Olografia
di Dennis Gabor
SOMMARIO: 1. Principi dell'olografia. □ 2. Progressi dell'olografia. □ 3. Applicazioni. □ 4. Olografia con onde elettromagnetiche. □ 5. Olografia a ultrasuoni. □ Bibliografia.
1. Principi dell'olografia.
I fenomeni ondulatori della luce e del suono sono governati dal principio di Huygens. Nel caso della luce, si pensi a oggetti illuminati o a sorgenti luminose che si trovino tutti dalla stessa parte di una superficie, piana ad esempio. Il principio di Huygens afferma che, se noi fossimo in grado di riprodurre le oscillazioni che avvengono sul piano, le onde si propagherebbero dall'altra parte di questo, proprio come se provenissero dalle sorgenti o dagli oggetti stessi. Un osservatore che si ponesse dall'altra parte del piano, cioè, non noterebbe alcuna differenza: egli vedrebbe gli oggetti come se veramente ci fossero.
L'olografia o la ‛ricostruzione dei fronti d'onda', come inizialmente fu chiamata, consegue proprio lo scopo di sostituire una ‛scena' tridimensionale con una registrazione bidimensionale: tuttavia il procedimento non funziona con qualunque tipo di luce, ma soltanto con luce assolutamente monocromatica. La luce ‛naturale' è assai irregolare e decisamente troppo complessa per poterne effettuare una registrazione completa. Al contrario, la luce monocromatica consiste di una semplice oscillazione periodica a due sole variabili, l'ampiezza (o l'intensità) e la fase. Una normale fotografia registra una sola di queste due variabili, l'intensità; non può registrare la fase, perché non dispone di nulla con cui confrontarla. L'olografia si basa sulla scoperta del fatto che, se alla luce proveniente dall'oggetto si aggiunge una ‛fase standard' sotto forma di un secondo fascio luminoso, detto di riferimento, coerente col primo, si può registrare anche la fase; non solo, ma si può riottenere il fascio di luce originale semplicemente illuminando l'ologramma con il secondo fascio. ‛Coerente' significa capace di interferire.
La fig. 1 fornisce una spiegazione fisica di un caso particolarmente semplice. Fascio di riferimento e fascio di illuminazione coincidono come coincidevano effettivamente nei primi esperimenti di D. Gabor (1948), quando non erano ancora disponibili le sorgenti laser. L'oggetto, in questo caso, è costituito da due punti diffondenti, P1 e P2, ciascuno dei quali diffonde la luce sotto forma di onde sferiche elementari: queste interferiscono col fascio d'illuminazione sul piano dell'emulsione fotografica e formano quel che si chiama un sistema di zone di Fresnel, che ha un'intensità massima nei punti in cui le onde elementari si sommano in concordanza di fase col fondo e minima dove sono in opposizione di fase. Per il fatto che una metà del passo delle frange è coperto, tutte le zone chiare sono in fase sia con i punti d'onda sferici che con il fascio d'illuminazione. Di conseguenza, quando si illumina questo sistema di frange con il solo fascio di fondo, appaiono anche i fronti d'onda sferici uscenti dai punti diffondenti; ciò significa che un osservatore posto al di là della lastra vedrà gli oggetti puntiformi nella collocazione originale. Questi sistemi di frange, detti lenti di Soret dal nome del fisico francese che li ottenne per la prima volta, erano stati usati per un certo tempo in ottica e si sapeva che potevano agire sia da lenti convergenti sia da lenti divergenti. Per tale ragione, oltre al punto originale P1, apparirà anche una seconda immagine P1′. Quest'effetto era un inconveniente dei primi ologrammi: solo con l'avvento del laser fu possibile eliminarlo.
Un ologramma, ottenuto per interferenza tra un fascio oggetto e un fascio di riferimento proveniente da una sorgente puntiforme, si può sempre considerare come dovuto alla sovrapposizione di sistemi zonali di Fresnel, uno per ogni punto oggetto. (Il termine ologramma fu coniato da Gabor sulla base della parola greca οὄλος, che significa tutto intero: tutto intero il contenuto di informazione).
In termini matematici una spiegazione semplice, e tuttavia un po' più generale, è la seguente. Sul piano x, y dell'ologramma, siano A(x, y)eiωt e B(x, y)eiωt rispettivamente i campi dei fasci di luce di riferimento e dell'oggetto; A e B sono numeri complessi, comprensivi quindi delle relazioni di fase. Il processo fotochimico non è sensibile alla fase dei campi e la lastra registra quindi soltanto le intensità, secondo l'espressione
I(x, y) = ∣ Aeiωt + Beiωt ∣2 =
= AA* + BB* + AB* + A*B, (1)
nella quale gli asterischi stanno a indicare le grandezze complesse coniugate. Si è persa la fase temporale, ma la relazione di fase tra i due fasci è rimasta nei due termini finali, che forniscono le frange d'interferenza.
