Abstract
La reintroduzione dell’oltraggio a pubblico ufficiale, dopo la bagatellizzazione dell’oltraggio corporativo, introduce nuovi profili di irragionevolezza nei rapporti fra le diverse fattispecie di oltraggio.
1. Premesse storiche e interesse tutelato
Il codice Zanardelli del 1889, che aveva attinto agli artt. 258, 259 e 260 del codice penale sardo-italiano del 1859, dedicava gli artt. 194-200 alle fattispecie di oltraggio.
In particolare, per quanto concerne l’oltraggio corporativo, esso era disciplinato dall’art. 197, che sostanzialmente corrispondeva, salve alcune modificazioni, all’attuale art. 342, ma con l’importante differenza di comprendere anche l’oltraggio a un magistrato in udienza. L’art. 197, infatti, puniva con la reclusione da tre mesi a tre anni chiunque, con parole od atti, offende in qualsiasi modo l’onore, la riputazione o il decoro di un Corpo giudiziario o politico o amministrativo, al suo cospetto, o di un magistrato in udienza.
Il secondo comma dell’art. 197 prevedeva una circostanza aggravante ad effetto speciale limitata alla sola ipotesi in cui si usi violenza o si faccia minaccia contro il Corpo o il magistrato.
Infine, l’ultimo capoverso dell’art. 197 prevedeva che si procedesse contro l’autore del fatto dietro autorizzazione del Corpo offeso, oppure, in caso di Corpi non costituiti in collegio, dietro autorizzazione del loro Capo gerarchico. Come si evince dal quadro testé prospettato, fin dal codice Zanardelli ha prevalso l’opzione legislativa di tutelare il prestigio della pubblica amministrazione e dei suoi organi collegiali, sulla scorta di una ritenuta maggiore gravità dell’offesa, rivolta direttamente contro un organo dello Stato, invece che contro le singole persone che lo costituiscono, che dovrebbero rimanere, invece, sullo sfondo.
Secondo la concezione tradizionale, infatti, oggetto specifico della tutela penale approntata dalla norma incriminatrice in esame è l’interesse concernente il normale funzionamento e il prestigio della pubblica amministrazione in senso lato, in quanto conviene garantire il rispetto dovuto ai Corpi, alle loro rappresentanze e ai collegi che esercitano pubbliche funzioni contro le offese morali ad essi recate in loro presenza o in modo equiparato (Manzini, V., Tratt. dir. pen. it. Nuvolone-Pisapia, V, V ed., Torino, rist. 1986, 553). Nella prospettiva indicata, anche l’oltraggio corporativo assume natura plurioffensiva, in cui le offese subite a causa dell’esercizio delle funzioni possono determinare un’alterazione del processo decisionale dei soggetti che compongono il corpo politico, amministrativo o giudiziario e condurre a decisioni sbagliate, con conseguente pregiudizio per la dignità ed il rispetto da cui la funzione pubblica deve essere circondata (Pagliaro, A., Principi, Parte speciale, Delitti contro la pubblica amministrazione, I, IX ed., Milano, 2000, 379; Bondi, A., Delitti di oltraggio, in Bondi, A.-Di Martino, A.-Fornasari, G., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, 381 s.; in giurisprudenza, Cass. pen., 18.10.1963, in Cass. pen. Mass., 1964, 231).
La predetta tutela qualificata rendeva ragione, almeno per il legislatore del ’30, della sanzione più elevata rispetto a quella predisposta dall’art. 341 c.p.; la sanzione dell’oltraggio di cui all’art. 342 c.p., invero, dopo la sentenza n. 341/1994 della Corte costituzionale (C. cost., 25.7.1994, n. 341, in Foro it., 1994, I, 2585 ss., con nota di G. Fiandaca), era divenuta più elevata non solo nel massimo, dal momento che la Corte aveva escluso l’estensione della suddetta pronuncia all’oltraggio c.d. corporativo (C. cost., 12.7.1995, n. 313, in Riv. pen., 1996, 27 ss.; C. cost., 20.5.1996, n. 162, in Cass. pen., 1996, 3236), ma anche nel minimo. Senonché, non era agevole dar conto della pena eguale, prima della modifica intervenuta con la l. 25.6.1999, n. 205, sia nel minimo che nel massimo, a quella del vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate di cui all’art. 290 c.p., nel cui ambito non compare l’elemento del «cospetto» (Romano, M., I delitti contro la pubblica amministrazione: I delitti dei privati, Le qualifiche soggettive pubblicistiche, III ed., Milano, 2008, 81). La modifica normativa, invece, ha sostituito la reclusione «da sei mesi a tre anni», con quella «fino a tre anni», dovendosi richiamare il minimo di quindici giorni stabilito dall’art. 23, co. 1, c.p.
