OMERO
. A O. la tradizione più antica assegnava ben più che non gli lascino oggi anche i critici più conservatori. Già nel sec. VII Callino citava la Tebaide attribuendola a lui. Poco più tardi di Callino, Semonide di Amorgo cita un verso dell'Iliade come dell'"uomo di Chio". Simonide di Ceo cita O. per una particolarità dei "Giuochi sulla tomba di Pelia", dunque per qualche cosa che non è e non potè mai essere nei poemi "omerici" a noi conservati. Pindaro conosce quali omerici l'Iliade e l'Odissea, ma parimente anche le Ciprie. Dunque già nel sec. VII si conosceva un grande poeta O., e si conosceva (o si credeva di conoscere) dond'egli fosse; dunque, allora, a questo poeta erano già attribuiti, oltre l'Iliade e l'Odissea, tutti quei poemi, ora perduti, che noi sogliamo comprendere nella denominazione di ciclo (v. epopea, XIV, p. 122).
Nome e vita.
Il nome O. ("Ομηρος, Homerus), è, per quanto raro, normalissimo: esso significa "ostaggio", e non si presta quindi in nessun modo a essere ritenuto simbolico. O. fu un poeta di carne e ossa, un aedo. Nessuno vorrà sostenere che egli scrisse tutti quei carmi che dal sec. VII fino, si può dire, all'età dei sofisti gli sono attribuiti; ma è certo che egli dovette essere autore di un carme celebre. Il più celebre dei poemi è già, nell'antichità, l'Iliade. All'Iliade egli dovette in qualche modo aver parte. Ma ben presto a lui fu assegnata tutta l'epopea antica. Questo era già avvenuto nel sec. VII.
Più difficile è dire se O. fosse davvero di Chio, come lo riteneva già Semonide di Amorgo (Pindaro nomina, accanto a Chio, Smirne). A Chio, per vero, una società di ordinamento gentilizio, gli omeridi (‛Ομηρίδαι) credeva di discendere da lui. Ma la connessione con il poeta può essere anche qui, come spesso in società di forma gentilizia, secondaria; e si scorge anzi bene quale possa essere stato l'appiglio. Il poeta dell'inno "delio" (v. sotto, p. 338) ad Apollo chiamò sé "uno che abita in Chio rocciosa" senza dire il proprio nome: quell'inno, anonimo, fu presto attribuito a O. Anche le pretese di Smirne sono antiche. Tutte le altre paiono più recenti: le sette città che si contendono i natali di O. (Anth. Pal., XVI, 295-298) sono una scelta arbitraria. È sicuro, dunque, per lo meno che O. nacque nella penisola dell'Ermo o nell'isola che le si stende davanti, Chio: egli fu, dunque, Ionio.
Dei casi di O. non sappiamo nulla. Non già che manchi il materiale biografico: delle sette vite, le sei corredate di nome di autore (Pseudo-Plutarco, Proclo, Esichio) o anonime (Scorialensis, Romana), appartengono all'età imperiale e non hanno valore se non per le citazioni di antichi scrittori; la settima, attribuita a Erodoto, risale essenzialmente (vale a dire, eliminate le tracce d'una leggiera elaborazione) a età prearistotelica, forse al quinto secolo. E antichissimo è pure il nucleo di un altro trattato scritto in ionico, il Certamen Homeri et Hesiodi, se pure la redazione che ce n'è conservata non può essere anteriore all'età adrianea. Ma un papiro che ne fu scoperto anni sono rivelò che almeno parti di tale trattato si leggevano in forma sostanzialmente identica già verso il 300 a. C. Una scoperta ancora più recente ha provato che nel sec. IV il retore Alcidamante attingeva da questo trattato. Di più: si può facilmente dimostrare che Aristofane nella Pace presuppone il Certamen. Eppure questa tradizione così antica è priva di ogni valore, perché essa ci fornisce non una biografia individuale (che tanto meno è da aspettare quanto più antica è la persona a cui si riferisce la vita e quanto più antiche sono le vite stesse), ma una novella. O. è qui un tipo, e un tipo che non corrisponde in alcuna maniera a quel che le poesie omeriche ci rivelano senza volerlo sul loro autore o i loro autori. L'Iliade e in qualche misura anche l'Odissea sono poemi cortigiani: l'O. delle Vitae è nato e vive in cerchie plebee. Sua madre è una povera mercenaria che è ingravidata da un uomo qualsiasi; il padre adottivo è un maestro elementare. O., andando in giro per il mondo, ha sempre che fare con gente mediocre e povera, padroni di barche, mercanti, pastori. Anche nell'Odissea il rapsodo vive nelle corti. La "novella" di O. appartiene a un'età posteriore anche all'Odissea, a un'età in cui la società ionica è già molto meno chiusa, signorile, aristocratica.
Sul poeta dell'Iliade getta forse qualche luce un passo del libro XX, 303 segg., dove si presagisce che i discendenti di Enea regneranno un giorno sui Troiani. Un tale vaticinio, unico nel suo genere, non può essere se non ex eventu: chi ha scritto quei versi, deve aver vissuto nella Troade, alla corte di una dinastia che riconduceva la propria origine a Enea. S'inclina ora a credere che questo poeta sia l'autore dell'Iliade, Omero.
Dei poemi che ancora nel sec. V erano attribuiti a O. sono giunti a noi integralmente solo l'Iliade e l'Odissea (per gli altri cfr. epopea: Epopea greca).
L'Iliade.
Argomento. - L'argomento dell'Iliade è un tratto ben delimitato della guerra che secondo la leggenda i Greci avrebbero condotto contro Troia, per riavere Elena, la moglie dell'Atride Menelao, rapita da Paride (o Alessandro) figlio del re di Troia, Priamo, e per vendicare l'offesa: da una parte i Greci (Achei, 'Αχαιοί), dall'altra i Troiani e i loro alleati caratterizzati quali non Greci, barbari. Il poeta chiede alla Musa di cantare l'ira del Pelide Achille, che tanti dolori recò agli Achei, e tanti eroi gettò nell'Ade (e si compiva un disegno di Zeus), da quando vennero a contesa il capo dell'impresa, il re di Argo Agamennone, figlio di Atreo, e l'eroe più forte, Achille. Li spinse a contendere Apollo, ché Agamennone a cui era stata assegnata una prigioniera di guerra, figlia di un sacerdote del dio, Crise, aveva ricusato di renderla al padre. Il dio, alle preci del sacerdote, mandò la peste nel campo degli Achei. Nell'assemblea il vate Calcante, forte contro Agamennone della protezione del maggiore tra gli eroi, Achille, rivela che il dio stesso per placarsi esige la restituzione della prigioniera. Agamennone non vuol concederla se non gli si dà in compenso la schiava di un altro eroe; e dopo un diverbio con Achille, che vorrebbe gettarsi con la spada su lui, ma è trattenuto dalla dea Atena, a tutti gli altri invisibile, gli toglie la sua schiava Briseide. Achille, ritiratosi nella sua baracca, non si oppone con la forza all'esecuzione dell'ordine, ma risolve di rimaner lontano dal combattimento, finché abbia avuto "onore", cioè soddisfazione. La sua divina madre, Tetide, gli ottiene da Zeus ch'egli conceda vittoria ai Troiani sino allora.
L'azione del poema, il quale pure consta di 15.696 versi, è impostata nei primi 530. È impossibile riassumere nello stesso modo quel che segue. Dopo alternative di vittorie e di sconfitte, alla fine di quello che è ora il XV libro (la divisione dei libri non è originaria), i Troiani, guidati da Ettore, hanno ricacciato i Greci alle navi e minacciano d'incendiare queste. Allora l'amico di Achille, Patroclo, dipinto come natura più tenera, ottiene di potersi mostrare ai nemici vestito delle armi di lui e circondato dai suoi soldati, i Tessali Mirmidoni. Ma, trascinato dall'ardore guerresco, ricaccia i Troiani fino alle mura della loro città, anzi sale sino in cima di esse, ma ne è ricacciato giù tre volte dallo stesso Apollo, finché non cede al dio e si allontana. Poco più tardi il dio disarma Patroclo, e questi, ferito prima da Euforbo, è ucciso da Ettore. A mala pena i maggiori tra gli eroi achei riescono a salvare il cadavere dalle mani nemiche.
Achille, avuta la notizia, respinge ogni conforto e, benché la madre lo avverta che la sua morte seguirà presto a quella di Ettore, risolve di tornare alle armi per vendicare Patroclo sull'uccisore. Agamennone cede ormai dal canto suo e i due si riconciliano. Achille persevera nel proposito di vendetta, anche quando il suo cavallo, Xanto, presa la favella, gli annunzia prossima la morte. Dopo prove d'insigne valore (anche col fiume Scamandro egli lotta, e sarebbe forse perito nella contesa ineguale, se Era non gli avesse mandato in aiuto Efesto che incendia il fiume, finché questo non si dà per vinto e non implora; Achille minaccia persino il dio Apollo) egli costringe i Troiani a chiudersi nella città. Riman fuori Ettore, legato dal sentimento di onore, benché senta le proprie forze inferiori a quelle dell'avversario. Ma gli cede l'animo quando se lo vede dinnanzi, e fugge per tre volte intorno alle mura di Troia. Quando giungono la quarta volta alla fonte che scorre dinnanzi alle mura, Zeus pesa le due vite; quella di Ettore tracolla. Allora Atena, dopo aver confortato il Pelide con promesse di aiuto, preso l'aspetto di un fratello di Ettore, Deifobo, e fingendo di essergli venuto in aiuto, lo persuade a tener testa all'avversario. Nell'estremo colloquio prima del duello si rivela l'indole più mite dell'eroe troiano: questi invano propone all'avversario di pattuire che il vincitore non faccia scempio del cadavere di chi soccomba; Achille rimane implacabile. Ettore, accortosi dell'inganno di Atena, cade sotto la lancia di Achille. Ancora una volta il morente supplica il nemico di rispettare il suo cadavere: ancora una volta la risposta di Achille suona spietata. Ettore, prima di spirare, presagisce ancora ad Achille che Paride e Apollo lo uccideranno presso la porta Scea. Achille lega la salma di Ettore al proprio carro e la trascina intorno alle mura di Troia dinnanzi agli occhi dei genitori e della moglie Andromaca.
Segue il funerale di Patroclo. Achille fa ancora una volta scempio del cadavere del vinto, finché Zeus interviene, ordinando ad Achille per bocca di Tetide di cessare dalla sua "follia" e incitando Priamo per mezzo di Iride a riscattare il figlio. Priamo si avvia per la notte, guidato fin presso la baracca di Achille da Ermete, che ha preso l'aspetto di un Mirmidone. Priamo, presentatosi improvviso ad Achille, che trasale, bacia a lui la mano ucciditrice di tanti figlioli, lo supplica per il padre suo di accettare il prezzo del riscatto. Achille, intenerito al ricordo di Peleo che lo ha generato figlio unico ma che sa che egli non potrà chiudergli gli occhi, consente. Priamo ed Achille piangono insieme, ciascuno la propria sventura. Achille ospita il vecchio per la notte. Il poema finisce col solenne funerale di Ettore.
In quest'ultimo terzo dell'Iliade che abbiamo potuto riassumere brevemente, l'azione procede più spedita, sebbene non manchino episodî grandiosi come la lotta tra Achille e lo Scamandro, già menzionata, e come, nel libro XVI, la morte del principe licio Sarpedonte sotto i colpi di Patroclo; il padre Zeus piove sangue sulla terra; il cadavere è per ordine del maggiore degli dei sottratto alla mischia da Apollo e affidato ai due gemelli Sonno ("Υπνος) e Morte (Θάνατος; in greco è maschile) perché lo trasportino in patria. Bella anche, e molto diversa da tutto ciò che la circonda, la descrizione delle figurazioni dello scudo fabbricato da Efesto ad Achille per preghiera di Tetide. Mancata, eppure caratteristica, la scena della lotta tra gli dei (Θεομαχία). Ma ancor più ricca di episodî è la parte da noi non riassunta (fino al XVI libro). Qui il poeta par mirare, in complesso, a effetti di ritardo, a far credere a ogni momento ai lettori (o uditori) prossima una tale sconfitta degli Achei che induca Agamennone a chieder perdono ad Achille, ma la catastrofe è sempre rimandata.
Subito nel secondo canto Zeus induce Agamennone con un sogno ingannevole a riprender la lotta. Ma Agamennone non dà retta al consiglio senz'aver prima tentato con un'astuzia singolare l'animo dei soldati, mostrandosi pronto a rinunziare all'impresa. I soldati consentono volentieri al consiglio, e vorrebbero subito imbarcarsi; restituisce l'ordine Ulisse, svergognando e picchiando un plebeo protervo, Tersite. La guerra ricomincia. Ma prestissimo è sospesa, e la decisione affidata a un duello tra il marito e il drudo di Elena, tra Menelao e Paride. Ma Paride, inferiore, è rapito sul più bello da Afrodite e trasportato nel suo talamo, tra le braccia della sua consorte. Le trattative che seguono, sono turbate da una freccia scagliata, violando la tregua, dal licio Pandaro contro Menelao. Tratti lunghissimi sono dedicati alle glorie di Diomede: questi, che non si fa scrupolo di affrontare e ferire gli dei protettori dei Troiani, porta i Greci contro l'aspettazione del lettore alla vittoria. Qui s'intrecciano scene di vita civile: una sacra cerimonia dei Troiani per impetrare aiuto da Atena, gli addii di Ettore, che per pochi momenti è tornato in città, alla consorte Andromaca e al figlio lattante Astianatte. Ancora una volta un duello, che deve decidere della guerra, fra Ettore e Aiace Telamonio, e ancora una volta il duello non decide nulla, perché gli eroi si rivelano pari.
Di qui in poi, dalla fine, si direbbe, del primo terzo del poema (ora libro VII) i Greci declinano rapidamente, e poco loro gioverà un muro costruito in difesa delle navi. Nel libro IX Agamennone è già disposto a riconciliarsi con Achille; ma con gli ambasciatori mandatigli Achille si mostra implacabile. Questa ambasceria è una delle chiavi di vòlta dell'azione dell'Iliade.
