Oltre il secolo del gene
Il 25 giugno 2000 il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, insieme al primo ministro britannico Tony Blair, annunciò il completamento della prima bozza del programma genetico degli esseri umani, ossia la sequenza del genoma umano. Clinton ricordò gli sforzi pubblici e privati che avevano portato a questo storico risultato, sottolineando come esso rappresentasse l’inizio di una nuova era di genetica medica nonché, probabilmente, la più significativa scoperta scientifica del 20° secolo. Le grandi speranze espresse dal presidente erano ampiamente condivise, ma da allora, con il passare del tempo, molte di esse sono state sopravanzate dalla cautela e persino dallo scetticismo. Per tanti, comunque, la decodificazione del genoma umano ha continuato a rappresentare se non il culmine scientifico, almeno l’acme di un particolare sforzo iniziato precisamente all’alba del 20° secolo.
Nel 1900, nello stesso volume (18) dei «Berichte der Deutschen Botanischen Gesellschaft», furono pubblicati tre studi: il primo a opera del biologo Hugo de Vries (p. 83); il secondo del botanico e genetista Carl Correns (p. 158); il terzo dell’agronomo Erich von Tschermak (p. 232). De Vries, Correns e Tschermak, indipendentemente l’uno dall’altro, avevano ‘riscoperto’ le leggi dell’ereditarietà che il biologo Gregor Mendel, all’epoca oscuro monaco moravo, aveva stabilito quarant’anni prima, con le sue analisi sulle piante di pisello. I lavori originali di Mendel forse non avevano ricevuto molta attenzione, ma certo l’ottennero questi ultimi saggi: infatti, in genere si riconosce loro il merito non solo di avere recuperato Mendel dall’oblio, ma anche di avere dato inizio a quella scienza che presto sarebbe stata chiamata genetica e, con essa, all’età che può essere definita il secolo del gene, culminata con il sequenziamento del genoma umano.
Il termine genetica fu coniato solo nel 1906 dal biologo inglese William Bateson, che informò l’International congress of botany della nascita di questo nuovo ramo della fisiologia. Il termine gene fu adottato tre anni più tardi, nel 1909, introdotto dal botanico danese Wilhelm Ludvig Johannsen. Ma che cos’era un gene? Nessuno avrebbe saputo dirlo. Johannsen stesso cercava una parola nuova che potesse risultare libera dai presupposti morfologici contenuti in termini precedenti, come le unità di pangenesi (le gemmule) darwiniane, i determinanti di August Weismann, o i pangen di de Vries. Secondo Johannsen, la parola gene era del tutto priva di significati ipotetici, in quanto esprimeva unicamente l’evidenza che molte caratteristiche dell’organismo sono specificate nei gameti grazie a speciali strutture presenti in un modo unico, separato e quindi indipendente. In seguito, Johannsen precisò che gene non era che una paroletta, utile per esprimere termini come unità di fattori, elementi o allelomorfi nei gameti, la cui esistenza era stata dimostrata dalla ricerca. Se anche non erano state formulate ipotesi sulla natura del gene, la sua esistenza era comunque una realtà, evidenziata dal mendelismo.
Una paroletta forse, tuttavia notevolmente potente. Infatti, questa piccola parola ha avuto abbastanza forza da guidare la ricerca nelle scienze genetiche per la parte restante del secolo.
Non appare sorprendente che le critiche mosse da Johannsen contro le ipotesi sulla natura materiale del gene abbiano avuto poca influenza. Fino al 1933, il genetista e biologo statunitense Thomas H. Morgan sottolineava come tra i genetisti mancasse il consenso su quello che erano i geni, ossia entità reali o del tutto fittizie. Eppure, per la maggior parte dei colleghi di Morgan (e per Morgan stesso) i geni da quel momento diventarono incontrovertibilmente reali, entità materiali: l’analogo biologico delle molecole e degli atomi della fisica, dotati della capacità, come aveva scritto de Vries, di spiegare con le loro combinazioni i fenomeni del mondo vivente. Per il medico e genetista statunitense Hermann J. Muller, studente di Morgan, il gene era non solo l’unità fondamentale dell’ereditarietà, ma anche la base della vita. Quindi, per Muller e per molti altri genetisti dell’epoca, la questione cruciale era: che tipo di entità è un gene? Forse una specie di molecola chimica, ma che specie? Di cosa è fatto, quanto è grande e, soprattutto, a cosa deve il suo miracoloso potere di determinare le proprietà di un organismo in via di sviluppo e, contemporaneamente, di assicurare la stabilità di quelle proprietà da una generazione a un’altra?