Senonché, anche con riferimento alla figura di oltraggio in esame non sono mancate le puntuali critiche della dottrina, la quale ha sollevato fondati dubbi in ordine alla legittimità costituzionale della norma affermando che essa contrasta col diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, in quanto nega di fatto all’imputato e al suo difensore la possibilità di incidere criticamente sull’operato del giudice procedente, limitando gli spazi per detta critica alla sola fase del gravame (Ichino, G., La c.d. parità delle armi, l’«oltraggio alla corte» e l’esercizio del diritto di difesa nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1979, 1360). La contraddizione è ancor più evidente anche a seguito del processo di bagatellizzazione subito dalla disposizione per effetto dell’intervento della l. 24.2.2006, n. 85, che ha sostituito la pena detentiva con quella pecuniaria compresa fra € 1.000 e € 5.000, con ciò integrando la situazione tipica prevista dal novellato art. 2, co. 3, c.p., che consente, in caso di successione di leggi nel tempo, con sostituzione di una pena detentiva con una pecuniaria, di travolgere perfino il giudicato (Seminara, S., Sub art. 342, in Comm. breve Cod. pen. Crespi-Forti-Zuccalà, V ed., Padova, 2008, 835 s.).
Poiché la disposizione in esame prevede un reato comune, che può essere commesso tanto da un privato, quanto da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, l’offesa assume penale rilevanza anche se proveniente da questi ultimi, non essendo invece condivisibile la distinzione, pure operata dalla dottrina più risalente, tra l’ipotesi in cui l’offeso e l’offensore attendano a compiti diversi e quella in cui appartengano allo stesso ufficio (Pagliaro, A., op. cit., 382; Mercolino, G., Oltraggio a un Corpo politico amministrativo o giudiziario, in Lattanzi, G.-Lupo, E., diretto da, Codice penale, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, III, Milano, 2005, 438). Se il rapporto di colleganza non è infatti idoneo ad escludere il turbamento emotivo destinato a riverberarsi sulle decisioni che si formano nell’ambito dell’amministrazione, risulta comunque opportuno precisare che, data la collocazione della norma nel capo II, dedicato ai delitti dei privati contro la p.a., l’agente deve essere estraneo al corpo o alla rappresentanza o alla pubblica autorità in genere (Romano, M., op. cit., 81), salva l’eventuale applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 9, c.p. (in giurisprudenza, cfr. Cass. pen., sez. VI, 7.7.1999, Di Figlia, in Riv. pen., 1999, 870; in Cass. pen., 2000, 903, con nota adesiva di Nuzzo, F., L’offesa rivolta alla giunta, durante una seduta del Consiglio comunale, non integra il reato di oltraggio a corpo amministrativo, 904 ss.).
Soggetto passivo del reato è un corpo politico, amministrativo o giudiziario, una rappresentanza di esso o una pubblica Autorità costituita in collegio, non essendo, infatti, configurabile alcuna responsabilità nei confronti di soggetti diversi da quelli costituiti in collegio (Cass. pen., 16.2.2000, Salemi, in Giur. it., 2001, 351).
Se l’estensione della nozione di corpo politico è piuttosto ridotta, in quanto quest’ultimo, pur riferendosi ad organismi che svolgono una funzione politica, non comprende il Parlamento, le Assemblee regionali, il Governo, potendo eventualmente le offese a tali organi essere qualificate come vilipendio ai sensi dell’art. 290 c.p., deve concludersi nel senso che la norma in esame si riferisce essenzialmente alla denigrazione di commissioni ed uffici appartenenti a tali organi, ovvero ad organi politici particolari, quali i componenti dei seggi elettorali nell’esercizio delle loro funzioni.
