Oltre l'arte della polis: le scuole scultoree di eta ellenistica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La scultura ellenistica è un’arte a due facce: in essa convivono una continua ricerca della novità, che spinge a sperimentare nuovi generi e nuovi stili capaci di esprimere una realtà in costante, rapida trasformazione, e un’attitudine retrospettiva, che conduce a ripercorrere i sentieri dell’arte greca del passato classico.
Quando muore, nel 323 a.C., Alessandro Magno lascia dietro di sé un mondo completamente trasformato dalle sue imprese e dalle sue conquiste: gli orizzonti della cultura greca si sono ampliati, ad abbracciare territori e popoli barbari, a modificare mentalità e modi di vivere. La produzione artistica si adegua al nuovo stato di cose, dando forma visibile a nuovi ideali e nuovi valori e rispondendo a diverse esigenze rappresentative. Lisippo, con la sensibilità dei grandi maestri, aveva avvertito la profondità della trasformazione culturale in atto, riversandone la linfa vitale nella creazione di nuovi generi scultorei, dal ritratto del dinasta a quello dell’uomo di pensiero, dall’allegoria concettosa al gruppo scultoreo dinamico e complesso, destinati a costituire le fondamenta del ricco, multiforme edificio della scultura ellenistica. Significativamente, gli allievi diretti del maestro sicionio sono tra i primi a sviluppare le nuove tendenze da lui inaugurate.
Così, tra il 296 e il 293 a.C., è un allievo di Lisippo, Eutichide, a ideare per il dinasta di Siria, Seleuco I Nicatore, l’immagine della divinità poliade di Antiochia sull’Oronte, città fondata nel 301 a.C.: la Tyche, dea della fortuna e del caso che sovrintende agli umani destini, una divinità la cui immagine costituisce un simbolo di quest’epoca complessa. La dea, che ha sul capo la corona turrita e stringe nella mano destra un fascio di spighe, simboli rispettivamente della dignità di capitale della città e della fertilità delle sue campagne, siede su una roccia con le gambe accavallate, mentre la figura del vigoroso nuotatore ai suoi piedi è la personificazione del fiume Oronte. Le città di nuova fondazione, come Antiochia, non hanno antiche tradizioni a cui richiamarsi; all’artista ellenistico tocca il compito di ideare immagini nuove per gli dèi chiamati a proteggere e a rappresentare queste realtà urbane, dèi che spesso sono personificazioni allegoriche di concetti astratti. Altro compito dello scultore ellenistico è quello di creare la nuova immagine del sovrano, un’immagine che sappia esprimere pienamente l’essenza e l’ideologia della sovranità ellenistica, che è qualcosa di completamente nuovo all’interno del panorama politico greco.
La strada era stata aperta da Lisippo, che aveva ideato l’iconografia di Alessandro Magno come giovane, volitivo, ispirato conquistatore, e il ritratto del Macedone è il modello di riferimento della ritrattistica regale ellenistica, come appare evidente nel ritratto di Demetrio Poliorcete rinvenuto nella Villa dei Papiri di Ercolano, caratterizzato dall’atteggiamento patetico e dinamico del volto giovanile e sbarbato, coronato dalla folta e mossa acconciatura; anche se in alcuni casi, come nel ritratto di Seleuco I, si preferirà attribuire al principe un’età più matura ed una fisionomia più energica, a significare la solidità della sua azione di governo. L’iconografia del Macedone esercita talvolta la propria influenza anche sul genere del ritratto dell’intellettuale: il volto di Menandro, a noi noto grazie alle numerose copie romane da un originale realizzato poco tempo dopo la morte del commediografo dai figli di Prassitele, Cefisodoto e Timarco, è accuratamente sbarbato e caratterizzato da una intensità ispirata ed eroica. Il genere del ritratto dell’uomo di pensiero, inaugurato da Lisippo con le celebri immagini di Socrate e di Aristotele, trova ad Atene una interpretazione di straordinaria intensità nella statua-ritratto di Demostene, realizzata da uno scultore altrimenti ignoto, Polieucto, nel 280 a.C.: il grande oratore è caratterizzato da un dinamismo potente ma bloccato, e da linee chiuse che esaltano la penetrante concentrazione del volto. Non sono soltanto i generi e i temi introdotti da Lisippo a trovare nel corso dell’età ellenistica approfondimenti e nuove formulazioni; il tema di Afrodite al bagno, introdotto da Prassitele con la Cnidia, conoscerà un’ampia gamma di interpretazioni e di variazioni durante tutto l’ellenismo, giungendo spesso a diventare nient’altro che un esile pretesto per l’esibizione di sensuali corpi femminili. Una tra le creazioni più originali, l’Afrodite accovacciata, nota dalle tante copie romane, è attribuibile probabilmente ad uno scultore citato da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXVI. 35), Dedalsa, che avrebbe realizzato l’opera per Nicomede di Bitinia (re tra il 279 e il 260 a.C.).
