laser come sorgente coerente estremamente intensa. I primi ologrammi eseguiti con laser, già di molto superiori a quelli del 1948, furono ottenuti da E. N. Leith e J. Upatnieks nel 1962. Nel 1963 E. N. Leith e J. Upatnieks pubblicarono il primo ologramma con laser. Il loro successo fu dovuto non solo al laser, ma alla lunga preparazione teorica di E. Leith che era iniziata nel 1955 in collaborazione con L. J. Cutrona, C. J. Palermo, L. J. Porcello e A. Vivian lavorando al problema del radar coerente a effetto Doppler, che a quel tempo era classificato come segreto.
Gli ologrammi di Leith e Upatnieks furono ottenuti usando un semplice ed efficace metodo per eliminare la seconda immagine: il "metodo dell'onda sghemba" che sarà descritto più avanti, reso possibile dalla grande lunghezza di coerenza del laser a elio-neo che già nel 1962 era circa 3000 volte maggiore di quella della lampada a mercurio. La fig. 2 mostra due delle prime ricostruzioni fatte da Leith e Upatnieks nel 1963. L'interesse speciale di queste immagini è che esse sono ricostiuzioni da un unico ologramma, preso con differenti posizioni del fascio di riferimento. Questa fu la prima prova della superiore capacità d'immagazzinamento dell'informazione degli ologrammi. Leith e Upatnieks poterono presto immagazzinare 12 differenti immagini in una emulsione. Oggi si possono immagazzinare 100 o anche 300 pagine scritte in un'area che sarebbe in fotografia ordinaria sufficiente per una sola pagina.
Si ebbero poi rapidi progressi. Il risultato più spettacolare fu l'o. di oggetti tridimensionali. L'o. è per sua natura tridimensionale, ma nei primi piccoli ologrammi di Gabor l'osservazione era possibile solo focheggiando con un microscopio o una lente d'ingrandimento a corta focale.
Le prime importanti caratteristiche dell'o. furono che essa era un metodo di fotografia di oggetti tridimensionali, senza lenti; seguirono poi la possibilità di eseguire in questo modo la ricostruzione di oggetti tridimensionali nei loro colori naturali, l'interferometria olografica, il riconoscimento delle forme, la pulizia delle immagini e molte altre.
Principio del metodo. - Il principio del metodo consiste nella simultanea registrazione dell'ampiezza e della fase dell'onda diffratta dall'oggetto. Poiché la lastra fotografica, come qualunque altro rivelatore ottico, è capace solo di registrare le intensità, si tratta di trovare un modo per registrare anche la fase. Questo viene realizzato aggiungendo all'onda rinviata dall'oggetto un fondo coerente che trasforma l'informazione di fase in una d'intensità. Il principio è mostrato nella fig. 3 per il caso semplice in cui vi sia solo un punto oggetto.
L'interferenza dell'onda oggetto e del fondo coerente (o "onda di riferimento") produce delle frange d'interferenza, con massimi ove le fasi delle due onde sono identiche. Si faccia ora una copia positiva molto contrastata, cosicché essa trasmetta solo in corrispondenza ai massimi e la s'illumini con la sola sorgente usata per l'onda di riferimento. Ora le fasi sono giuste per la sorgente di riferimento A, ma poiché alle fenditure le fasi sono identiche, esse sono giuste anche per B: quindi deve apparire anche l'onda B "ricostruita".
Si può vedere che il ragionamento vale anche per un oggetto più complicato. Sono possibili diversi tipi di disposizione per ottenere ologrammi, i principali sono i seguenti.
a) Olografia in linea. - Questo metodo è quello originariamente usato da Gabor ed è illustrato nella fig. 4.
In esso il fascio di riferimento, che interferisce con l'onda diffratta dall'oggetto, è costituito da quella parte di onda illuminante che attraversa inalterata l'oggetto stesso. La principale difficoltà di questa disposizione è che si hanno non una immagine ma due sovrapposte anche se situate su un diverso piano focale. Esse possono quindi essere separate solo focheggiando, ma la separazione non è mai perfetta.
