Oltre la critica
Fattori della crisi
Di crisi della critica si discute in Italia da più di vent’anni. Anche se, come sempre in questi casi, è fuori luogo cercare un inizio assoluto, si può ragionevolmente indicare come data spartiacque il 1993, l’anno in cui Cesare Segre intitola una sua raccolta di saggi Notizie dalla crisi. È seguito un dibattito, che si riaccende ciclicamente, a scadenza grossomodo annuale, nei convegni, sulle riviste e sui giornali. Ne è nato anche un piccolo filone editoriale a parte, in cui si sono misurate voci come quelle di Remo Ceserani, Romano Luperini, Giulio Ferroni, Mario Lavagetto, Carla Benedetti. Pur distanti nei toni, nelle argomentazioni e nelle ipotesi eziologiche, sulla diagnosi concordano comunque tutti: la critica non è di certo in buona salute, è anzi gravemente malata, e non è detto che si riprenderà.
Tuttavia, più ancora di questi pronunciamenti fa fede il diffuso senso di scoraggiamento, scetticismo, e talvolta vera e propria nausea che serpeggia a tutti i livelli tra gli addetti ai lavori, dai giornalisti culturali ai professori universitari, dai funzionari editoriali agli insegnanti di scuola. Una condizione, prima che una convinzione. Ne ricorrono di tre tipi, e tutte sensate: la prima, sostenuta da Lavagetto nell’introduzione a Il testo letterario: istruzioni per l’uso, sostiene sulla scia del filosofo e critico letterario Paul De Man che la crisi della critica non è, o non è solamente, congiunturale. Critica e crisi sono un parto gemellare etimologico e storico, e non c’è critica vera, in quanto distinta dalla mera erudizione, che non parta in realtà da una situazione di crisi, di instabilità categoriale, di ridiscussione continua dei criteri, dei metodi e dei fini del suo operare (ma questo nel 1997; nel 2005 lo stesso autore ha firmato per Einaudi una ben più pessimistica Eutanasia della critica); la seconda parte dalla constatazione di quanto lessico, metodologia e assunti epistemologici della critica letteraria siano ormai attrezzi di lavoro per tutte le altre scienze umane. Antropologi, storici, sociologi, psicologi, esperti della comunicazione e dei media parlano correntemente di temi, motivi, tropi, punto di vista, messa in intreccio, narrazione e narratività. E li intendono non solo come artifici stilistici, ma come paradigmi euristici, modalità concrete e condivise di organizzare tanto l’esperienza umana quanto il sapere che la descrive e la interpreta. La retorica, di cui la teoria letteraria è figlia legittima, non è un ornamento ma un mezzo di conoscenza. Anche, e paradossalmente, in concomitanza con la convinzione, diffusa nell’episteme postmoderna, della mescolanza inestricabile di referenzialità e finzionalità che presiede alla fondazione di qualunque teoria. Non una crisi, dunque, ma una colonizzazione, un contagio, se non proprio un trionfo; infine, si dice, la critica e più in generale gli studi letterari sono stati felicemente assorbiti dagli studi culturali. I quali, se scontano ancora, soprattutto in Italia, uno statuto operativo ed epistemologico non chiaro, non mortificano necessariamente la letteratura per il fatto di considerarla solo una delle componenti dell’immaginario sociale, ed eseguono le loro analisi derivando ampiamente metodi e presupposti dalla critica letteraria. Tra cui la centralità dell’elemento linguistico, il rapporto tra realtà e rappresentazione e, soprattutto, quella visione del fatto culturale come invenzione che, sulla scia di un fortunato volume di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, The invention of tradition (1983; trad. it. 1983), si è a poco a poco diffusa, inflazionandosi forse un poco, alla quasi totalità degli oggetti di studio: invenzione della cultura, della società, del soggetto, dell’identità, del paesaggio, del corpo e perfino della natura. Fatta la tara degli eccessi e dei vezzi alla moda, sull’invenzione la critica letteraria ha pur sempre qualcosa da dire.
Tutto vero. Tuttavia, negare che la crisi esista, e non soltanto come crisi soggettiva dei critici, vuol dire davvero far finta di non vedere l’elefante in salotto. I fattori che vi contribuiscono, intrinseci ed estrinseci al campo letterario, sono innumerevoli e quanto mai oggettivi, anche al di là della sempre invocata concorrenza degli altri media, della cosiddetta fine della galassia Gutenberg, della morte del libro (ma libri non se ne sono mai stampati e letti – magari male, magari brutti – così tanti), dell’egemonia sempre più pervasiva delle immagini e dei mass media. Elenchiamone alcuni: a) la disaffezione dell’editoria. Libri di critica se ne pubblicano sempre meno, le collane chiudono, lo spazio (e il tempo di permanenza) nelle librerie si riduce, gli editori sono orientati a commissionare per lo più manuali, introduzioni, strumenti di consultazione molto prossimi al ‘bigino’, oppure ‘grandi opere’ collettive destinate a finire direttamente nelle sale di consultazione delle biblioteche; b) il drastico peggioramento della qualità dell’insegnamento universitario e in generale scolastico; c) l’agonia delle riviste, mal distribuite, pochissimo lette, mai in grado di pagare i collaboratori, oppure destinate a restare onorevolmente nel circuito ultraspecialistico dei ‘bollettini’, degli ‘annali’ o dei ‘quaderni’ di questa o di quella disciplina; d) il progressivo degrado delle pagine culturali dei giornali, dove è sempre più difficile leggere e pubblicare articoli e recensioni serie e argomentate. Dominano invece l’intervista superficiale (spesso telefonica), il ‘soffietto’ suggerito dagli uffici stampa, il ‘caso’ del momento, la polemica futile, o magari lo ‘scandalo’ stancamente alimentato dalle ‘rivelazioni’ su vere o presunte scorrettezze, viltà o bassezze varie di scrittori e intellettuali, vivi o morti che siano; e) la promessa mancata, almeno per il momento, del web, che pullula di siti e di blog letterari, a volte di grande raffinatezza, più di frequente assai rozzi, di solito aperti ai commenti, incapaci però di dar vita a una comunità più ampia, se non francamente alternativa, di quella che viene rancorosamente stigmatizzata come la ‘cultura