Per Corpo amministrativo, invece, s’intendono i collegi che svolgono attività amministrativa, come il Consiglio di Stato e la Corte dei conti in sede non giurisdizionale, ovvero i Consigli degli ordini professionali (è invece irrilevante che l’organo sia costituito in modo da poter validamente deliberare, così come la circostanza che manchi il numero legale o che l’offesa sopravvenga quando il presidente ha già dichiarata sciolta la seduta: Manzini, V., op cit., 556; Casalbore, G., Oltraggio e altre offese all’autorità, in Dig. pen., VIII, Torino, 1994, 473; Fiandaca, G.-Musco, E., Diritto penale, pt. spec., I, IV ed., Bologna, 2007, 301).
Sono Corpi giudiziari, infine, tutti i collegi giurisdizionali, permanenti o temporanei, comuni o speciali, come i tribunali, le corti d’appello o la Corte di cassazione (Mercolino, G., op. cit., 439).
Accanto agli organi testé indicati, la norma incriminatrice ricomprende anche le rappresentanze dei corpi, da intendersi come quegli organi pubblici costituiti in forza di legge e per designazione dei corpi stessi, e formati per lo più con elementi tratti dal loro seno, purché aventi struttura collettiva. Un’eccezione significativa rispetto alla tendenza a tutelare organi collettivi è prevista con riferimento alle «rappresentanze», per le quali è ammissibile una struttura individuale (Romano, M., op. cit., 82).
Autorità costituite in collegio sono, infine, gli organi investiti di funzioni deliberative o consultive, esercitabili solo collegialmente, come, per esempio, le commissioni esaminatrici di concorsi pubblici (Nuzzo, F., op. cit., 904).
A titolo di esempio, si esclude che integrino la nozione di «corpi» un comando di vigili del fuoco, o una sezione di polizia stradale, o un reparto della «Celere» (Cass., 13.12.1963, in Giust. pen., 1964, II, 675), o ancora un comando dell’Arma dei carabinieri (in giurisprudenza, esclusa la configurabilità di un «corpo» in caso di presenza sparsa e dispersa tra la folla di diversi appartenenti ad esso, ad esempio per un servizio d’ordine, si è affermato che integrerebbe tale nozione un reparto organico schierato o adunato in una cerimonia o per l’adempimento di funzioni proprie (Cass. pen., 31.8.1994, n. 199527, cit. in Romano, M., op. cit., 82).
2.2 La condotta e l’alternativa fra l’offesa al cospetto e la comunicazione telegrafica, o con scritto o disegno
I delitti di oltraggio sono delitti a forma tendenzialmente libera, in cui la condotta è descritta in termini causali, con riferimento al risultato da essa prodotto. Tale risultato consiste nell’offesa all’onore o al prestigio del «corpo», non essendo sufficiente offendere l’onore o il prestigio dei singoli pubblici ufficiali che lo compongono (Cass. pen., 3.12.1996, Rizzi, in Cass. pen. Mass., 1996, 207865; Cass. pen., 2.4.1986, Conte, in Cass. pen., 1987, 1523), anche se, di regola, l’offesa ai singoli si estende al «corpo» (Manzini, V., op. cit., 555).
Come già esaminato in merito all’oltraggio a pubblico ufficiale, accanto ad una linea interpretativa che ricostruisce l’onore ed il prestigio in termini più spiccatamente soggettivi (Pagliaro, A, op. cit., 381; Id., Oltraggio a un pubblico ufficiale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 2 e s.; Palazzo, F.C., Oltraggio, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 850; Mercolino, G., op. cit., 440), non manca una diversa impostazione che intende l’onore in senso oggettivo, vale a dire, traendo spunto dalle riflessioni in materia di ingiuria (Musco, E., Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, 154; Manna, A., Tutela penale della personalità, Bologna, 1993, 67 ss.; Id., Beni della personalità e limiti della protezione penale, Padova, 1989, 221; Salcuni, G., Onore (delitti contro), in Cassese, S., diretto da, Dizionario di diritto pubblico, IV, Milano, 2006, 3933 ss.), come l’insieme delle qualità morali di cui è dotata una persona, o meglio, nel caso in esame, di cui è dotato il Corpo politico, amministrativo o giudiziario, ed il prestigio come quella particolare forma di decoro che attiene alla dignità e al rispetto da cui la pubblica funzione deve essere circondata (Seminara, S., op. cit., 989; Pittaro, Sub art. 342, in Padovani, T., a cura di, Codice penale, III ed., Milano, 2005, 1634).