Nei primi esperimenti di Gabor, i difetti stessi di aberrazione delle lenti furono usati per separare le due immagini. Questo è mostrato nella fig. 5. Se un ologramma elettronico è preso con una lente con aberrazione sferica, si può poi correggere una delle due immagini con un'ottica opportuna e l'altra ha allora il doppio di aberrazione e viene quindi completamente distrutta. La fig. 5 mostra che si può ottenere una ricostruzione perfettamente nitida in cui non resta quasi nulla del disturbo creato dalla seconda immagine con una lente così cattiva che la sua definizione sia almeno dieci volte peggiore della risoluzione che si vuole ottenere.
b) Olografia con riferimento sghembo. - Questo metodo è quello usato da Leith e Upatnieks (fig. 6). In esso il fascio di riferimento si ottiene dal fascio illuminante prima che esso raggiunga l'oggetto (per es., con un prisma o con uno specchio semitrasparente) e viene poi fatto incidere con un certo angolo sulla lastra fotografica dove si sovrappone all'onda diffratta dall'oggetto. In questo metodo le immagini ricostruite non sono più sovrapposte. Inconveniente del metodo è un'aumentata richiesta di risoluzione spaziale dell'emulsione della lastra usata per la registrazione.
Se la figura di diffrazione dell'oggetto che si considera è quella alla Fraunhofer, cioè se l'oggetto è a distanza infinita o, in pratica, nel piano focale di una lente, la risoluzione della lastra può essere minore di quella occorrente con il metodo di Leith e Upatnieks, mentre sono conservati i vantaggi essenziali del metodo. Poiché la figura di diffrazione alla Fraunhofer è la trasformata di Fourier della funzione di trasmissione dell'oggetto, questo tipo di o. è detto anche "o. alla trasformata di Fourier" o "o. di Fourier" (fig. 7).
È possibile ottenere anche ologrammi di Fourier senza lenti sfruttando il fatto che due onde sferiche della stessa curvatura dànno un sistema di frange d'interferenza simile a quello fornito da due onde piane. La fig. 8 illustra il principio del metodo; il fascio di riferimento viene prodotto da una sorgente puntiforme posta nello stesso piano dell'oggetto e molto vicina a esso.
Infine, se l'oggetto è illuminato con un'onda piana e la figura di diffrazione sulla lastra è presa a una distanza finita, si parla di "o. alla Fresnel" (fig. 9).
Teoria. - Consideriamo una lastra fotografica posta in un piano (x,y) e illuminiamola simultaneamente con un fascio di riferimento A e un fascio B proveniente dall'oggetto di cui si vuol fare l'ologramma. Queste due onde devono essere coerenti, cioè capaci d'interferire fra loro. Siano A(x, y), B(x, y) le ampiezze complesse dei due fasci nel piano (x, y) della lastra fotografica. Precisamente, il valore di una delle componenti del vettore campo elettrico nel punto (x, y) all'istante t sia E = [A(x, y) + B(x, y)] exp (− iωt). La lastra fotografica, come ogni altro rivelatore fisico, è sensibile al quadrato di questo campo elettrico, cioè all'intensità I = ∣A + B∣2 = (A + B) (A* + B*), dove l'asterisco indica il complesso coniugato. Si ha quindi
Il primo termine è la somma delle intensità individuali dei due fasci A, B; il resto è il termine d'interferenza fra essi.
Si sviluppi ora la lastra e la s'illumini con il solo fascio di riferimento A. Per semplificare la spiegazione supponiamo per il momento che lo sviluppo sia tale da dare un coefficiente di trasmissione τ della lastra proporzionale a I. La trasmissione dell'intensità è quindi proporzionale a I2, (cioè lo sviluppo è fatto con un γ = − 2).