Nel corso dell’età ellenistica Atene perde la propria supremazia di capitale dell’arte: i dinasti ellenistici modificano l’aspetto dei centri del proprio potere, Alessandria, Antiochia, Pergamo, con ambiziosi programmi architettonici e scultorei, fondano istituzioni culturali di prestigio internazionale, invitano presso di sé filosofi, poeti, scultori, pittori. In queste città si formano delle “scuole” artistiche, caratterizzate da tendenze in parte diverse, pur nella sostanziale omogeneità di un linguaggio dell’arte che si internazionalizza progressivamente, anche grazie alla mobilità degli artisti, che si spostano e collaborano con colleghi provenienti da altri centri in imprese di particolare impegno, come accadrà nel cantiere del grande altare di Pergamo. Questa situazione così mobile rende spesso arduo definire in dettaglio il carattere e le tendenze dei singoli centri, o ricondurre con certezza singole opere a un centro artistico piuttosto che a un altro, e occorre ammettere che il quadro è conosciuto solo in modo parziale ed imperfetto. Poco è noto della Macedonia degli Antigonidi, ancor meno, forse, della capitale della dinastia seleucide, Antiochia, ed è tuttora argomento di dibattito tra gli studiosi il carattere della produzione artistica di Alessandria, scavata solo in modo parziale, mentre risultano meglio conosciute altre realtà, come Pergamo o Rodi.
Il centro artistico ellenistico meglio conosciuto è certamente Pergamo, la capitale del piccolo stato resosi indipendente nel 282 a.C. per iniziativa di Filetero, vassallo e tesoriere di Seleuco I, e destinato a diventare provincia romana nel 133 a.C., quando l’ultimo sovrano, Attalo III, lascerà il proprio regno in eredità ai Romani. Pergamo è un vivace centro culturale, dotato di una biblioteca sede di una importante scuola filologica, che attrae studiosi provenienti da tutto il mondo greco, tra i quali basti ricordare il filologo e grammatico Cratete di Mallo; i suoi sovrani, gli Attalidi, sono colti e raffinati mecenati, e alla loro corte giungono artisti di varia provenienza e formazione, che collaborano alla realizzazione di grandi monumenti di stato, destinati a celebrare le imprese eroiche della dinastia e il ruolo centrale assunto dal giovane regno nello scacchiere politico internazionale.
È la sconfitta dei Galati (tribù celtiche che avevano invaso la Grecia e l’Asia Minore fin dal 279 a.C.) ad opera di Attalo I, in una serie di battaglie negli anni Trenta del III secolo a.C., a sancire per Pergamo la legittimazione delle sue ambizioni politiche: la vittoria sugli invasori barbari offre alla dinastia attalide la ghiotta occasione di riallacciarsi idealmente alla vittoria di Atene sui Persiani del V secolo a.C., e di presentarsi come nuovo baluardo difensivo della grecità sulla barbarie, dell’ordine sul caos, della giustizia sulla violenza e sulla cieca sopraffazione.
E come ad Atene la vittoria sui Persiani si era configurata come l’occasione propizia per un ambizioso programma architettonico che aveva ridisegnato il volto della polis e impresso una svolta fondamentale alla produzione artistica, a Pergamo la vittoria sui Galati è il pretesto alla base della creazione di una vera e propria arte di corte, che si esprime principalmente nel genere del gruppo scultoreo a soggetto storico e mitologico: è in quest’ambito che viene a definirsi quello stile noto come “barocco ellenistico”, la cui cifra caratterizzante può essere riconosciuta nell’impetuoso dinamismo con cui la forma esplode invadendo lo spazio dello spettatore, liberando l’energia “bloccata” nella forma chiusa caratteristica del primo ellenismo e dando piena espressione ai moti e ai sentimenti dell’animo.