ufficiale’. È raro, anche se a volte accade, che vi sorga un dibattito degno d’interesse; più spesso finisce in rissa, sulla base di una contrapposizione tra argomenti poco articolati; f) la promozione di una modalità di fruizione culturale tutta incentrata sul criterio dell’‘evento’ (festival e affini), promosso dalle istituzioni pubbliche e benedetto dagli sponsor, in cui prevale inevitabilmente la dimensione del consumo e dell’intrattenimento (intelligente, ciò che suona già triste di per sé), rispetto a quella dell’interrogazione e della consapevolezza critica; g) il diffuso senso di fastidio, sufficienza e autosufficienza ostentato dagli autori (romanzieri, poeti), soprattutto giovani, nei confronti dei critici, ben al di là del topos antichissimo e un po’ comico che li vuole antipatizzanti per contratto. Non servono a niente, ne facciamo a meno, ci commentiamo e magari ci recensiamo tra di noi, dicono molti scrittori. A loro danno, perché una letteratura senza critica è fatalmente una letteratura peggiore, specie in una condizione come quella moderna in cui, scriveva Charles Baudelaire, non c’è scrittore di valore che non abbia dentro di sé anche un critico, e in cui la critica ha compenetrato di sé tante delle poetiche e delle estetiche dal Romanticismo ai giorni nostri. Controprova, gli scrittori più interessanti sono spesso anche dei critici di vaglia, da Gianni Celati a Franco Cordelli, da Alberto Arbasino a Walter Siti, per non citare che qualche italiano; h) infine, e non ultimo, il venir meno di quell’interesse teorico (e non solo metodologico) che aveva fatto da spina dorsale alla migliore critica del Novecento. Non si fa più, non interessa più, occuparsene è controproducente. Titoli come After theory o Against theory proliferano. Chi aveva subito mugugnando l’egemonia di una teoria letteraria a dominante formalista (strutturalismo, semiotica, decostruzione ecc.), finita in una impasse forse più per il suo successo che per le sue aporie, si abbandona al revanscismo più smaccato. A una teoria ripudiata non si contrappone un’altra teoria, ma il presunto buon senso. Non è questo un buon segno. Nella modernità, nessun discorso che volesse mordere sul mondo ha mai potuto fare a meno di un alto tasso di riflessività. Parafrasando Friedrich Schiller, la critica è sentimentale per definizione. Una critica ingenua non può pertanto esistere.
Declino dello spirito critico
Se questo è il quadro, la tentazione in cui chi lo analizza incorre più spesso è quella di vedere in quest’ultimo punto il fattore decisivo. Più che di una crisi generale della critica, è del collasso di un ben preciso protocollo teorico che bisognerebbe parlare. Un protocollo fondato sul paradigma della linguistica (che è stata senz’altro la disciplina guida delle scienze umane del Novecento), e orientato a costruire un modello di ‘scienza della letteratura’ capace di rivaleggiare con il rigore, l’esattezza e la predittività delle cosiddette scienze dure. Una pretesa ingenua, un generoso abbaglio nel migliore dei casi; una hybris giustamente punita nel peggiore. La critica può aspirare a essere una conoscenza razionale, rigorosa e suscettibile di verifica intersoggettiva, ma non è una scienza, nemmeno una scienza umana come la sociologia o l’antropologia.
Si tratta senz’altro di un rilievo giusto, ma parziale, che non può spiegare da solo la galassia di fenomeni elencati sopra. Lo prova il fatto che non vale come antidoto. Altrimenti basterebbe rimettere le cose al loro posto (la critica come conoscenza dialogica, empirica, a statuto non imperfetto ma costitutivamente e felicemente incompiuto) perché tutto tornasse come prima, il che ovviamente non succede. Le aporie di quel modello sono una concausa, ma non la causa prima, ed è necessario inquadrarle in un contesto più ampio. Non prima però di aver accantonato con la sbrigatività che meritano le accuse concomitanti di freddezza, astruseria, terrorismo, illeggibilità e leso umanesimo cui la teoria letteraria del Novecento è stata ed è tuttora sottoposta. Come può far amare la letteratura chi la riduce a un fatto di strutture, di formule, di diagrammi? È ovvio che il pubblico si disaffeziona. Povero argomento, se solo si pensa che un’accusa perfettamente speculare potrebbe essere mossa al contenutismo di ritorno che impera nella pratica critica post-teorica. Cataloghi di temi, sfilze di motivi, visioni del mondo e ideologie spiattellate come se i testi letterari fossero discorsi parlamentari.
Ma forse l’errore consiste proprio nel cercare un rimedio interno al campo critico. Proviamo invece ad allargare l’orizzonte, e a formulare l’ipotesi che la crisi della critica letteraria sia solo l’epifenomeno di un processo più vasto, ben altrimenti drammatico e radicale. Un processo che è sotto gli occhi di tutti, e che fatichiamo a nominare proprio perché è di un’evidenza che acceca: la crisi non di una disciplina o di un metodo, né di un’istituzione (qual è stata la critica letteraria nelle forme storiche in cui l’abbiamo conosciuta, militanza e accademia, interpretazione e giudizio), ma dello spirito critico tout-court. Quello spirito critico che si identifica storicamente con la modernità, l’illuminismo, l’aspirazione kantiana a camminare eretti: sapere aude, abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza, rivendica un uso pubblico della tua ragione. Non accettare nulla per dato, per scontato, per garantito da un’autorità, trascendente o mondana; verifica, sospetta, chiedi conto, domandati se non ti tocchi altro e di meglio di quello che ti viene offerto. «Il tempo nostro», ha scritto Immanuel Kant nella prefazione alla Kritik der reinen Vernunft (1781), «è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare». Ivi compresa quella ragione, con le sue virtù ma anche con i suoi limiti, che è l’unico strumento di cui l’umanità dispone per compiere le sue verifiche, autolegittimarsi come progetto e non come destino, rifiutare le tutele e gli interdetti che le vengono contrapposti come dati di fatto, e sono invece anch’essi costruzioni umane, contingenti, storicamente divenute e dunque passibili di modificazione.
