Abstract
La reintroduzione dell’oltraggio a pubblico ufficiale, ispirata da esigenze di sicurezza e di recupero della credibilità delle pubbliche funzioni, ripropone i medesimi problemi già evidenziati in relazione all’abrogato art. 341 c.p.
Il codice del 1930 prevedeva, nel libro II, titolo II, alcune ipotesi delittuose che, articolate in ben quattro fattispecie autonome distribuite fra gli artt. 341 (oltraggio a un pubblico ufficiale), 342 (oltraggio a un corpo politico, amministrativo o giudiziario), 343 (oltraggio a un magistrato in udienza) e 344 (oltraggio a un pubblico impiegato) c.p., presentavano un nucleo fondamentale comune costituito dall’offesa all’onore e prestigio degli organi, individuali e collegiali, della pubblica amministrazione in senso lato.
Rispetto all’art. 594 c.p., invero, le fattispecie in esame, fra le quali l’oltraggio a un pubblico ufficiale rappresentava l’ipotesi paradigmatica, si distinguevano per essere l’offesa rivolta all’onore ed al prestigio di persone che, in virtù della posizione rivestita nella pubblica amministrazione, beneficiavano di una tutela più intensa rispetto agli altri consociati.
Senonché, il quadro normativo registrava alcune significative modifiche, prima ad opera della Corte costituzionale e, successivamente, del legislatore. Così, in un primo momento, la Consulta dichiarava l’illegittimità costituzionale, sotto il duplice profilo della ragionevolezza e della correlata funzione rieducativa della pena, del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 341 c.p., con riguardo, in particolare, alla previsione di un minimo edittale di sei mesi di reclusione, in tal modo parificando il minimo di pena dell’ingiuria e dell’oltraggio a un pubblico ufficiale, con conseguente applicazione del limite di quindici giorni fissato in via generale dall’art. 23 c.p. (C. cost., 25.7.1994, n. 341, in Foro it., 1994, I, 2585 ss., con nota di G. Fiandaca; nonché Fiore, C., Oltraggio a un pubblico ufficiale, Postilla di aggiornamento, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1998, 1 s.).
Successivamente, l’opera di demolizione avviata dal Giudice delle leggi era portata a compimento dal legislatore, che, attraverso l’art. 18 l. 25.6.1999, n. 205, abrogava l’intero art. 341 c.p., in quanto ritenuto espressione di una concezione storicamente superata, nell’attuale ordinamento democratico, dei rapporti tra l’autorità amministrativa e i cittadini che con essa interagiscono.
Senonché, la vicenda dell’oltraggio a un pubblico ufficiale si arricchiva di un nuovo “clamoroso” colpo di scena, allorquando il legislatore, tornando sui propri passi dopo appena un decennio dalla citata abrogazione, ha ritenuto di introdurre, per effetto dell’art. 1, co. 8, l. 15.7.2009, n. 94, l’art. 341 bis c.p., con cui è rispuntata, nel nostro ordinamento, la fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale, sulla scia della consueta politica criminale finalizzata a rafforzare la sicurezza dei cittadini ed il rispetto della legalità.
La novella è stata inserita nel corso della prima lettura al Senato della legge, ma dai lavori parlamentari non si evincono le ragioni che avrebbero indotto il legislatore ad un simile singolare ripensamento.
Tale scelta legislativa appare ancor più insolita se solo si pensa che la l. n. 94/2009, inscrivendosi nel solco della tipica legislazione emergenziale volta ad assecondare «bisogni emotivi di pena» alimentati dall’informazione di massa, è dedicata alle misure di contrasto all’immigrazione clandestina, che occupa la parte maggiore del testo normativo, alla criminalità organizzata e a quella stradale, nonché alla tutela dei minori e in genere dei soggetti deboli (Leoncini, I., Il c.d. Pacchetto sicurezza 2009, in Studium iuris, 2010, II, 125 ss.). Pertanto, la riesumazione dell’oltraggio a pubblico ufficiale non trova altra spiegazione se non nei termini, a dire il vero simbolici, di una risposta alle esigenze di recupero di prestigio ed autorevolezza delle pubbliche funzioni, da tempo in crescente crisi di credibilità; senonché, sorprende non poco che il ritorno ad una tutela rafforzata dell’onore e del prestigio dei pubblici agenti si affermi in un contesto storico-politico dominato da slogan propagandistici di certo non generosi verso quanti operano nel settore pubblico.