Il giorno dopo ricomincia la lotta. Questa volta si distingue singolarmente Agamennone; ma presto i Troiani prevalgono sotto la guida di Ettore, e, superato il muro, minacciano di incendiare le navi, nonostante le prodezze di Aiace Telamonio e di Idomeneo. I capi più importanti sono feriti: con molta difficoltà Agamennone si lascia indurre da Ulisse e Diomede a desistere dal proposito della fuga. Ancora una volta un'azione secondaria sbocca in un ritardo ben calcolato: Era, ch'è favorevole agli Achei, profittando dell'aiuto del Sonno e di Afrodite, induce Zeus ad addormentarsi tra le sue braccia, mentre Posidone porge aiuto ai Greci, Aiace Telamonio ferisce il condottiero troiano Ettore con una sassata; anche Aiace di Oileo opera meraviglie. Ma ben presto sopravviene la peripezia. Zeus, destatosi, si accorge dell'inganno e provvede a rimediarvi. Gli dei protettori dei Troiani intervengono efficacemente. Ettore, confortato da Apollo, ritorna a combattere e porta ai suoi la vittoria: le navi sono di nuovo in pericolo; già la prima brucia. Patroclo, che era stato mandato da Achille a chieder notizie di Euripilo ferito, corre qui dal suo capo ad annunziargli che l'esercito greco sta per essere distrutto.
Personalità artistica dell'Iliade. - Anche il compendio, pur così breve e insufficiente, che abbiamo dato dell'Iliade, dimostra che essa è opera consapevole di un artista grande. Basterebbe forse a provarlo anche soltanto la sicurezza con la quale il poeta ha saputo, di tra l'immenso materiale che la leggenda troiana gli presentava, delimitare l'argomento del suo carme. Un artista inferiore, un artista popolare, o un artista cortigiano meno grande non avrebbe forse saputo resistere alla tentazione di rifarsi dal principio della guerra di Troia e non avrebbe a ogni modo lasciato fuori del poema, non dico neppure la presa di Troia, ma almeno la morte di Achille, che negli ultimi canti appare inevitabile e prossima, verso la quale tutto il poema tende. E di capacità artistica singolarissima dà esempio il modo come, pur accennando agli antefatti, sicché essi sian chiari, l'azione del poema è introdotta in poche centinaia di versi.
L'Iliade è insigne per unità. I combattimenti intorno a Troia sono il centro del mondo dell'Iliade, non soltanto del mondo umano ma anche di quello divino. Questa lotta appassiona gli dei; persino l'Olimpo gravita verso Troia. E tra i personaggi umani dell'azione, il principale, Achille, è sempre sentito presente anche quando è ritirato nella sua baracca. Queste due osservazioni non sono sfuggite ad Aristotele e hanno eco in Orazio: è probabile che esse risalgano molto in su nella storia dell'estetica (o poetica) antica.
E già nel nostro compendio abbiamo tentato di mettere in rilievo come quest'azione principale, questa, per dir così, Achilleide, si articoli visibilmente in tre parti, di estensione suppergiù pari, come il libro IX accresca prima, deluda poi la speranza che Achille deponga la sua ira; come il XVI inizi un tratto meno abbondante di effetti di ritardo, più rettilineo, più serrato, che menerà presto alla morte di Patroclo, alla riconciliazione, alla vendetta di Achille su Ettore. L'Iliade che si annunzia da prima come racconto di lotte senza misericordia, culmina e finisce nell'incontro tra Achille e Priamo, umano e quasi tenero, seppure virile. Tuttavia chi legge non avverte qui una spezzatura. Questa è arte raffinatissima.
Ma la varietà non è minore dell'unità. Serie rettilinee (e quindi monotone) di duelli tra eroi principali o tra soldati comuni (i nomi per lo più sono evidentemente inventati per l'occasione) non mancano, né possono mancare (quandoque bonus dormilat Homerus), ma sono relativamente rare. Anche in tali combattimenti l'azione è per lo più imperniata su un personaggio maggiore (o su due personaggi maggiori, avversarî). Tutti gli eroi greci che la leggenda assegnava alla guerra troiana e in misura un po' minore anche gli eroi nemici (qui la tradizione doveva per lo più mancare), vengono successivamente alla ribalta. O. si mostra in ciò ligio alla tradizione: egli non poteva omettere paladini di cui ciascuno sapeva che avevano preso parte alla guerra troiana, doveva a ciascuno assegnare una parte. Ma di necessità egli fa virtù: ciascuno ha il suo giorno o la sua ora di eccellenza, la sua ἀριοτεία. La psicologia omerica per cui un dio può infondere improvvisamente forza a un combattente, agevola l'applicazione di questo principio compositorio; il quale ha analogia, in certo modo, nella tragedia attica: anche qui il dialogo avviene fra pochi personaggi, per lo più fra due, anche se un terzo è presente. E questi eroi omerici non sono soltanto combattenti valorosi, sono uomini, eroi nel senso moderno: quasi ciascuno di essi è caratterizzato non solo dai colpi che dà e riceve, ma da certe qualità d'animo. Nel combattente vive l'uomo.
Accresce la varietà l'intervento degli dei nella lotta, il quale avviene in modi e forme diversissime. Talvolta esso non viola le leggi naturali più di quanto le violerebbe la grazia che ora si suol chiedere a un santo, perché un tale superi una malattia o magari passi a un esame; talvolta esso è miracoloso. Gli dei operano ora di lontano, parrebbe, con la volontà, dissipano la nebbia e infondono coraggio a un loro protetto; più spesso agiscono da vicino, materialmente, quasi come uomini, se pure con forza mille volte maggiore. All'eroe essi talvolta si rivelano senz'altro, invisibili agli altri, ed egli li riconosce senza meraviglia, talaltra prendono le forme di persona a lui nota, ed egli per lo più (non sempre) intuisce chi essi sono solo quando scompaiono, e se ne allieta o sbigottisce.
Ma gl'interventi non sono soltanto individuali. Tutto l'Olimpo è diviso in due partiti, favorevole l'uno agli Achei, l'altro ai Troiani, e gli dei tentano ciascuno di guadagnare al proprio volere Zeus, ch'è già nell'Iliade dio incontrastatamente sommo, o talvolta ne eludono la volontà, provan persino, e riescono, a ingannarlo. Si può dire che l'azione dell'Iliade si svolga su due piani, in terra e in cielo.
L'Iliade è poesia di guerra; ma, poiché si combatte, si direbbe, a ridosso di una città, è in essa cantata anche la vita civile: vi si rispecchiano e gli affetti della famiglia e le cerimonie del culto; vi sono descritte opere d'arte, che ritraggono il vivere d'ogni giorno.
Non mancano, in un poema in complesso assai grave, parti che si direbbero parodiche. E lo scherzo si rivolge parimenti contro gli uomini e contro gli dei. Non si può disconoscere una comicità almeno per buona parte consapevole nella scena di Era che induce Zeus all'amore e al sonno per potere intanto dare aiuto agli Achei. E addirittura una macchietta, una caricatura, è il plebeo Tersite.
Ma il poeta armonizza gl'infiniti elementi del suo poema con mano maestra. Se gli eroi secondarî sono tipici, contrassegnati da forza e da valore (benché il personaggio omerico sia altrettanto labile quanto l'uomo greco del periodo più arcaico, sicché anche in lui l'esaltazione guerresca si alterna con depressioni, con sgomento), i principali hanno ciascuno un suo carattere ben determinato. Agamennone p. es. è gelosissimo della sua autorità, sino al puntiglio; Diomede pazzo di valore, senza freni una volta scatenato; Ulisse è già nell'Iliade il furbo. Nestore il vecchio, ricco di esperienza ma forse troppo conscio di questa sua superiorità: certa abbondanza di eloquio lo caratterizzava probabilmente anche agli occhi del pubblico per il quale l'Iliade fu composta. Certo, questi caratteri sono segnati con pochi larghi tratti: l'arte dell'Iliade è tutt'altro che psicologistica, come psicologistica l'arte greca non sarà prima del sec. III. Ma il poeta è consapevole di delineare personalità morali. E talune di queste sono abbastanza complicate: per esempio Elena, che, amante del suo nuovo marito, il vagheggino Paride, appare tuttavia conscia della superiorità del primo: Elena che almeno in certi momenti ha ben chiaro il senso di essere essa, volontariamente o involontariamente, la cagione di questa lotta che costerà la vita a tanti del suo popolo e a tanti del popolo del suo nuovo marito. Due caratteri sono delineati con speciale cura, quelli dei due eroi maggiori, Ettore e Achille. Ettore è privo di odio, mite, amabile: si direbbe che già in lui spunti l'idea del dovere puro. "Il miglior augurio è difender la patria", dice egli una volta, e certo non a caso questa sentenza è stata messa in bocca proprio a lui. Egli non è libero da quella labilità che abbiamo detto, da quegl'improvvisi timori che a volte afferrano gli eroi omerici, li cacciano in fuga; ma per lo più li sa dominare grazie al senso di onore o, che è lo stesso, al timore del biasimo, o, che qui è di nuovo lo stesso (l'etica omerica è sociale), al sentimento del dovere. Certe sue debolezze umane ce lo rendono più caro: così egli che, resistendo alle preghiere dei genitori, non si era voluto rifugiare dentro le mura di Troia, preso poi da sgomento improvviso fugge dinnanzi al Pelide, quand'è troppo tardi. E lo induce a tener testa all'avversario solo un inganno di Atena. E prima dello scontro, e ancora una volta prima di morire, teme per lo scempio che subirà il suo cadavere, e chiede per esso pietà.
Il nemico di Ettore, Achille, è dipinto, con tutt'altri colori: egli non sa la paura; il suo difetto è il senso eccessivo di sé, la tracotanza. È abbastanza disciplinato per non reagire con la violenza ad Agamennone e per non tornarsene in patria per conto proprio, ma non abbastanza per non cagionare con il suo ritiro la morte di molti e molti incolpevoli Achei. Egli soffre di quel che avviene, ma il suo orgoglio vince ogni altro sentimento, finché egli non è colpito nella vita di Patroclo. A questo punto una passione, il bisogno di vendicare l'amico, si sostituisce all'altra e la schiaccia. Ma questo eroe, che a prima giunta par tutto di un pezzo, ha in sé il suo problema umano. Amante della vita come tutti i Greci, sa di dover morire presto (almeno se persisterà a combattere sotto le mura di Troia e non si adatterà a vita oscura: qui le indicazioni del I e del IX libro non vanno del tutto d'accordo), sa di dovere abbandonare il padre troppo vecchio. Ma sente come proprio debito d'onore il combattere e il morire. Questa consapevolezza dolorosa spiega il suo contegno con Priamo nell'ultimo canto. Mentre Priamo piange Ettore, egli s'intenerisce non soltanto su Patroclo, ma su Peleo e su sé. Ma il poeta non ha dimenticato l'identità di questo Achille con l'Achille del primo, del nono canto e dei canti che ci dipingono lo strazio del cadavere di Ettore: quando Priamo non vuole accettar l'ospitalità per la notte e prega che gli sia resa subito la salma sicché egli la possa portar subito via, Achille si adira e minaccia di uccider lui, benché supplice. L'Achille del XXIV libro è lo svolgimento dell'Achille del primo. Questa è arra dell'unità del poema.
Lingua e stile dell'Iliade. - Il primo poema conservato delle letterature occidentali è opera d'arte raffinata, nient'affatto primitiva né popolare. L'Iliade presuppone evidentemente che il pubblico conosca nelle linee generali e anche in molti particolari le leggende, se pure i particolari non sono canonizzati in tal modo che il poeta non li possa mutare a sua posta. Si dirà che queste leggende possono essere state celebrate nelle ballate epico-liriche (v. epopea, XIV, p. 121) che precedettero la poesia esametrica. Ma in primo luogo ci s'immagina male che un genio, per quanto grande e originale, abbia saputo riversare tanta materia da brevi ballate in un poema così esteso, così uno e così perfetto. E anche chi volesse immaginarlo, troverebbe una difficoltà nella considerazione della lingua: già l'Iliade abbonda di formule fisse. A esse appartengono anche gli epitheta ornantia, gli aggettivi fissi che si accompagnano al nome p. es. di singoli eroi, e spesso non paiono giustificati né dal suo carattere né dalla situazione. Sia gli epiteti, sia altre formule fisse in significato più ristretto si adattano bene all'esametro (queste abbondano specie nella seconda metà di esso), sono state, quindi, create per l'esametro. Dunque prima dell'Iliade ci furono, oltre che ballate epico-liriche, anche carmi esametrici, narrativi (v. anche esametro). Se già innanzi all'Iliade ci fossero poemi così complessi, questo sì non possiamo dire, anzi è improbabile.
Una tale conclusione è confermata anche da una considerazione più generale sulla lingua. Essa è evidentemente convenzionale, artificiale. È caratterizzata in primo luogo da un'immensa ricchezza di forme concorrenti. Queste forme non sono tutte ugualmente antiche: alcune sembrano così arcaiche che non trovano riscontro se non in altre lingue indoeuropee delle più conservatrici; altre invece appaiono più recenti delle forme corrispondenti conservate a lungo da altri dialetti, in particolare dall'attico (il quale appare più arcaico anche in altre particolarità, p. e., nell'uso del duale osservato rigorosamente sino al sec. IV). Altre ancora hanno tale aspetto che non si può non attribuirle all'influsso del metro a "licenza poetica". E il metro ha esercitato un'immensa azione favorendo la conservazione di certi arcaismi.