Si è inoltre già sottolineato il carattere problematico della condotta, laddove, pur potendo essere integrata da un’espressione, un gesto o un segno variamente valutabile secondo parametri socio-normativi mutevoli nel tempo, nello spazio, nelle situazioni ambientali ed interpersonali, incerta appare l’ammissibilità di un comportamento omissivo che si manifesti nella forma, ad esempio, di un deliberato, insistito, ostentato tenere il cappello davanti al collegio riunito in segno di disprezzo, oppure di palese e pesante dileggio o irrisione (Romano, M., op. cit., 82).
La soluzione relativa alla configurabilità in forma omissiva del delitto in esame è sicuramente condizionata dalla sua ricostruzione come reato di mera condotta, oppure come fattispecie in cui è ravvisabile un evento (di pericolo) coincidente con la percezione (Romano, M., op. cit., 87; ritiene invece che sia sufficiente la mera percepibilità, per un uomo normale, Pagliaro, A., Oltraggio, cit., 4) dell’offesa quale condizione cui ricollegare l’eventuale turbamento dell’attività della pubblica amministrazione (Bondi, A., op. cit., 382 e 384).
La norma incriminatrice in esame prevede che l’offesa sia arrecata «al cospetto» del soggetto passivo. L’espressione è simile, ma non identica, al requisito della «presenza» di cui all’art. 341 c.p. abr., con la differenza, però, che quest’ultimo presupponeva che il fatto si inserisse in un ambito spaziale tale da consentire al pubblico ufficiale la semplice possibilità di percepire l’espressione oltraggiosa, mentre il «cospetto» richiede la contemporanea presenza, reciprocamente avvertita, nel medesimo luogo, fronte a fronte, dell’offensore e dell’offeso.
Per la sussistenza del reato, non è inoltre necessaria la pubblicità dell’offesa ed è irrilevante il luogo della riunione (Pittaro, P., op. cit., 1635; Cass. pen., 30.6.1994, Marocchini, in Cass. pen., 1996, 107).
Il secondo comma dell’art. 342 c.p. equipara l’offesa arrecata in presenza dell’organo a quella rivolta mediante comunicazione telegrafica, con scritto o disegno, diretti al «corpo», alla «rappresentanza» o al «collegio», a causa delle sue funzioni. Si tratta della cd. “presenza mediata”, la quale non incide sull’unitarietà del reato, in quanto l’elemento specializzante non s’incentra nel collegamento tra l’offesa e le funzioni, ma nei mezzi, non suscettibili di estensione analogica, utilizzati per esternare l’offesa.
Si afferma che, mentre l’ipotesi del «cospetto» presuppone semplicemente la contestualità, ovvero il nesso temporale tra offesa ed esercizio di funzioni, nei casi di cd. presenza mediata occorre una causalità psicologica che non coincide con la semplice “molla” che ha motivato soggettivamente l’offesa, bensì richiede un nesso logico-pertinenziale che concerne l’attività del corpo o rappresentanza, cioè che riguarda le funzioni attuali o pregresse, oppure attese per l’avvenire (Romano, M., op. cit., 89 s.; Manzini, V., op. cit., 519; in giurisprudenza, con riferimento all’art. 341 abr., cfr. Cass. pen., 28.1.1998, in CED Cass. pen., n. 209564; contra Cass. pen., 21.2.1985, Vuotto, in Giust. pen., 1986, 221).