Nella versione precedente alla sua abrogazione, la fattispecie in esame rinveniva il suo fondamento in un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, appariva scontato che lo Stato garantisse una tutela rafforzata dell’onore di chi agisce per lo stesso e subisce la relativa offesa «a causa» delle sue funzioni. In secondo luogo, si riteneva che la tutela penale predisposta dall’art. 341 c.p. rispondesse all’esigenza di evitare che il turbamento psicologico cui può andare incontro il pubblico ufficiale quando subisce offese «a causa», o comunque più genericamente «nell’esercizio» delle funzioni pubbliche, possa alterarne il processo decisionale, dando luogo a scelte sbagliate o ad un’azione incerta ed esitante, con inevitabili riflessi negativi sul buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost. (Pagliaro, A., Oltraggio a un pubblico ufficiale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 2; Bondi, A., Delitti di oltraggio, in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 381 s.; nel medesimo senso, anche prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, Manzini, V., Tratt. dir. pen. it. Nuvolone-Pisapia, V, IV ed., Torino, 1962, 464, 470, 513, 520).
In realtà, nell’economia della fattispecie, il concetto di «prestigio» assumeva un ruolo decisivo, in quanto, a seconda della ricostruzione che se ne accogliesse, la differenza fra l’oltraggio e l’ingiuria si accentuava o si riduceva, rendendo, in quest’ultimo caso, più incerta la giustificazione, sul piano politico-criminale, di una tutela rafforzata dell’onore del pubblico agente.
In tal senso, la differenza fra le due ipotesi delittuose a confronto si coglieva attribuendo al prestigio una connotazione oggettiva, così differenziandolo dall’«onore-decoro», tradizionalmente concepito come «sentimento» del proprio valore sociale (Antolisei, F., Manuale di diritto penale, pt. spec., I, XIII ed., Milano, 1999, 209 ss.); in quest’ultima prospettiva, il prestigio era identificato ora con la reputazione o estimazione di cui il pubblico ufficiale gode presso gli altri (Santoro, A., Manuale di diritto penale, pt. spec., II, Torino, 1962, 359), ora con un bene di pertinenza della pubblica funzione, che attiene alla dignità ed al rispetto, da cui essa deve essere circondata (Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, pt. II, Roma, 1929, 149; Maggiore, G., Diritto penale, II, Parte speciale: delitti e contravvenzioni, 1, Bologna, 1950, 201; Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, agg. da P. Nuvolone, V, V ed., Torino, rist. 1986, 511).
Secondo una prospettiva ermeneutica, invece, più aderente al tenore letterale della disposizione, sembrava più corretto attribuire il bene del prestigio ai soggetti offesi e non già alla pubblica funzione; ciò in quanto non poteva trascurarsi l’assenza, nella struttura delle fattispecie di oltraggio, dell’elemento essenziale della comunicazione con più persone, che rendeva improbabile l’assimilazione del prestigio alla reputazione; inoltre, la necessaria presenza dell’offeso nella struttura della fattispecie rendeva problematico riferire il prestigio alla pubblica funzione, poiché l’ipotesi delittuosa di oltraggio non è assimilabile alle fattispecie di vilipendio, dovendosi in queste ultime prescindere dalla necessaria presenza della persona offesa.