Agli inizi del Seicento sterri nelle proprietà romane dei Ludovisi, che si estendevano nell’area degli antichi Horti Sallustiani, appartenuti al grande storico romano Sallustio e prima ancora a Giulio Cesare, restituiscono due sculture marmoree di qualità eccezionale, nelle quali sono da riconoscere le copie di originali bronzei che sull’acropoli di Pergamo componevano un monumento celebrativo delle vittorie sui Galati, il cosiddetto Grande Donario pergameno, eretto negli anni intorno al 220 a.C. Il Galata morente, oggi ai Musei Capitolini, raffigura un guerriero vigoroso, ferito al costato e accasciato sul suo scudo, che con un atteggiamento di dignitosa rassegnazione china il capo di fronte all’approssimarsi della morte; mentre il Galata che si uccide con la moglie, conservato al Museo Nazionale Romano, celebra il gesto di estremo coraggio di un capo galata, che, dopo aver ucciso la moglie, della quale sorregge il cadavere pietosamente afflosciato, si trafigge con la spada all’altezza della fossa giugulare, volgendosi indietro a gettare verso i suoi nemici, con fare altero, uno sguardo feroce, nella speranza di farli esitare quel tanto che gli basta a morire.
In queste opere, in cui l’interesse nei confronti della peculiare caratterizzazione etnica dei soggetti raffigurati si esprime nell’accurata resa dei capelli a ciocche ispide (i Galati, secondo Diodoro Siculo – Bibl. stor., V, 28 –, si lavavano la testa con l’acqua di calce), dei baffi spioventi, dei pesanti monili girocollo detti torques, colpisce la partecipazione patetica e il rispetto con cui è trattato il tema della sconfitta. Attalo I fa probabilmente erigere un donario celebrativo anche a Delo, mentre sull’acropoli di Atene, forse per volontà di Attalo II, intorno alla metà del II secolo a.C., si realizza un nuovo monumento celebrativo (definito Piccolo Donario nella letteratura archeologica), il cui soggetto abbraccia temi storici e mitici (la Gigantomachia, l’Amazzonomachia, la vittoria dei Greci sui Persiani e quella dei Pergameni sui Galati), che lo ricollegano idealmente al programma figurativo del Partenone, assegnando così all’impresa pergamena un posto ben preciso all’interno di una ambiziosa prospettiva mitistorica. Di questi gruppi scultorei, di dimensioni inferiori al vero, come testimonia anche Pausania (Periegesi della Grecia I, 25, 2), restano le copie romane, realizzate in marmo microasiatico.
Il tema della Gigantomachia trova a Pergamo un’efficacissima formulazione nel fregio monumentale che copre il podio del grandioso altare dedicato sull’acropoli della città a Zeus Soter (“salvatore”) e ad Atena Polias (“protettrice della città”), probabilmente a seguito della pace di Apamea (188 a.C.), che sancisce l’espansione territoriale del regno pergameno, fedele alleato di Roma, a danno della dinastia seleucide. L’eccezionale monumento, il più grandioso progetto scultoreo dell’ellenismo, è oggi ricostruito all’interno del Pergamonmuseum di Berlino: è costituito da un alto podio rettangolare con due avancorpi laterali, tra i quali si inserisce la monumentale scalinata che consente l’accesso al portico di ordine ionico delimitante lo spazio riservato all’altare vero e proprio. Il rilievo raffigurante la mistica lotta tra gli dèi e i giganti si snoda per una lunghezza complessiva di oltre 120 metri, dispiegando una ricchissima serie di audaci e complesse soluzioni compositive, che dilatano all’infinito la forza drammatica della rappresentazione: le figure, ad altissimo rilievo, hanno la potenza plastica della scultura a tutto tondo, esaltata da un violento chiaroscuro che fa muovere e vibrare i volti contratti, le bocche spalancate, gli occhi infossati, le chiome scomposte, i panneggi volteggianti, le muscolature contratte; il violento moto continuo che si dispiega lungo tutto il fregio, e che esprime la potenza sovrumana degli dèi dell’Olimpo e la sovrumana hybris dei giganti ribelli, trascina lo spettatore “dentro” il monumento, senza concedere un momento di riposo allo sguardo.