Nei primi quarant’anni del 20° sec., i progressi nella genetica sono stati continui e cumulativi, ma poco capaci di rispondere alle suddette domande. Il primo accenno a quello che un gene fa (anche se non a quello che è) arrivò all’inizio degli anni Quaranta, con l’ipotesi ‘un gene-un enzima’ degli statunitensi George W. Beadle, biologo, ed Edward L. Tatum, genetista. La risposta alla domanda: «Di che cosa sono fatti i geni?», giunse una decina d’anni dopo, nel 1953, con il trionfante annuncio degli statunitensi James D. Watson, biologo, e Francis H.C. Crick, biochimico: i geni, come abbiamo imparato, sono fatti di DNA (DeoxyriboNucleic Acid). In questo modo, alla metà del secolo, furono dispersi tutti gli ultimi dubbi in merito alla realtà materiale del gene, che poté così diventare il concetto fondante capace di unificare tutta la biologia. Inoltre, dall’identificazione del DNA come materiale genetico derivò una nuova era di analisi, con la possibilità di utilizzare le potenti tecniche della genetica molecolare al posto di quelle della genetica classica. Come tutti sanno, i progressi successivi sono stati spettacolari e accelerati.
Con ogni probabilità, i progressi realizzatisi nel suo ultimo quarto sono stati i più rilevanti del 20° sec. (e anche i più pubblicizzati) e rappresentano la conseguenza dell’avvento della tecnologia del DNA ricombinante, a metà degli anni Settanta, e, nel 1990, del varo dello Human genome project (HGP). Costruito sui fenomenali progressi della genetica molecolare, questo progetto – il cui nome è in qualche modo fuorviante, poiché il suo scopo è stato di sequenziare non solo il genoma umano, ma anche quello di tutti gli altri organismi di qualche interesse per i biologi – fin dall’inizio ha promesso di rivelare i programmi genetici che ci dicono chi siamo. In effetti, sarebbe difficile immaginare un culmine più emozionante, per gli sforzi dell’intero secolo, dell’annuncio di una bozza della sequenza del genoma umano. In ultima analisi, l’annuncio rappresenta un degno apice per la carriera di colui che fu uno dei primi sostenitori del progetto: secondo l’espressione dello stesso Watson, «iniziare con la doppia elica e finire con il genoma umano».
Senza dubbio, l’HGP suscitò moltissimo scetticismo quando, a metà degli anni Ottanta, fu per la prima volta proposto, e confesso di esserne stata uno dei primi critici, ma il successo del progetto è stato tale da rendere difficile non condividerne l’entusiasmo. Oggi, anch’io sono pronta a celebrarne i risultati, ma da una prospettiva in qualche modo inusuale. Quel che più mi colpisce non è tanto il modo in cui il Progetto genoma ha soddisfatto le aspettative, bensì il modo in cui ha contribuito a trasformarle. In effetti, lo scopo del mio libro The century of the gene (2000) era quello di celebrare i sorprendenti effetti che, proprio dal 2000, il successo del progetto aveva già cominciato a produrre sul pensiero biologico e, nel contempo, di evocare le sfide poste alle nozioni familiari di determinismo genetico, soprattutto a quelle che avevano avuto una presa molto forte sull’immaginazione popolare. Mentre il 20° sec. andava concludendosi, la preminenza dei geni sulla stampa sia scientifica sia popolare indicava che, con la nuova genomica, la scienza della genetica aveva raggiunto la sua apoteosi. Tuttavia, questo successo concreto che stimolava l’immaginazione, contemporaneamente minava in modo radicale un concetto cuore e guida, ossia il concetto di gene. Mentre l’HGP si avvicinava alla realizzazione dei suoi scopi, i biologi iniziarono ad ammettere che tali scopi non rappresentavano una fine, ma piuttosto l’inizio di un’era della biologia assolutamente nuova. Secondo il biologo statunitense Craig Stephens, le sequenze genetiche, considerate da sole, non possono predire con sicurezza le funzioni precise di una moltitudine di regioni codificanti, nemmeno in un genoma semplice. Per questa ragione, egli sostiene che «l’era dell’analisi genomica rappresenta un nuovo inizio per la biologia sperimentale, e non l’inizio della fine» (Bacterial sporulation. A question of commitment?, «Current biology», 1998, 8, 2, p. 47).