Inoltre, mentre nella lingua il più è evidentemente ionico, non mancano qua e là suoni e forme che coincidono con la testimonianza di dialetti eolici. E queste particolarità sono soltanto in parte arcaismi che si può supporre siano stati in età anteriori proprî anche dell'ionico; parecchie di esse rappresentano innovazioni particolari dell'eolico. A mescolanze spontanee, a dialetti misti quali si potevano parlare in città di confine si è spesso pensato, ma quest'ipotesi è errata, perché gli eolismi si trovano quasi soltanto in formule determinate e in determinate sedi del verso. Si è supposto che una parte dell'Iliade fosse stata originariamente scritta in eolico, e si è tentato di dimostrar l'assunto con una retroversione: la retroversione prova appunto il contrario. Non c'è parte dell'Iliade in cui le forme ioniche possano tutte essere sostituite. Ormai il carattere convenzionale della lingua epica è da tutti o dai competenti ritenuto sicuro. Convenzionali paiono certe limitazioni nell'uso di un suono scomparso in età storica dai parlari ionico-attici, il digamma (esso fa posizione in O. solo in arsi e nella tesi del primo piede, che ha anche per altro rispetto una posizione eccezionale); convenzionali sono sicuramente certi allungamenti e certe abbreviazioni, convenzionali anche le cosiddette "distrazioni" (il fenomeno per cui viene spezzata in due vocali uguali una vocale resultante dalla contrazione di vocali diverse; il fatto si può per lo più, ma non sempre, attribuire non al poeta ma alla tradizione rapsodica).
Convenzione significa tradizione. Poemi epici, e anche, come tutto sembra indicare, esametrici furono composti in buon numero prima dell'Iliade, se pure di altre proporzioni e certo di mole minore. E una parte di tali poemi fu ancora composta in eolico. Gli eolismi dell'epos sono il monumento di un periodo eolico della poesia epica. Tracce di altri dialetti sono molto meno sicure: gli atticismi son forse da attribuirsi tutti alla tradizione; coincidenza con l'arcadico-ciprico specialmente nell'uso di certe parole si spiega, considerando che l'arcadico-ciprico, dialetto assai conservatore, ha mantenuto usi del greco originario scomparsi in tutti gli altri dialetti storici.
Se la lingua omerica sia uguale in tutte le parti dell'Iliade è problema difficilissimo: se ne tratta brevemente a p. 334.
Anche lo stile dell'Iliade, nonostante la sua vivacità, nonostante la sua, per lo più, perfetta aderenza ai fatti narrati o ai sentimenti espressi, contiene elementi tipici evidenti. Alle formule e agli epiteti abbiamo già accennato poc'anzi. Tipiche sono evidentemente anche le ripetizioni: tutto ciò ch'è uguale, è ripetuto con le stesse parole. Piccole variazioni servono solo a dare spicco a ciò che è uguale, immutabile. Questa particolarità ha la sua radice in qualcosa che per lo stile dell'Iliade è essenziale: ogni azione è preparata con minuzia singolare, dinnanzi, si può dire, agli occhi del pubblico. Ogni volta che si prende una risoluzione, deve precedere un consiglio; ogni volta che si eseguisce un ordine, quest'ordine è, prima, esposto per filo e per segno; ogni atto di valore è annunziato anticipatamente. Che qui l'Iliade segua una tradizione, appare più chiaro, perché il poeta sa, quando vuole, narrare più rapidamente, come nella prima parte del primo libro.
Tipiche sono anche, per molti rispetti, le similitudini. Già appare dettata dalla tradizione l'abitudine di inserire similitudini, si può dire, in ogni narrazione: già per l'Iliade esse appartengono evidentemente allo stile epico (e anche qui si pensa che la consuetudine sia nata non nella ballata epico-lirica, ma nel poema esametrico). Quasi rigide sono anche le formule della comparazione. Poi, per varie che le similitudini siano, gli oggetti confrontati si possono per lo più raccogliere in pochissimi gruppi: forze elementari, alberi e piante, stelle, fulmini e fuoco, e specialmente animali: cani e particolarmente fiere: il mondo, si direbbe, della caccia. Non molto rimane fuori di queste categorie. Le similitudini servono talvolta a chiarire, ma per lo più esse trasportano il lettore in un mondo diverso da quello della narrazione, sono come il motivo stesso di questa narrazione ripetuto in un'altra tonalità. Solo, si può dire, nelle similitudini il poeta parla degli spettacoli della natura, dei temporali e della neve, di torrenti impetuosi, della vita delle belve nel bosco. Tutto questo, anche tale distinzione netta tra il mondo della narrazione e il mondo della similitudine suppone una tradizione fissa. E il poeta confessa quasi di attingere come a una provvista di similitudini, dove ne mette due in fila congiungendole con una particella o dove a ogni parte dell'azione fa immediatamente corrispondere una similitudine. La tradizione fornisce gli elementi, ma dentro tali limiti il poeta dell'Iliade è così libero come lo scultore greco che accetta dalla tradizione un tipo statuario e lo modifica leggermente, eppure essenzialmente. Anche la larga parte fatta ai discorsi diretti par tipica.
Abbiamo già detto che il principio dell'Iliade ha uno stile diverso da quello di altri canti; la questione dell'unità stilistica è importante ma anche più difficile di quella dell'unità linguistica.
Sfondo sociale e storico dell'Iliade: l'arcaismo consapevole. - Il mondo che l'Iliade ci rispecchia è tutt'altro che primitivo. Il vivere sociale è retto da norme: norme etiche e norme di cortesia. L'opinione pubblica (cioè dei pari) è custode severa e vindice non meno di queste che di quelle. Manca ancora, per lo più o sempre, una sanzione giuridica: anche la punizione di colpe così gravi come l'omicidio è lasciata alla vendetta privata, che uno può stornare da sé, inducendo la famiglia offesa ad accettare il prezzo del sangue. Il campo del giure è ancora ristrettissimo, limitato al diritto privato. Ma dove manca la sanzione giuridica, sottentra quella sociale o quella religiosa: se i singoli dei sono, si direbbe, amorali, se essi vendicano come gli uomini le proprie offese e si abbandonano del resto alle loro simpatie e antipatie, Zeus (o gli dei in genere) punisce (oltre lo spergiuro, che è anch'esso offesa diretta), proprio quelle colpe che non avrebbero vendicatore in terra: contro i genitori, contro gli ospiti e contro i supplici (che sono due categorie tra loro molto affini). Trascende di molto questi limiti un unico passo (XVI, 386) nel quale Zeus punisce gli uomini, perché adirato contro i giudici che dànno sentenze ingiuste. Qui l'ordinamento giuridico è sentito come essenziale per la vita umana e i giudici considerati quasi come delegati del dio supremo che tradiscano il loro mandato.
Tutt'altro che primitiva è la religione: pochi dei raggruppati intorno a Zeus. Lo studio delle fonti posteriori e non solo e non principalmente letterarie, ma prevalentemente epigrafiche e archeologiche, ci mostra che ancora in piena luce di storia ognuna delle città greche adorava molti altri dei oltre a quelli omerici e che nessuna città adorava tutti gli dei omerici. Qui il poeta dell'Iliade, e già, con ogni probabilità, progressivamente poeti anteriori, hanno scelto consapevolmente. Anche per questo rispetto l'Iliade non è primitiva. Il poeta sa di Demetra e Dioniso, ma questi non hanno parte nell'opera. E i pochi dei omerici si raggruppano intorno a Zeus come intorno a un re: in parecchi passi Zeus è, si direbbe, l'unico dio vero; dunque già nell'Iliade un avviamento al monoteismo. E ancor meno primitivo è l'atteggiamento dell'Iliade rispetto alla divinità: se l'eroe sente spesso che il dio gli concede o nega forza, sente il dio sopra e dentro sé, altrove almeno alcune divinità (p. es. Afrodite, Ares) sono trattate non solo dal poeta ma dai suoi personaggi (che giungono persino a ferirle!) con certa libertà, spregiudicatezza, persino frivolezza. Contadini e cittadini greci erano di pietà molto più semplice ancora in tempo molto più recente.
Già l'attitudine rispetto alla religione basterebbe a mostrare che l'Iliade non è poema popolare. Si può dire anzi che popolo e plebe per l'Iliade non esistono: il solo plebeo, Tersite (e sarà figura inventata dal poeta, non già tramandata dalla leggenda), è dipinto a colori tra foschi e ridicoli, ed è introdotto, si direbbe, solo per farlo maltrattare da Ulisse. Il peccato fondamentale degli eroi dell'Iliade è un peccato tutt'altro che da povera gente, è la ὕβρις, il sentirsi superiori alla norma. Con tutto ciò sarebbe errato chiamare l'Iliade un poema aristocratico. Cortigiano, sì: l'Iliade sarà stata composta da uno degli aedi che l'Odissea ci mostra alla corte dei principi (in questo caso si può supporre degli Eneadi: v. a p. 330). La Grecia dell'Iliade è divisa in un'infinità di piccoli principati; ma non vi è ancora traccia d'una nobiltà che insidi il potere del capo legittimo.
Questa considerazione ci porta a trattare dello sfondo più propriamente storico dell'Iliade. L'Iliade canta, e presuppone nota, la guerra che una confederazione di principi indipendenti comprendente tutta la Grecia ha mosso contro Troia, aiutata questa a sua volta da principi dell'Asia Minore confederati. Questa leggenda deve avere un nucleo storico, come lo ha la leggenda carolingia. Né sarà caso che tra le nove città sovrapposte che gli scavi di Dörpfeld e Schliemann hanno messo in luce nel sito dell'antica Troia, quella che forse è la maggiore, la sesta, all'incirca contemporanea alla rocca di Micene, appaia distrutta (verso il 1200 a. C.), che il posto sia rimasto deserto, finché a poco a poco povere capanne risorsero nella cerchia delle antiche mura. Quanto è poco critico supporre una guerra di tutta la Grecia confederata contro Troia (noi non sappiamo neppure se i distruttori della sesta città fossero Greci o non forse Traci), altrettanto pare probabile che questa città distrutta sia divenuto il centro di un ciclo di leggende. È verosimile che tentativi di Eoli, p. es. di Lesbî, di stanziarsi nella Troade abbiano dato la spinta a questo processo.
Ma queste leggende hanno un presupposto comune che è impensabile per la Grecia postmicenea: nessun poeta di quell'età poteva immaginarsi una confederazione di stati greci sotto un unico capo. E non è fortuito neppure che questo capo, Agamennone, sia, se non dappertutto, almeno in parecchi passi, pensato quale re di Micene, della città che fu la più potente e la più ricca nell'era che da essa prese il nome. Il poeta canta una leggenda che fu già micenea, come pregreci, micenei si rivelano parecchi dei suoi eroi, per lo meno Achille, Ulisse, Idomeneo (v. le voci relative).
Né è lecito da queste osservazioni indurre senz'altro che il poeta appartenga egli stesso all'età micenea. Questa conclusione si rivela subito errata. In verità l'Iliade rispecchia stadî diversi, come nelle concezioni etiche e nella lingua, così anche nella cultura materiale. L'Iliade conosce lo scudo largo miceneo, dietro il quale l'eroe si rannicchia (lo scudo di Aiace è confrontato con una torre), ma conosce anche lo scudo piccolo, tondo, che l'eroe può manovrare. L'Iliade conosce la doppia coppa di Nestore che ha il riscontro più immediato in una tazza d'oro trovata in una delle tombe di Micene; conosce lance con testa di bronzo circondata da un cerchietto d'oro, gemelle di oggetti trovati parimenti a Micene, a Mochlo (Creta), a Dendro. Ma essa descrive (XI, 19 segg.) una corazza che ha analogie solo in opere dell'arte fenicia o orientalizzante; descrive una foggia di acconciatura maschile, quella di Euforbo, (XVII, 52), ch'è postmicenea. E queste differenze non autorizzano a dividere sul fondamento di esse il poema in "strati" nettamente distinti gli uni dagli altri. L'analogia della lingua consiglia tutt'altra soluzione: come colà è impossibile sceverare canti eolici o traducibili in eolico, così qui è impossibile distinguere parti micenee e parti postmicenee. La verità è molto più semplice. Il poeta arcaizza consapevolmente. Di questo si può dare una prova tratta dall'archeologia. Le armi degli eroi sono nell'Iliade sempre (tranne in due casi) di bronzo: eppure egli sa del ferro: di ferro son talvolta gli arnesi; ferreo è il cuore. Questo modo di dire, appunto perché proverbiale, mostra che il poeta viveva nell'età del ferro. Ma egli sapeva che gli antichi eroi avevano usato solo armi di bronzo.
Cronologia dell'Iliade. - Se è chiaro che l'Iliade appartiene al periodo dell'arte arcaica e orientalizzante, è invece impossibile stabilire di essa una cronologia esatta: noi non possediamo se non termini ante quos. È certo che già Esiodo attinge e allude a essa sia nella Teogonia, sia nelle Opere, che essa è per lui (come per Tirteo e Mimnermo) un poema classico (tentativi di mostrare invece che passi determinati dell'Iliade dipendono da Esiodo appaiono falliti). Ma classici in un mondo dove le comunicazioni erano ancora molto imperfette, non si diviene in un giorno. È improbabile che la nostra Iliade appartenga al VII e non all'VIII sec. Chi la mette nel VII, si trova poi imbarazzato a datare l'Odissea, che dell'Iliade non può essere né contemporanea né quasi contemporanea.
L'unità dell'Iliade e i diritti della critica. - Da quel che abbiamo ragionato sin qui si ricava facilmente, quasi come corollario, che l'Iliade è nel suo complesso un'unità artistica: dev'essere quindi necessariamente errata qualunque dottrina la voglia risolvere in un aggregato meccanico di carmi differenti, opera di differenti poeti. Incongruenze negli stadî di cultura materiale che si rispecchiano nel poema, nel modo di rappresentarsi gli dei e il loro intervento, nelle concezioni etiche e sociali professate o più spesso presupposte, anche alternarsi di stadî linguistici più antichi con più recenti non provano in sé nulla contro l'unità, se veramente tale poesia, arcaizza, com'è ammesso ormai, crediamo, concordemente: anche la più raffinata arte arcaistica talvolta si tradisce.