Sulle pareti interne del colonnato ionico corre un secondo fregio, più piccolo del precedente, dedicato alle imprese di Telefo, l’eroe figlio di Eracle e di Auge nel quale gli Attalidi riconoscono il mitico fondatore della città di Pergamo: in questo rilievo, che costituisce una precoce testimonianza di narrazione continua, il pathos esasperato e violento della Gigantomachia cede il posto ad un ritmo più sobrio e composto, e nel racconto, maggiormente incentrato sull’introspezione psicologica, grande importanza assume la localizzazione spazio-temporale degli episodi narrati, che si esprime soprattutto nell’attenzione per la resa del paesaggio e in cui è da riconoscere un’influenza diretta della pittura, fiorente a Pergamo in questi stessi anni. All’ambiente pergameno vengono generalmente ricondotte altre composizioni di età ellenistica, note grazie a copie di epoca romana, che presentano affinità compositive e stilistiche con le sculture dei donari degli Attalidi: ad esempio il cosiddetto Pasquino, raffigurante Menelao che solleva il cadavere di Patroclo, che nella composizione piramidale e nell’insistito contrasto tra l’abbandono del morbido nudo di Patroclo e il ritmo ascensionale del vigoroso corpo di Menelao ricorda il gruppo del Galata con la moglie; e il gruppo della punizione di Marsia, con il nudo in tensione del sileno appeso all’albero mentre lo Scita, il cui volto di inquietante brutalità riecheggia gli studi “etnografici” dei volti dei Galati, arrota il coltello per scuoiarlo.
Anche per il Laocoonte marmoreo dei Musei Vaticani, capolavoro assoluto del barocco ellenistico, è stata proposta una derivazione da un originale in bronzo di scuola pergamena della seconda metà del II secolo a.C., sulla base dell’evidente rapporto esistente tra la figura del sacerdote troiano e quelle dei giganti sull’Ara di Pergamo; e anche dietro al Laocoonte si è voluto leggere un messaggio di tipo politico, messaggio che sarebbe legato ai complessi rapporti tra Pergamo e Roma. Questa interpretazione, proposta dall’archeologo tedesco Bernard Andreae, non è unanimemente accettata, ed è anzi corretto affermare che il Laocoonte costituisce il caso più rappresentativo delle difficoltà di natura cronologica e stilistica che la scultura ellenistica oppone ai tentativi di ricostruirne un quadro complessivo. Occorre ricordare che Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXVI. 37) attribuisce origine rodia agli scultori del Laocoonte, Agesandro, Atenodoro e Polidoro; e a Rodi, in età ellenistica, risulta effettivamente attiva una vivace scuola scultorea, che sembra però avere intensi rapporti con quella pergamena, e che si esprime anche nel genere del gruppo scultoreo, spesso con significato politico-propagandistico.
In età ellenistica l’isola di Rodi conosce, grazie alla propria fiorente attività mercantile, un notevole benessere economico, e riesce a mantenere a lungo la propria indipendenza politica. Emblema di questa orgogliosa indipendenza, il Colosso di Rodi, la statua alta 70 cubiti (oltre 31 m) raffigurante Helios (il Sole), eretta sul porto di Mandraki. L’opera, destinata ad essere inclusa nel canone delle sette meraviglie del mondo antico, è affidata a Carete di Lindo, un allievo di Lisippo, ed è l’orgoglio delle fonderie di Rodi, tra le più tecnologicamente avanzate dell’intero mondo greco. È uno spaventoso terremoto, nel 228 a.C., ad abbattere il Colosso; in seguito a questo evento sismico prende avvio una generale ristrutturazione urbanistica ed architettonica dell’isola, che diventa un’occasione propizia alla realizzazione di imponenti e complesse creazioni scultoree che si inseriscono armoniosamente nello splendido paesaggio naturale, dando origine a quella che potrebbe essere definita un’arte “ambientale”, basata sul gioco sapiente tra artificio e natura.
Esemplare di questa tendenza è il cosiddetto Toro Farnese, il celebre gruppo scultoreo rinvenuto a Roma presso le Terme di Caracalla, e oggi conservato a Napoli, nel quale è da riconoscere secondo studi recenti l’opera originale di Apollonio e Taurisco, scultori nativi di Tralle ma in contatto con la scuola pergamena, e attivi appunto a Rodi, dove il gruppo si trovava prima di essere portato a Roma, per entrare a far parte delle collezioni di scultura che Asinio Pollione aveva raccolto nei sui giardini. Il gruppo costituiva probabilmente una fontana monumentale. Il soggetto prescelto rappresenta uno di quei temi drammatici, cari all’ellenismo, che ruotano intorno ai concetti di colpa, di hybris, di punizione, e che giustificano la ricerca di accenti patetici: Dirce, regina di Tebe, che ha angariato in ogni modo la bella Antiope, viene punita dai figli di quest’ultima, Anfione e Zeto: questi la legano per i capelli alle corna di un toro, che ben presto farà scempio del suo corpo.