Si ottiene quindi immediatamente dietro l'ologramma un'ampiezza trasmessa
Il primo termine fra parentesi rappresenta essenzialmente l'onda illuminante poiché il fattore (AA* + BB*) è per lo più uniforme (eccetto se si pone l'oggetto proprio dietro alla lastra fotografica). L'ultimo termine è quello che interessa, poiché se A è un'onda piana, AA* è una costante e quindi l'ultimo termine è essenzialmente B; l'onda dell'oggetto emessa come se l'oggetto fosse in posizione e irradiasse proprio come faceva quando fu registrato l'ologramma. Inoltre per il principio di Huyghens se l'onda è presente proprio dietro al piano essa è presente ovunque, a parte l'effetto, di solito trascurabile, della diffrazione che nasce dalla limitazione del piano. Quindi si ha l'onda originale B dell'oggetto completamente ricostruita. Si ha tuttavia in aggiunta un'"onda gemella" A2 B*. Se l'onda di riferimento A è incidente normalmente alla lastra, A = cost e A2, AA* differiranno solo per un fattore di fase inosservabile. In questo caso l'onda gemella è B*, che corrisponde a un'immagine speculare relativa al piano dell'ologramma dell'oggetto B (fig. 10). Se A è un'onda sferica, essa sarà, all'incirca un'immagine speculare relativa al fronte d'onda A, considerato come uno specchio sferico.
Se A è un'onda sghemba, cosicché A = exp (ikx) si ha AA* = 1, ma A2 = exp (2 ikx). Questo significa che l'immagine vera B è registrata su un fondo uniforme, mentre l'immagine B* è sovrapposta a un reticolo di numero d'onda 2k e questo produce una differenza nella direzione d'emissione (fig. 11).
Un ulteriore miglioramento si ottiene usando una illuminazione diffusa dell'oggetto. In questo modo da un lato si elimina la lunga coda coerente delle particelle di polvere e simili, che disturba tanto nella illuminazione regolare, dall'altro, cosa più importante, si rende possibile rivedere la ricostruzione tridimensionale con due occhi. Come già detto, l'o. è di per sé tridimensionale ma con l'illuminazione diretta è possibile vedere la profondità dell'oggetto ricostruito solo focheggiando su esso con un oculare a corta focale, poiché l'ologramma si estende solo di quel tanto che il fascio è diffratto dall'oggetto. Illuminando l'oggetto con un largo angolo, per es. attraverso un grande schermo di vetro ghiacciato, si può invece estendere l'ologramma di ogni piccola parte dell'oggetto su tutta la lastra, cosicché esso può essere visto a occhio nudo, da ogni direzione.
In questo modo l'ologramma registrato non somiglia più per nulla all'oggetto, assumendo un'apparenza completamente casuale, mentre la ricostruzione diviene ora perfettamente simile alla realtà (fig. 12).
Vogliamo ora discutere alcune delle conseguenze della [2]. Prima di tutto non è necessario che sia γ = − 2. Per altri valori di gamma, invece della [2], si ottiene uno sviluppo binomiale, ma fintanto che il fondo A è molto intenso, il termine guida in B sarà lineare e della stessa forma che nella [2]. Sebbene un rapporto unitario fra i due fasci sia l'optimum, la brillanza dell'immagine ricostruita relativa a quella del fascio di riferimento decresce solo lentamente con il rapporto fra le intensità dei fasci. Non è necessario avere un γ negativo nello sviluppo dell'ologramma o farne una copia positiva; al contrario, i positivi degli ologrammi non sono mai così buoni come l'originale. Non vi è praticamente alcuna differenza fra ologrammi positivi e negativi, eccetto naturalmente se l'oggetto è molto vicino alla lastra.