Assegnando pertanto alla nozione di «prestigio» una connotazione specifica rispetto a quella di «decoro», in modo da identificarla con quelle qualità personali che sono presumibili nel soggetto per il fatto di essere investito di una determinata pubblica funzione, il prestigio della pubblica funzione diveniva oggetto di tutela riflessa rispetto all’offesa strumentale riferita, in prima battuta, alle persone fisiche oltraggiate (Palazzo, F.C., Oltraggio, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 850 s.). Ne risultava così ribaltata la posizione tradizionale secondo la quale l’oggetto specifico della tutela penale coincideva con l’interesse al normale funzionamento e con il prestigio della pubblica amministrazione, mentre il rispetto delle persone fisiche che la rappresentano assurgeva ad oggetto di tutela riflessa (Manzini, V., Trattato, cit., 508).
A ben vedere, la prima prospettiva tendeva ad abbattere la distanza tra l’offesa tipica dell’oltraggio e quella dell’ingiuria, mentre la seconda, concentrando la propria attenzione prevalentemente sul concetto di prestigio della pubblica amministrazione, legittimava i dubbi da più parti espressi sulla meritevolezza di tutela di quest’ultimo interesse, proprio perché privo di referenti a livello costituzionale (Bricola, F., Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, 563 ss., ora anche in Bricola, F., Scritti di diritto penale, II, 1, Milano, 1997, 2389). Si comprende, dunque, il motivo per cui già da tempo la dottrina poneva in risalto la contraddizione di fondo tra la tutela privilegiata del prestigio del pubblico ufficiale predisposta dall’art. 341 c.p. e i principi di uguaglianza e pari dignità sociale consacrati nella Costituzione repubblicana (Flora, G., Il problema della costituzionalità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, in Arch. giur., 1976, 55 ss.; Pedrazza Gorlero, M., Il «tono» dell’espressione verbale: un nuovo limite alla libertà di pensiero?, in Giur. cost., 1972, 775 ss.); contrasto altresì ravvisato con il principio di libera manifestazione del pensiero (Guerrini, R., Osservazioni sulla legittimità costituzionale dell’art. 341 c.p., in Arch. pen., 1973, I, 127, 140; qualche perplessità in Mantovani, F., I reati di opinione, in Il Ponte, 1971, 211), o quantomeno con lo spirito della Costituzione e con ogni valutazione di opportunità politica (Mantovani, F., op. cit., 216 ss.).
La Corte costituzionale, chiamata più volte ad esprimersi sulla legittimità costituzionale dell’oltraggio a un pubblico ufficiale, aveva salvato la norma, in un primo momento, da censure di irragionevolezza (C. cost., 2.7.1968, n. 109, in Arch. pen., 1969, II, 105; sent. n. 165 del 1972; sent. n. 51 del 1980; nonché di violazione del principio di proporzione in relazione alla finalità rieducativa della pena, ord. n. 323 del 1988; ord. n. 127 del 1989), sia pure invitando il legislatore ad una revisione della norma, mentre, successivamente, era pervenuta ad una pronuncia con cui, pur conservando la previsione dell’art. 341 c.p. ed appuntando la sua attenzione soltanto sul profilo del trattamento sanzionatorio, non aveva potuto fare a meno di riconoscere che «la previsione di sei mesi di reclusione come minimo della pena e quindi come pena inevitabile anche per le più modeste infrazioni non è consona alla tradizione liberale italiana né a quella europea», bensì «appare piuttosto come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini» (C. cost., 25.7.1994, n. 341, cit.).