Per semplificare, facciamo l'ipotesi che nel processo fotografico la trasmittanza T della lastra sia proporzionale all'intensità I (ciò corrisponde a un processo con un γ della lastra pari a −2). A questo punto, se si illumina l'olo- gramma soltanto con il fascio di riferimento A, si avrà, appena al di là della lastra e fatto salvo un fattore complesso costante, un'ampiezza pari a:
AT ≅ AI = A(AA* + BB*) + (AA)B* + (AA*)B. (2)
I tre termini al secondo membro sono, rispettivamente, il fascio illuminante leggermente modificato, la ‛seconda' immagine coniugata e l'oggetto ‛ricostruito'. Il primo termine entro parentesi rappresenta la somma delle intensità di luce del fascio di riferimento e del fascio oggetto; normalmente essi sono talmente uniformi da modificare ben poco il fascio di illuminazione. Discuteremo più avanti del secondo termine, mentre è il terzo quello di maggior interesse, perché il fattore AA* rappresenta l'intensità del fascio illuminante; se questo è uniforme, si ha una esatta riproduzione del fascio oggetto B subito al di là della lastra emulsionata e quindi, in virtù del principio di Huygens, in ogni punto dello spazio.
2. Progressi dell'olografia.
Nei primi lavori sperimentali di Gabor del 1948 il fascio di luce illuminava la lastra con incidenza quasi normale; cosicché non solo AA* ma anche AA risultava costante e l'oggetto coniugato appariva in posizione simmetrica specularmente rispetto all'oggetto ricostruito, come è indicato nella fig. 1. Le due immagini quindi potevano essere separate solo mediante un'opportuna messa a fuoco, così come si vede nella fig. 2: in queste prime ricostruzioni olografiche era sempre presente il disturbo dato dal ‛secondo' oggetto.
Questo disturbo fu completamente eliminato solo nel 1963, quando E. N. Leith e J. Upatnieks, nel riprendere le esperienze di olografia, utilizzarono il laser. Perfino i primi laser a gas d'elio e neon avevano una lunghezza di coerenza 3.000 volte più grande e un'intensità 1.000.000 di volte più grande di quelle della lampada a mercurio usata da Gabor, cosicché fu possibile separare il fascio di illuminazione da quello di riferimento mediante un'incidenza obliqua, come è indicato nella fig. 3.
Per un'onda piana che incida sulla lastra con un angolo ϑ rispetto alla normale, l'ampiezza è data da AeiKx, con K = 2π sen ϑ/λ. Di conseguenza AA* è ancora costante, mentre AA = e2iKx rappresenta un'onda incidente che forma con la normale un angolo circa uguale a 2ϑ. Le immagini dei due oggetti ricostruiti non sono più allineate: l'una resta nella posizione originale (oggetto virtuale), mentre l'altra giace su una retta che forma un angolo pari a circa 2ϑ con la precedente; a metà tra le due direzioni passa il fascio di illuminazione.
Fu così possibile ottenere, per la prima volta, delle ricostruzioni d'immagini prive di disturbi; questi primi risultati di Leith e Upatnieks, uno dei quali è visibile nella fig. 4, erano già assai migliori di quelli di Gabor. Dal 1963 l'olografia, che aveva subito un ristagno a partire dal 1952, cominciò a essere praticata in centinaia di laboratori e a essere impiegata anche nell'industria.
Un passo successivo di grande importanza fu compiuto nel 1964, quando fu possibile ricostruire oggetti tridimensionali, come è mostrato nelle figg. 5 e 6. L'olografia, naturalmente, era tridimensionale fin dal principio, ma al tempo degli ologrammi microscopici ottenibili con le lampade a mercurio occorreva ispezionare il campo con un microscopio per rendersi conto che si aveva un'effettiva ricostruzione spaziale degli oggetti. La potenza del laser, milioni di volte maggiore di quella delle lampade, rese possibile l'impiego di grandi lastre fotografiche, a grana molto più fine e perciò con una densità d'informazione più alta: si poteva osservare così l'oggetto attraverso l'olo- gramma senza l'aiuto di alcuno strumento. Come si può vedere nella fig. 5, si poteva usare il metodo dell'incidenza obliqua nel caso di oggetti scabri e diffondenti; il risultato è riportato nella fig. 6. Nel caso di oggetti non diffondenti - per esempio pellicole - si doveva usare un oggetto diffondente, come potrebbe essere un vetro smerigliato, al fine di illuminare tutti i punti dell'oggetto con un fascio largo.