Non c’è dubbio, infatti, che tra i tanti significati che possiamo dare al concetto di postmodernità, il più importante ai fini del nostro discorso, ma anche in generale, è proprio questo: la fine dell’egemonia dello spirito critico nel costituirsi della soggettività, individuale e collettiva. Non è più la critica il lievito che alimenta il divenire storico e il processo sociale, ma la giustapposizione adialettica tra una razionalità sistemica, che aspira a presentarsi come rigorosamente oggettiva, e una soggettività cui sono richieste prestazioni di tutt’altro genere: passività, obbedienza, suggestione, consumo, accettazione dei miti, adesione ai simulacri, identificazione nei leader, aspirazione a essere governati (mentre «come non essere governati» era secondo Michel Foucault il fondamento di ogni critica possibile). Il tutto condito da uno scetticismo radicale, generalizzato, aproblematico, che ha preso in parola il motto nietzschiano nel mondo vero divenuto favola dimenticando che per lo stesso Nietzsche la liquidazione del feticcio del mondo vero doveva servire a una messa in questione radicale del mondo apparente.
Nulla di più lontano dal moderno, e dal suo uso rivoluzionario dello stesso armamentario teorico dello scetticismo, da Michel de Montaigne a Pierre Bayle, dai libertini a Kant. Non a caso, delle tre operazioni fondamentali contenute in germe dalla parola critica – rifiuto, criterio, giudizio –, la prima è oggi la più squalificata in quell’attendibilissimo sismografo che è il linguaggio corrente, dove sopravvive ormai soltanto in formule come «perché mi critichi», «non stare sempre lì a criticare», o nel pietoso ossimoro che auspica una critica, sì, ma costruttiva. Mentre un elemento di distruzione, di contestazione, di introduzione, avrebbe detto Theodor W. Adorno, di una quota di negatività nell’essere, è una componente basilare di qualunque atteggiamento critico. Indispensabile al critico è ciò che Walter Benjamin chiamava «il carattere distruttivo». E in questo senso, l’eroe eponimo della critica moderna è proprio il Bayle del Dictionnaire historique et critique (1697), monumentale opera di demolizione di un sapere cui non si crede più, giudizio universale di un sistema della credenza, e dell’erudizione su cui si fonda, che viene messa in crisi ritorcendole contro i suoi stessi strumenti, e contrabbandando ironicamente, sotto la spoglia dei conclamati limiti della ragione, l’impossibilità e dunque l’inutilità della speculazione teologica: «La ragione è un principio di distruzione e non di edificazione, adatto soltanto a sollevare dubbi e a volgersi a destra e a manca, per prolungare all’infinito una disputa. […] Questa sciagurata situazione è, a quanto pare, la più adatta a convincerci che la ragione è una strada di smarrimento: quando essa si dispiega in tutta la sua sottigliezza, ci fa precipitare in un simile abisso. La conseguenza naturale di tutto ciò è che dobbiamo rinunciare a una tale guida, pregando la Causa di tutte le cose di darcene una migliore» (trad. it. 1976, pp. 23, 115). Nella descrizione del mondo fisico e nell’organizzazione del mondo sociale, però, non mancheranno di chiosare gli uomini dei Lumi, la ragione non se la cava poi così male, e lo smarrimento, l’inquietudine, la profonda insoddisfazione possono essere uno stimolo molto produttivo oltre che un’angoscia.
Rifiuto, criterio, giudizio, abbiamo detto. E non a caso il giudizio viene per ultimo. Per arrivarci è necessario passare per l’elaborazione di un criterio, e cioè per l’individuazione delle prerogative e soprattutto dei limiti attraverso cui la ragione può operare. È questa l’accezione principale in cui Kant intende il termine critica: delimitazione di un campo, istituzione di un terreno di validità epistemologica dei propri asserti, in una parola teoria, intesa però non solo come e non tanto come teoria pura, ma come riflessione, autoriflessività, discorso condizionato, ancorato, individuato e sempre riconducibile a un’angolatura. Nel sintagma teoria critica, determinante è più l’aggettivo del sostantivo, perché è lì che si concentra l’intenzione, lo scopo principe, il punto di mira del discorso, come comprese per primo Friedrich Schlegel, e come ha spesso corso il rischio di dimenticare la teoria letteraria e culturale novecentesca.
Solo da questo punto in poi si può credibilmente parlare della terza operazione, il giudizio, che una frettolosa contiguità con l’etimologia (dal greco krínein, «giudicare») potrebbe farci ipotizzare come prima. Non è così storicamente: nella filosofia greca, da Platone ad Aristotele, il termine voleva per lo più dire tutt’altro (assennatezza e competenza richieste all’uomo politico), e per quanto attiene al senso odierno la distinzione tra il grammatico e il critico (colui che attribuisce un significato più o meno allegorico al testo, per es. ai poemi omerici) censisce solo un versante minore della riflessione degli stoici. Ma meno ancora è così da un punto di vista logico: soltanto sulla base della doppia spinta archimedica del rifiuto e del criterio, del dubbio e del setaccio, e non di una fantomatica pulsione a dire ‘brutto’ o ‘bello’, ha derivato il suo senso la questione del giudizio di valore.
Bello e brutto, in quanto non distinti da piacevole e spiacevole, sono senz’altro predicati che ognuno può applicare alla sua aisthesis, alla sua presenza al mondo sensibile. Il problema nasce quando si tratta di passare dal sensibile all’intellegibile, dal privato al pubblico, dall’idiosincratico al comunicabile: anche la critica estetica più elementare è soggetta all’ingiunzione dell’uso pubblico della ragione. Si capisce perciò per quale motivo la critica artistica e letteraria nelle sue forme attuali abbia trovato la sua genesi nel Settecento, e cioè nel secolo che ha dato inizio a quella dissoluzione del sistema dei generi, dei canoni e delle regole classiche, rendendo impossibile un giudizio per così dire interno all’arte stessa, fondato sull’adeguazione ai modelli, ai tipi ideali, o sullo scarto calcolato da essi. Solo empiricamente, attraverso la formazione, il raffinamento della sensibilità, la frequentazione costante dei testi, la riflessione sulle proprie esperienze, è possibile stabilire per consenso e non ex officio quella che David Hume chiamava una «regola del gusto».