Comprendere il gene
Per verificare come il progresso nella genomica abbia iniziato a trasformare il modo in cui molti biologi pensano al gene e alla genetica, e anche per verificare il significato del Progetto genoma, è utile iniziare con le attese da esso create. Quando l’HGP è stato per la prima volta proposto, molti biologi si aspettavano che le informazioni sulle sequenze, per sé stesse, sarebbero state sufficienti alla comprensione delle funzioni biologiche. Attualmente, quasi nessuno manifesta una certezza di questo tipo. I dubbi sul fatto che le informazioni sulle sequenze siano adeguate alla comprensione delle funzioni biologiche sono diffusi a tutti i livelli, anche tra i biologi molecolari, e in larga parte sono una conseguenza della crescente sofisticazione della ricerca genomica. Piuttosto che a una Stele di Rosetta, il genetista molecolare statunitense William M. Gelbart suggerisce che «sarebbe più appropriato paragonare il genoma umano al disco di Festo: un insieme di glifi finora indecifrati, provenienti da un palazzo minoico […]. In linea di massima, per quanto riguarda la comprensione delle A, T, G e C della sequenza genomica siamo analfabeti funzionali» (Databases in genomic research, «Science», 1998, 282, 5389, p. 659).
È un momento raro e prezioso quello in cui il successo ci insegna a essere umili, e potrebbe proprio essere che, fra tutti i benefici che la genomica ci ha lasciato in eredità, questa umiltà, alla lunga, possa realmente dimostrare di essere stato il contributo più grande. Per quasi cinquant’anni ci siamo cullati nella certezza che, scoprendo le basi molecolari dell’informazione genetica, avremmo svelato il ‘segreto della vita’; eravamo sicuri che, se solo avessimo potuto decodificare il messaggio del DNA, avremmo compreso il ‘programma’ che rende un organismo quel che è; che proprio nella sequenza dei nucleotidi avremmo trovato la spiegazione della vita. E ci siamo meravigliati di quanto sembrasse semplice la risposta. Ma ora, nella richiesta di una genomica funzionale, possiamo leggere il tacito riconoscimento del divario tra ‘informazione’ genetica e significato biologico. L’esistenza di tale gap è stata certo a lungo intuita, e non poche volte sarebbe stato meglio ascoltare la voce di chi invitava alla precauzione. Solo adesso, comunque, possiamo realmente valutare l’ampiezza di questo divario o, meglio ancora, possiamo cominciare a saggiarne la profondità. Oggi, ci meravigliamo non tanto per la semplicità dei ‘segreti’ della vita, quanto per la loro complessità. Si potrebbe sostenere che la genomica strutturale ci abbia fornito i mezzi di cui avevamo bisogno per affrontare la nostra presunzione, mezzi che potrebbero mostrarci i limiti della nostra visione iniziale.
Nella parte principale di The century of the gene sono esaminate quattro delle più importanti lezioni impartiteci dalla genomica molecolare. La prima riguarda il ruolo del gene in quella che con ragione può essere considerata la dinamica fondamentale della biologia, ossia mantenere una fedele riproduzione di caratteristiche geniche di generazione in generazione e garantire la variabilità dalla quale dipende l’evoluzione, il che significa assicurare tanto la stabilità quanto la variabilità genetica. Come seconda lezione, si argomenta sul significato della funzione del gene, chiedendo che cosa esso faccia; per la terza lezione, viene esaminata la nozione di ‘programma genetico’, contrapponendola al concetto di ‘programma di sviluppo’; come quarta lezione si ragiona sull’importanza dell’efficacia per lo sviluppo biologico, considerando come una ricerca dei principi di progettazione atti ad assicurare tale efficacia metta allo scoperto i limiti dell’analisi genetica.