La Corte, dunque, perveniva alla declaratoria di incostituzionalità sulla base di una ricostruzione che esaltava la tutela del prestigio, non senza tralasciare, però, l’opinabilità, nel contesto storico del momento, di una tutela penale rivolta in tal senso. E poiché il bene giuridico tutelato in via primaria, anche se non esclusiva, dall’art. 341 c.p. era costituito dal prestigio della pubblica amministrazione, mentre nell’ipotesi di offesa recata «a causa» delle funzioni il fatto era, perlomeno soggettivamente, diretto proprio contro le funzioni medesime più che contro la persona dell’offeso, nel caso di offesa arrecata per motivi privati, anche se contestualmente all’esercizio della funzione, il contenuto offensivo del fatto non si differenziava da quello tipico dell’ingiuria. Conseguentemente, solo nella prima ipotesi la maggior gravità della pena poteva essere fondata sull’esigenza di tutelare un bene giuridico ulteriore rispetto a quello della dignità sociale della persona fisica direttamente raggiunta dall’offesa (in tal senso, anche prima della pronuncia della Corte, v. Palazzo, F.C., Ingiuria, oltraggio ed uguaglianza dei cittadini, in Giur. it., 1971, II, 21 ss.).
Non sfugge, invero, che, a prescindere dall’opzione ermeneutica che si fosse ritenuto di preferire, i problemi di compatibilità col principio di ragionevolezza e col nuovo quadro di valori costituzionali non avevano trovato risposta neppure a seguito dell’abrogazione dell’art. 341 c.p., ponendosi i medesimi problemi relativamente alle residue ipotesi di oltraggio rimaste in vigore (v. Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione: I delitti dei privati, Le qualifiche soggettive pubblicistiche, III ed., Milano, 2008, 76; Seminara, S., Sub art. 342, in Comm. breve Cod. pen. Crespi-Forti-Zuccalà, V ed., Padova, 2008, 835 s.; Perdonò, G.L., Oltraggio, in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., Trattato di diritto penale, pt. spec., II, I delitti contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 637 ss.).
2.2 La composizione del contrasto giurisprudenziale in ordine agli effetti dell’abrogazione del reato di oltraggio
La fattispecie di cui all’art. 341 c.p. ha sempre racchiuso in sé una contraddizione insuperata, evidenziata dalla stessa Corte costituzionale; quest’ultima, infatti, da un lato, aveva riconosciuto l’autonomia offensiva dell’oltraggio affermando che la plurioffensività del reato rendesse ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all’ingiuria; dall’altro lato, premesso il richiamo a criteri operanti su di un piano sostanziale-sociologico-fattuale, come quello della «coscienza sociale», aveva ammesso un’implicita duplicazione dell’oggettività giuridica della fattispecie di oltraggio, in funzione del grado di offensività che il comportamento oltraggioso presentasse in concreto: il prestigio della pubblica amministrazione, nei casi più gravi; il prestigio delle singole persone che incarnano la pubblica funzione, nei casi più lievi. Tant’è che si era rilevata l’opportunità, sulla scia di tali premesse, di estendere le considerazioni svolte sul piano delle condotte meno gravi all’intera gamma dei possibili comportamenti oltraggiosi (Fiandaca, G., op. cit., 2587; Maizzi, P., Minimo edittale della pena per il delitto di oltraggio e principio di proporzione, in Giur. cost., 1995, 1101; Del Gaudio, M., La difesa del principio di autorità nell’ordinamento democratico attraverso l’oltraggio, in Riv. pen. econ., 1995, 54 e 59; contra: Curi, F., L’attività «paralegislativa» della Corte costituzionale in ambito penale: cambia la pena dell’oltraggio a pubblico ufficiale, ibidem, 1099, per la quale la tutela differenziata della p.a. corrisponde ad una «necessità insopprimibile dello Stato democratico»).