L'illuminazione diffusa porta un'importante conseguenza: l'informazione di una parte qualunque dell'oggetto non è più contenuta nella figura di diffrazione, com'è il caso per esempio della fig. 2, ma si distribuisce su tutto l'ologramma e si ripete per migliaia di volte sulla lastra in un codice che ha tutto l'aspetto di un rumore (noiselike) (v. fig. 7), ma che si può tuttavia decodificare al solito modo mediante illuminazione con un opportuno fascio di riferimento. Un tale tipo di codificazione noiselike costituisce - secondo la teoria delle comunicazioni di Cl. E. Shannon - l'utilizzazione ottimale della capacità d'informazione del mezzo, nella fattispecie dell'emulsione fotografica. Inoltre, esso dà la massima garanzia contro eventuali disturbi, dal momento che, anche se una parte dell'ologramma si deteriora per via di graffiature o si distrugge, nessuna parte dell'oggetto viene cancellata; risulterà solo un poco diminuito il contrasto dell'immagine. Questo principio ha trovato applicazione nella stampa dei microcircuiti integrati - in particolare negli elaboratori che potrebbero venir completamente rovinati da un solo granello di polvere nella stampa per contatto e anche nell'immagazzinamento dell'informazione.
Dal 1964 in poi quasi ogni anno si è fatto qualche importante passo avanti nell'olografia. Leith e Upatnieks ottennero i primi ologrammi a colori sfruttando il fatto che, come abbiamo già visto nella fig. 4, su una medesima lastra si può memorizzare un gran numero di ologrammi indipendenti mediante l'uso di fasci di riferimento orientati secondo diverse direzioni. I tre colori fondamentali erano memorizzati su tre ologrammi le cui frange di interferenza si intersecavano ad angoli di 120°. Questo metodo - come altri simili - poteva essere utilizzato solo nel caso in cui gli oggetti avessero un'apertura angolare limitata. Si poté superare questa limitazione con un metodo suggerito nel 1962 da Yu. N. Denisyuk, il quale combinò l'idea dell'olografia con quella che aveva permesso a G. Lippmann nel 1891 di ottenere la fotografia a colori. Il metodo di Lippmann è delineato nella fig. 8.
All'interno di una macchina fotografica è posta una lastra con un'emulsione a grana molto fine, col vetro volto verso la lente e l'emulsione a contatto con mercurio sì da formare uno specchio. Il fronte d'onda della luce riflessa interferisce con quello d'arrivo e forma un sistema di onde stazionarie. I grani d'argento colloidale precipitano nelle zone di massimo del vettore campo elettrico, le quali distano di mezza lunghezza d'onda le une dalle altre, quando la luce incide sulla lastra normalmente; nel caso più generale la condizione sarà quella di Lippmann-Bragg, riportata sulla destra della fig. 8. Dopo aver sviluppato la lastra, la si pone a contatto con un foglio di carta nera, anziché con uno specchio, e la si illumina con luce bianca: soltanto il colore originario sarà riflesso in modo apprezzabile. I grani d'argento colloidale assorbono molto poco e diffondono la luce quasi isotropicamente, così che le onde elementari sferiche riemesse si sommeranno per dare una ampiezza apprezzabile solo per il colore originale e per le direzioni vicine a quella originale. La luce di altro colore attraversa l'emulsione ed è assorbita dal fondo scuro.
Il metodo di Denisyuk è mostrato nella fig. 9: l'oggetto è posto dal lato dell'emulsione, mentre il fascio di riferimento incide dalla parte opposta. Se fascio oggetto e fascio di riferimento sono coerenti, anche in questo caso si forma un sistema di onde stazionarie, che non sono, tuttavia, parallele alla superficie della lastra, ma bisecano l'angolo tra i due fasci. Sviluppata la lastra, se l'ologramma viene illuminato solo col fascio di riferimento, l'oggetto riappare nella posizione occupata originariamente e con il colore originario. Per registrare ologrammi a colori per riflessione di questo tipo si debbono impiegare tre fasci di luce laser di colore diverso, mentre per rivederli si può usare luce bianca: gli strati di Lippmann selezionano, infatti, i colori originari. Sebbene già nel 1965 O. W. Stroke e A. Labeyrie abbiano prodotto con questo metodo ologrammi a due colori, gli ologrammi con tutti i colori per riflessione sono ancora ben lungi dall'essere soddisfacenti, data la difficoltà di ripristinare lo spessore originale dell'emulsione e di assicurare un buon coefficiente di riflettività.