Non per questo dei gusti non si può disputare: è vero il contrario. Certo, se il creatore dell’opera è pensato non più come uno specchio che riflette ma come una lampada che irradia la sua luce, allora non può essere giudicato in base ad alcuna regola. Il genio, diceva Kant, non rispetta le regole: le fa. Analogamente, il giudizio di gusto non può essere dedotto da una serie di assunti logici. E tuttavia esso va distinto dal giudizio privato che esercitiamo sulla base della mera percezione sensoriale, in quanto è un giudizio «riflettente» che mira a cogliere l’universale nel particolare, e pretende al consenso nonostante la sua natura inevitabilmente soggettiva. Esso postula infatti, a differenza dal giudizio di fatto, l’esistenza di una norma universale (il «senso comune», ovvero ciò che abbiamo in comune), non adducibile e operante sempre in absentia, ma non per questo riducibile a una mera chimera. Di quella norma, il giudizio aspira a essere non un’applicazione ma un’esemplificazione. È ‘il comune’ che fonda tanto il giudizio soggettivo quanto la possibilità di discuterlo. Non può esistere una critica privata, non intesa a essere condivisa o confutata. La critica è pubblica per diritto di nascita. Nel suo nesso tra individuale e universale, la critica è la radice storica e ontologica del soggetto moderno, costitutivamente eccentrico, mai definitivo e costantemente in via di autofondazione.
Che cosa accade però se quel nesso viene rescisso, se soggettività e universalità si separano, se la prima viene ricacciata nel privato e la seconda si realizza solo nella generalizzazione del valore di scambio che presiede alla genesi della merce? È il trionfo della cultura. Una cultura però non più intesa come Bildung o autopoiesi, ma come definitiva antropizzazione dell’ecumene, trasformata dalla prassi umana in una sterminata distesa di merci, segni, simulacri, tra cui i manufatti artistici non fanno eccezione. Una cultura che non ha più senso distinguere dall’economia, e che non può più essere utopisticamente pensata come spazio di libertà strappato alla necessità. La merce è la sua propria cultura, il consumo è la sua propria ideologia. L’autoreferenzialità, un tempo prerogativa dell’opera d’arte moderna, si è trasferita alla merce, che non ha altro referente verso cui fare segno al di fuori e al di là di sé stessa. Non un’umiliazione ma piuttosto, ha scritto Fredric Jameson in Postmodernism, or The cultural logic of late capitalism (1991), un’apoteosi: «la dissoluzione della sfera autonoma della cultura va immaginata piuttosto in termini di esplosione: un’immensa espansione della cultura nell’intero ambito sociale, al punto che si può dire che tutto nella nostra vita sociale – dal valore economico al potere statale fino alle pratiche e alla stessa struttura della psiche – sia diventato ‘culturale’ in un senso originale mai prima teorizzato» (trad. it. 2007, p. 192). La cultura è la morte della critica. Alla riflessione sostituisce il feticismo, all’universale l’astratto, al soggetto l’identità (basta vedere come viene impiegato il termine in politica: la nostra cultura, la loro cultura, lo scontro di culture ecc.). Per accettarne la sfida, la critica deve trasformarsi in critica della produzione, più che dei prodotti, ovvero della cultura tout-court.
La società postcritica
Prima, però, dobbiamo collocare al giusto posto la genesi e la fine di quel progetto teorico a dominante linguistica (formalismo, strutturalismo ecc.), nelle cui errate ambizioni di scientificità molti hanno visto la causa prima della crisi della critica odierna. Non è così, e siamo adesso in grado di capire perché. E più ancora, siamo in grado di comprendere quale impulso profondo soggiacesse a quell’ambizione sbagliata. Il sogno (o l’incubo) di una critica trasformata in scienza della letteratura è stato l’estremo rifugio di quell’aspirazione all’universale che la modernità ha inscritto nel suo programma genetico. A fronte della moltiplicazione all’infinito della produzione culturale, alla fungibilità dei suoi prodotti e alla loro sussunzione sotto il dominio della forma merce, la critica ‘scientifica’ ha tentato di svolgere la stessa funzione di cattura, di addomesticamento e di umanizzazione che le scienze fisiche esercitano nei confronti dell’infinito naturale. Uno strumento di controllo, ma anche un regolatore omeostatico d’angoscia, non dissimile da quel «pensiero selvaggio» che secondo Claude Lévi-Strauss non serve solo a designare gli scambi e servizi in cui si articola la divisione del lavoro sociale, ma serve fondamentalmente a situare la presenza dell’uomo nel cosmo nel momento in cui non ha la possibilità di farlo come soggetto.
Che si trattasse di un programma irrealizzabile, Roland Barthes è stato tra i primi a capirlo, e lo ha detto in S/Z (1970). Ma non affrettiamoci ad abbandonarlo senza prima averne capito l’intima necessità storica. Si apre davanti al critico lo sterminato spazio della letteratura-mondo, orale e scritta, fatta di miriadi di tradizioni locali e di un numero ancora maggiore di imprestiti, interscambi, ibridazioni. E poi le altre arti, gli altri media. E poi la semiotica, che ravvisa segni e codici in ogni recesso, massimo o minimo, della produzione sociale. Aggiungiamoci l’alfabetizzazione di massa, l’aumento vertiginoso della produzione, il tramonto di quelle confraternite di gusto che sono le élites, le classi superiori. Che farne di questo troppo di tutto? Se però la cultura è un sistema di sistemi, una rete di strutture riconducibili tutte a un’unica struttura sovraordinata (la quale, una volta individuata, avrebbe dovuto coincidere con la natura umana, anche se non lo si ammetteva volentieri, Noam Chomsky a parte), allora possediamo una chiave universale per accedervi, dominarla, metterla in comunicazione con sé stessa.
È stato questo, prima di ogni altro, l’errore insito in quel modello. Un errore generoso, e non solo un peccato d’orgoglio. Un errore, verrebbe da dire, quasi tragico, in quanto connesso all’autoaccecamento, al non voler vedere che tanto l’autoreferenzialità quanto l’universalità si andavano realizzando per tutt’altri canali, attraverso quell’aldilà del soggetto (e dell’oggetto) che è la merce. Da questo punto di vista, l’illusione strutturale è stata ideologica nel più classico dei sensi: una rappresentazione rovesciata della realtà. La struttura vagheggiata dai teorici del Novecento (e il suo rovesciamento indecidibile e abissale minacciato dal decostruzionismo) è il nome d’arte sotto cui si nasconde la realtà della merce, nella sua totale requisizione dell’universo sensibile e intellegibile, lavoro umano compreso, creatività inclusa. Lì approdano e lì si inabissano il giudizio, il gusto e, più in generale, il ‘comune’ che li rende possibili. Chi ancora aspira a una struttura delle strutture ha di che sbizzarrirsi.