A seguito dell’abrogazione degli artt. 341 e 344 c.p. era sorto un vivace contrasto, in dottrina ed in giurisprudenza, in ordine agli effetti di tale intervento legislativo sul piano dei rapporti intertemporali. Si era reso, infatti, necessario valutare se l’abrogazione delle predette disposizioni avesse dato luogo ad un’abolizione (Cass. pen., 14.10.1999, Ghezzi, in Cass. pen., 2000, 1614; Cass. pen., 28.1.2000, Marini, in Foro it., II, 2000, 595; Cass. pen., 10.3.2000, Piccolo, ibidem, 594, entrambe con nota critica di Giammona, G., Questioni di diritto transitorio in seguito all’abrogazione del delitto di oltraggio, 603) oppure ad un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo in relazione al delitto di ingiuria aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale (Cass. pen., 11.4.2000, Speranza, in Foro it., 2000, II, 593, con nota adesiva di G. Giammona, cit.; nonché in Giur. it., 2000, 1895, con nota parzialmente adesiva di Spagnolo, G., Le sentenze di condanna per oltraggio tra abolitio criminis e successione di leggi nel tempo; Cass. pen., 11.4.2000, Hattab, in Cass. pen., 2000, 3025, con nota adesiva di Bisori, L., L’abrogazione dell’oltraggio tra abolitio criminis e successione di leggi incriminatrici; Cass. pen., 14.7.1999, Sinistra, in Dir. pen. e processo, 1999, 1423; Cass. pen., 26.4.2000, Saoud, in CED Cass. pen., n. 216039), non potendosi revocare in dubbio che l’abrogazione dei due oltraggi non escludeva l’illiceità penale dell’offesa arrecata all’onore o al decoro del pubblico ufficiale, che, in quanto riconducibile alla fattispecie di cui agli artt. 594 e 61, n. 10, c.p., era punibile a querela della persona offesa (Cass. pen., 2.12.1999, Licata, in CED Cass. pen., n. 215474; Cass. pen., 17.10.2001, Greppi, ivi, n. 220281; in dottrina Giunta, F., Abrogazione dell’oltraggio e procedibilità dei giudizi pendenti, in Dir. pen. e processo, 1999, 1424 ss.; Giammona, G., Questioni di diritto transitorio, cit., 593 ss.; Carcano, D., Abrogazione del delitto di oltraggio: una lenta e dolorosa agonia dovuta al divieto di eutanasia giuridica, in Cass. pen., 2000, 1605 ss.).
Il contrasto era stato risolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. pen., S.U., 27.6.2001, Avitabile, in Cass. pen., 2002, 482 ss., con nota critica di Lazzari, C., L’abrogazione del reato di oltraggio: la parola delle Sezioni unite), secondo cui l’abrogazione degli artt. 341 e 344 c.p., ad opera dell’art. 18 della l. n. 205/1999, assumeva il significato di un’abolitio criminis e, perciò, spiegava i suoi effetti oltre il limite del giudicato, attraverso la revoca della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 673 c.p.p. da parte del giudice dell’esecuzione. Nel ragionamento della Corte, il giudice dell’esecuzione non avrebbe potuto riqualificare il fatto di oltraggio come ingiuria aggravata ai sensi degli artt. 594 e 61, n. 10, c.p., non potendo modificare l’originaria qualificazione del fatto o accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto dalla sentenza; tuttavia, avrebbe potuto riqualificare il fatto qualora avesse riscontrato anche tutti gli elementi dell’ingiuria e la previa proposizione della querela (in senso critico, cfr. Romano, M., op. cit., 79; Lazzari, C., op. cit., 502; Perdonò, G.L., Oltraggio, cit., 650 s.).
3. Il ritorno dell’oltraggio a pubblico ufficiale
3.1 Un esame delle caratteristiche strutturali
Come già accennato, la reintroduzione dell’oltraggio a un pubblico ufficiale ad opera dell’art. 1, comma 8 della l. n. 94/2009 ha riproposto la questione dell’opportunità e plausibilità, in un’ottica costituzionalmente orientata, della tutela penale del prestigio della pubblica amministrazione e delle persone ad essa organicamente collegate, con tutti i dubbi che discendono sull’attualità di una tale prospettiva, soprattutto in una fase storica caratterizzata da profonde trasformazioni, in cui il modello dell’amministrazione concepita come funzionalmente rivolta a dare esecuzione alle leggi ed alle decisioni politiche adottate dall’alto lascia il campo ad un’amministrazione partecipata e di risultati, nella quale questi ultimi costituiscono il frutto di tentativi successivi e della collaborazione di più soggetti istituzionali.