Un'altra tecnica molto importante è l'olografia ad alta velocità mediante laser impulsato a rubino, realizzata per la prima volta nei laboratori TRW da R. F. Wuerker e collaboratori. Il laser a rubino, con amplificatori, può dare impulsi della durata di circa 30 ns con energie comprese tra 1 e 10 joule. Quando si registra un ologramma, l'oggetto non deve spostarsi durante l'esposizione per più di un quarto di lunghezza d'onda rispetto al fascio di riferimento; con una sorgente impulsata, tuttavia, questa condizione corrisponde a velocità di qualche centinaio di metri al secondo. Questo fatto ha permesso di risolvere problemi precedentemente considerati insolubili, come quello di contare e misurare le particelle microscopiche di olio emesse da un ugello a velocità supersonica e ad alta temperatura. Il metodo impiegato è la semplice olografia ‛in linea' praticata già nel 1948 da Gabor, ma facendo uso, in questo caso, di un laser. Si pone una lastra fotografica a distanza di sicurezza dal getto e si spara attraverso di esso un impulso laser; dopo di che si rovescia il fascio di illuminazione in modo tale che l'immagine virtuale del getto diventi quella reale. Si può quindi analizzare l'immagine reale del getto con un microscopio e contare e misurare le particelle. L'ologramma di un getto è riportato nella fig. 10.
Quando R. F. Wuerker e i suoi collaboratori provarono a fotografare i proiettili, fecero una scoperta casuale molto interessante. Si aspettavano, infatti, di vedere il proiettile e la sua onda d'urto, ma invece videro quest'ultima attraversata da frange di interferenza. Era successo che il laser aveva lanciato un impulso un istante prima dell'arrivo del proiettile e che il fronte d'onda piano nell'aria non perturbata aveva interferito con quello che era passato successivamente attraverso l'onda d'urto. Fu questo il primo caso di interferometria ottenuto con fronti d'onda luminosi non simultanei. Il fenomeno fu scoperto indipendentemente anche da altri autori (R. L. Powell e K. A. Shetson, J. M. Burch, H. Haines e B. P. Hillebrand) e oggi è alla base dell'interferometria olografica. Questo fatto è conseguenza diretta dell'equazione (2): due onde, congelate nell'emulsione dallo stesso fronte d'onda di riferimento ma in tempi diversi, possono venir ricostruite simultaneamente dal fascio di illuminazione.
La fig. 11 mostra un caso un po' più complesso di interferometria ad alta velocità: l'onda d'urto di un proiettile che interferisce con un'onda d'urto esplosiva. Dall'esame delle frange si può calcolare il profilo di densità delle due onde e della loro zona di interferenza.
I primi laser a rubino, il cui prototipo fu costruito da T. H. Maiman, avevano una lunghezza di coerenza piuttosto bassa e potevano essere impiegati soltanto per l'olografia ‛in linea', descritta negli esempi precedenti. Dal momento che il fascio di riferimento e il fascio oggetto viaggiano insieme, la profondità di campo di questi ologrammi non ha quasi limite, tanto che si può realizzare un ologramma su cui vengono registrate acque stagnanti profonde vari metri e poi analizzare al microscopio gli infusori che vi vivono. Per olografare oggetti in riflessione, però, si richiede un'alta lunghezza di coerenza: ciò fu realizzato per la prima volta da L. Siebert nel 1968, il quale fece il primo ritratto olografico, riportato nella fig. 12. Una normale fotografia non può naturalmente dare alcuna idea dello spettacolare realismo dovuto alla rappresentazione tridimensionale di tali ritratti. Attualmente non si è neppure in grado di riprenderli nei loro colori naturali, dal momento che non vi sono a disposizione laser pulsati di grande potenza e alta lunghezza di coerenza nel verde e nel blu; questa lacuna potrà essere probabilmente colmata coi laser a tinte, che sono in rapida evoluzione.
3. Applicazioni.
L'applicazione più importante dell'olografia ai problemi dell'ingegneria è costituita oggi dagli studi delle vibrazioni e delle piccole deformazioni. Già con la semplice olografia si possono mettere in evidenza le vibrazioni di un oggetto, come hanno mostrato per primi Stetson e Powell, ma ciò può farsi ancor meglio mediante interferometria a doppia esposizione non simultanea, con la quale si raffronta, per esempio, lo stato non deformato di un oggetto con quello di massima ampiezza di deformazione. Nelle fabbriche di automobili si studiano mediante questo metodo le carrozzerie delle macchine, per controllarne le vibrazioni (v. fig. 13).