Eppure la verità non è così semplice come vorrebbero i negatori della legittimità della "questione omerica". L'Iliade ribocca di contraddizioni; e queste non sono né tutte né le più del genere di quelle dell'Ariosto o del Balzac, che si spiegano con le "distrazioni" del poeta, come si diceva pianamente un tempo, o con l'irrazionalità dell'arte, come si esprime ora una critica più pretensiosa. Il muro intorno alle navi a volte c'è, a volte è dimenticato; poteva un poeta dimenticarlo, quando esso ha tanta e tanta parte nell'azione, quando tanto a lungo e così valorosamente si combatte per superarlo e per difenderlo? E c'è ancor di peggio: nel IX libro, pure, secondo noi, essenziale nella struttura del poema, ha singolare spicco un personaggio di cui non si parla mai né prima né dopo: l'aio di Achille, Fenice. Eppure esso, secondo il IX libro, rimane ospite di Achille e dovrebbe trovarsi ancora presso lui e in qualche modo agire, quando Patroclo chiede e ottiene di mostrarsi, nelle armi del suo capo, ai nemici, quando giunge la notizia della morte di Patroclo ecc. E personaggi non mai nominati altrove, Dolone (il nome, da δόλος, "l'inganno", è trasparente, dunque invenzione del poeta) e Reso appaiono nella Dolonia, in quella che è ora la parte maggiore del libro X. Della Dolonia già la critica antica sapeva che essa non apparteneva al poema originario. Qui gl'indizî di origine più recente, specie per quel che riguarda la cultura materiale, ma anche nella lingua e nel modo di guerreggiare e di sentire la guerra si accumulano, e non possono quindi essere spiegati come errori d'un poeta arcaistico. La Dolonia presuppone anche tutt'un'altra posizione dei due eserciti, tutt'un'altra topografia che i canti che immediatamente precedono e seguono.
E le difficoltà non si limitano davvero a quelle due parti. Spesso, anche in tutt'altri canti (anche fuori di scene tipiche dove la ripetizione è, in principio, giustificata), torna, trasportata pari pari o modificata, una serie di versi che si ritrova altrove, e altrove calza, mentre qui non conviene; eppure non può essere considerata quale semplice interpolazione ed eliminata senz'altro.
Anche lo stile, unitario nel suo complesso, presenta da parte a parte differenze che non sfuggono a un occhio esercitato. Quanto alla lingua, bisogna purtroppo riconoscere che manca ancora un lavoro diretto non a studiare un singolo fatto linguistico (p. es. l'azione del digamma) ma a determinare se vi siano parti nelle quali i modernismi siano fitti o normali, per le quali quindi non valga la spiegazione dell'arcaismo. Evidente è a ogni modo il carattere più recente della lingua nella Dolonia e in una parte che mostra anche presupposti storici e geografici diversi, il Catalogo delle navi.
Intorno a tali difficili problemi si affaticano già da più di un secolo gli omeristi, e, nonostante la frequenza degli sviamenti, in complesso con più frutto di quel che taluno voglia dare ora a intendere. Secondo noi la spiegazione di tali contraddizioni e incongruenze deve esser ricercata, secondo i casi, in due direzioni diverse. L'Iliade presuppone, lo abbiamo detto, poemi precedenti, epico-lirici ed epici, eolici e ionici, minori e maggiori. Ed essa non solo presuppone ma attinge a tali carmi. Non è escluso che qualche carme minore sia stato addirittura incorporato nel poema senza mutamento notevole. Molte delle incongruenze si spiegano in tal modo. Per questa via la questione omerica si va trasformando in un problema di fonti. Tale problema, essenziale per la storia della cultura, non è senz'importanza neppure per la storia dell'arte propriamente detta. Interessa vedere come il poeta dell'Iliade trasformi il suo materiale, piace ricostruire, come l'archeologo ricostruisce templi che furono trasformati e incorporati in altri, i poemi che dall'Iliade furono come assorbiti. I mezzi di questo lavoro ci sono stati forniti dagli analitici, ai quali dobbiamo essere grati, seppure di questi mezzi non sempre hanno fatto buon uso.
D'altra parte l'aedo o il rapsodo (v. epopea), appunto perché non esisteva ancora il concetto di proprietà letteraria, aggiungeva, ogniqualvolta recitava un tratto del poema, tutto quello che meglio gli pareva. Un'aggiunta che avesse successo penetrava nel poema, finché il canto epico rimase cosa viva, finché l'Iliade non fu anch'essa canonizzata. Due di queste "interpolazioni", forse le maggiori, sono la Dolonia e il Catalogo delle navi; al Catalogo delle navi un cantore più recente ha innestato un Catalogo dei Troiani.
E, se il rapsodo poteva fare aggiunte, egli poteva anche modificare. Quanto necessaria è per l'economia dell'Iliade l'"Ambasceria ad Achille", nel libro IX, altrettanto è sicuro che Fenice nella nostra Iliade non è originario: è per me dubbio se qui una parte del canto possa essere semplicemente dissaldata dal resto, o se piuttosto un poeta non abbia mutato più profondamente la compagine primitiva. Il problema più grave nella composizione dell'Iliade è quello, diciamo all'ingrosso, del libro VIII, la Κόλος μάχη. Il canto è, nella struttura del poema, centrale. Eppure esso mostra un poeta di potenza mediocre, che adopera a sproposito passi che in altre parti dell'Iliade stanno meglio a proposito. La questione non pare risolta.
L'Odissea.
Argomento. - Tutti gli eroi superstiti sono ormai tornati da Troia alle loro case, tranne Ulisse che, pur desideroso del ritorno, è trattenuto da Calipso nella sua isola. Tutti gli dei hanno di lui pietà, tranne Posidone, irato con lui per il figliolo, il Ciclope Polifemo da lui accecato. Ma un consiglio degli dei, assente Posidone, delibera il ritorno; e Atena si avvia a Itaca per incoraggiare il figlio di Ulisse, Telemaco, a tener testa ai Proci che agognano alle nozze della madre Penelope e al regno; e per indurlo a intraprendere un viaggio in cerca di notizie del padre e per "acquistar buona fama". Telemaco segue il consiglio della dea, apparsagli nell'aspetto del re dei Tafî, Mente; ma non riesce a vincere nell'assemblea contro i Proci. Allora, all'insaputa sia della madre sia dei Proci, si mette in viaggio con la dea che questa volta ha le sembianze di Mentore. Visita a Pilo Nestore che gli narra del ritorno di altri eroi (anche dell'uccisione di Agamennone e della vendetta di Oreste) e a Sparta Menelao, che gli riferisce il responso che a lui diede Proteo, nel quale si parlava anche di Ulisse trattenuto nell'isola di Calipso. Intanto i Proci gli preparano insidie al ritorno.
I primi quattro libri formano la parte essenziale di quella che si suole chiamare la Telemachia. In principio del quinto, dopo un secondo concilio degli dei, Zeus spedisce Ermete a Calipso con l'ordine di lasciar partire Ulisse. La dea aiuta l'eroe a costruirsi una zattera sulla quale egli s'imbarca. Dopo diciotto giorni di navigazione è già in vista dell'isola dei Feaci, Scheria, quando Posidone suscita una tempesta che spezza la zattera. Ma la dea marina Ino Leucotea, impietositasi di Ulisse, gli porge il proprio velo, sostenuto dal quale egli giunge a nuoto alla riva di Scheria. Qui lo conforta un sonno riparatore. Lo sveglia un grido della figlia di Alcinoo re dei Feaci, Nausicaa, e delle sue schiave, che dopo aver lavato le vesti nel fiume, giocavano a palla e alle quali la palla era caduta nell'acqua. Ulisse, nudo ma coperte le vergogne con un folto ramo, si presenta a lei supplice. Essa lo incoraggia a presentarsi al padre e alla madre Arete. È accolto onorevolmente. Il re, consenzienti i primi tra i nobili, gli allestisce una nave che lo accompagnerà a casa; e intanto l'onora celebrando feste. L'aedo Demodoco, cantando il cavallo di legno e la fine di Troia, muove il pianto a Ulisse, che non aveva ancora rivelato il proprio nome. Alcinoo gli chiede chi sia. Ulisse narra allora le sue avventure dopo la presa di Troia: il racconto riempie ora quattro libri, dal IX al XII.
Egli dopo una scorreria infelice contro i Ciconi, era giunto fino al Peloponneso; ma, mentre sta per doppiare la punta meridionale, la Malea, una tempesta di tramontana lo spinge fino nei paesi delle favole. Prima tra i Lotofagi, che vivono del fior di loto (chi lo mangia, dimentica la patria e il ritorno); poi tra i Ciclopi (v.). Dalla caverna di Polifemo, dopo aver accecato l'unico occhio del mostro nel sonno, egli riesce a fuggire legando sé e i compagni scampati alla fame del cannibale, sotto il ventre di montoni; ma da allora Posidone, cui il figliolo aveva chiesto vendetta, lo perseguita col suo odio. Giunge poi all'isola di Eolo, re dei venti, che prima lo accoglie benevolo e gli consegna alla partenza tutti i venti (tranne l'unico favorevole al ritorno a Itaca, Zefiro), chiusi in un otre: ma quando Ulisse gli si ripresenta, perché i compagni, sospettando che nell'otre fossero chiusi tesori, hanno sciolto i venti, e la procella scatenatasi li ha riportati all'isola di Eolo, tratta l'eroe in malo modo. Ulisse è trasportato poi sino ai Lestrigoni antropofagi. Di qui scampa con una sola nave. Arriva all'isola della maga Circe. Questa converte in maiali la prima squadriglia spedita innanzi a esplorare sotto il comando di Euriloco. Ulisse, per virtù di un'erba magica concessagli da Ermete, sfugge all'incanto e costringe la maga a rimutare i maiali in uomini. Presso Circe il cui letto egli ascende, rimane un anno, dopo il quale implora il ritorno. Ma Circe gli rivela ch'egli deve prima giungere all'Ade per ascoltare il vaticinio di Tiresia, che solo tra i morti ha ancora chiarezza di mente.
Partito da Circe, Ulisse arriva ai Cimmerî circondati di nebbia, sulle sponde dell'Oceano che recinge la terra. Qui, scavata una fossa, sacrifica ai morti e immola una vittima speciale a Tiresia. Le anime accorrono, ma egli, con la spada in mano, impedisce a tutte di bere il sangue prima che lo abbia bevuto Tiresia. Si presenta innanzi a ogni altra l'anima di un compagno, Elpenore, caduto giù per caso dal tetto della casa di Circe; a lui Ulisse promette sepoltura; poi l'anima della madre, Anticlea, poi Tiresia, che gli vaticina le sue vicende future fino alla morte, la quale lo coglierà dopo lunga vita, in un paese che non conosce né il sale né il remo. Solo dopo udito il vaticinio, egli concede alla madre di bere il sangue, cioè di ridivenire, per un momento, viva e consapevole: la mamma gli narra di essere morta di dolore per la sua assenza. La descrizione dell'Ade continua a lungo: di essa qualche parola di più, a p. 337.
Ulisse ritorna a Eea, e, ricevuti gli ammonimenti presaghi di Circe, s'imbarca per il ritorno in patria. Scampa alle Sirene, che invano lo attirano col canto (egli si è fatto legare all'albero della nave; i compagni remiganti hanno cera negli orecchi); passa tra Cariddi e Scilla, che gli porta via sei compagni. Ma è costretto dai compagni, contro le prescrizioni di Circe, ad approdare all'isola Trinacia (Θρινακίη), dove pascolano le greggi del sole. I compagni, spinti da Euriloco, se ne cibano, nonostante il divieto dell'eroe. Il Sole, sdegnato, ottiene da Zeus che la nave sia colpita dal fulmine. Tutti i compagni periscono tranne Ulisse, che ripassa tra Scilla e Cariddi, si salva miracolosamente da questa, attaccandosi a un fico selvatico, finché il gorgo non restituisce i rottami della nave, e giunge, remando con le mani, all'isola Ogigia.
Qui, in quello che ora è il libro XIII, comincia la seconda parte della Odissea: l'eroe nella sua isola. Ulisse è trasportato da una nave dei Feaci fino a Itaca e deposto con i suoi doni dormente sulla spiaggia presso un antro sacro alle Ninfe. Ma al risveglio, per la nebbia di cui lo ha circondato Atena, non riconosce subito la sua terra, finché la dea, prima sotto le sembianze di un giovinetto lo rassicura, e poi, rivelatasi a lui, gli dà consigli per la strage dei Proci e lo trasforma, perché non sia riconosciuto, in un vecchio mendicante. Ulisse si reca dapprima allo stazzo del suo porcaio, Eumeo, che, pure non riconoscendolo, lo accoglie come si conviene accogliere un ospite. A questo punto la cosiddetta Telemachia si rannoda con l'azione principale. Telemaco, evitate con l'aiuto di Atena le insidie dei Proci, sbarca a Itaca e si reca anche egli dal porcaio. Ulisse, rimosso per un momento l'incanto, si svela nelle sue forme vere al figliolo e con lui prepara la vendetta sui Proci.
Nei canti seguenti Ulisse, mendico nella propria casa, è maltrattato dai Proci e difeso invano da Telemaco e da Penelope, che non lo ha riconosciuto; e deve persino tener testa a un altro mendicante, Iro; è persino insultato da una delle proprie ancelle. Ma in un colloquio notturno con Penelope, che suole chiedere a ogni viandante notizie del marito, essa gli espone il piano di troncare le contese tra i Proci, concedendosi sposa a colui che riuscirà a tendere l'arco di Ulisse: la prova avverrà il giorno della festa di Apollo, nel novilunio. Mentre i due parlano, la fida schiava Euriclea lava i piedi a Ulisse, e riconosce d'un tratto il suo padrone a una cicatrice, e sta per rivelarlo, ma Ulisse, afferratala alla gola, la costringe a tacere.
Il giorno del certame, dopo che parecchi Proci hanno tentato invano di tendere l'arco, Ulisse chiede di prender parte alla prova, ed esaudita la preghiera, tende senza fatica l'arco e scaglia frecce sui pretendenti. Aspra lotta in cui Telemaco, Eumeo, il pecoraio Filetio aiutano il padrone contro i Proci, dalla cui parte è un capraio, Melantio. Ulisse vince e uccide i Proci, e, vincitore, punisce di morte le ancelle infedeli e Melantio. Colloquio tra Penelope, che durante l'eccidio dormiva ed è ora svegliata da Euriclea, e Ulisse, che ha ripreso il suo aspetto naturale. Penelope esita ancora a riconoscerlo e non si arrende finché il marito non le descrive qualcosa ch'egli solo può sapere, la posizione e la struttura del letto nuziale. Segue una visita di Ulisse al padre Laerte, che vive ritirato in campagna. Il poema finisce con il combattimento tra Ulisse e i suoi da una parte e quelli dei cittadini che erano aizzati dai padri dei Proci uccisi: Ulisse, aiutato da Atena, prevale: Zeus, scagliato il fulmine, pone fine alla battaglia: pace e amnistia.