In realtà la nuova incriminazione dell’oltraggio a pubblico ufficiale presenta non poche differenze strutturali rispetto alla precedente formulazione dell’art. 341 c.p. In primo luogo, non è prevista una disposizione incriminatrice posta a tutela del pubblico impiegato incaricato di un pubblico servizio, nonostante quello dei servizi pubblici – pubblica o privata che sia la natura dei soggetti cui viene affidata la gestione ed a prescindere dalle modalità con cui l’affidamento si realizzi – costituisca un settore in espansione in cui più diretta è l’interazione con il pubblico e maggiore l’esposizione al pericolo di subire offese dall’utenza.
In secondo luogo, a fronte di una condotta rimasta essenzialmente immutata, in quanto tuttora incentrata sull’offesa arrecata, con qualsiasi modalità aggressiva (offesa verbale, reale, cioè realizzata con gesti, imbrattamenti, suoni oltraggiosi, e risate; offesa arrecata non solo di propria mano, ma anche attraverso terze persone; offesa indiretta ed obliqua, ma non in forma omissiva ex art. 40 cpv. c.p.: in tal senso Pagliaro, A., Oltraggio a un pubblico ufficiale, cit., 3 s.; Amato, Gius., La prova della verità del fatto fa cadere l’accusa, in Guida dir., 2009, fasc. 33, 57 s., che menziona, a proposito dell’oltraggio reale, l’ipotesi dello sputo e quella dello «stracciare» platealmente l’atto, come la contravvenzione, il verbale, ecc., redatto dal pubblico ufficiale) all’onore e al prestigio di un pubblico ufficiale, novità più rilevanti si riscontrano in relazione ai presupposti della condotta incriminata, dal momento che la punibilità dell’oltraggio è attualmente prevista solo se la condotta è commessa in luogo pubblico o aperto al pubblico ed alla presenza di più persone, situazione, quest’ultima, che la precedente fattispecie considerava solo quale circostanza aggravante.
La disposizione incriminatrice di cui al nuovo art. 341 bis c.p. non prevede espressamente che il reato venga commesso in presenza del pubblico ufficiale, ma tale condizione sembra in realtà implicitamente richiesta, laddove la necessità che l’offesa sia rivolta al pubblico ufficiale mentre compie un atto del suo ufficio non può prescindere dalla presenza dell’offeso (cfr. Bricchetti, R.-Pistorelli, L., Ritorna l’oltraggio a pubblico ufficiale, in Guida dir., 2009, fasc. 33, 51; Amato, Gius., La prova, cit., 58).
Una novità di rilievo non secondario è costituita dall’assenza, fra le modalità offensive, della punibilità dell’oltraggio commesso mediante comunicazione telegrafica o telefonica, ovvero con scritti o disegni diretti al pubblico ufficiale, contrariamente a quanto contemplato dal secondo comma dell’abrogato art. 341 c.p. Tale novità, a ben considerare, appare invero il riflesso della scelta del legislatore di restringere la rilevanza penale delle condotte commesse in presenza di più persone, situazione difficilmente compatibile con le comunicazioni a distanza e rivolta a rafforzare la proiezione offensiva in danno del decoro della funzione. Con evidenti conseguenze sul piano pratico, laddove si elimina in radice il rischio che la condanna si basi sulle sole dichiarazioni del pubblico ufficiale, essendo richiesto che l’offesa sia percepita anche da altri (Bricchetti, R.-Pistorelli, L., op. cit., 52).
Tra i presupposti della condotta spicca, come già accennato, la necessaria commissione del fatto di reato in luogo pubblico o aperto al pubblico. Il primo coincide con i luoghi nei quali, come avviene per la pubblica via, chiunque può introdursi e circolare senza limitazioni di sorta, tanto meno di orario.