Dedica rodia nel santuario degli Dèi Cabiri sull’isola di Samotracia è probabilmente la celeberrima Nike oggi conservata al Louvre, in origine collocata su una base in forma di prua di nave all’interno di un’esedra absidata a specchio di un basso bacino d’acqua, su una collina che la rendeva ben visibile anche da lontano: attribuita, sulla base di un frammento di iscrizione, ad uno scultore rodio, Pitocrito, celebra forse le vittorie ottenute nel 191 a.C. dalla flotta rodia, alleata dei Romani, su Antioco III di Siria. Un vento impetuoso incolla al florido corpo della dea della vittoria il trasparente panneggio “bagnato”, con una soluzione che si richiama in parte all’iconografia tradizionale di Nike (basti pensare alla Nike di Paionio di Mende ad Olimpia); ma alla figura è imposto un ritmo dinamico del tutto nuovo, che si esprime nella violenta torsione del corpo, mentre un raffinato pittoricismo esalta con effetti chiaroscurati le sottili pieghe del panneggio e il morbido piumaggio delle ali spiegate. È stato ipotizzato che la fase più creativa dell’ambiente artistico rodio si concluda nella seconda metà del II secolo a.C., a seguito della crisi economica che investe l’isola in conseguenza dell’istituzione, nel 166 a.C., del porto franco di Delo, voluta dai Romani in funzione antirodia; ma Rodi continuerà a dare i natali a scultori apprezzati, alcuni dei quali, probabilmente, legati alle élite dirigenziali di Roma, e sull’isola è altresì da localizzare una grande scuola di copisti, impegnati nella realizzazione di repliche di originali di scuola rodia e pergamena per la committenza romana, compresa quella imperiale. Tra gli esponenti di questa scuola, i già ricordati Agesandro, Atenodoro e Polidoro, che realizzano per l’imperatore Tiberio l’arredo scultoreo della grotta di Sperlonga, nel quale spicca il gruppo di Scilla, probabile copia di un originale bronzeo realizzato a Rodi tra il 188 e il 168 a.C. per ricordare i morti della guerra contro i pirati.
Quella della suggestiva collocazione di sculture in settings naturali è una preoccupazione che sembra caratterizzare larga parte della produzione ellenistica, come dimostrano le basi lavorate in forma di roccia di noti capolavori, quali il Fauno Barberini o il Torso del Belvedere. I Romani riprenderanno questa commistione di natura e artificio nei giardini delle loro ville di otium, che accoglieranno copie e rielaborazioni di creazioni riconducibili a quella tendenza della scultura ellenistica definita “rococò” dall’archeologo tedesco Wilhelm Klein.
Ad ispirare questa tendenza è il mondo di Dioniso e di Afrodite, divinità che incarnano le aspirazioni umane alla felicità, all’amore, ad una vita privata piacevole e realizzata. Gli stessi sovrani ellenistici, in particolare i Tolemei, amano identificarsi con Dioniso: è celebre, ad esempio, la descrizione che Ateneo (Deipnosofisti, V, 196a ss.) fa della sontuosa processione dionisiaca organizzata ad Alessandria da Tolemeo II Filadelfo. Sono satiri, ninfe, menadi, fauni, centauri, eroti i soggetti del “rococò” ellenistico, immortalati in danze scatenate, in scene di seduzione e di aggressioni erotiche, nell’allegria della festa, ma anche nell’intimità di un bacio o in quella del sonno, da quello turbato dell’Ermafrodito (una creatura che incarna l’aspirazione al più intenso piacere dei sensi e che, significativamente, è assai presente nell’arte ellenistica) a quello greve del Fauno Barberini che impone al suo corpo (tra i più magnifici studi di nudo maschile dell’arte antica) una posa scomposta ed indiscreta, agli antipodi del portamento del cittadino beneducato; e se il barocco ellenistico dà libera espressione alle passioni titaniche della rabbia e del dolore, queste creature svelano la più sfumata gamma dei sentimenti umani nel pianto, nel sorriso e soprattutto nel riso liberatorio, che è davvero, artisticamente parlando, una “scoperta” ellenistica.
