OMBRA PORTATA
La pittura nasce, in ogni civiltà artistica, come disegno colorato (v. disegno; pittura). Come tale si svolge sopra un piano, che è poi quello concreto sul quale è condotto il disegno; e il disegno è sempre astrazione: cioè un modo convenzionale (accettato come interamente sodisfacente il bisogno di espressione proprio di quel dato momento storico-artistico) con il quale si rendono visibili le suggestioni dell'artista. Allorché una civiltà artistica giunge a quel punto del suo svolgimento, che rende auspicabile il tentativo di esprimere poeticamente la realtà circostante afferrandola così come si presenta all'occhio umano (e cioè con i suoi rapporti di colore "locale", di rapporti spaziali e quindi di proporzioni) si introduce l'effetto prodotto da una fonte luminosa che viene immaginata posta fuori del quadro, in un punto determinato e fisso (o in più punti). Lo stabilirsi di una fonte luminosa porta con sé il chiaroscuro (v.) e, procedendo sulla stessa via di una convenzione naturalistica, porta con sé la necessità di segnare anche l'ombra, cioè l'oscurità che i corpi opachi proiettano dalla parte opposta a quella donde proviene la fonte luminosa. Quest'ombra si dice "ombra portata" (fr. ombre portée; ted. Schlagschatten; ingl. projected shadow). Il Baldinucci nel Vocabolario toscano delle Arti del Disegno (Firenze 1681) la indica col termine "sbattimento", che è termine pittorico, mentre quello di o. p. è di origine prospettica e architettonica.
È evidente l'interesse storico-artistico che assume il poter segnare il momento nel quale l'o. p. appare usata o nel quale cessa di essere usata in quelle civiltà artistiche che hanno percorsa l'esperienza naturalistica come, in modo precipuo, ha fatto la civiltà artistica greca a partire dalla sua fase "classica" sino a quella ellenistico-romana (v. greca, arte). L'o. p. è strettamente connessa con il chiaroscuro, il cui inizio si può porre, nell'arte greca, alla metà del V sec. a. C., o almeno all'ultimo quarto dello stesso, quando operò Apollodoros (v.) che venne chiamato espressamente "pittore di ombre" (v. chiaroscuro). Ma l'o. p. non sorge immediatamente col chiaroscuro; essa segna un ulteriore passo verso l'illusionistico rendimento dello spazio, la prospettiva aerea e un cromatismo sempre più ricco. Le fonti letterarie che descrivono quadri del IV sec. a. C. con effetti di luce artificiale (v. pittura) ci obbligano a collocare in questo tempo e nell'ambito delle grandi scuole classiche anche il sorgere dell'o. p. nell'arte greca, mentre tutte le altre civiltà artistiche dell'antichità la ignorarono o la ricevettero dall'arte greca.
Dal punto di vista teorico come da quello critico le fonti letterarie antiche, casuali e asistematiche come ci rimangono, non ci dicono quasi nulla in proposito. Quintiliano (viii, 5, 26) ci conserva probabilmente l'eco di un precetto classico (tutta la sua impostazione teorica derivando dal classicismo neo-attico) quando dice che l'ombra di una figura non deve cadere su altra figura. Il passo di Plinio (Nat. hist., xxxvi, 184) che celebra il mosaico di Sosos (v.) con la columba bibens et aquam umbra capitis infuscans (colomba che nell'atto di bere rende scura l'acqua coll'ombra del capo) ci fornisce un esempio di o. p. pittoricamente complesso, trattandosi non di un'ombra compatta, ma di un particolare effetto di riflesso, che va collocato nella pittura ellenistica di Pergamo. Nelle varie copie o derivazioni che ci permangono, di età romana, di una composizione con le colombe sull'orlo di un bacile colmo e che, ragionevolmente, si possono riportare all'opera di Sosos, il particolare del'o. p. sull'acqua non è riprodotto. (v. mosaico, fig. 305). Troviamo invece l'o. p. nettamente espressa sul mosaico di Herakleitos al Museo Lateranense con i resti di un pasto sparsi sul pavimento, e ogni oggetto ha la sua ombra. Anche questo mosaico si può porre in relazione con Sosos e il suo pavimento non spazzato (v. asarota). Ma a qual tempo assegnare Sosos? Dalla reggia di Pergamo provengono alcuni frammenti di mosaico (Berlino, Musei). Uno di questi contiene l'immagine di un pappagallo posato sopra un blocco di marmo colorato e questo è espresso con particolare compiacimento coloristico nel variare dei toni sulle varie facce e nella sua nitida e lunga o. p. (v. mosaico, fig. 297). Un altro frammento reca la firma del mosaicista Hephaistion (v.) in forma di un cartellino di pergamena un lembo del quale si è distaccato e proietta ombra. Questi mosaici sono databili alla prima metà del II sec. a. C., se pertinenti alla reggia di Attalo I, o alla metà dello stesso secolo se pertinenti, come è più probabile, alla stessa reggia nell'ampliamento che Attalo II (159-138 a. C.) dovette iniziare appena succeduto al fratello. Possiamo dunque dire che l'o. p. era usata con virtuosismo attorno al 150 a. C. In questo tempo ha inizio la corrente, d'arte e di cultura classicistica, contraria all'uso di mezzi illusionistici; è lecito pertanto ritenere che essi fossero venuti in uso già prima. Nei mosaici di Dioskourides di Samo al museo di Napoli (v. dioskourides, 30, e tavv. a colori), l'o. p. non ha funzione illusionistica ricercata con virtuosismo e affettazione come nei citati casi pergameni, ma è un elemento fondamentale della creazione pittorica. Vi sono ragionevoli ipotesi per ritenere che quei mosaici ci conservino la composizione e la complessa policromia di pitture risalenti ancora al III sec. a. C. Avremmo quindi ottenuto un altro dato.