Il secondo, invece, si caratterizza per la possibilità riconosciuta ad un numero indifferenziato di soggetti di accedervi a determinate condizioni, magari di orario, come avviene per il locale pubblico, oppure frequentabile da una determinata categoria di persone che abbiano specifici requisiti, come accade in relazione ad un circolo privato.
Non è requisito di fattispecie, infine, che l’offesa sia percepita in modo effettivo e consapevole nel suo significato lesivo dal pubblico ufficiale, né tanto meno da parte dei presenti, senza i quali il reato non è nemmeno configurabile, essendo sufficiente la mera ricezione. Così facendo, però, il delitto assume le caratteristiche del reato posto a tutela della reputazione del pubblico ufficiale, oppure del prestigio della pubblica amministrazione di appartenenza dell’operatore pubblico, in quanto l’offesa viene a caratterizzarsi in termini di pericolo, con evidenti riflessi, che si approfondiranno di seguito, sul piano dell’oggetto di tutela.
3.2 L’aggravante speciale dell’attribuzione di un fatto determinato e l’exceptio veritatis; l’effetto estintivo collegato alla riparazione del danno
La nuova incriminazione di oltraggio non prevede, a differenza della fattispecie in vigore fino al 1999, l’aggravante del fatto commesso con violenza o minaccia; tuttavia, ripropone, al secondo comma, l’aggravante (speciale ad effetto comune) dell’offesa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, contemplato, come aggravante speciale ad effetto speciale, dal terzo comma dell’art. 341 c.p. abr.; inoltre, rimedia ad una delle lacune che maggiormente rivelavano l’ispirazione autoritaria del vecchio oltraggio, che non prevedeva, a differenza dell’art. 596, co. 3, n. 1, c.p., l’accesso alla prova liberatoria nell’ipotesi in cui ingiuria e diffamazione siano commesse ai danni del pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisca all’esercizio delle sue funzioni. Invero, sebbene un orientamento tradizionale (Manzini, V., Trattato di diritto penale italiano, agg. da Pisapia, G., VIII, V ed., Torino, 1985, 594; nonché, in giurisprudenza, Cass. pen., 5.11.1980, in CED Cass. pen., 146479) escludesse la possibilità di applicare anche ai delitti di oltraggio l’exceptio veritatis introdotta insieme alla causa di non punibilità della reazione legittima agli atti arbitrari del p.u., non erano mancate posizioni di segno differente che, ritenendo la prova della verità espressione di un principio generale di matrice democratica (Romano, M., op. cit., 83 s.), ovvero assorbita nella più ampia portata del diritto di critica di cui al combinato disposto degli artt. 51 c.p. e 21 Cost. (Palazzo, F.C., Oltraggio, cit., 873), avevano anticipato quanto ormai il legislatore ha definitivamente sancito in via esplicita.
Sul piano pratico, l’exceptio veritatis presuppone che il fatto determinato cui si ricollega sia individuato nelle sue specifiche modalità e circostanze di tempo e luogo, mentre qualche perplessità è stata avanzata sia per quanto riguarda la possibilità di invocare, in caso di errore più o meno incolpevole, l’art. 59, co. 4, c.p. sulla rilevanza del putativo, sia per ciò che concerne i riflessi derivanti dall’introduzione di un «processo nel processo» per l’accertamento della verità del fatto addebitato; senza considerare che il riferimento alla rilevanza della verità del fatto accertata in diversa sede processuale con la condanna del pubblico ufficiale, in assenza di una specifica indicazione di un limite temporale entro cui tale accertamento opererebbe, non potrebbe travolgere, in sede esecutiva, il giudicato formatosi in materia di oltraggio, ma potrebbe esclusivamente consentire il ricorso alla revisione ex art. 630, co. 1, lett. a), c.p.p. (per tali riflessioni, cfr. Amato, Gius., La prova, cit., 59).