Lo studio olografico di piccole deformazioni è diventato una branca importante dei test non distruttivi e la fig. 14 dimostra la potenza del metodo. Una gomma d'automobile viene posta tra due specchi a 45° in modo da poter essere osservata sia di fronte sia dai due lati. Quando la gomma è sistemata si fa l'ologramma, poi si scalda con un po' d'aria calda e si scatta un secondo ologramma sulla medesima lastra. Dopo lo sviluppo, appaiono delle frange di Newton che evidenziano la deformazione provocata dal riscaldamento; ogni frangia corrisponde alla deformazione di mezza lunghezza d'onda. Se la gomma è buona le frange appaiono regolari e ben distanziate, ma se c'è un difetto di incollaggio si nota un rigonfiamento, anche se il difetto sta sotto 20 strati di gomma. Lo stesso metodo è stato impiegato con gran successo nelle prove di strutture ad alveare, quali quelle impiegate nelle ali degli aeroplani, sui cui lati sono saldate delle lamine sottili di alluminio. Col metodo olografico ogni minima imperfezione nelle saldature appare come un rigonfiamento ben visibile.
In altre applicazioni si utilizzano gli ologrammi come portatori di informazione o per il trattamento dell'informazione. Già si è detto dell'elevata efficienza di memorizzazione degli ologrammi in luce diffusa: coi soli ologrammi bidimensionali, e cioè facendo uso di emulsioni sottili, utilizzando da 3 a 5 direzioni angolari del fascio di riferimento e una ventina di angoli azimutali, è possibile memorizzare dalle 60 alle 100 pagine dattiloscritte su un'area della lastra su cui si riesce normalmente a impressionare una sola pagina di microfilm. Impiegando emulsioni spesse, su quella stessa area è stato possibile registrare ben 300 pagine e si pensa che si potrà arrivare sino a 1.000. In realtà questa enorme capacità non è stata ancora impiegata nella pratica per via della difficoltà di dirigere il fascio di luce da 60 o 100 direzioni diverse su di una piccola lastra olografica (di dimensione 1,5 x 1,5 mm). Le memorie olografiche finora realizzate utilizzano un ologramma per ciascuna figura, ma si possono formare su di una lastra 10.000 microologrammi, ognuno dei quali può essere selezionato in un tempo di uno o due microsecondi. Se ne ha il vantaggio che polvere o graffi non deteriorano il contenuto di informazione e che non occorre selezionare un microologramma con estrema precisione per avere la ricostruzione dell'immagine nell'esatta posizione. Questo campo di studi è in rapida evoluzione e si prevede di realizzare in futuro elaboratori con memorie di 1012 bits o anche maggiori.
Nella fig. 15 è dato un esempio d'impiego dell' olografia per il trattamento dell'informazione. In questo ologramma ogni lettera G viene trasformata in una croce secondo un processo che si basa su di un'estensione del principio olografico. In un ologramma ordinario l'immagine di un punto (sorgente del fascio di riferimento) si trasforma in un oggetto complicato quanto si vuole. Come fronti d'onda del fascio di riferimento, però, si possono usare anche fronti d'onda che non siano sferici (stigmatici); un calcolo matematico mostra che a tal fine si possono utilizzare fronti d'onda qualunque, purché abbiano un picco pronunciato nella funzione di autocorrelazione. Per autocorrelazione di un'onda si intende l'integrale del prodotto di due funzioni identiche all'ampiezza dell'onda, traslate di x e y: esso costituisce un invariante dell'onda, cioè esso assume lo stesso valore su qualsivoglia sezione del fascio. Se la funzione di autocorrelazione del fascio di riferimento è data da una piccola areola puntiforme, ben delineata, l'immagine ricostruita apparirà nitida, come se fosse stata incisa da uno stilo. Questo spiega perché si possa usare come fascio di riferimento quello derivante, per esempio, da un ideogramma cinese, da impronte digitali o da un insieme casuale di punti, piuttosto che quello di una sorgente puntiforme. Un'applicazione singolare di questo fatto è stata realizzata da Butters e Wall, i quali hanno fatto degli ologrammi in cui la fotografia di una persona si muta nella sua firma e viceversa. Un'altra applicazione è costituita dalla lettura dei caratteri fatta da un elaboratore: si introducono nell'elaboratore dei segni che un uomo è in grado di leggere e l'ologramma li trasforma in segni comprensibili per il calcolatore.