E un riso ebbro schiude le labbra della Vecchia ubriaca, accoccolata per terra, che stringe tra le braccia, come un bimbo, la lagynos del vino, coronata dall’edera dionisiaca: questa statua, nella quale è forse da riconoscere, come sostiene Paolo Moreno, l’immagine della leggendaria ubriacona Maronide (definita “l’asciugabotti” nella poesia epigrammatica), oppure una devota che partecipa alla festa dionisiaca delle Lagynophoria ad Alessandria, è un esempio sommo delle tendenze realistiche che si fanno strada nell’arte ellenistica tra III e II secolo a.C., e che si concentrano nella rappresentazione di tipi umani emarginati, esponenti dei ceti sociali più bassi, dei quali si esaspera, con compiaciuto virtuosismo, i segni dell’età, lo sfacelo del corpo, le stimmate della povertà e del duro lavoro, come nel Vecchio pescatore, rappresentato seminudo, con un’espressione ebete sul volto crudamente segnato. Al filone realistico della scultura ellenistica è stata attribuita un’origine alessandrina, sulla base del confronto con terrecotte e bronzetti; si tratta, tuttavia, di un accostamento ipotetico, che non trova concordi tutti gli studiosi.
Nostalgia del passato Nel corso del II secolo a.C. si affermano nella scultura ellenistica tendenze classicistiche e retrospettive, che guardano con nostalgia al glorioso passato dell’arte greca, riprendendone stili e formule iconografiche per nuove creazioni, ma anche replicandone i capolavori con l’avvio dell’importante fenomeno della produzione copistica. Precoce esponente di questa tendenza è Damofonte di Messene, che realizza simulacri di culto ispirati alla maestosità dello stile fidiaco per diverse città del Peloponneso, tra cui il gruppo di Licosura, raffigurante Despoina con altre divinità, descritto da Pausania (Periegesi della Grecia, VIII, 37, 1-6) e di cui sono state recuperate, nel 1889, parti significative.
Damofonte ha certo una notevole dimestichezza con lo stile di Fidia, tanto che a lui è affidato il restauro del più celebrato e venerato capolavoro del maestro attico, lo Zeus di Olimpia. Ma le tendenze retrospettive si affermano soprattutto ad Atene, la città che si sente la depositaria della tradizione classica nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, e in cui questo ritorno al passato assume l’ambivalente carattere di un tentativo di difesa della propria identità culturale di fronte al dilagare delle potenze straniere e insieme di adeguamento alle esigenze e ai gusti dei Romani, che gradualmente, mentre avanza la loro espansione imperialista nel Mediterraneo orientale, diventano i migliori clienti degli atelier di scultura neoattici. I generali romani vittoriosi portano a Roma, come bottino di guerra, quantità cospicue di opere d’arte greca, ma portano con sé anche scultori attici, abili in tutte le tecniche ed esperti conoscitori di tutti gli stili dell’arte greca del passato, commissionando loro le statue di culto di nuovi templi e la decorazione di spazi pubblici, nella cui realizzazione si incanalano le esigenze autorappresentative imposte dal carattere che la lotta per l’egemonia politica assume nella Roma del II secolo a.C.
Tra questi scultori spicca Timarchide con la sua bottega, attiva non solo a Roma, ma anche in Grecia, come dimostra la base firmata della statua ritratto del commerciante italico (probabilmente un ricco mercante di schiavi) Caio Ofellio Fero a Delo: un’opera importante, esempio precoce (siamo intorno al 120 a.C.) della commistione tra ritratto realistico e forme corporee “ideali” frequente nella ritrattistica romana repubblicana. A Roma Timarchide realizza il simulacro di culto monumentale per il tempio di Apollo Medico, identificabile in un tipo, noto in più copie, di Apollo nudo con la cetra, chiaramente ispirato all’Apollo Liceo attribuito a Prassitele. La medesima ripresa di stilemi prassitelici, rielaborati tuttavia con una sensibilità marcatamente ellenistica, si riscontra nella testa colossale di un acrolito raffigurante un Eracle di tipo giovanile, rinvenuta alle pendici del Campidoglio e che è da attribuire al figlio di Timarchide, Policle: un artista che lavora, in particolare, per Quinto Cecilio Metello Macedonico, per il quale realizza le statue di culto per i templi di Giove Statore e di Giunone Regina all’interno della sua porticus in Campo Marzio.