Il co. 3 dell’art. 341 bis c.p. prevede l’operatività di una causa di estinzione del reato ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa, che nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima. Si tratta di una soluzione che rinviene un proprio precedente con riferimento ai reati riconducibili alla competenza penale del giudice di pace, fra cui rientra l’ingiuria, con la differenza che il giudice ordinario, alla cui competenza appartiene l’oltraggio, non è tenuto a sentire le parti per dichiarare l’estinzione del reato, né la norma chiarisce la natura e l’ampiezza del potere di controllo dell’autorità giudiziaria, soprattutto in caso di rifiuto ingiustificato del risarcimento. Senonché, in analogia a quanto disciplinato dall’art. 35 d.lgs. 28.8.2000, n. 274, che prevede la positiva valutazione del giudice di merito non solo in ordine alla congruità dell’intervenuto risarcimento, ma anche sull’idoneità delle attività risarcitorie e riparatorie a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione, tale conclusione appare l’unica rispondente, anche in materia di oltraggio, ad un’interpretazione ragionevolmente e costituzionalmente orientata (Amato, Gius., Danno riparato se l’offesa viene risarcita, in Guida dir., 2009, fasc. 33, 60 s., il quale pone altresì in rilievo la difficile compatibilità della riparazione rispetto ad un reato di mera condotta, nonché alcuni problemi di tipo applicativo, come, ad esempio, la carenza di indicazioni in merito all’individuazione del rappresentante in grado di impegnare l’ente esprimendo la volontà di accettare il risarcimento).
3.3 Alcune considerazioni conclusive
La fattispecie prevista dall’art. 341 bis c.p. avrebbe natura plurioffensiva, come si evince dalla previsione del doppio risarcimento nei confronti della persona e dell’ente di appartenenza, nonché dal duplice collegamento tra l’onore del p.u., afferente alle qualità morali, ed il prestigio, da intendersi come intimamente connesso alla funzione, più che alla persona fisica che la svolge, e tra l’offesa e le funzioni, come dimostrerebbe altresì la necessaria commissione del fatto in luogo pubblico o aperto al pubblico, la presenza di più persone e, infine, la contestualità tra l’offesa ed il compimento dell’atto (Amato, Gius., La prova, cit., 56 s.).
Senonché, restano invariati i dubbi espressi al tempo dell’art. 341 c.p., in quanto la rilevanza dell’offesa arrecata non solo a causa dell’esercizio, ma anche nell’esercizio delle funzioni, rivela piuttosto una prospettiva di tutela che, potendo la condotta incriminata prescindere dal riferimento alla funzione, finisce per investire, nelle ipotesi meno gravi, solo l’onore e la reputazione della persona fisica, e non necessariamente l’andamento dell’azione amministrativa, rispetto alla quale l’offesa appare solo eventuale ed indiretta. Pur volendo propendere, infatti, per un’interpretazione restrittiva, che escluda dall’ambito di applicazione della fattispecie di nuovo conio le offese aventi un riflesso esclusivamente privato, permangono le perplessità per la reintroduzione di un reato che, concorrendo, secondo l’orientamento giurisprudenziale costante (Cass. pen., 11.12.1962, in Giust. pen.,1963, 289), con le ipotesi di violenza o resistenza a un pubblico ufficiale (artt. 336 e 337 c.p.), e ciò a maggior ragione oggi che non è più riproposta l’aggravante dell’uso della violenza o della minaccia, è destinato ad accentuare i dubbi sul rispetto del principio di ragionevolezza e di proporzione della pena, il cui limite edittale massimo, infatti, è addirittura più alto di quello stabilito dalla versione abrogata nel 1999 (Bricchetti, R.-Pistorelli, L., op. cit., 52).
Fonti normative
Art. 341 bis c.p.
Bibliografia essenziale
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