In secondo luogo, non è necessario illuminare l'ologramma con lo stesso fronte d'onda piano o sferico usato nella registrazione. Uno spostamento del punto illuminante produrrà solo una trasformazione ottica dell'oggetto ricostruito. Si può anche illuminare con un'altra lunghezza d'onda, e in questo caso si ha ingrandimento o rimpicciolimento dell'immagine. Per di più le richieste di coerenza nella ricostruzione possono essere molto ridotte per l'osservazione visuale. Non è necessario avere coerenza su tutto l'ologramma: solo sulla piccola area intercettata sull'ologramma dal cono che dall'oggetto ricostruito punta verso la pupilla dell'occhio. Si può quindi nella maggior parte dei casi ricostruire gli ologrammi con luce monocromatica da una lampada a mercurio o a sodio, con il vantaggio, che questo riduce il noioso fenomeno degli speckle (fig. 13) causato dalla forte coerenza, di un fascio laser.
In terzo luogo l'ologramma non deve necessariamente essere piano: esso può avere qualunque superficie. Nella derivazione della [2] si è supposto un ologramma piano per semplicità, ma non è stato fatto uso esplicito della sua planeità. Per di più non v'è bisogno per esso di essere una superficie senza profondità. Si sarebbero ottenuti gli stessi risultati se si fosse operato con dei diffusori, dispersi in un volume invece che distribuiti in due dimensioni. Non vi è praticamente nessuna differenza fra le emulsioni spesse e quelle sottili fintanto che le frange d'interferenza nei vari strati oscurano l'una con l'altra la luce illuminante. Ma quando questo non è più il caso, quando la luce penetra attraverso diversi sistemi di frange, nascono curiosi fenomeni nuovi e cioè la selettività dei colori e la sensibilità direzionale su cui torneremo dopo.
In quarto luogo non vi è necessità, per l'onda di riferimento, l'"onda chiave" che fissa e fa rivivere il fascio oggetto, di essere piana o sferica. La relazione di reciprocità fra due onde A e B che è ottenuta dai loro termini di prodotto nella [1] è, entro larghi limiti, tale che A può far rivivere B e B può far rivivere A. Vi sono due condizioni per questo. Una è evidente: l'onda chiave deve estendersi su tutto l'ologramma. L'altra condizione, meno evidente, può essere enunciata nel modo seguente: la trasformata di Fourier dell'onda chiave deve avere una autocorrelazione assai netta. Un'onda piana soddisfa questa condizione idealmente perché la trasformata di Fourier di un'onda piana è un punto e questo è ovviamente autocorrelato fortemente con sé stesso. Ma può essere anche molto ben soddisfatta da onde uscenti da oggetti molto complicati, specie quando fasi positive e negative si alternano in essi. Se si sovrappongono due copie di un tale oggetto, si ha un netto massimo di trasmissione di luce solo se esse si ricoprono esattamente una con l'altra. Questo è vero per molte figure complicate come le impronte digitali e gl'ideogrammi cinesi. Fino a un certo punto, anche le usuali lettere romane possono essere usate come oggetti chiave per emettere onde chiave che traducono una configurazione in un'altra.
Questa è la base per il riconoscimento delle configurazioni dei caratteri e la codificazione generale attraverso l'olografia. È possibile rivelare una data forma, per es., un veicolo in una fotografia aerea, prendendo l'ologramma del veicolo con un fronte d'onda che converge a un punto in un certo piano; se poi s'illumina l'ologramma con la fotografia aerea contenente il veicolo, apparirà un punto netto nella posizione del veicolo. Un inconveniente del metodo è che, sebbene il veicolo nella fotografia possa essere in ogni luogo, esso dev'essere orientato parallelamente alla posizione in cui fu preso l'ologramma e dev'essere della stessa dimensione.
Con lo stesso principio è anche possibile tradurre, per es., ideogrammi cinesi nelle corrispondenti frasi in italiano, o lettere o parole in parole codice per i calcolatori.