Nel mosaico della Battaglia di Alessandro (Napoli, Museo Nazionale) l'o. p. è segnata in corrispondenza degli zoccoli dei cavalli, del piede del persiano disarcionato che viene raggiunto dalla lancia di Alessandro, delle armi e pietre sparse sul terreno e, in modo particolarmente ricercato, della lancia spezzata giacente sul terreno nell'angolo a destra. Ma già lo Pfuhl (op. cit. in bibl., p. 629) osservò che l'o. p. non era qui usata quale mezzo pittorico come nei mosaici di Dioskourides. In quelli, infatti, l'o. p. serve per creare lo spazio nel quale si muovono le figure, mentre nel mosaico di Alessandro rimane notazione secondaria, accidentale, che non contribuisce affatto a creare un suggerimento di spazialità, la prospettiva restando sostanzialmente ancora affidata alle linee della composizione illuminata da luce uniforme. Che la Battaglia di Alessandro vada considerata riproduzione di una pittura di Filoxenos d'Eretria (v. philoxenos) è ormai accettato dal comune consenso degli studiosi. Si giungerebbe così alla fine del IV-inizî del III sec. a. C. L'o. p. appare, logicamente, una conseguenza della problematica affrontata dalle grandi scuole di pittura della metà del IV sec. a. C. (e avviata, come si è accennato, sino dal sec. V). L'osservazione di quelle pitture di età romana, nelle quali siamo autorizzati a riconoscere derivazioni o copie da quadri di età classica o ellenistica (v. pittura), confermano queste deduzioni: quadri centrali nelle composizioni parietali pompeiane; fregi figurati della villa di Boscoreale (v.), della Villa dei Misteri (v. pompei), dei Paesaggi dell'Odissea (v. paesaggio) ci indicano l'o. p. come una notazione secondaria nelle pitture di derivazione da modelli anteriori al medio ellenismo (v. greca, arte); e nelle pitture di gusto classicistico (per esempio il pìnax da Ercolano con vestizione di una fanciulla, Museo Nazionale Napoli, inv. 9022) derivate probabilmente da modelli risalenti al pieno IV sec. o anteriori, la notazione dell'o. p. scompare. Essa è vivace nelle composizioni di paesaggio dipinte a Pompei nel I sec. d. C., ricche di spunti ancora ellenistici, tanto da potersi considerare una prosecuzione della pittura ellenistica piuttosto che un prodotto dell'arte romana. Ma la notazione dell'o. p. vi è oltremodo rapida, lineare, quasi una appendice, già ormai convenzionale, della figura umana, della cui forma ed estensione non tiene conto. Spesso l'o. p. in queste composizioni è tracciata in modo incoerente rispetto all'angolo di incidenza della luce segnata sui muri o dagli alberi della stessa composizione. Ciò si avverte nei dipinti appartenenti al cosiddetto 4° stile (v. pompeiani, stili) databili in maggioranza fra il 62 e il 79 d. C.; mentre nei dipinti databili al 2° stile e quindi anche nel I sec. a. C., la coerenza delle ombre rispetto alla fonte luminosa è rispettata (v. chiaroscuro, tav. a colori).
Quanto sopra è detto, indica come, con il venir meno della tradizione ellenistica, il valore funzionale dell'o. p. sia meno avvertito. E sempre meno lo sarà con il prevalere di una forma decorativa e simbolica su quella naturalistica. L'o. p. resterà come una sigla convenzionale: un elemento scuro in corrispondenza dei piedi della figura, che si riduce sempre più fino ad assumere l'aspetto di un laccio o di un gancio; senza più alcuna funzione illusionistica. Così vediamo trasformarsi l'o. p. su mosaici pavimentali del II e del III sec. d. C. e nella pittura cimiteriale cristiana del III e IV sec., fino a che scompare del tutto anche in opere di alta qualità e plasticamente ancora di diretta derivazione ellenistica come i mosaici del Grande Palazzo di Costantinopoli. Lo stesso avviene nella pittura e nella miniatura di età bizantina, anche se connessa con iconografie più antiche come la Genesi di Vienna o il Rotulo di Giosué.
Bibl.: R. Delbrück, Beiträge z. Kenntnis d. Linearperspektive i. d. griech. Kunst, Dissertation, Bonn 1899, p. 35 ss.; H. Wölfflin,Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, Monaco 1923, p. 215; R. Schöne, Das pompeian. Alexandermosaik, in Neue Jahrb., XXIX, 1912, p. 200, 201; id., Σκιαγραϕία, in Jahrbuch, XXVII, 1912, p. 22; E. Pfuhl, Mal. u. Zeichn., Monaco 1923, paragr. 681, 682, 736.