Il mio principale interesse è sempre stato focalizzato sul crescente divario tra i dati e le nostre iniziali assunzioni; divario evidenziato dai nuovi strumenti ora disponibili, che sono il prodotto diretto dei più recenti progressi nella genetica molecolare e nella genomica; tuttavia, allo stesso tempo, e come eloquente testimonianza del valore della scienza, ritengo che tali strumenti abbiano eroso molti dei presupposti centrali sui quali questi stessi sforzi inizialmente sono stati applicati. In particolare, ho sottolineato che è proprio l’idea di un determinato gene a richiedere una drastica revisione. Come ha evidenziato Gelbart, i geni, contrariamente ai cromosomi, non sono oggetti fisici; infatti, rappresentano solo concetti che hanno acquisito un notevole peso storico nel corso degli ultimi decenni, quindi potrebbe essere arrivato il momento in cui l’uso del termine gene rappresenta un ostacolo alla nostra comprensione.
Quando The century of the gene è stato pubblicato, alcuni genetisti e biologi molecolari lo interpretarono come antigenetico, ma in realtà, nonostante io abbia affermato la necessità di andare oltre il gene, si è trattato prima di tutto di una celebrazione della produttività del concetto di gene durante il 20° secolo. La teoria sostenuta era che se il secolo passato è stato quello del gene, quello attuale sarebbe stato, con tutta probabilità, il secolo della genetica, o piuttosto dei sistemi genetici. La differenza è importante e consente di spiegare che per me la genetica rappresenta lo studio del processamento del DNA nella costruzione del fenotipo, mentre considero i geni le entità storicamente definite come particolati di eredità. Nel primo caso, intendo riferirmi alle interazioni biochimiche sottostanti alla costruzione degli organismi odierni, nel secondo a un ipotetico schema concettuale.
Forse queste affermazioni sono state premature: il libro fu scritto a causa dei notevoli mutamenti nella genetica molecolare, ma il ritmo del cambiamento ha avuto un’accelerazione estrema negli ultimi dieci anni. Come conseguenza, queste opinioni non sembrano più eccessive. E, infatti, anche molte altre persone hanno cominciato a discutere della possibilità di accantonare il concetto di gene. Tra le ragioni solitamente addotte possiamo annoverare l’enorme difficoltà che incontriamo oggi nel raggiungere un qualche tipo di accordo su che cosa è un gene attualmente. In un recente saggio su «Nature» (Pearson 2006) si sostiene che più aumentano le conoscenze di genetica molecolare, meno facile è avere la certezza di quello che è realmente un gene, posto che sia qualcosa.
Infatti, recentemente è diventato sempre più difficile che un gruppo di scienziati si impegni a lavorare su un singolo aspetto della genetica oppure che concordi su una definizione. Due giorni di intenso dibattito tra venticinque ricercatori bioinformatici del Sequence ontology project (un consorzio che riunisce vari centri di studio sulla genomica) hanno prodotto, per es., la seguente definizione: un gene è una regione localizzabile della sequenza genomica, corrispondente all’unità ereditaria e associata con regioni di regolazione, regioni trascritte e/o altre regioni con sequenze funzionali.
Questa definizione non è del tutto chiara, tuttavia gli scienziati che l’hanno formulata sembrano convenire che un gene è una regione localizzabile della sequenza genomica, il che potrebbe dipendere dal fatto che lavorano nel settore della bioinformatica, cioè sulle analisi delle sequenze di informazioni. La statunitense Susan L. Lindquist, che ha diretto il Whitehead institute for biomedical research, è una genetista sperimentale ortodossa, lavora con gli organismi e ritiene che la genetica non sia unicamente DNA. Infatti, tale disciplina riguarda l’ereditarietà delle caratteristiche e se, per la maggior parte, queste sono ereditate attraverso la trasmissione del DNA, ve ne sono però altre ereditate tramite le proteine. Quindi, secondo il parere di Lindquist, tali proteine potrebbero essere considerate, in senso assoluto, un elemento genetico tanto quanto il DNA, poiché rappresentano entità ereditabili che si estendono attraverso le generazioni.