Vi è infine una quinta e molto interessante proprietà, contenuta nella [2], che è la base per l'interferometria olografica. Si pensi di fare due registrazioni in successione sulla stessa lastra di due oggetti B, C con la stessa onda di riferimento A. Questo darà: prendendo solo la parte essenziale della [2], una componente di trasmissione (o assorbimento, o diffusione) A(B + C), e nella ricostruzione (AA*) (B + C) cioè le due onde che sono state congelate nell'emulsione a tempi diversi rivivranno simultaneamente nella ricostruzione e interferiranno fra loro, sebbene non si fossero mai "viste" reciprocamente prima.
Questa interferometria non simultanea è probabilmente una delle più importanti applicazioni dell'o. all'ingegneria. Si possono, per es., sovrapporre due ologrammi di una trave, uno quando a essa non sono applicate tensioni e l'altro quando essa è deformata, e osservare le frange di Newton corrispondenti alla deformazione. Si può anche prendere un solo ologramma dell'oggetto a un dato istante, svilupparlo senza spostarlo e osservare poi l'oggetto attraverso di esso: ogni piccolo spostamento dell'oggetto darà luogo a delle frange che permetteranno di studiarne le deformazioni in tempo reale.
Ologrammi di volume. - Nel 1962 il fisico sovietico Yu. N. Denisyuk ebbe la felice idea di combinare l'o. con il vecchio metodo di fotografia in colori naturali inventato da G. Lippmann nel 1891. Egli mostrò teoricamente, e anche con alcune esperienze pratiche usando un fascio di riferimento che passava attraverso l'emulsione nel registrare, che se il fascio di riferimento e il fascio oggetto cadono sull'emulsione da lati opposti, vi è ricostruzione dell'oggetto dalla riflessione dall'emulsione (da "diffrazione alla Bragg" come la riflessione di raggi X dai cristalli) e non dalla trasmissione, come per gli ologrammi ordinari.
L'idea degli ologrammi di volume fu anche proposta indipendentemente nello stesso tempo da P. J. van Heerden come metodo d'immagazzinamento ottico tridimensionale. Il primo ologramma di volume fu fatto nel 1965 da G. W. Stroke e A. E. Labeyrie che furono anche i primi a mostrare che tali ologrammi possono ricostruire immagini anche con luce bianca incoerente e producono immagini tridimensionali colorate da emulsioni in bianco e nero. Denisyuk combinò il principio delle emulsioni di Lippmann con l'idea fondamentale dell'o., prendendo una lastra e illuminandola con il fascio oggetto e quello di riferimento da lati opposti (fig. 14). In questo modo si produce un insieme di onde stazionarie nell'emulsione e i grani di argento colloidale precipitano nei punti dove il vettore elettrico è massimo, in strati spaziati uno dall'altro di circa mezza lunghezza d'onda. Questi strati bisecano l'angolo fra i due fronti d'onda. Quando una tale lastra è illuminata con il solo fascio di riferimento, il raggio illuminante sarà riflesso agli strati di Lippmann nella direzione del raggio oggetto originale e l'oggetto apparirà nella posizione originale e nel colore originale perché gli strati di Lippmann agiscono attraverso una riflessione alla Bragg. Un ologramma di volume, al contrario di uno piano, può essere illuminato solo entro pochi gradi dalla direzione originale senza che l'immagine svanisca. Questo fenomeno è di grande importanza nell'immagazzinamento dell'informazione (come proposto originariamente da van Heerden) perché molti dati possono essere immagazzinati nello stesso volume dell'emulsione o di un cristallo sensibile alla luce e esserne estratti illuminando in direzioni ben definite. Vedi tav. f. t.
Bibl.: G. W. Stroke, An introduction to coherent optics and holography, New York 1969; J. Collier, C. B. Burkhardt, L. H. Lin, Optical holography, ivi 1971; B. P. Hildebrand, B. B. Brenden, An introduction to acoustical holography, ivi 1972.