Minore importanza hanno in confronto a questo le contraddizioni, i fraintendimenti e le aporie interne all’edificio della teoria. Su di ciò non ci soffermeremo a lungo, anche perché è un lavoro che è stato già fatto, e bene, fin dagli anni Settanta, in Italia per es. da critici come Mario Lavagetto, Remo Ceserani, Francesco Orlando, Franco Brioschi, Costanzo Di Girolamo. L’elenco degli addebiti è noto; ricordiamo almeno, oltre alla mal riposta speranza di configurarsi come una scienza: a) il tentativo fallito di individuare uno specifico linguistico, la cosiddetta letterarietà, che permettesse di distinguere il linguaggio letterario dal linguaggio ordinario; b) l’idea che il testo sia un universo chiuso, autotelico, autosufficiente, intimamente compiuto. Da cui una decisa sottovalutazione del contesto di produzione e ricezione; del suo rapporto con il referente, il mondo della vita preso a oggetto di rappresentazione; dei moti passionali e ideologici che ci spingono a leggerlo e a scriverlo; delle contraddizioni, e non solo delle tautologiche isotopie di cui può essere portatore proprio in quanto conflittuale e incompiuto, aperto non solo su altri testi o su una fuga infinita di codici, ma sulla vita e sulla società di chi lo produce e lo consuma; c) l’aspirazione a pensarsi come una zona di linguaggio aletico, esatto, univoco, immune dagli equivoci e dall’instabilità semantica del linguaggio corrente, che ha fatto spesso sembrare i testi elaborati dai teorici (dagli epigoni più che dai maestri, a dire il vero, e in ogni caso con una buona dose di esagerazione) come scritti in una sorta di neolingua per molti versi orwelliana.
Congediamo definitivamente l’idea che la critica possa essere entrata in crisi per cause intrinseche: pensare che se non si fosse frainteso Louis T. Hjelmslev le cose sarebbero andate in altro modo è di un’ingenuità nemmeno commovente. Neanche il contrario però è del tutto vero. Il fatto è che per la critica non esistono ragioni estrinseche. Se la critica è davvero una pratica dialogica, soggettiva ma tendente all’universale, orientata all’uso pubblico, all’argomentazione, alla persuasione, alla ricerca dell’assenso e della condivisione, allora nulla può esserle estrinseco. La critica è un’attività intrinsecamente sociale, interumana, mondana, e in quanto tale non c’è nulla nel mondo che non la riguardi, sia pure con le dovute mediazioni. Per questo, ha scritto una volta Franco Fortini, il critico è il contrario dello specialista. La letteratura può decidere (o per meglio dire fingere) di parlare solo a sé stessa, di ritirarsi dallo scambio sociale, di sabotare la comunicazione fino a renderla impossibile. La critica no. La critica è una funzione del vivere associato. Al punto che forse converrebbe rovesciare l’assunto secondo cui la critica ha bisogno della società. È vero l’inverso: la critica è (o non è) un bisogno della società. È un suo atteggiamento, una sua postura, uno dei modi in cui essa dispiega il suo farsi e il suo disfarsi.
Non è l’unico. Tutto lascia pensare che viviamo in una società postcritica. Non è un fenomeno nuovo in assoluto: ci sono state molte società precritiche. Come ha scritto Jean-Yves Thibaudet, se in ogni tempo è stata praticata una qualche forma di critica, la Critica come istituzione non risale al di là dell’Ottocento. Nel Settecento, dove pure ha avuto inizio la sua marcia trionfale, la critica era piuttosto un sentimento diffuso, l’emergere di una nuova Stimmung etico-politica prima ancora che estetica. Nuova, semmai, è la situazione di una società che sembra voler fare a meno dello spirito critico in quanto tale. L’obsolescenza delle sue incarnazioni storiche moderne – interpretazione e giudizio, insegnamento e militanza – è oggi particolarmente grave non perché le forme debbano durare in eterno: non sono sempre esistite, e se ne avessimo parlato a Cervantes, a Molière o anche a Boileau non ci avrebbero nemmeno capito. Ma perché, come invece nella storia è sempre accaduto, al loro posto non ne sorgono altre, e ai loro compiti presiedono oramai altre agenzie che dello spirito critico sono la negazione radicale.
In primo luogo, è venuta meno la sua funzione educativa, in corrispondenza con il mutato statuto dell’insegnamento della letteratura. Da tempo ormai la letteratura non rappresenta più uno strumento di formazione dei ceti superiori, né di acculturazione e di nazionalizzazione delle masse popolari (a questo fine fu introdotto nell’Ottocento l’insegnamento delle letterature nazionali, in aggiunta a quello del greco e del latino, con tutte le conseguenze interne al campo che ne seguirono, quali la fine del prestigio della retorica e il sorgere della storia letteraria come fattore di identità nazionale). Non serve più a fornire un modello di lingua, scritta e per estensione anche parlata, un ruolo svolto soprattutto in Italia, che è stata a lungo soltanto un’espressione geografica. Né ha più ormai la funzione di dar forma a un canone di valori estetici e ideologici per i ceti superiori, attraverso cui egemonizzare le classi subalterne e legittimare il proprio diritto al dominio. La letteratura in quanto istituzione, circuito cerimoniale, capitale simbolico, modello di espressione e veicolo privilegiato di atteggiamenti mentali e ideologici, ha perso la sua centralità. I governanti ne fanno tranquillamente a meno. I governati anche. Poveri e ricchi si distinguono ancora per la qualità e soprattutto per la quantità dei consumi, ma non di quelli culturali. Nelle borgate e nelle ville in Sardegna ci si nutre del medesimo junk food culturale, e può perfino capitare che il massimo titolare della sua produzione diventi capo del governo.
Conseguenza: la critica si vede non sottratto o contestato, ma piuttosto lasciato, abbandonato come un vestito vecchio o una moneta fuori corso, quello che è stato negli ultimi due secoli il suo core business: l’interpretazione. Nessuno gliela vieta. Se ne occupi pure, se ci tiene. A noi però, la società, non interessa. Quando si lamenta, come ha fatto per es. George Steiner, il fatto che l’interpretazione sia ormai divenuta autoreferenziale perché non ha più di mira il testo ma le altre interpretazioni, è in primo luogo a questo che si deve pensare. Interpretare un testo è sempre anche interpretare il mondo umano che lo circonda, lo commissiona, lo produce, lo riceve, lo rifiuta, lo replica e gli replica. Ma se a quel mondo l’interpretazione non importa più, se la società si rappresenta e si giudica con altri mezzi, è ovvio che ognuno parla con chi lo sta a sentire, e cioè gli altri critici. Il proliferare di interpretazioni che nessuno legge (se non, quando va bene, gli altri interpreti) è un caso esemplare di quella che Marcel Proust chiamava ‘l’incredibile frivolezza dei moribondi’. Anche l’idea che la critica letteraria sia in primo luogo interpretazione è del resto un fatto storico, databile, che non risale oltre la fine del Settecento, quando non a caso l’ermeneutica assurge allo statuto di paradigma filosofico. Voltaire non l’avrebbe condivisa, il classicismo ci avrebbe rimandato ai teologi o ai giuristi, sostenendo che si interpreta un testo sacro o una pandetta, non un’opera letteraria. Può darsi che il suo tempo sia finito. Bisogna vedere cosa prenderà il suo posto.