Lindquist sfida le basi materiali dell’ereditarietà, ma forse, anche più dei bioinformatici, rimane convinta del concetto di elementi genetici, di entità ereditarie. Questo pone la domanda su che cosa sia un elemento genetico. Anche riferendosi unicamente al DNA, abbiamo iniziato con enormi difficoltà nel definire elementi genetici di un qualsiasi tipo. Nel 2000, una delle maggiori ambiguità del termine gene è derivata dal processo di splicing alternativo, ovvero il processo di riarrangiamento dei trascritti di un certo numero di esoni (le unità che codificano per le proteine), provenienti da una specifica regione di DNA. Il trascritto codificante per una certa proteina è presente unicamente come RNA (RiboNucleic Acid), dopo un’ampia attività di editing e splicing, ma molti – anche centinaia – di questi trascritti (e quindi proteine) potrebbero essere formati dalla stessa sequenza di DNA. Attualmente, queste difficoltà sono venute alla luce e mettono in discussione la stessa idea di un’unità ereditaria distinta e particolata.
Geni e proteine
Le sequenze codificanti per le proteine rimangono di gran lunga la più comune associazione tra il DNA e la parola gene. Ma anche queste sequenze non hanno un inizio e una fine chiari. Secondo Helen Pearson: «Invece di geni distinti che, con obbedienza, producono in massa trascritti identici di RNA, una fertile massa di trascrizioni converte molti segmenti del genoma in nastri multipli di RNA di differente lunghezza. Questi nastri possono essere generati da ambedue i filamenti di DNA, piuttosto che da uno solo, come si ritiene tradizionalmente. Alcuni di questi trascritti derivano da regioni di DNA che in precedenza sono state identificate come contenitori di geni codificanti per le proteine, ma molti altri no. […] Molti scienziati cominciano a ritenere che le caratteristiche delle proteine codificate nel DNA non abbiano confini, che ogni sequenza si estenda entro la successiva e oltre» (2006, p. 399).
Come se non bastasse, gli esoni, ovvero le sequenze codificanti per le proteine, risultano essere una parte piuttosto piccola di ereditarietà, anche a livello del DNA. Oggi sappiamo che, da una generazione a un’altra, passa molto più delle sequenze di DNA, ma anche se ci riferiamo solo a questo DNA (che per molti rappresenterebbe l’unica tangibile parte di un organismo realmente trasmessa, almeno per quanto riguarda gli organismi più evoluti), unicamente l’1-2% del genoma è impegnato nelle sequenze di codificazione proteica. Così, mentre il DNA è ereditato nella sua interezza, e in realtà la maggior parte di esso viene trascritta, soltanto una sua piccola frazione risulta coinvolta nella realizzazione e nel mantenimento di un organismo attraverso la costruzione delle proteine. A che cosa serve il resto del DNA? Negli ultimi quindici anni siamo diventati consapevoli che le sequenze di DNA possono avere un tipo di funzione completamente nuovo. Infatti, i più recenti esaltanti attori nella genetica molecolare sono piccole sequenze trascritte di RNA, che nulla hanno a che vedere con la codificazione ma molto con la regolazione. A volte queste sequenze vengono attribuite a geni che producono RNA non codificante (ncRNA, non-coding RNA). Come osserva Pearson, la maggior parte dei genetisti non cerca di trovare una definizione del gene sulla quale concordare. Si ha la tendenza, invece, a usare «parole meno ambigue come trascritti ed esoni. Quando la usano, la parola ‘gene’ è spesso seguita da ‘codificante per la proteina’ o altra descrizione […]. Ci sono cose che non sono definite al meglio da una parola di quattro semplici lettere» (2006, p. 401).