Presupposti storici e sociali dell'Odissea. - Anche l'Odissea arcaizza consapevolmente: mentre la fibula d'oro che chiude il mantello di Ulisse (XIX, 226 segg.), con la sua scena di caccia, un cane che tien fermo con le zampe anteriori un cerbiatto, ricorda tipi dell'arte peloponnesiaca del sec. VII, il fregio di κύανος(lapislazzuli o pasta vitrea che imita i lapislazzuli) nel palazzo di Alcinoo (VII, 87 segg.) ha riscontro solo nel palazzo miceneo di Tirinto. Quest'ultimo è forse un caso isolato, per quanto probante per la parte che lo contiene. Ma, anche ad astrarre del tutto dalle opere d'arte menzionate, l'Odissea conosce in un unico passo (XIX, 177) a Creta i Dori; i Dori che in tutto il resto dei due poemi sono ignorati o taciuti. E decisivo è il contrasto nello stato delle conoscenze geografiche. L'Odissea conosce, almeno nell'ultima parte, la Sicilia e i suoi abitanti. Viceversa Ulisse narra di essere stato sbalzato da una tempesta in nove giorni dalla Malea fin tra i Lotofagi: e tra popoli fantastici egli rimane sino al suo arrivo a Itaca: fantastici anche i Feaci che ve lo trasportano. In altre parole si ha l'impressione che questa parte del poema non conosca nessuna terra più in là, più a occidente o a mezzogiorno del Peloponneso. C'è di più: è assunto arbitrario (sebbene sulla traccia degli antichi Greci se lo siano posto di recente critici francesi sprovvisti di critica, seguiti purtroppo da dotti italiani) tentar d'identificare ciascuna delle fantastiche terre cui giunse Ulisse, con paesi della geografia reale, perché quando un paese è determinato geograficamente, esso esce dal regno delle favole. Ma si può forse stabilire in che direzione il poeta collocasse ciascuna di quelle isole misteriose. Il resultato è sorprendente: Circe (XII, 70) narra che tra le isole mobili, tra le quali anche Ulisse dovrà passare, passò già incolume la nave Argo, per grazia di Era che proteggeva Giasone. Dunque l'Odissea attinge qui a un poema sugli Argonauti. Ma la navigazione degli Argonauti verso la Colchide attraversa il Mar Nero. Da un poema sugli Argonauti sembra derivino anche le avventure dei Lestrigoni, delle Sirene, di Trinacria. Esse sono quindi da localizzare in oriente, mentre gli episodî inventati dal poeta medesimo, non derivati dalla leggenda, come Calipso, i Feaci, i Ciclopi, la Nékyia, sono da lui collocati nell'occidente. Ma questa stessa combinazione è forse, chi ben guardi, un arcaismo: perché suppone che il Ponto Eussino fosse pensato mare aperto e comunicante con le acque di là dal Peloponneso e da Itaca: questo, mentre l'Odissea conosce bene la Sicilia. Tali arcaismi non sorprendono, perché anche la leggenda di Ulisse, come mostra il nome, è, nel suo nucleo primitivo, micenea: già poeti molto più antichi devono avere cantato di lui.
Ma nonostante le imitazioni arcaistiche l'Odissea si rivela nel complesso poema più recente dell'Iliade. Si vede chiaro che, nel tempo in cui essa fu composta, la monarchia cedeva man mano il posto all'oligarchia. In Itaca i nobili insidiano il potere reale, mentre il re legittimo è assente e l'erede è ancora quasi un fanciullo. Essi sono chiamati qua e là con lo stesso titolo (βασιλεύς) che spetta al re per grazia divina. E il poema finisce con la guerra civile tra il re legittimo ritornato salvo e i sostenitori (o i dipendenti) dei nobili uccisi. Oligarchica pure è la costituzione dei Feaci: Alcinoo è solo (VIII, 390) il tredicesimo di dodici re, seppure il più eminente. E questi re sono subito nella stessa frase chiamati con il nome che indica il magistrato della polis, ἀρχοί. E in questo canto ricorre la parola che è caratteristica del "consiglio" dello stato oligarchico, "anziani" (γέροντες). E gli affari più importanti debbono tra i Feaci esser presentati all'assemblea popolare. Qui, dove il poeta non era legato da tradizione (perché i Feaci sono un'invenzione), egli riproduce senz'altro le condizioni del suo tempo.
Tutta la seconda parte del poema mostra interesse per persone di poco conto, per schiavi campagnoli che fanno i porcai e i pecorai (indimenticabile è la figura di Eumeo) e per la loro vita modesta; questo interesse sarebbe inconcepibile nell'Iliade.
Dell'orizzonte geografico abbiamo già parlato. Segno di origine recente è anche la parte notevole che nel commercio dell'Egeo (almeno in certi canti) rappresentano i Fenici. E non sarà neppur caso che solo in due passi il "bronzo" ricorra fuori di formula o di versi presi a prestito dall'Iliade, che il poeta conosca bene la tecnica della lavorazione del ferro, che sappia del ferro quale merce di esportazione, che usi "ferro" per armi.
Un grado di evoluzione più avanzata ancora che nell'Iliade si scorge anche in molti altri rispetti, primo di tutti nelle concezioni religiose. Gli dei dell'Odissea si avviano a divenire personalità morali; essi sono spesso benevoli verso gli uomini, hanno spesso compassione di essi, seppure ancora talvolta li invidiano. L'Odissea sa (XV, 485) che essi girano per le città e osservano le azioni buone e cattive degli uomini, che essi apprezzano la giustizia. È peculiare a questo poema (o a parti di questo poema) la concezione dell'occhio divino. Anche i contrasti che dividono nell'Iliade l'Olimpo appaiono nell'Odissea mitigati: nessuno oserebbe ingannare Zeus. Nell'Iliade non v'è nulla di simile all'affetto provvido con il quale Atena segue e dirige le vicende dell'uomo che per senno è a lei il più vicino, e quindi il più caro, Ulisse. Questa parte di Atena appartiene più forse alla storia della tecnica epica che alla storia della concezione religiosa. Atena è una specie di deus ex machina, che non appare alla fine come nella tragedia, ma segue l'azione. Ma questo stesso ridursi della divinità a un mezzo per portare innanzi l'opera è segno di origine recente.
E del pari progredite sono le concezioni morali. Già nel primo canto (32 segg.) Zeus, polemizzando quasi contro la concezione tradizionale epica (cioè dell'Iliade), dell'accecamento (ἄτη) che gli dei mandano agli uomini per trarli in errore, protesta: "Gli uomini dicono che da noi viene il male, ma essi stessi se lo procurano da sé contro il fato con le loro tracotanze". Questa è la prima affermazione del libero arbitrio, e quindi insieme della responsabilità umana, nella storia dello spirito occidentale. Questo stesso canto conosce un'etica matrimoniale diversa e più alta di quella consueta: Ulisse (I, 433) non ha toccato Euriclea per non dispiacere alla moglie. La seconda parte del poema, quella stessa in cui è ritratta con tanto amore la vita della povera gente, contiene (XIV, 216 segg.) un passo che depreca la guerra, ed esalta il lavoro e l'attività domestica (οἰκωϕελίη), la quale nitidi alleva i figlioli. Dunque un'etica popolare del lavoro che si contrappone all'etica eroica dell'Iliade. Ancor più evidente il contrasto con l'etica tradizionale è in XXII, 411 seg. Ulisse trattiene Euriclea che, vedendo con sorpresa gioiosa i Proci uccisi, si accinge a lanciare il grido di gioia: "Godi, vecchia, nel cuore, e contienti e non alzare il grido: non è conforme a religione (οὐχ ὁσίη, quasi: "è sacrilegio") alzare il vanto su uomini uccisi". Chi canta così, condanna l'uso costante degli eroi dell'Iliade di gloriar se stessi sul nemico morto. Per vero questa parte dell'Odissea contiene anche altre particolarità: mentre altrove abbiamo l'impressione che la casa di Ulisse sia pensata modesta e quasi povera, qui le schiave sono cinquanta, e loro ufficio principale è non già accudire alle faccende domestiche, ma filar lana, dunque un vero opificio casalingo, come ne dovettero esistere in buon numero nella Ionia e particolarmente nella Mileto del sec. VII, che era il centro mondiale dell'industria tessile. Solo in questo canto e in altri strettamente connessi pare esistere, oltre la sala comune, uno stanzone speciale per le schiave, un laboratorio. Che il pubblico al quale questo canto si rivolge, conosca la pesca, parrebbe del tonno, che viva ormai di pesce, come gli Ateniesi, e non di carne, come l'eroe omerico, è stato indotto da una similitudine.
Cronologia dell'Odissea. - Le osservazioni precedenti sembrano escludere del tutto che l'Odissea sia contemporanea dell'Iliade, che appartenga al medesimo poeta; mutamenti così profondi nello stato, nella società, nella coscienza religiosa ed etica non possono essere avvenuti nel breve giro di una vita umana. Non si può esigere che lo studio della lingua confermi in larga misura tali conclusioni, poiché essa è artificiale, convenzionale. E tuttavia non mancano differenze. Nell'Odissea ha molto meno efficacia il digamma; e, quel che più importa, essa presenta chiare innovazioni sia nella morfologia, sia nel lessico. Che accanto a esse appaiano vocaboli antichi, specialmente epiteti, non testimoniati dall'Iliade, non sorprende; ma proprio quest'ultima osservazione conferma la diversità dell'autore (o degli autori). Maggiore è il divario stilistico: molte meno similitudini (39 contro 182) e queste non si accumulano mai, come si accumulano in certi punti dell'Iliade, e ognuna di esse è molto meno ampia, molto meno staccata dal termine con cui avviene il confronto, molto meno trattata per conto proprio. Per contro sono più numerose le sentenze, e servono spesso a caratterizzare la persona che le profferisce. L'Iliade sa raccontare rapidamente quando vuole, e vuole p. e. nel primo canto; l'Odissea s'indugia molto volentieri nei particolari che hanno evidentemente, per il poeta, valore in sé.
I caratteri (se ne può parlare quasi solo per la seconda parte; tutti i "racconti" di Ulisse sono fiaba, e come tale non caratterizzano) paiono, per quanto si sia spesso affermato il contrario, nell'Odissea molto meno ricchi di sfumature che nell'Iliade, Ulisse è natura molto meno complessa e, in certo senso, si direbbe, anche molto meno ricca di Achille; certo, taluni elementi dell'ideale ionico di umanità vivono in lui, ma, si può forse dire, gli uni accanto agli altri, senza fondersi in una personalità unica. È in primo luogo il savio che sovra ogni altra cosa ama conoscenza (egli solo non sa rinunziare al canto delle Sirene); savio lo mostra il ritegno nello svelarsi a estranei, anche quando non vi siano ragioni speciali di nascondere la propria identità: in questo ferreo mondo è bene star sulle sue! Un altro lato di questa sapienza è la sua abilità nell'architettare menzogne e inganni. Ch'egli ami il guadagno, che faccia assegnamento su doni ospitali, è una particolarità che annunzia la nuova etica delle classi commerciali. Ma in lui, accanto al savio multiforme, vive anche il comune uomo greco, o diciam pure, l'uomo sano senza determinazione di nazionalità, che desidera innanzi tutto ritornare in patria, ricongiungersi con la moglie e il figliolo. Eppure si sente forse in questo carattere la mancanza di quella forte passione che in Achille fonde tutti gli elementi nel suo crogiolo. Penelope è la donna: forte e debole a un tempo, sa tenere contegno dignitoso di fronte ai Proci e difendersi, anche con artifici sottilmente escogitati, dalle loro insistenze; ma internamente si sente abbandonata, si sente troppo debole di fronte al mondo grande e terribile che la circonda; basta un sogno a infonderle speranza o a piombarla nella disperazione. Perché donna, sa anche farsi bella, quando gliene vien voglia. Telemaco è tratteggiato più debolmente; troppo, quasi, pedagogicamente: ma sono ben colti i rapidi trapassi dalla fiducia in sé stesso allo sconforto, che son proprî dell'adolescenza. Tra le figure di donna di classe alta primeggia, nella sua innocenza piena di naturalezza e di grazia, eppure non scompagnata da prudenza, Nausicaa. Il poeta riesce anche a mostrare nelle figure dei capi dei Proci differenze individuali; mentre Antinoo è solo un rozzo e un insolente, Anfinomo ha anche impulsi verso il bene e ritegni. Ma è evidente che il poeta disegna con più amore che le figure degli eroi, quelle dei servi buoni, Filetio, Euriclea, ma specialmente il porcaio Eumeo. Egli sente forse di rivelare all'arte sfere sociali da essa finora non toccate. Insomma tutta questa poesia appare, misurata su quella dell'Iliade, quasi psicologistica; e i caratteri, pure più ricchi di determinazioni, non appaiono a noi così grandiosi come quelli di Achille, di Ettore, o anche di Patroclo e di Agamennone. Ma si deve dir chiaro che le ragioni decisive per attribuire l'Odissea a un'altra età e a un'altra personalità poetica che l'Iliade sono quelle esposte più sopra.
Una tal conclusione sembrava anni sono accettata da tutti; ora si rifà viva, specialmente tra noi, una certa tendenza ad attribuire l'Odissea all'autore dell'Iliade, parrebbe alla vecchiaia dell'autore dell'Iliade. S'insiste sul valore della tradizione. Occorre dir chiaro che chi accetta così in blocco la tradizione antica, dovrebbe anche credere che fossero di O. (v. p. 330 seg.) la Tebaide, le Ciprie e più o meno tutti i ciclici.
Appunto le leggende cantate da un gruppo di poemi ciclici, i Nostoi, l'Odissea pare, almeno in certe parti, conoscere in tutti i particolari, cioè già fissate in forma letteraria, in poemi epici, cioè probabilmente nei ciclici stessi. L'Odissea conosce il tradimento di Clitennestra ed Egisto, l'uccisione di Agamennone, la vendetta di Oreste: nell'Iliade non ve n'è traccia. Si dirà che l'Iliade non aveva occasione di nominare tali leggende. Neppure in profezie? Alla morte di Achille, alla caduta di Troia essa accenna assai spesso. L'Odissea, così come ci è tramandata, è, in certo senso, un poema ciclico.