2.3 Le cause di giustificazione
Il comportamento incriminato assume penale rilevanza quando nelle circostanze contingenti in cui è tenuto, per le qualità e i rapporti del soggetto attivo, del destinatario delle espressioni, per il tono usato (Pedrazza Gorlero, M., Il «tono» dell’espressione verbale: un nuovo limite alla libertà di pensiero?, in Giur. cost., 1972, 775), nonché per le cause determinanti, valga a «tenere a vile», a manifestare disprezzo, dileggio, irrisione, o quantomeno aperta, forte disistima nei confronti dell’autorità costituita. Senonché, va segnalato che la censura o la mera critica dell’operato dell’organo offeso non integra gli estremi del delitto in esame, qualora i modi, quand’anche pungenti, non siano oltraggiosi, giacché il rispetto di cui l’autorità deve essere circondata non equivale ad insindacabilità, essendo il diritto di critica e di cronaca, ai sensi dell’art. 21 Cost., valutato con favore negli ordinamenti democratici, quando si traduce in un controllo dei rappresentanti in senso lato dei pubblici poteri (Venturati, P., In tema di libertà di critica e oltraggio a pubblico ufficiale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, 485; in giurisprudenza: Cass. pen., 8.10.1997, Zangrossi, in Cass. pen. Mass., 1997, n. 208615; Cass. pen., 26.6.1997, Fiorelli, ibidem, n. 209323). Ciò nonostante, si ritiene ad ogni modo necessaria l’osservanza di specifici limiti di forma e sostanza, in merito ai quali è possibile estendere le riflessioni maturate in materia di diffamazione con riferimento alla continenza, intesa come proporzione tra il fatto narrato e la significatività della narrazione, all’oggettiva verità o attendibilità del dato o della notizia, nonché alla rilevanza pubblico-sociale della conoscenza dei dati rivelati (Mercolino, G., op. cit., 442, il quale, però, con riferimento al diritto di critica politica, ritiene non operante il limite della verità del fatto attribuito).
Allo stesso modo, in relazione al corpo giudiziario, il bilanciamento degli interessi in gioco va effettuato tra la tutela dei beni dell’onore o del prestigio e il diritto di difesa garantito dall’art. 24, co. 2, Cost. (Ichino, G., op. cit., 1369).
Altro punto controverso è quello rappresentato dalla possibilità di applicare alla fattispecie in questione la norma di cui all’art. 596, co. 3, n. 1, c.p. (Manna, A., Il diritto di cronaca, di critica, di denuncia e la diffamazione, in Cass. pen., 2003, 3600 ss.; Mantovani, F., Fatto determinato, exceptio veritatis e libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1973, passim), che ammette la prova liberatoria della verità del fatto per i delitti contro l’onore, allorché l’offesa riguardi un pubblico ufficiale e il fatto (necessariamente determinato) si riferisca all’esercizio delle sue funzioni. Alla tesi tradizionale, orientata in senso contrario (Manzini, V., Tratt. dir. pen. it. Nuvolone-Pisapia, VIII, V. ed., Torino, 1985, 594; Cass. pen., 5.11.1980, in CED Cass. pen., n. 146479; contra, però, Battaglini, E.-Vassalli, G., a cura di, La nuova legislazione penale, I, Milano, 1946, 87) sulla scorta del dato storico, in quanto il codice Zanardelli espressamente escludeva la possibilità di provare «la verità e neppure la notorietà dei fatti o delle qualità attribuite all’offeso» (art. 199 c.p. 1889), deve in realtà preferirsi quella che ritiene la scriminante dell’exceptio veritatis, introdotta insieme alla causa di non punibilità della reazione legittima agli atti arbitrari del p.u., pacificamente applicabile anche in materia di oltraggi, poiché si deve ritenere che la prova della verità costituisce un principio generale alla luce della progressiva democratizzazione dei rapporti tra cittadini ed autorità nel mutato quadro costituzionale (Romano, M., op. cit., 83 s.; Bondi, A., op. cit., 384 s.; Seminara, S., op. cit., 990). A ciò si aggiunga che lo stesso combinato disposto degli artt. 51 c.p. e 21 Cost. assorbe la disciplina dell’exceptio veritatis per la sua più ampia e generale portata (Palazzo, F.C., op. cit., 873), ma soprattutto la tipizzazione espressa dell’istituto della prova liberatoria, in relazione al nuovo art. 341 bis c.p., sembra ormai aver superato (almeno in via analogica) il contrasto formatosi in precedenza, a meno di non voler ammettere un’ulteriore profilo di irragionevole disparità di disciplina anche fra le diverse tipologie delittuose di oltraggio.