Rimane comunque la questione di che cosa prenderà il posto del gene. Considerando le sequenze di DNA come il materiale che sostanzia i geni, appena a metà del 20° sec. sembrò che i primi biologi molecolari suggerissero un’alternativa. Ma per la maggior parte della loro successiva storia, le sequenze di DNA rimasero legate in modo troppo stretto ai geni particolati per fornire un’opzione che allo stato attuale potesse risultare efficace. Per rendere giustizia alle nuove scoperte, oggi la genetica necessita di un concetto che ci liberi dalla prospettiva che l’ereditarietà possa essere interpretata in termini di unità prespecificate, numerabili, e dalla prospettiva, collegata, che la funzione primaria del DNA sia la specificazione delle proteine. Perché il DNA possa ricoprire questo ruolo, dobbiamo abbandonare le nostre primitive opinioni che lo vedono come una molecola dominante e restituirgli le sue proprietà dinamiche e interattive. Per fortuna, la nostra comprensione della natura e della funzione del DNA ha iniziato a orientarsi proprio in questa direzione, ossia verso le modalità che possono renderlo effettivamente un punto di partenza per l’inquadramento concettuale ora richiesto.
Recenti ricerche hanno evidenziato per questa molecola un ruolo molto più complesso nell’economia della cellula rispetto a quello atteso. Abbiamo imparato che le sequenze nucleotidiche sono utilizzate dalle cellule per fornire non solo trascritti per la sintesi proteica, ma anche sistemi multilivello di regolazione delle dinamiche di trascrizione, traduzione e postraduzione. In realtà, sembra che si cominci a capire solo adesso l’immensa gamma di modalità con le quali le cellule possono attivare le sequenze nucleotidiche.
Recentemente è stato proposto un inquadramento concettuale che segna una netta distinzione tra le proprietà strutturali del DNA (le sue sequenze) e le modalità con le quali le cellule utilizzano tali proprietà (il suo comportamento; Fox Keller, Harel 2007). È certamente la relazione tra queste due caratteristiche a rappresentare un punto cruciale per la biologia, e tale relazione è descritta in termini di assortimenti appaiati di proprietà coerenti di due tipi di sequenze: una si riferisce all’assortimento di sequenze spaziali poste nel DNA, l’altra all’assortimento di sequenze temporali relative al comportamento cellulare. Al posto del termine gene viene fornito il concetto di un’unità la quale, piuttosto che essere strutturalmente codificata nel DNA, specifica una sequenza o un assortimento di sequenze, individuato dalla cellula per migliorare una particolare funzione. Queste unità sono intrinsecamente relazionali; sono le componenti dell’interfaccia tra ciò di cui è costituito un organismo (e, in modo collegato, ciò che ha materialmente ereditato) e ciò che esso dinamicamente fa con questo materiale ereditato (ossia, funzionalità e comportamento associati). Tali unità sono state definite denes, e questo inquadramento fornisce una piattaforma per comprendere e confermare le scoperte della genetica odierna.
In ogni caso, non siamo così ingenui da aspettarci un qualsiasi cambiamento rapido nel vocabolario. La ‘paroletta’ di Johannsen è troppo radicata nell’uso per potere sparire del tutto; inoltre, a dispetto di tutta la sua ambiguità, forse non è ancora del tutto superata. Le forze che la mantengono in vita sono comunque complesse. Per comprenderle, per capire l’utilità del termine, dobbiamo chiederci che cosa intendiamo quando parliamo di gene. A conclusione di The century of the gene sono state identificate (ma senza elaborarle) diverse modalità particolarmente importanti secondo cui parlare di gene a tutt’oggi continua a funzionare. Prima di tutto, il gene rappresenta una stenografia operativa di notevole convenienza per gli scienziati che lavorano in specifici contesti sperimentali; in secondo luogo, costituisce una leva (o chiave) significativa per effettuare particolari tipi di cambiamento; e infine, come ultimo ma non meno importante aspetto, il gene è uno strumento di persuasione senza alcun dubbio potente, utile non solo a promuovere l’organizzazione della ricerca e ad assicurare finanziamenti, ma anche (e forse soprattutto) a commercializzare i prodotti di un’industria diagnostica e farmaceutica in rapida espansione.
Bibliografia
E. Fox Keller, The century of the gene, Cambridge (Mass.) 2000 (trad. it. Milano 2001).
H. Pearson, Genetics. What is a gene?, «Nature», 2006, 441, 7092, pp. 398-401.
E. Fox Keller, D. Harel, Beyond the gene, «PLoS ONE», 2007, 2, 11, e1231.