Nella fig. 15 la trasformazione in crocette di ogni lettera G è effettuata da un ologramma che non è stato eseguito realmente per via ottica, ma è stato calcolato da A. Lohmann. Il calcolo di un ologramma si rende particolarmente utile in quei casi in cui si deve rappresentare un oggetto che non esiste nella realtà, ma che a sua volta è frutto di un calcolo. Per esempio, volendo realizzare per la prima volta una nuova superficie asferica, se ne calcola l'ologramma e lo si usa poi come matrice per misurare - attraverso le frange di Newton date da un processo di interferometria olografica - di quanto s'allontani dalla superficie calcolata una superficie fabbricata industrialmente, quasi che quella calcolata fosse una vera matrice.
Uno dei più importanti risultati scientifici conseguiti dall'olografia sta nella capacità degli ologrammi di operare delle trasformazioni sull'informazione ottica. L'olografia fu inventata da Gabor nel 1948 col proposito di ottenere delle buone micrografie elettroniche con lenti elettroniche che, inevitabilmente, non erano buone. Allora lo scopo non poté essere raggiunto perché le correnti elettroniche di bassa coerenza richiedevano dei tempi di esposizione troppo lunghi rispetto alla scarsa stabilità degli oggetti microscopici da fotografare. L'introduzione di catodi a emissione di campo, nel frattempo, ha reso possibile ottenere correnti coerenti migliaia di volte maggiori, ma nessuno sinora ha ottenuto ologrammi elettronici della qualità desiderata. Tuttavia, per merito di G. W. Stroke, l'olografia ha migliorato notevolmente la microscopia elettronica, riuscendo a rendere le micrografie più nitide.
La maggior definizione dei contorni (deblurring) è stata ottenuta mediante l'introduzione sul fascio ottico dell'immagine di un filtro che trasforma il pennello di scrittura da una macchia brutta e allargata in un punto ben nitido e preciso. Questo filtro viene messo sul piano di Fourier (o di Fraunhofer), sul quale le coordinate equivalgono alle frequenze spaziali del piano oggetto. Nel metodo di Stroke, questo filtro è anch'esso un ologramma, ottenuto dall'interferenza tra la trasformata di Fourier del pennello di scrittura e quella del pennello voluto. Nella pratica il metodo è molto complesso, poiché le alte frequenze spaziali debbono essere amplificate un migliaio di volte e anche più rispetto alle basse frequenze; si è perciò dovuto trovare un processo fotografico lineare, rispetto alla risposta in trasparenza, entro un fattore di circa 104. Un risultato eccezionale di questo processo di deblurring è mostrato nella fig. 16, in cui è rappresentata una piccola parte (circa un ventesimo) di un batteriofago: la colonna centrale è stata interpretata come una parte del DNA del fago; si vede anche la doppia spirale della molecola del DNA con un passo di circa 25 Å.
4. Olografia con onde elettromagnetiche.
Nel periodo compreso tra il 1956 e il 1960, quando l'olografia sembrava ristagnare, fu introdotta - e anche con ottimi risultati - l'olografia con onde elettromagnetiche da Cutrona e dai suoi collaboratori, Leith, Porcella e Vivian, il cui lavoro tuttavia non fu reso noto se non dopo il 1960.
Da un aereo in volo su di un percorso rettilineo vengono periodicamente lanciati lateralmente, ed entro un ampio ventaglio, dei treni d'onda alla frequenza delle microonde. Quando tornano indietro, questi segnali sono ricevuti in modo coerente, vale a dire sono mescolati con un'onda d'identica frequenza; i segnali così trattati vengono poi registrati inviando un fascio di raggi catodici su di un film che si muove orizzontalmente, mentre sulla verticale si registrano le intensità e i tempi di ritardo. Col calcolo si può mostrare che tale registrazione su film corrisponde a un particolare tipo di ologramma sul quale ogni punto oggetto è registrato sotto forma di una zona di Fresnel a una sola dimensione su di un'iperbole piuttosto appiattita, il cui vertice corrisponde al punto più vicino sul piano normale alla linea di volo. Mediante un sistema ottico piuttosto ingegnoso, questa iperbole viene raddrizzata e la pellicola registrata viene ricostruita come se consistesse di ologrammi monodimensionali. Si ottengono così dei risultati stupefacenti, uno dei quali, tra i più recenti, è riportato nella fig. 17: in essa si distingue ogni singolo albero di una foresta di molti chilometri quadrati.