Più difficile è dare una cronologia assoluta. Ma se si riflette che Archiloco sembra già parafrasare di essa un verso dei più caratteristici (fr. 65 D [64 B] = XXII, 412, già citato), considerare cioè l'Odissea come un testo classico, non si sarà tentati di scender oltre il principio del sec. VII. Ma qui la questione s'intreccia con un'altra, che è trattata nel paragrafo seguente.
L'unità dell'Odissea e l'analisi. - L'unità anche dell'Odissea è, in complesso, evidente. Solo a un artista riflessivo e raffinato poteva venire in mente di incominciare la narrazione dei casi di Ulisse non dalla partenza da Troia o magari dalla tempesta che lo trasportò lontano dalla Malea, ma invece dall'ultimo tempo che egli trascorse presso Calipso, da quello che fu l'inizio del vero viaggio di ritorno dopo la lunga sosta tra le braccia della nasconditrice; e d'inserir poi, in un altro punto della narrazione, il racconto delle avventure precedenti, mettendolo in bocca all'eroe stesso. E questo racconto è stato fin da principio, checché si sia detto in contrario, esposto in terza persona, ed è in sé uno, di un getto, com'è stato dimostrato di recente, sia nelle parti per le quali il poeta si è giovato di un poema precedente, le Argonautiche, sia per quelle dove ha inventato di suo. E un sapiente sforzo architettonico si scorge anche nell'aggruppamento generale della materia nel poema: la prima parte, novellistica, fantastica, spira come un odore di terra lontana; la seconda, biotica, ci trasporta nella fattoria di un ricco proprietario e nella vita contadina e pastorale di una regione dell'occidente ellenico, quale se lo poteva figurare un cantore ionico dell'Asia Minore. Il trapasso tra questi due mondi è segnato dall'arrivo a Itaca dell'eroe addormentato e dal risveglio: la nebbia che travisa e rende irriconoscibile a Ulisse la sua terra, che lo fa disperare del suo fine nel momento in cui lo tocca, è mirabilmente inventata, perché portando, per così dire, un elemento di favola nella realtà biotica, trasformando l'Itaca reale in una terra di fantasia, rende meno brusco quel trapasso. L'unità dell'Iliade è come rincalzata dai continui accenni alla morte di Achille e alla caduta di Troia, che, non comprese nell'azione, costituiscono il fine dell'azione; ma anche nell'Odissea, il giorno del ritorno, il νόστιμον ἦμαρ, è, si può dire, il filo conduttore della prima parte, ed esso è insomma identico con la vendetta finale e con la restaurazione dell'ordine legittimo in Itaca, verso il quale tutta la seconda parte gravita. E neppure è giusto asserire che il poeta dell'Odissea non faccia uso di quella sapiente tecnica compositoria, costituita da un alternarsi di eccitazione spasmodica dell'aspettazione con effetti di ritardo che è caratteristica dell'Iliade. Non ne fa uso nella prima parte, fiabesca, ma l'adopra spesso nella seconda, dove a ogni momento ci aspettiamo che Ulisse, gettati via i suoi cenci, si lanci sui Proci. Qui la differenza dell'arte corrisponde a una differenza della materia, ed è quindi piuttosto un indizio favorevole all'unità.
Ma l'architettura dell'Odissea presenta molte più crepe che quella dell'Iliade e ancora più soprastrutture. Non intendiamo alludere alle interpolazioni, pure numerose ed estese: il racconto dell'adulterio di Ares e Afrodite suscita già sospetto per il tono addirittura parodico, assai fuori di posto in un poema in cui il rispetto agli dei, la distanza dell'uomo da essi, appaiono molto più sentiti che nell'Iliade; e il sospetto è confermato dall'esame linguistico che svela particolarmente iperarcaismi, imitazioni errate di forme e usi sintattici antichi, che è il più sicuro indizio di composizione recente. E non molto tempo fa è stata dimostrata un'interpolazione che introduce nel poema un supplizio atroce che fu di altra età, posteriore, e di altre regioni, quelle della madrepatria. Non di tali aggiunte si tratta, ma d'incongruenze di ben maggior momento.
Nel consiglio degli dei del primo libro Zeus risolve di mandare Ermete a Calipso perché questa lasci partire Ulisse: tale risoluzione non è, senza che si sappia il perché, eseguita. Nel quinto libro nuovo consiglio, e di nuovo Zeus risolve di mandare Ermete a Calipso; Ermete questa volta ubbidisce. Tra il primo e il quinto libro, tra il primo e il secondo consiglio è inserita la parte essenziale di quella che sogliamo chiamare la Telemachia, il viaggio di Telemaco accompagnato da Atena alle corti di Nestore e Menelao. Questo viaggio non ha, si può dire, conseguenza alcuna per l'azione (ché Telemaco poteva incontrarsi con Ulisse presso Eumeo, anche venendo direttamente dalla città). In questi libri ricorrono molte menzioni dei Nosti; anzi si direbbe che certi racconti stiano lì soltanto per narrare del ritorno dei compagni di Ulisse. In questi libri ha grandissima parte la leggenda della morte di Agamennone e della vendetta di Oreste, ed è nominata la città di Atene. E la Telemachia è tutta improntata di un pedagogismo che pare già anticipare (con più grazia) Fénelon e che è estraneo al resto dell'Odissea. Il raddoppiamento del consiglio deve esser connesso con tali particolarità. In altre parole, la Telemachia deve essere un'aggiunta posteriore. Questo non significa che essa sia esistita mai per sé. Telemaco, come mostra il nome di chiara etimologia e coniato per l'esametro, non è figura leggendaria. E la Telemachia offre troppo poco per aver mai formato un carme indipendente. E, quel ch'è più, essa presuppone un'Odissea. Dunque essa è stata poetata per essere inserita dov'è. Ma l'inserzione ha turbato, almeno nei particolari, l'economia di un poema che già esisteva.
Difficoltà suscita la Nékyia. Essa deve appartenere al nucleo originario del poema, anzi della leggenda, perché eroi del tipo di Ulisse nelle epopee di tutti i popoli penetrano fino nell'oltretomba. Ma il poema dimentica evidentemente da un certo punto in poi il suo presupposto, che Ulisse abbia scavato una fossa alla quale i morti accorrono per bere il sangue delle vittime, e, bevendolo, riacquistano per un momento consapevolezza piena; esso immagina da un certo punto in poi Ulisse nell'interno dell'Ade. A questa parte appartengono, se non forse i colloquî con Agamennone e con Achille, la descrizione di Aiace sdegnato, di Minosse, di Orione, dei grandi peccatori, di Eracle. La Nékyia è profondamente rielaborata, come alla rielaborazione invitano per la loro stessa natura canti che hanno per soggetto la vita dopo la morte. Da ultimo si sono aggiunte ancora interpolazioni, facilmente, queste, eliminabili.
E non è scevra di difficoltà la fine del poema. Se non è niente affatto vero che ancora in tempo ellenistico circolassero esemplari, che finivano con XXIII, 296, con Ulisse e Penelope che si coricano nel letto comune; se non è nient'affatto probabile che il poema finisse mai lì (di Laerte si parla anche in altri canti), si deve confessare che l'ultimo tratto, la guerra civile e la riconciliazione dei partiti, pare a noi non solo sommario (che si potrebbe spiegare), ma scadente. E l'ultimo canto contiene anche la seconda Nékyia, minore della prima, che nonostante insigni bellezze (poeta posteriore non significa poeta cattivo) è un enigma sia in sé sia nelle sue relazioni con la Nékyia maggiore.
Ma anche quello che è il nucleo della seconda metà del poema, Ulisse sconosciuto e insultato nella propria casa, ha scene e trapassi che suscitano gravi sospetti. Il poema pare qua e là dimenticare l'incanto che ha trasformato l'eroe in vecchio: una formula come "irrazionalità dell'arte" è comoda ma non significa nulla. E proprio in certi tratti di questa parte si accumulano indizî di concezioni economiche, etiche, religiose diverse da quelle che dominano nel resto delle due epopee (v. sopra, p. 335 seg.); proprio qui troviamo quel biasimo per chi si vanta sul nemico ucciso, che è già, si potrebbe dire, polemica antiomerica. E qui gl'indizî reali sono come rincalzati dagl'indizî formali; ché, diversamente che per l'Iliade, per l'Odissea, forme caratteristiche di singoli tratti sono state messe in luce fuori di ogni dubbio. Esse sono talvolta modernismi, ma spesso iperarcaismi, iperomerismi, che, come si è detto dianzi, provano anche meglio l'origine recente (ché il modernismo può essere uno scivolare del poeta nella lingua contemporanea, mentre l'iperarcaismo prova che la tradizione della lingua epica si va ormai spegnendo).
Par di poter conchiudere che i resultati dell'analisi sono per l'Odissea molto più numerosi e sicuri che per l'Iliade, seppure mancano ancora sintesi soddisfacenti, se la maggior parte di esse presuppongono contro ogni probabilità troppi canti paralleli intorno ai medesimi argomenti. Quel che s'è detto nel paragrafo precedente della cronologia dell'Odissea, vale in caso per la redazione finale: proprio il verso contro il canto sul nemico ucciso è noto ad Archiloco.
Opere "omeriche" minori.
Gli epigrammi, il Margite, la Batracomiomachia. - A Omero erano anche attribuiti carmi minori, non eroici. Così gli epigrammi tramandati nella Vita pseudoerodotea (v. p. 330) e connessi ciascuno con un episodio. Essi esistevano certamente già innanzi alla Vita, dunque forse già nel sec. VI; l'attribuzione a Omero è evidentemente secondaria. Essi sono prodotto di arte rapsodica, ma certo di un periodo di questa arte nel quale essa era ormai discesa dalle corti nelle piazze. Parecchi di tali epigrammi sono capolavori di arte popolaresca.
A Omero viene anche attribuito il Margite, l'epopea di un imbecille (μάργος, l'imbecille; Μαργίτης è il nome personale, derivato da μάργος, dunque una specie del nostro "Cretinetti"). Del testo originale sono conservati, oltre poc'altro, i tre primi versi, due esametri e un trimetro; ed essi ci spiegano molto bene come potesse nascere l'attribuzione a Omero: dicono infatti: "Giunse a Colofone un vecchio e divino aedo, ministro delle Muse e di Apollo lungisaettante, tenendo nelle sue mani la lira di soave suono". Il libriccino si è perduto molto tardi. Per l'età fornisce un terminus ante quem Archiloco, che usa del Margite e lo cita. L'alternarsi, a distanza varia, di trimetri con esametri, con intenzione parodica, non dimostra che il carme sia più recente.
Sotto il nome di Omero è anche tramandata un'altra breve epopea scherzosa, la Batracomiomachia (Βατραχομνομαχία), la "Guerra delle rane e dei topi". Lo scherzo consiste nel trattare in stile epico e con tutto il corredo di consigli e interventi divini che dà dignità all'epos, le lotte fra tali bestioline. Ma spiritoso questo carme non si può dire. Eppure divenne libro scolastico e rimase tale nel Medioevo bizantino; ed ebbe ancora nel sec. XIX la ventura di piacere al Leopardi che lo tradusse tre volte (v. leopardi, XIX, p. 923) e ne dette un seguito (Paralipomeni) con allusioni alla propria età.
Di quando sia la Batracomiomachia, non è facile dire: certo essa è molto più recente del resto dei carmi minori attribuiti a Omero. Una imitazione da Anacreonte fornisce un terminus post quem. Ma affatto fantastica è l'attribuzione, certo già antica - conservata a noi da Suida in una nota marginale alla vita omerica di Proclo, e da un passo di Plutarco, che taluno crede interpolato (risalirà al noto falsario Tolomeo Chenno?) - a un principe ionio, Pigrete, fratello della regina Artemisia (v.), sebbene par certo che il carme sia ancora posteriore. Indizî linguistici evidenti mostrerebbero anzi che esso nella forma presente è ellenistico. Ma non è escluso che noi abbiamo un rifacimento posteriore, come spesso avviene di libri scolastici, poiché altri indizî, p. es. l'abuso di espressioni enigmatiche, indicherebbero che il nucleo appartiene ancora a tarda età rapsodica, né d'altra parte s'intenderebbe come un carme ellenistico potesse, ancora in età ellenistica, essere posto sotto il nome di Omero. Il problema, non gravissimo, interessa per la sua difficoltà.
Gl'Inni. - Porta ora anche il nome di Omero una raccolta di 33 componimenti esametrici, i cosiddetti "Inni", di cui 4 molto estesi (da 295 a 580 versi), gli altri brevissimi. Ciascuno è rivolto a un dio e ciascuno è chiuso da un saluto al dio medesimo. Tutti esaltano la potenza del dio a cui sono diretti: i quattro maggiori espongono in forma quasi prettamente narrativa, epica, fatti mirabili della sua vita, due (quello a Ermete e quello ad Apollo) rifacendosi dalla nascita e dall'infanzia mirabilmente precoce, mostrando come il dio si conquisti la propria sfera di attività e i proprî attributi. "Inni", secondo la terminologia più antica, questi componimenti non possono essere, ché l'inno è parte del culto, e, poiché nella liturgia si cantava, deve essere scritto in metro lirico. Tucidide conosce già uno di questi carmi, quello ad Apollo, quale opera di Omero; ma non lo chiama inno, bensì proemio (προοίμιον), canto preliminare. E proemî sono tutti questi componimenti (tranne, forse, un'eccezione): vale a dire con ognuno di essi il rapsodo intendeva attestare la propria riverenza alla divinità in cui onore si celebrava la festa, prima di incominciare la recitazione di un canto epico, per lo più, certo, di un tratto dei poemi che erano considerati omerici. Il passaggio a un altro argomento è spesso indicato negli ultimi versi dell'inno. In altre parole, a noi negli "Inni" (o più veramente "Proemî") è conservata una raccolta di canti proemiali messa insieme da un rapsodo. Di che età? E di che regione? Una poesia che si distacca dalle altre sostanzialmente, quella ad Ares, poiché identifica la divinità con il pianeta, non può essere molto anteriore all'ellenismo; ma nulla esclude che essa sia un'aggiunta inorganica a una raccolta nel resto già quasi fissa. Parecchi altri carmi non possono essere anteriori al sec. V; così quelli a Pan (il culto divenne, di arcade, attico e così panellenico grazie all'intervento del dio nella battaglia di Maratona); ad Asclepio (originariamente culto ristrettissimo), alla Gran Madre degli dei (religione frigia introdottasi solo nel sec. V in Grecia). Il resto può o deve essere più antico. I più degli dei qui onorati avevano culto nella parte ionica dell'Asia Minore (se pure i più anche altrove); ma non mancano divinità il cui culto colà non è per lo meno sino a ora testimoniato. Dunque un libro di cantori girovaghi, come erano nel sec. V e IV appunto i rapsodi, passato con ogni probabilità per molte mani.