Analoghe considerazioni possono effettuarsi in merito alla questione se sia applicabile, anche in materia di oltraggi, l’art. 598, co. 1, c.p. quale causa di non punibilità per «le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi ad un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo».
Il principio della parità tra le parti, sancito dalla recente riforma dell’art. 111 Cost., giustifica l’estensione analogica dell’art. 598, co. 1, c.p. anche alle fattispecie in esame (Romano, M., op. cit., 84 s.), almeno con riferimento al p.m., in relazione al quale, invero, può escludersi la stessa tipicità del fatto, in quanto difficilmente tale figura può rientrare nella nozione di soggetto passivo precedentemente delineata.
Il delitto, di natura evidentemente dolosa, richiede che il soggetto abbia la consapevolezza del significato obiettivamente offensivo delle espressioni usate (Pittaro, P., op. cit., 1636; Fiandaca, G.-Musco, E., op. cit., 301), della percepibilità di queste ultime da parte del soggetto passivo, dovendosi escludere l’elemento soggettivo in caso di errore sulla predetta percepibilità (Cass. pen., 12.6.1972, Cherillo, in Cass. pen., 1974, 503), nonché la volontà dell’offesa, al cospetto o a causa delle funzioni, rivolta al collegio impersonalmente e complessivamente considerato (Cass. pen., 3.12.1996, Rizzi, in Cass. pen. Mass., 1996, n. 207865; Cass. pen., 2.4.1986, Conte, in Riv. pen., 1987, 276), o quantomeno ad un singolo componente, purché identificante il collegio intero; diversamente, se l’offesa concernesse un componente per ragioni affatto diverse, potrebbe configurarsi solo un’ingiuria aggravata (Romano, M., op. cit., 89), e ciò anche oggigiorno, soprattutto se si conviene con la tesi per cui, per l’integrazione dell’art. 341 bis c.p., proprio in ragione del collegamento tra l’onore e il prestigio, l’offesa deve pur sempre attingere il proprium della funzione (Amato, Gius., La prova della verità del fatto fa cadere l’accusa, in Guida dir., 2009, fasc. 33, 57). Non si richiede un dolo specifico, non essendo necessario riscontrare in capo al soggetto alcun animus iniuriandi, anche se un effettivo e frainteso animus ludendi vale a scusare l’agente (Romano, M., op. cit., 90).
In base ai principi generali, esclude il dolo di oltraggio un errore di fatto o di diritto extrapenale sull’idoneità offensiva della condotta, per un malinteso, per esempio, sul significato di una parola dovuto alla precaria conoscenza della lingua, ad una difettosa informazione sul significato corrente dei gesti, suoni, alla convinzione, diffusa nell’ambiente sociale in cui vive l’agente, che certe espressioni non abbiano un significato offensivo (Palazzo, F.C., op. cit., 864), oppure sul fatto di trovarsi «al cospetto» del collegio. Sebbene si ritenga che l’errore sulla natura di corpo politico, amministrativo o giudiziario, oppure del collegio cui l’offesa è rivolta, non escluda la punibilità, integrando un errore di diritto penale (Romano, M., op. cit., 90; Pittaro, P., op. cit., 1636), sembra piuttosto preferibile concludere che l’ignoranza sulla qualità del soggetto passivo ricade nell’ambito della rilevanza dell’errore su legge extrapenale e che tale situazione non ricorre qualora sia riscontrabile la conoscenza delle attività effettivamente svolte da quest’ultimo e costituenti pubblica funzione (Palazzo, F.C., op. cit., 864).
2.5 Consumazione e tentativo
Si ritiene che il delitto in esame, in quanto reato di mera condotta, si perfeziona sempre con la sola «ricezione» dell’offesa (Pagliaro, A., Principi, cit., 393; per la giurisprudenza, è sufficiente la semplice possibilità della percezione: Cass. pen., 29.10.1985, in Giust. pen., 1986, 429), oppure con la «presa di cognizione», ma solo nel caso della presenza cd. mediata, cioè del secondo comma dell’art. 342 (Manzini, V., op. cit., 522); senonché, è proprio la percezione, da parte dei componenti il corpo o il collegio, o di almeno uno di essi, dell’offesa arrecata, ad attribuire un senso più pregnante all’elemento essenziale del «cospetto» (Romano, M., op. cit., 88; Bondi, A., op. cit., 386; secondo Palazzo, F.C., op. cit., 858, occorre anche la comprensione del significato offensivo delle espressioni da parte del soggetto passivo).