Stesso discorso si potrebbe tenere per l’altra grande branca dell’attività critica comunemente intesa, e cioè la valutazione, il giudizio, l’orientamento del gusto del pubblico. Se l’interpretazione si esercita sui classici (e dunque nelle classi, della scuola o dell’università), la valutazione è sempre stata una prerogativa gelosa della critica militante, che gettando la sua rete nel mare magnum dell’oggi formula una scommessa sui classici di domani: questo testo è migliore, durerà. Un compito che oggi svolgono molto meglio, almeno in termini di vendite se non di futura canonizzazione, altre forme di comunicazione: un invito a un festival o un passaggio in televisione valgono più di dieci recensioni, come sa qualunque ufficio stampa. Né la gente, si dice, vuole più saperne di mandarini che le dicano cosa leggere e cosa non leggere; non di quei mandarini, a ogni modo. L’autorevolezza della critica militante non è mai stata così bassa, inferiore perfino a quella della critica gastronomica, dove almeno le tre forchette e i tre bicchieri assegnati dal critico offrono la garanzia di una qualche oggettività. Che poi altre forme di promozione, sotto le loro false apparenze democratiche, siano ben altrimenti autoritarie, è un fatto che attiene alla necessità già ricordata sopra di trasformare la critica dei manufatti culturali in critica della cultura tout-court (della sua logica, della sua legge intrinseca, dei suoi criteri di produttività più che della sua produzione).
Il futuro del discorso critico
Cosa resta? Ci sono altre possibilità? O bisogna rassegnarsi all’alternativa tra il business as usual e la diserzione? Pessima alternativa. Da una parte la cecità (volontaria, bisogna avere la malizia e insieme la carità di credere) di chi fa finta di niente e continua a sfornare commenti, monografie, saggi e recensioni, interpretazioni e giudizi come se fosse tutto come prima. Dall’altra lo scoraggiamento di chi passa ad altro, si mette a scrivere romanzi, si improvvisa moralista, filosofo, sociologo, tuttologo (non è la letteratura un discorso esonerato dalla verifica fattuale? E allora più di tanto danno non si potrà fare), o si conferisce l’ambita e ambigua patente del saggista, perché la saggistica, si sa, è un genere letterario come gli altri, e dunque tra testo critico e testo letterario non c’è poi gran differenza, anche a non voler condividere la sfiducia nel concetto di metalinguaggio che era stata il ferro di lancia della tarda teoria novecentesca. Una resa, in entrambi i casi. Una critica cieca non è una critica. Una critica che non si assume come discorso non secondo o subordinato ma altro, questo sì, rispetto a ciò di cui parla, rinuncia al suo bene più prezioso, la dialogicità, l’«extralocalità», avrebbe detto Michail M. Bachtin, delle coscienze, delle culture e dei linguaggi. Nessuna critica dove c’è un discorso solo: i detentori del potere lo hanno sempre saputo, ed è bene che lo ricordino anche i critici.
Se questo è il quadro, non c’è nessuna bacchetta magica che possa ribaltare la situazione: che dove cresce il pericolo cresca anche ciò che salva, come dice l’Hölderlin sempre citato quando non si sa più a che santo votarsi, è meno ancora di un pio auspicio. La dialettica non è un gioco di prestigio. Dobbiamo accontentarci di qualcosa di meno – ma nello stesso tempo, per chi nutre la passione del concreto, di più: segnali incerti, indicazioni di percorso, esigenze condivise che devono ancora articolarsi in discorso. Se siamo persuasi che la critica, al di là del tramonto delle sue incarnazioni storiche, sia qualcosa che manca a una società che voglia dirsi degna di essere abitata, allora dobbiamo chiederci che cosa esattamente manca. Non ciò che abbiamo perso, ma ciò che forse non abbiamo mai avuto, il sogno di una cosa, la promessa messianica (moderna) di una felicità e di un’emancipazione mai garantite, e per questo sempre all’ordine del giorno.
Dobbiamo essere all’altezza del nostro nichilismo, che non ci piove sulla testa per colpa degli astri, ma è il risultato del mondo per come, Giambattista Vico insegna, ce lo siamo costruito noi. Nel mondo umano non esiste una verità trascendente e atemporale cui far riferimento per confutare un discorso, rifiutare una pratica, avversare una politica. Non c’è una corte di cassazione della storia davanti alla quale ha ragione Don DeLillo e torto Federico Moccia. Ci sono pratiche da contrapporre a pratiche, interessi a interessi, valori a valori, nella consapevolezza che i valori sono fabbricati, prodotti, contingenti, e veri nella misura in cui li rendiamo veri con la nostra azione. Di fronte alle opere letterarie, non dovremmo forse più chiederci quale sia il loro vero senso, e quanto oggettivamente valgano più di altre, ma piuttosto che cosa possiamo o non possiamo fare con esse: quale mondo ci aprono, e quale mondo abbiamo intenzione di fabbricare per adempiere alla loro promessa di felicità. Dissolte le sue funzioni istituzionali, venuta meno la sua autorevolezza e dunque il suo ambiguo e contraddittorio connubio con il principio di autorità, che a rigore dovrebbe costituire il suo opposto, alla critica si offre oggi l’opportunità di riavvicinarsi alla sua essenza (che è storica anch’essa, beninteso): un discorso a mani nude, senza tutele, senza garanzie, sorretto solo dalla sua tenuta interna (e cioè dal sapere, dall’immaginazione e dalla capacità argomentativa del critico). Un discorso che non ha più l’ambizione di insegnare, di guidare, di istituire canoni, e si affida piuttosto alla sua volontà di esercitare in pubblico una funzione esemplificativa: guardate che leggendo quest’opera è possibile fare questi pensieri, quest’esperienza, questa trasformazione di sé, e dunque posizionarsi diversamente, in quanto soggetti e non in quanto meri consumatori, in quella rappresentazione immaginaria del nostro rapporto con la realtà che è, diceva Louis Althusser, l’ideologia.