Dell'inno ad Apollo abbiamo già detto che esso è noto quale omerico a Tucidide. La prima parte, v. 1-178, che celebra la nascita di Apollo nella piccola povera isoletta di Delo, la quale si trasforma durante l'epifania, è tutto di un pezzo, e si rivela opera di un ottimo poeta. Costui si rivolge alla fine alle fanciulle delie e le invita a ricordare la sua arte; se a esse chiedono chi sia il cantore più soave, dovranno rispondere: "Un cieco, e abita a Chio". Quando il poeta di questo inno fu identificato con Omero, Omero dovette divenire anch'egli di Chio e cieco. Qui doveva finire l'inno originario; ma nei manoscritti a questo primo tratto se ne aggiunge un altro ben più lungo in cui è narrato come il dio girò il mondo per cercarsi un posto dove fondare il suo oracolo, come lo trovò a Delfi e vi costruì il tempio, come uccise il dragone e castigò la fonte Telfusa che lo aveva ingannato, come trasportò colà Cretesi di Cnosso che navigavano per il mare, perché gli facessero da sacerdoti. Questo tratto non è mai esistito indipendentemente, ma, com'è stato dimostrato tempo fa con prove stringenti, è una prosecuzione dell'inno originario, ad Apollo Delio, ed è opera di un poeta più recente, inferiore per genialità al "cieco di Chio", eppure non privo di valore. Questo poeta è vissuto nella cerchia di Delfo, nella Grecia centrale.
L'inno a Ermete, per quel che se ne intende, è un capolavoro di grazia burlesca. Il dio è, appena nato, come artiere ingegnosissimo (subito di una testuggine si fa una lira), così anche maestro già grande d'inganni e di menzogne, un furbo matricolato, seppure con tutte le apparenze d'infantile innocenza, le quali egli anzi sa sfruttare virtuosamente. La parte principale dell'inno tratta della lotta tra il piccolino e il fratello adulto, Apollo, che rimane sempre al disotto e ogni volta si arrabbia, ma poi non sa tenere a lungo il broncio; e anzi alla fine gli cede spontaneamente una parte dei proprî attributi. Purtroppo l'inno ci è giunto sfigurato da lacune e corruttele. Ma esso mostra una libertà di spirito di fronte agli dei, molto meno polemica e quindi molto più genuina di quella che ha ispirato il canto di Demodoco (v. sopra, p. 337).
L'inno ad Afrodite narra dell'avventura della dea con Anchise. Le arti seduttrici cui la dea ricorre, per ottenere dal ragazzo barbaro e pastore quel che desidera, l'amplesso, sono descritte con molta spregiudicatezza. Il tono è più sensuale, meno grazioso che nell'inno a Ermete.
L'inno a Demetra narra il ratto di Persefone, i giri e rigiri della madre, la carestia che essa, irata, manda alla terra, la riconciliazione, voluta da Zeus, tra essa e Ade. Ma il carme, almeno nella sua forma presente, gravita tutto verso Eleusi. Qui Demetra fa sosta, mentre erra per il mondo, ed è accolta dal re Celeo e dalla sua consorte Metanira quale aia del piccolo principe Demofonte; essa vorrebbe di notte tuffarlo nel fuoco per procurargli l'immortalità, ma Metanira impedisce quest'atto. Allora la dea si rivela quale è ed esige che le sia qui eretto tempio ed altare. Placata definitivamente con Ades e con Zeus, essa istruisce i principi di Eleusi nei suoi misteri. La chiusa dell'inno celebra la beatitudine degl'iniziati. Dunque senza dubbio, così com'è, esso è un carme attico, certo il più antico monumento della letteratura attica (secolo VI), e spira sensi di profonda religiosità, quali si convengono ai più pii tra i Greci. L'arte di questo componimento non è ancora studiata sufficientemente. Di recente è stata scoperta in un papiro la parafrasi prosastica di un carme orfico (con citazioni letterali da esso) che par dipendere da questo omerico.
Degl'inni minori non importa qui parlare.
La fortuna di Omero.
Omero nell'antichità. - I carmi omerici sono già classici per Archiloco, se questo può parafrasare versi di essi (v. sopra, p. 337), sicuro che il modello sia noto e presente agli uditori; sono già classici per Esiodo. È certo, nonostante i dinieghi, che Esiodo usa di passi determinati dell'Iliade (e non viceversa); ma non tanto importa questo, quanto che egli, pur rivolgendosi ai suoi compaesani beoti, compone in versi omerici e in lingua omerica poemi su argomenti che pure erano molto lontani da quelli dell'epopea ionica: la genealogia degli dei e i lavori agricoli. Come l'Iliade e l'Odissea siano rimasti esemplari per tutta l'epopea occidentale sino ai tempi più recenti, sino al Goethe e al Pascoli, è stato già accennato nella voce Epopea (XIV, pp. 121-122). Ma l'influsso di Omero non è nient'affatto limitato, almeno per quel che riguarda la poesia greca, all'epos eroico. Se si fa eccezione per pochi poeti che hanno consapevolmente voluto essere indigeni, epicorî (Corinna, Eroda, il Teocrito degl'Idillî), il fondamento di tutta la lingua poetica greca è pur sempre Omero: vocaboli, formule, forme grammaticali omeriche si trovano nei lirici, nella tragedia, persino nella commedia, almeno là dove essa assurge ad altezze maggiori; pare persino certo che Erodoto qua e là, dove vuol essere più alto, omerizzi.
Già da questo "omerismo" quasi totale della lingua poetica e in genere elevata dovremmo concludere che ogni greco conosceva Omero e ne sapeva a memoria lunghi tratti. Ma alla medesima conclusione si arriva per infinite altre vie: Pindaro e i tragici presuppongono conoscenza precisa dei miti trattati nei poemi "omerici" (non soltanto nei due conservati). Citazioni e, che più vale, allusioni a determinati passi omerici si trovano nella letteratura greca a ogni pié sospinto, da Esiodo e Archiloco sino all'ultimo dei Bizantini. La popolarità di Dante in Italia non è confrontabile con quella di Omero in Grecia: ci furono nella nostra letteratura periodi nei quali la Diviva Commedia non fu nient'affatto popolare, e, chi ben guardi, anche i passi che nell'età nostra, pur tanto studiosa di Dante, si sogliono citare dalle persone comuni, sono sempre gli stessi. Per Omero non è così: Omero fu per i Greci ben presto anche cantore scolastico nel senso più umile della parola. I ragazzi imparavano a leggere e a scrivere su Omero, su Omero s'impratichivano della lingua poetica, che avrebbero poi dovuto saper adoprare non foss'altro che per improvvisare brevi liriche conviviali; su Omero imparavano a fare esametri. E i versi omerici s'imprimevano tanto più facilmente nella mente dei ragazzi, quante meno materie e quanto meno materia essi avevano da studiare: oltre a Omero e a qualche altro poeta (quanto più in alto si risale, tanti meno ancora ve n'erano), un po' di musica. Da Omero, conforme alla tendenza dello spirito greco, quale si rivela già nell'Iliade, a cercare modelli (παραδείγματα) nel passato favoloso ed eroico, nel mito, i ragazzi attingevano anche esempî normativi per la loro condotta etica: ancora il Socrate del Critone ritrova, in un sogno, sé stesso nell'Achille omerico.
Nella scuola elementare ha anche la sua prima radice la filologia omerica: un frammento del comico Aristofane (fr. 222 Kock) ci fa vedere come già allora nella scuola il maestro spiegasse vocaboli oscuri o in una determinata accezione lontani dalla lingua contemporanea e come gli scolari fossero tenuti a ripetere tali spiegazioni. Ma già in Eschilo noi troviamo tracce di tale insegnamento glossografico in vocaboli omerici adoprati a sproposito, cioè dando loro un senso che essi hanno in casi singoli per virtù non propria ma del contesto. Un tale insegnamento risale, dunque, almeno alla prima metà del sec. VI.
Ciò non significa che i poemi omerici fossero diffusi in Grecia in un numero infinito di esemplari. Il libro è rimasto per lungo tempo merce rara; e i maestri si saranno spesso contentati di dettare lunghi tratti ai loro scolari: agli adulti avranno rinfrescato la conoscenza di Omero i rapsodi. È certo che la diffusione più antica dei poemi avvenne per opera di essi. Questo non significa in alcun modo che la tradizione fosse esclusivamente o prevalentemente orale. Il rapsodo possedeva lui il libro, ma gli adulti avranno sino a molto tardi sentito recitare il testo dal rapsodo più spesso di quel che lo abbiano letto essi stessi. Ancora nel sec. IV il Socrate dei Memorabili senofontei (IV, 2, 10) chiede al giovane e ricco e ambizioso Eutidemo che ha acquistato tutti i carmi di Omero: "Aspiri tu forse a divenir rapsodo?", quasi un tale possesso fosse qualcosa di eccezionale. Ancor dopo il sec. IV abbiamo notizia di "agoni rapsodici", di gare di recitazione omerica per località diversissime del mondo greco. In Atene alle feste Panatenee, che ricorrevano ogni quattro anni, i canti omerici dovevano essere recitati nell'ordine che essi avevano nei poemi da rapsodi che si davano il cambio. Questa disposizione, che risalirà al sec. VI, ha dato probabilmente origine a una leggenda erudita secondo la quale Pisistrato avrebbe riordinato i canti omerici che erano sino allora confusi. Il testimonio più antico di essa è Cicerone (De orat., III, 137), che sembra attingere a un grammatico poco più antico, ancora del sec. I a. C., Asclepiade di Mirlea. La notizia, assurda e quindi priva di ogni valore storico, ha avuto immeritata fortuna nella critica moderna.
Poiché, conforme alla concezione che gli antichi Greci avevano del mito, i poemi omerici erano considerati quale massima fonte di conoscenza per le condizioni del passato più remoto, era inevitabile che la scienza storica, man mano che si svolgeva, criticasse i poemi omerici, polemizzasse contro essi. Questo fa, in piena età sofistica, Tucidide, che accusa Omero in nome proprio di avere esagerato la grandezza dei fatti del passato, e per bocca del suo Pericle addirittura di aver mentito, e la cui "Archeologia" (v. tucidide) mira appunto a sostituire un quadro più verosimile della protostoria greca a quello omerico. Ma questi assalti significano nella storia dello spirito greco molto meno che altri ben più antichi, diretti contro Omero etico e teologo. Appunto perché la poesia omerica era considerata come normativa anche per questo rispetto, era inevitabile che man mano che le concezioni religiose ed etiche mutavano, si raffinavano, i portatori della nuova parola fossero costretti a combattere contro il rappresentante, sino allora sacrosanto, del vecchio mondo. Già Senofane accusa in un'elegia Omero ed Esiodo di avere attribuito agli dei quanto tra gli uomini è onta e biasimo, il furto, l'adulterio e l'inganno. E già Eraclito asserisce che Omero (e del pari Archiloco) è degno di essere cacciato dai pubblici agoni e percosso a bastonate. E Platone nell'atto di gettare le fondamenta a un ordine nuovo, costruito su una nuova etica e su una nuova pedagogia individuale e statale, proscrive Omero dalla sua Repubblica, pur concedendogli di buon grado quegli onori che è empio ricusare al genio poetico. Il divieto di Platone non ha fruttificato: Omero è rimasto a base dell'educazione ellenica, se pure i giovani di condizione elevata, per essere e apparire colti (πεπαιδευμένοι), hanno, oltre e dopo i carmi omerici, dovuto studiare molto più, i migliori matematica e filosofia; la maggior parte, purtroppo, retorica. Omero non poteva sparire né dall'insegnamento scolastico né dalla libera cultura dei Greci, finché Greci ci furono, cioè si sentirono tali, anche solo per una ragione nazionale: Omero significa per quel popolo, che non ha mai raggiunto l'unità politica e statale o l'ha raggiunta solo nell'asservimento sotto popoli stranieri, la consapevolezza della sua unità. L'Iliade rappresentava a esso una nazione pangreca, che, in volontaria sottomissione a un capo unico, combatte contro i barbari confederati. Non a caso Erodoto nel proemio, là dove rappresenta la storia mondiale quale un eterno contrasto tra Greci e barbari, prende, si può dire, le mosse da Omero. Questo valore nazionale ha procurato a Omero l'incolumità contro gli assalti di latone e degli altri filosofi.