Si ritiene generalmente possibile il tentativo per entrambe le ipotesi delittuose previste dall’art. 342 c.p., anche se appare difficilmente configurabile in concreto, soprattutto in considerazione della natura di pericolo della fattispecie (Perdonò, G.L., Oltraggio, in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., Trattato di diritto penale, pt. spec., II, I delitti contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 668 s.).
3. Le circostanze aggravanti speciali e i rapporti con altri reati
Sono previste tre circostanze speciali di natura oggettiva, che pertanto si estendono ai compartecipi a norma dell’art. 118 prima parte ed aggravano il delitto: l’attribuzione di un fatto determinato (co. 3), l’uso di violenza o minaccia e la presenza di una o più persone (art. 341, ultimo co., richiamato dal co. 4 dell’art. 342).
Per quanto concerne la prima, si ritiene utile rinviare a quanto osservato in materia di oltraggio a pubblico ufficiale, con tutte le problematiche connesse alla possibilità di invocare l’exceptio veritatis, oramai espressamente riconosciuto dall’art. 341 bis c.p. ed estensibile anche in relazione all’oltraggio corporativo.
Anche la seconda aggravante è oggettiva ed incide sulla pena ordinaria del delitto. Si ritiene che essa ricorra non solo quando la minaccia o la violenza si aggiunge ad altro fatto offensivo dell’onore o del prestigio, ma anche quando il fatto offensivo consiste proprio nella violenza o nella minaccia, data l’idoneità dell’una o dell’altra a ledere l’onore o il prestigio del corpo politico, amministrativo o giudiziario. In quest’ultimo caso, pertanto, la violenza o la minaccia assumono rilievo sia come elemento costitutivo che come circostanza (Palazzo, F.C., op. cit., 869; Pagliaro, A., Principi, cit., 391; Cass. pen., 17.2.1989, Boi, in Cass. pen., 1991, 1376; contra Manzini, V., op. cit., 545; Cass. pen., 4.4.1978, Mannavella, in Giust. pen., 1979, 223).
Poiché l’oltraggio aggravato dall’uso della violenza o della minaccia non richiede di per sé effetti tali da coartare la volontà del destinatario o l’idoneità a cagionare un pregiudizio fisico, né un dolo specifico caratterizzato da un qualche fine costrittivo, si ritiene integrato, non senza qualche riserva (Palazzo, F.C., op. cit., 870 s., secondo cui si applicherebbe la sola fattispecie di violenza o minaccia), il reato di violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario, eventualmente in concorso con l’oltraggio, non più aggravato, ma semplice (Romano, M., op. cit., 92), qualora le predette caratteristiche della condotta vengano accertate.
La presenza di una o più persone, che ha natura di circostanza aggravante ordinaria, si giustifica con il potenziale maggior danno connesso alla maggiore diffusione dell’offesa.
Infine, quanto al concorso delle circostanze aggravanti speciali, si ritiene generalmente che possono concorrere l’aggravante del fatto determinato con quella della violenza o minaccia, oppure della presenza di una o più persone, così come è da ritenere che, nonostante la previsione legislativa in un unico comma, possano concorrere queste ultime due, in quanto concettualmente molto distanti fra loro e pertanto non assimilabili (Pittaro, P., op. cit., 1638; Romano, M., op. cit., 93).
Senonché, nel momento in cui l’ultimo comma dell’art. 342 c.p. rinvia, ai fini della individuazione delle circostanze della violenza, della minaccia o della presenza di più persone, all’ultimo capoverso dell’art. 341 c.p., che a sua volta è stato abrogato, non sembra irragionevole ritenere che l’oltraggio a corpo politico, amministrativo o giudiziario debba attualmente considerarsi privo delle suddette circostanze (Bondi, A., op. cit., 387).
Fonti normative
Art. 342 c.p.
Bibliografia essenziale
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