Pubblicità, esemplificazione, soggetto: erano già, come abbiamo visto, i termini di Kant. Da essi ci divide però l’idea che l’esperienza estetica sia aconcettuale e disinteressata. Il soggetto estetico di Kant è quasi altrettanto disincarnato di quello trascendentale, con le sue categorie, le sue forme a priori e le sue antinomie dialettiche. Non è a lui che ci rivolgiamo, non è per lui la sfida di portare la singolarità individuata, sessuata, storicamente determinata, al cospetto di una possibile universalità. Una sfida che la teoria letteraria novecentesca – molto più kantiana, su questo punto, di quanto abbia mai sospettato – non lo avrebbe mai potuto porre in grado di affrontare. Tra tutti gli addebiti che è stato giusto rivolgerle, la sua ostilità al soggetto è senza dubbio il più grave. L’idea che possano esistere un sapere e una prassi senza soggetto è stata la più grande illusione filosofica del nostro tempo, destinata a metter capo solo alla falsa opzione tra il realismo più ingenuo (la realtà è là fuori e il discorso la imita) e il costruzionismo più nichilista; quell’opzione in cui si dibatte e si arena non a caso il senso comune delle società postmoderne. Ma tra chi dice che il mondo è come è e la mente è la sua copia, e chi sostiene che tutto ciò cui possiamo avere accesso è una fuga di codici, un mormorio di segni adespoti, un archivio di enunciati senza autore, la differenza è meno grande di quanto sembri: copiare la realtà o essere parlati dal linguaggio è solo una falsa alternativa. L’unica ‘cosa reale’, in entrambi i casi, è il discorso del potere, che ha per sua natura quella di proporsi come l’unica articolazione possibile tra il conoscere e l’agire. Negare che le cose stiano così, è il primo essenziale dovere della critica.
Anche della critica letteraria. Non c’è letteratura senza soggetto: proprio in quanto lo finge, essa lo implica e lo pretende. Perché un testo letterario esca dal suo statuto di cosa, vibrazione sonora o macchia d’inchiostro, è necessario che colui che ne fruisce accetti di prestare a quei segni la sua enciclopedia affettiva, cognitiva e ideologica. L’odio di Raskolnikov per il giudice istruttore, ha detto una volta Jean-Paul Sartre, è il nostro odio e può essere compreso solo facendo appello alla nostra esperienza dell’odio – dell’amore, della paura, della rabbia, della nostalgia, della felicità. In quanto discorso esonerato, a referenzialità sospesa, costituito da pseudoenunciati che non rimandano ad alcun oggetto concreto, la letteratura non dice ‘che cosa’: dice ‘chi’. Anche quando finge di farlo, la letteratura non mette in scena una conoscenza ma piuttosto una coscienza, un agente, una rete di rapporti possibili tra coscienze e agenti possibili. E la domanda a cui risponde non è tanto cosa sentiva e pensava il tale personaggio, ma cosa sentirei e penserei io lettore se mi trovassi al suo posto. Ovvero, ed è lo stesso, che cosa potrei fare di me, quale altra possibilità d’uso della mia esistenza, ha scritto Franco Fortini, posso rivendicare al di là di quella che sembrerebbe essermi stata assegnata. È in questa fessura l’occasione della critica, la sua possibilità di trasformare i suoi elementi primi – soggettività, comunità, comunicazione, universalità – in valori: parlare dell’altro, misurarlo sullo stesso, trasformare lo stesso in qualcosa di altro, evitando la tautologia e salvaguardando a ogni costo la possibilità dell’evento, del nuovo, dell’impensato.
Il che non autorizza del resto a compiere alcun arbitrio, alcuna prevaricazione sul testo. Soggettivo non vuol dire arbitrario. L’imperialismo del lettore è l’altra faccia di quella metafisica dell’individualismo proprietario oggi dominante che era stato giustamente smascherato dalla teoria critica nell’ideologia dell’autore come depositario del senso ultimo della sua opera: cancellazione dell’alterità, del diverso, dell’eterogeneo, dell’inconciliabile (e cioè della storia), che finisce per farci ritrovare in un autore o in un’opera solamente ciò che ci mettiamo noi stessi, il nostro volto compiaciuto o angosciato, l’efficienza dei nostri saperi e la chiusura dei nostri orizzonti. Anche chi è convinto che non siamo noi a spiegare la letteratura, ma la letteratura a spiegare noi, e che il compito di una critica che non voglia essere tautologica sia quello, scrive Maurice Blanchot, di condurre lo sguardo «di cerchio in cerchio, da glosse inesatte a scolii imperfetti, attraverso un vuoto sempre più appropriato […], sul punto in cui la poesia, cessando di essere oggetto per divenire potenza di visione, offra al lettore la sensazione di essere lui stesso spiegato e contemplato» (Faux pas, 1943; trad. it. 1976, p. 126), non può correre il rischio di ridurre il testo al fantasma delle sue proiezioni. Questo è il mestiere del potere, certamente non quello del critico.
Senza dire, poi, che come già per la traduzione, l’alternativa tra la brutta fedele e la bella infedele, tra la lettura ‘giusta’ ma piatta e quella magari ‘sbagliata’ ma creativa, è solo una falsa alternativa. Intanto perché, ha ammonito Jean Starobinski, una lettura che indebolisce l’oggetto indebolisce anche il soggetto: «più cerchiamo di raggiungere le opere nella configurazione che hanno in sé, più sviluppiamo i legami che le fanno esistere per noi» (Le ragioni del testo, 2003, p. 18). Il contenuto di verità di un’opera, diceva Benjamin, emerge solo dall’esame dei rapporti che intrattiene con il suo contenuto reale. Le conoscenze filologiche e le competenze retoriche restano essenziali (e si possono, tra l’altro, legittimamente insegnare e imparare). Più si sa e più si vede, e solo chi sa può avere la libertà di dimenticare. Ma più decisivo ancora è il fatto che un testo non è mai una struttura integralmente satura, statica, bloccata, una rete di significati fissati una volta per tutte come l’essere parmenideo. E non solo per il necessario intervento di chi deve leggerlo, ma perché include esso stesso fin dalla sua genesi un fascio di possibilità, di contraddizioni irrisolte, di movimenti dialettici. Quelle tensioni, possibilità, contraddizioni, sono testo alla stessa stregua dei temi e delle forme: sono anzi il testo, la sua identità e la sua differenza, ovvero ciò che lo preserva, nella sua origine come nella sua destinazione, dall’essere la mera replica di un tipo, un involucro che si può gettar via una volta ricevuto il messaggio.