5. Olografia a ultrasuoni.
Vedere mediante l'uso di onde ultrasonore di brevissima lunghezza d'onda è una vecchia idea ripropostasi con l'avvento dell'olografia, soprattutto perché coll'olografia si poteva fare a meno delle lenti acustiche, che non avevano mai dato dei risultati brillanti. Paradossalmente, questa ricerca ha condotto alla costruzione di eccellenti lenti acustiche e il metodo migliore sino a oggi sperimentato per l'olografia acustica ne fa buon uso.
Non è facile avere in acustica l'equivalente della lastra fotografica, con i suoi milioni di elementi sensibili all'intensità indipendenti. Una matrice di 100 × 100 idrofoni equivale a meno di un millimetro quadrato di emulsione fotografica. Era però noto da tempo che la superficie libera di un liquido costituiva un equivalente soddisfacente della lastra, dal momento che la pressione di radiazione acustica è proporzionale all'energia dell'onda e che le onde stazionarie possono creare sulla superficie libera una struttura di rilievi che può considerarsi alla stregua di una buona registrazione del campo ultrasonoro. Molti altri migliora- menti furono tuttavia necessari prima che si potessero produrre degli ologrammi acustici soddisfacenti, ed essi furono il risultato del lavoro compiuto alla Holosonics, Inc., di Richland, nello Stato americano di Washington, da B. Brenden e dai suoi collaboratori tra il 1965 e oggi.
La fig. 18 mostra il dispositivo della Holosonics che ha dato i migliori risultati. L'oggetto, in questo caso un braccio umano, è immerso in un recipiente contenente dell'acqua attraverso cui un trasduttore piano invia dei treni d'onda, alla frequenza, per esempio, di 5 MHz, corrispondenti a una lunghezza d'onda di 0,3 mm in acqua. Non si può far uso di onde continue perché gli effetti di riverberazione del recipiente falserebbero completamente l'immagine. Occorre poi che l'immagine sia vista solo nei momenti corrispondenti all'arrivo dei treni d'onda.
Le onde acustiche inviate attraverso l'oggetto sono raccolte da due lenti acustiche, che hanno lo scopo di isolare il recipiente dal dispositivo di visualizzazione e di mettere a fuoco l'immagine di un piano oggetto sulla superficie libera su cui si guarda. Queste lenti acustiche, di ottima qualità, sono molto semplici: sono fatte di due sottili membrane, di Mylar per esempio, tese in forma quasi sferica dalla pressione di un liquido, contenuto al loro interno, nel quale la velocità del suono è pressappoco uguale alla metà della velocità del suono nell'acqua. Tuttavia l'immagine che queste lenti formerebbero da sole è un'immagine piuttosto cattiva; è pertanto convertita in un ologramma focalizzato, cioè in un'immagine di ampiezza con discriminazione di fase, irradiando nel contempo la superficie anche mediante un fascio di riferimento prodotto da un altro trasduttore, alla stessa lunghezza d'onda.
La superficie libera di un fluido, comunque, è un cattivo ricevitore; è soggetta infatti ai disturbi prodotti da onde lunghe e un qualunque flusso non bilanciato di energia acustica farebbe muovere le increspature in superficie, che non resterebbero stabili. A questo inconveniente si ovvia ricoprendo la superficie libera dell'acqua con una pellicola plastica, sintonizzata sulla lunghezza d'onda impiegata, la quale non risponde alle basse frequenze. Sopra questa pellicola si dispone uno strato sottile di un fluido avente bassa tensione superficiale, che assicura una maggiore sensibilità senza produrre spostamenti. La stabilità che si ottiene è tale che si può smuovere l'acqua del contenitore senza perturbare l'immagine.
L'ologramma focalizzato è reso visibile illuminandolo, a incidenza quasi normale, con un fascio piano di luce laser. L'ordine zero del fascio riflesso, corrispondente all'immagine della superficie piana, viene eliminato con un ostacolo schlieren, così che l'immagine viene ricostruita solo dal fascio diffratto e può essere osservata, fotografata e riprodotta su uno schermo televisivo.
Nelle figg. 19 e 20 sono mostrate due immagini ultrasonore di un braccio. Se la fig. 19 non differisce gran che da una radiografia a raggi X, in cui si vedono essenzialmente le ossa, con la fig. 20, che è un'immagine ingrandita della zona del gomito, si notano i vantaggi degli ultrasuoni rispetto ai raggi X. Con gli ultrasuoni si rendono assai più visibili le differenze tra tessuti molli di durezza leggermente diversa. Si possono così vedere vene e arterie assai meglio che in una radiografia. La fotografia, comunque, mette in mostra un difetto che tuttora presentano queste immagini ultrasonore: si vede infatti il fenomeno del rumore di picchiettatura, o speckle noise, consistente in una grana che non è nell'oggetto ma deriva dalla stessa natura della luce o del suono coerente.