Non solo attici sono gli scultori che lavorano per la committenza politica romana: è un esponente della scuola rodia, Filisco, che realizza un gruppo scultoreo, raffigurante le nove Muse con Apollo, Artemide e Latona, che Plinio (Nat. Hist. XXXVI. 34) ricorda nel tempio di Apollo Medico, e che è forse commissionato da Marco Emilio Lepido, che nel 179 a.C., anno della sua censura, si occupa del restauro dell’antico edificio sacro (costruito nel 431 a.C.). Delle Muse di Filisco, destinate ad una notevole fortuna iconografica, si conoscono numerose repliche e varianti, tra le quali spicca la grazia pensosa della cosiddetta Polimnia, che si avvolge in un raffinato panneggio, caratterizzato da un complesso gioco di pieghe tra il ricco chitone e il manto trasparente; ma se ne conserva, forse, anche un frammento originale, una testa femminile in marmo greco rinvenuta nei pressi della cella del tempio, dagli spiccati caratteri prassitelici.
A dominare il filone classicistico e “nostalgico” tra II e I secolo a.C. è l’eclettismo, ovvero la capacità di combinare abilmente, senza restrizioni, stilemi e forme espressive di epoche diverse, considerati i più adatti di volta in volta a comunicare determinati messaggi e valori. Per utilizzare l’arte greca del passato come un inesauribile serbatoio di modelli occorre anche una notevole erudizione storico-artistica: quella di cui sembra dotato Pasitele, un artista originario della Magna Grecia attivo a Roma nei primi decenni del I secolo a.C. e autore di un’opera letteraria in cinque volumi dedicata ai nobilia opera, ovvero ai più celebri capolavori artistici in tutto il mondo. Questo testo è una delle principali fonti dei libri XXXIV-XXXVI della Storia naturale di Plinio il Vecchio, dedicati alle arti figurative, e da esso deriva probabilmente la nota affermazione pliniana (Nat. Hist. XXXIV, 52) secondo la quale l’arte sarebbe morta agli inizi del III secolo a.C. (in coincidenza con l’affermarsi delle tendenze patetiche e drammatiche) per poi rinascere alla metà del II secolo a.C., con l’imporsi del gusto classicista.
Che l’opera di Pasitele avesse un’impostazione retrospettiva è suggerito anche dalla produzione della scuola artistica da lui fondata a Roma, di cui un prodotto assolutamente emblematico è l’Atleta firmato da Stefano (che si qualifica come “allievo di Pasitele”), in cui riecheggia la ponderazione della statuaria atletica dell’età severa per una figura giovanile che rivela però l’adeguamento a più moderni canoni estetici nelle proporzioni slanciate, di ispirazione lisippea, e nella morbidezza del modellato. A Stefano è forse attribuibile anche la Venere dell’Esquilino, che riprende suggestioni di stile severo per un’Afrodite al bagno, nella quale si è voluto riconoscere una statua ritratto di Cleopatra VII, degli anni in cui la regina d’Egitto si trova a Roma: statua identificabile, probabilmente, con quella che Cesare colloca all’interno del suo Foro, di fronte al tempio di Venere Genitrice. La scuola pasitelica affianca alla creazione di questi originali, caratterizzati da un pluralismo di stili e di ispirazioni, la realizzazione seriale di copie dai capolavori greci di età classica per la decorazione di edifici pubblici e delle abitazioni private della clientela romana: un fenomeno questo che prende le mosse negli atelier della Grecia propria almeno dalla fine del II secolo a.C., ma che avrà a Roma un notevole incremento soprattutto a partire dall’età di Augusto, in concomitanza con l’orientamento classicistico assunto dalla propaganda “per immagini” augustea. È dunque Roma l’ultima tra le capitali artistiche di età ellenistica: qui il rapporto tra artisti di notevoli capacità, che si fanno forti di una tradizione secolare, e le ambiziose élite dirigenziali di una città che è politicamente erede dei regni ellenistici, dà vita ad un linguaggio destinato a diventare la forma espressiva fondamentale della cultura figurativa imperiale.