Questo dobbiamo chiedere alla critica. È di moda da qualche anno, sulla scia di un fortunato titolo di Zygmunt Bauman (Legislators and interpreters. On modernity, post-modernity, and intellectuals, 1987), ripetere che gli intellettuali sono passati da legislatori a interpreti, il che vale senz’altro come richiamo alla sobrietà, ma non offre certo una risposta alla situazione sopra descritta. Forse è a un’altra figura, ancor meno accreditata e più realisticamente marginale, ma proprio per questo potenzialmente indomabile, che bisogna pensare. Essere interpreti presuppone fin dai tempi degli indovini e degli aruspici un mandato sociale, che però, lo abbiamo visto, non c’è più. Perfino su un segmento ormai così trascurabile della produzione sociale come la letteratura i critici hanno perso ogni diritto di proprietà – che non era un diritto ma un privilegio di classe, di casta e di corporazione –; e anche ogni prerogativa di custodia. Quello che resta è ciò che resta esattamente a tutti gli altri, e che nessuno può togliere a nessuno, e cioè un diritto di saccheggio, di «bracconaggio» non autorizzato, per riprendere la suggestiva espressione di Michel de Certeau utilizzata in L’invention du quotidien (1980). Spogliato dei suoi paludamenti, il critico fa parte a pieno titolo di una comunità intellettuale che si è aperta, sfrangiata, dislocata con l’irrompere sulla scena della storia dei non ‘addetti ai lavori’, dei non ‘destinati’ alla cultura, di coloro che non sono inscritti nel codice, che non rientrano, direbbe Umberto Eco, in nessun progetto di ‘Lettore modello’ immaginato da nessun ‘Autore modello’. Il pubblico di massa da una parte, i migranti che vivono insieme dentro e fuori dall’Europa dall’altra, accedono entrambi a un patrimonio culturale da cui non erano stati previsti. Destinatari possibili e insieme assolutamente reali. Ma un destinatario è anche sempre un destino possibile, che cambia la sostanza stessa del senso, perché nessun senso resta stabile nella sua comprensione. Comprendere è trasformare. Non lo diceva anche Karl Marx? Che cosa può pensare un migrante leggendo la vicenda di Karl Rossmann che sbarca in America senza documenti, senza lingua, senza alcun tipo di tutela, senza destino? Non possiamo prevedere quale uso o, per meglio dire, quale riuso, ne farà; e, in parte, anche quale riuso ne faremo noi nel momento in cui includiamo la sua figura, il suo fantasma, il suo essere-a-venire, all’interno del nostro orizzonte altrettanto reale e altrettanto possibile.
Quel fantasma, quella figura, sono oggi inquietanti come tutto ciò che è insieme troppo prossimo e troppo estraneo. Una capacità di generare inquietudine di cui la critica non dovrebbe privarsi per nessuna ragione. Per questo, più che come a un legislatore o a un interprete, è forse opportuno pensare al critico come a un casseur. Non perché viva fisicamente in una banlieue: nulla è più odioso del privilegiato che si finge ‘popolo’. Ma perché, come ha mostrato magistralmente Gayatri Spivak, è oggi più che mai vitale criticare la cultura a partire dalla postulazione di un suo fuori; se è il caso, anche con tutta la necessaria ruvidezza e perfino rozzezza che è propria del casseur. Più che di chiudere i testi in un’ulteriore interpretazione che interesserebbe solo altri interpreti, dobbiamo chiedere alla critica di aprirli, farli esplodere, mandarli in pezzi: tutto ciò che è solido, dicevano i padri della modernità, si disperda nell’aria. Aprirli, se necessario sfondando le vetrine, non per appropriarsene (il mio Baudelaire, il tuo Dickens, lo Shakespeare dei romantici, il Sade dei surrealisti…) ma per restituirli al comune, all’uso pubblico, a un universale concreto che non può esistere senza soggetti. Solo così è possibile sfuggire a quello che Fredric Jameson ha chiamato una volta «il doppio vincolo tra antiquariato e pertinenza» (The political unconscious: narrative as a socially simbolic act, 1981; trad. it. 1990, p. 18): autenticare ciò che sappiamo del presente attraverso il passato, o, che è lo stesso, del passato attraverso il presente. Solo così si può gettare uno sguardo su ciò che non sappiamo ancora, e che in quanto tale non appartiene a noi ma a tutti, agli autori defunti come ai lettori che verranno. La critica non è una rilevazione catastale, non certifica i possessi ma abbatte le enclosures, contesta insieme l’accumulazione originaria e la speculazione dei nuovi ricchi, non produce brevetti ma software open source. La critica che ci manca, la critica che dobbiamo meritarci è il contrario della proprietà, e non solo dell’autorità. Ai timori di Erasmo (non rompiamo con l’istituzione) e alla privatizzazione di Lutero (a ciascuno il suo predestinato pezzetto di scrittura da interpretare in solitudine) risponde sempre con il motto che fu di Thomas Münzer prima ancora che di Marx: omnia sunt communia, come esemplifica e dimostra ciò che facciamo con i testi letterari.
Infine, un’ultima annotazione. Nella topica dell’affettazione di modestia dei critici (antichissima, e già studiata da Curtius) è di rigore includere la dichiarazione che quello critico è un discorso transitorio, effimero, mortale, non tanto perché destinato a essere continuamente superato, ma perché aspira a risolversi e a cancellarsi nel servizio devozionale che rende all’opera d’arte. Non è vero, naturalmente, e non è detto nemmeno che sarebbe giusto. Ma forse nella tensione al comune che ci aspettiamo dalla critica futura sarà possibile declinare questo scioglimento – che etimologicamente è anche uno dei significati di crisi, come risoluzione, svolta, «momento», recita un antico dizionario, «che separa una maniera di essere o una serie di fenomeni da altra differente» – in una formula meno ipocrita e meno luttuosa.
Bibliografia
La bibliografia che segue non ha alcuna pretesa di completezza, e costituisce soltanto un primo orientamento nel dibattito recente.
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