Un foglio di carta bianca appare uniforme quando è illuminato con luce naturale, mentre appare picchiettato se lo si illumina con luce coerente. Ciò è dovuto al fatto che, quando si sovrappongono due o, più fasci di luce, le intensità si sommano secondo le loro fasi, cioè vettorialmente; la risultante può essere quasi uguale a zero se le fasi sono opposte, ma può essere molto grande se sono tutte eguali. Dal momento che un foglio di carta presenta delle increspature dell'ordine di una lunghezza d'onda, si può avere l'una o l'altra situazione e avere quindi come risultato un forte effetto di speckle noise; lo stesso avviene nel caso in cui un fascio di luce coerente attraversi un mezzo diffondente. Per questa ragione l'olografia microscopica non ha ottenuto a tutt'oggi un gran successo. Il risultato ottimale si otterrebbe, infatti, registrando su un unico ologramma con un breve tempo di esposizione l'immagine di un preparato spesso e osservando poi a piacimento gli strati a diversa profondità; nella pratica, però, la ricostruzione viene grandemente rovinata dallo speckle noise. Lo stesso fenomeno, almeno attualmente, deteriora le olografie acustiche del corpo umano, che naturalmente costituisce un mezzo diffondente per il suono. D'altronde, un altro metodo di diagnosi acustica, il cosiddetto metodo di scansione B, ha dimostrato chiaramente che i tessuti cancerogeni presentano un buon contrasto con gli ultrasuoni; lo speckle noise però ha finora impedito il riconoscimento precoce del tumore della mammella mediante olografia acustica.
In generale, si può pensare di eliminare l'effetto di speckle mediando l'immagine su più esposizioni, con diversa illuminazione. Se si muta l'illuminazione, infatti, cambia la struttura della picchiettatura, che si media e scompare, mentre il contrasto effettivo delle strutture rimane inalterato. È da sperare che con questo metodo l'olografia acustica possa in pochi anni liberarsi del problema rappresentato dallo speckle noise. Allora essa costituirà sicuramente un importantissimo complemento della radiografia a raggi X, poiché è innocua, se l'irraggiamento non avviene a dosi grandissime, e offre la possibilità di osservare il corpo umano come se fosse trasparente, in un unico ologramma complesso, in tre dimensioni e in tutta la sua profondità.
Bibliografia.
Barrekette, E. S., Kock, W. E., Ose, T., Tsujuchi, J., Stroke, G. W. (a cura di), Applications of holography, New York 1971.
Camatini, E. (a cura di), Optical and acoustical holography, New York 1972.
Caulfield, H. J., Sun Lu, The applications of holography, New York 1970.
Collier, R. J., Burckhardt, C.B., Lin, L. H., Optical holography, New York 1971.
De Velis, J. B., Reynolds, G. O., Theory and applications of holography, Reading, Mass., 1967.
Francon, M., Holographie, Paris 1969.
Hildebrand, B. P., Benden, B. B., Introduction to acoustical holography, New York 1972.
Kallard, T. (a cura di), Holography, New York 1969-1970.
Kiemle, H., Röss, D., Einführung in die Technik der Holographie, Frankfut a. M. 1969.
Klein, H. A., Holography, Philadelphia-New York 1970.
Kock, W. E., Lasers and holography. An introduction to coherent optics, Garden City, N. Y., 1969 (ed. originale, Moskva 1967).
Leith, E. N., Upatnieks, I., Wavefronts reconstruction with diffused illumination and three-dimensional objects, in ‟Journal of the Optical Society of Ameica", 1964, LIV, pp. 1295-1301.
Ostrovsky, Yu. I., Holography, Leningrad 1970.
Robertson, E. R., Harvey, J.M. (a cura di), The engineering uses of holography, Cambridge 1970.
Soroko, L.M., Principles of holography and of coherent optics (a cura di G. W. Stroke), New York 1974 (ed. originale, Moskva 1971).
Stroke, G. W., An introduction to coherent optics and holography, New York 1966, 19692.
Stroke, G. W., Kock, W. E., Kikuchi, Y., Tsujiuchi, J. (a cura di), Ultrasonic imaging and holography. Medical sonar and optical applications, New York 1974.
Vienot, J. Ch., Smiglielski, P., Royer, H., Holographie optique. Developpements, applications, Paris 1971.
Yu, Fr. T. S., Introduction to diffraction, information processing and holography, Cambridge, Mass., 1973.