La filologia greca si forma su Omero, si è sviluppata, forse, dalla difesa di Omero. La più antica interpretazione sistematica di Omero è allegorica: ogniqualvolta il significato di un libro sacro sembra assurdo o sconveniente, si rimedia cercando in esso sensi riposti: meteorologici o cosmici. Questo avrebbe già tentato un contemporaneo di Cambise, Teagene di Reggio: né sorprende che si risalga tanto in su con tali procedimenti, se così antichi sono anche gli attacchi contro Omero, ai quali essi, in qualche modo, rispondono. Proseguono l'opera di Teagene nel sec. V Metrodoro di Lampsaco, Stesimbroto di Taso, Glaucone. Platone si fa giuoco di tali allegoristi: ma il meno socratico dei socratici, un socratico di origine prettamente sofistica, Antistene, riprende tali metodi e li trasmette agli stoici è proseguita anche in questo campo dai neoplatonici. Ma i sofisti o certi sofisti assaltano Omero non solo e non principalmente dal punto di vista etico: essi (i cosiddetti ἐνστυτικοί) vi avevano scoperto anche nei particolari incongruenze e contraddizioni. Nota e infame è in tutta l'antichità l'opera contro Omero, in nove libri, di un cinico (di nuovo un cinico, come Antistene) del sec. IV, Zoilo di Anfipoli, soprannominato "la frusta di Omero" (‛Ομηρομάστιξ). I difensoridi Omero (λυτικοί), sofisti o sofisteggianti ancor essi, scendono sullo stesso piano, proponendo per tali punti interpretazioni grammaticalmente o nel contesto impossibili e congetture arrischiatissime. È probabile che essi e i loro avversarî abbiano contribuito a falsificare il testo omerico; anche se un ἐνστυτικύς scriveva soltanto: "Omero avrebbe detto meglio così", la correzione veniva quasi inevitabilmente a penetrare nel testo, ché per una filologia primitiva e anche oggi per lettori non filologi la lezione più bella è sempre genuina. Tali discussioni su questioni omeriche sono riprese con più serità da Aristotele, che anche qui si mostra prosecutore e perfezionatore della sofistica, in un'opera ('Απορήματα ὁμηρικά) di cui ci sono giunti solo frammenti.
La filologia alessandrina prosegue in certo modo l'opera di tali λντικοί, ma essa crea contemporaneamente il concetto dell'autenticità documentaria. Il più antico dei tre grandi alessandrini, Zenodoto (è opera sua la divisione schematica dell'Iliade e dell'Odissea in 24 canti, contrassegnati ciascuno con una lettera dell'alfabeto), si accorge che i codici di Omero che correvano in Egitto al suo tempo, erano sfigurati da alterazioni e più ancora da aggiunte; e cerca e trova esemplari migliori, sui quali mette insieme una propria "edizione" (ἔκδοσις), cioè un proprio esemplare destinato a base del suo insegnamento e non già alla diffusione libraria, commerciale. Da quel non moltissimo che sappiamo di lui, par evidente che egli fu nella sua critica strettamente conservatore. Né altrimenti si spiegherebbe come egli, che ometteva alcuni versi, ne lasciasse poi nel testo altri che non riteneva autentici, contentandosi di contrassegnarli con un simbolo, l'obelo (ὀβελός "spiedo"). Evidentemente egli non osava senz'altro gettar via versi anche evidentemente spurî ma offertigli da tutti i suoi manoscritti o dai più autorevoli. Nello scegliere tra le lezioni egli si attiene da una parte al criterio che la brevità fosse indizio di genuinità (e poiché i rapsodi erano proclivi ad aggiungere, avrà per lo più avuto ragione), segue dall'altra criterî interni, razionalisti: è probabile che così egli rimanesse vittima di congetture di λντικοί. Che congetture perpetrasse egli stesso, non è per lo meno dimostrato. Derivano dalla sua scuola i cosiddetti χωριζοντες ("separanti"), Xenone ed Ellanico, che primi si accorsero che l'Odissea non può essere dello stesso autore dell'Iliade. Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia (v.) continuano l'opera sua perfezionando il sistema delle note critiche e illustrando Omero con Omero. Tutti e due sono, come Zenodoto, singolarmente conservatori nella propria critica; tutti e due, e più il secondo (del primo, del resto, sappiamo poco), inclinano a considerare l'uso omerico come rigido, ad "espungere", cioè a contrassegnare quali spurî, non già a cancellare nel testo, i versi che da quest'uso si allontanano, a rimuovere peculiarità che a noi che della lingua omerica cerchiamo di farci un concetto storico appaiono legittime. Quanto alla critica del testo noi possiamo valutare assai bene i meriti dei tre grandi Alessandrini, confrontando i papiri del III e della prima metà del sec. II a. C. con i posteriori. In questi si fa sentire l'effetto della "riforma" dei tre grandi Alessandrini, non tanto nelle lezioni quanto nell'eliminazione di versi inutili, che rappresentano evidentemente tardi allargamenti (o doppioni) rapsodici. Tali versi saranno stati omessi dai tre Alessandrini certo su fondamento diplomatico, perché i migliori manoscritti non li avevano. Dobbiamo invece confessare che non possiamo farci un'idea molto chiara dell'esegesi alessandrina. L'opera dei tre (e particolarmente di quello dei tre che ha avuto più influsso, Aristarco) ci è giunta non direttamente, ma per lo più attraverso citazioni negli scolî omerici (v. sotto, p. 339), i quali hanno attinto alla sua opera non direttamente ma principalmente attraverso le compilazioni di due grammatici dell'età augustea, Aristonico e Didimo.
I critici alessandrini dettero opera anche alla lessicografia omerica. Anche qui essi non avevano trovato terreno vergine. Già il grande Democrito di Abdera aveva scritto intorno a glosse omeriche (qualche frammento ci rimane ancora). E un impulso alla lessicografia anche omerica aveva dato in età alessandrina proprio il maestro di Zenodoto, Fileta, sia pure in un lavoro più generale ("Ατακτα). Zenodoto raccoglie "glosse omeriche"; segue il suo esempio Neottolemo Pariano. Tutta questa attività è per noi perduta, almeno nella sua forma originale; parecchio di essa si nasconderà nei lessici giunti a noi; i più di età bizantina; parecchio ricaviamo dagli scolî. Meno ragione abbiamo di sospirare per la perdita dei lavori degli eruditi della scuola pergamena (Cratete di Mallo) su Omero: tali dotti non erano grammatici esatti, ma proseguivano, in stretto contatto con la Stoa, la tradizione sofistica e filosofica dell'interpretazione allegorica. Omero era da loro trattato e considerato quale il maestro di ogni scienza ed arte; e speciale cura essi si davano per mettere d'accordo il testo specialmente dell'Odissea con le nuove scoperte geografiche. Di miglior frutto sono i commenti speciali storico-geografici di due dotti compilatori del sec. II a. C., di Apollodoro di Atene al Catalogo delle navi e di Demetrio di Scepsi al Catalogo dei Troiani. Essi possono essere parzialmente ricostruiti sul fondamento dell'opera di Strabone: erano una miniera di erudizione anche utile.
Scritti di dottrina omerica non sono giunti a noi in forma originale se non di età tarda: interpretazione allegorica offrono i Problemi Omerici del cosiddetto Eraclito, l'opera Sugli dei di Cornuto, lo scritto di Porfirio Sull'antro delle Ninfe e le sue Questioni omeriche (‛Ομηρικὰ ζητήματα; queste stesse devono essere in parte ricostruite di sugli Scolî Omerici): per tutto questo v. le singole voci. Di lavori lessicali ci è giunto, in codici medievali, oltre estratti di Apione e Zenodoro, un lessico speciale di Apollonio Sofista, composto verso il 100 d. C. profittando del commentario di Aristarco e dell'opera lessicografica del medesimo Apione.
Fonte principale per l'esegesi antica di Omero rimangono per noi i commenti anonimi, gli scolî. Ricchi sono gli scolî all'Iliade. I più importanti per copia di erudizione sono quelli la cui miglior tradizione è fornita dal codice veneto A: una sottoscrizione in questo manoscritto attesta che essi sono stati compilati (nel sec. V-VI dell'era volgare?) di sulle opere anzidette di Aristonico e Didimo, e per giunta su una di Erodiano e una di Nicanore. Essi costituiscono per noi la sorgente più ricca intorno agli studî omerici degli Alessandrini. Un commento più prettamente esegetico è conservato nel Veneto B e meglio in un manoscritto di Londra, il Townleyanus T. Qualche scolio nuovo di singolare dottrina fu trovato anni sono in un manoscritto di Ginevra. Collezioni minori non sono ancora pubblicate in modo sufficiente. Non privo di valore è il commento di un tardo Bizantino, Eustazio, perché ci conserva materiale non trapassato nelle altre raccolte. Il confronto con scolî restituiti dai papiri, se prova da una parte che preformazioni dei nostri commenti esistevano già nell'antichità, dimostra d'altro canto quanto poveri essi siano in confronto dei loro antichi modelli. Gli scolî all'Odissea giunti a noi sono scarsi di quantità e di valore: qui anche i papiri non aggiungono molto alle nostre conoscenze. Nonostante che altri opini l'opposto, è probabile che nell'antichità l'Odissea, come è meno citata nella letteratura più alta, così fosse meno studiata dai grammatici.
Omero era per i Greci il poeta senz'altro; divenne il poeta senz'altro per i Romani, non appena essi vennero in contatto con la cultura greca. Il più antico poeta romano d'arte, Livio Andronico, traduce l'Odissea in versi saturnî: s'intende che l'Odissea interessasse gli occidentali più dell'Iliade se essi riferivano all'Occidente almeno una parte dei viaggi di Ulisse, se ritrovavano l'isola di Circe nel Circeo, e l'isola dei Ciclopi o anche la Trinacria nella Sicilia. Né Ulisse era ai Romani personalità nuova: già la forma che essi dànno al suo nome, mostra che non lo ricevettero né direttamente né solo nel sec. III dai Greci (v. ulisse). Ma presto il popolo nuovo passa, in fiera consapevolezza di sé, ad emulare, non già a imitare, il poeta antico: Ennio in principio degli Annali sogna che Omero gli si riversi in seno. E non invano Properzio, quando l'Eneide non era ancora pubblicata, scrisse: nescio quid maius nascitur Iliade. Da allora si presenta ai Romani ripetutamente il problema: Chi è maggiore? Omero o Virgilio? La trattazione più ampia è per noi quella di Macrobio (Sat., V, 2).
Ancora un contemporaneo di Catullo, Cn. Mazio, traduce l'Iliade in esametri (ci sono rimasti pochi frammenti; ancor meno sappiamo di una versione di Ninnio Crasso). Consimili tentativi si ripetono nell'età imperiale; così l'Azio Labeone deriso da Persio aveva tradotto l'Iliade e l'Odissea alla lettera senza curarsi del senso. La versione omerica di Polibio, il liberto di Claudio, al quale Seneca diresse un libro consolatorio, sarebbe stata ben migliore, se diamo retta a Seneca stesso. Ma tali tentativi non potevano attecchire; ché anche nel mondo romano l'originale era troppo noto e troppo familiare perché si sentisse il bisogno di versioni. Omero aveva colà il suo posto nella scuola non meno che tra i Greci. E i Romani colti lo conoscevano davvero bene tutti: senza tale conoscenza come avrebbero i lettori di Virgilio, anzi già quelli di Ennio, potuto gustare certe trasposizioni, certi mutamenti? Le persone meno colte avranno letto almeno qualche tratto e si davano l'aria di conoscer l'intero, e citavano versi di Omero a tutto spiano (come le classi corrispondenti fanno ancora con Dante). Questo mostra la Cena di Trimalchione (v. petronio): ancora in quel tempo e in quelle sfere di libertini arricchiti Omero dava lo spunto a divertimenti di pessimo gusto, episodî rappresentati da istrioni armati, gli "Omeristi".
La conoscenza di Omero è stata trasmessa al Medioevo occidentale non già da versioni complete ma da un compendio dell'Iliade, l'Homerus latinus (v. omero latino).
Omero nel Rinascimento e nell'età moderna. - Il Medioevo occidentale sa di Omero poeta sovrano dagli scrittori romani, ma non ha letto i poemi omerici né nel testo né in una versione completa. La sua conoscenza della guerra troiana, che pure fruttificò già verso la metà del sec. XII nel Roman de Troie di Benoît de Sainte More e si estese da allora in poi a cerchie larghissime e diversissime, risale all'Omero latino, a Ditti e a Darete. Dante, che pure nel suo Ulisse svolge in profondità una nota che esisteva già nel carattere dell'eroe omerico, la incomprimibile brama di conoscenza, si richiama sì a passi omerici, ma sempre attraverso la Poetica di Aristotele e quella di Orazio.
Il primo occidentale che abbia cercato contatto con il testo omerico fu il Petrarca. Il Petrarca non riuscì a imparare il greco, nonostante le lezioni che durante un periodo del resto breve ricevette dal monaco calabrese Barlaam, ma riuscì a procurarsi un esemplare di Omero grazie a un bizantino Nicola Sigero conosciuto ad Avignone, dove era venuto quale ambasciatore dell'imperatore d'Oriente. Lezioni di greco prese qualche anno più tardi, tra il 1360 e il 1363, a Firenze, Giovanni Boccaccio da Leonzio Pilato. Leonzio Pilato tradusse per lui e per il Petrarca, letteralmente, anzi pedestremente e non senza errori, Omero dagli esametri greci in prosa latina. Il Rinascimento italiano è prevalentemente latino, ma al principio del sec. XV si trova in Firenze qualcuno che ha almeno un sentore di lingua greca, di Omero. Già nel 1396, specialmente per impulso di Coluccio Salutati, si stabilisce in Firenze per insegnarvi greco nello Studio Manuele Crisolora. Da allora in poi le versioni latine, certo per lo più parziali, dell'Iliade si succedono rapidamente: prima di tutte una in prosa di Leonardo Bruni, limitata ai discorsi del IX dell'Iliade: è evidente che quel che nella poesia omerica interessava di più questi primi umanisti, questi ciceroniani, era l'eloquenza! Leonardo Bruni mostra di aver compreso il suo testo. Pochi anni più tardi, per invito di un papa proveniente anch'egli dalla cerchia fiorentina, Nicolò V, sono di nuovo ritradotte quelle stesse orazioni e in più il primo libro dell'Iliade, da Carlo Marsuppini di Arezzo, questa volta in esametri: la morte tronca subito l'impresa. Nicolò della Valle traduce in esametri i primi 9 libri. Delle numerose versioni seguenti nomineremo soltanto quella di Lorenzo Valla, in prosa, per la sua leggibilità e per la sua estensione. Il Valla tradusse (1442-1444) i primi 16 libri; questa versione fu presto integrata da Francesco Aretino, che aggiunse i libri mancanti e tutta l'Odissea. Un grande numero di versioni di un testo prova sempre che la conoscenza della lingua originale è poco diffusa. Così era anche nell'Italia del Quattrocento. Ma a Firenze viveva negli ultimi anni del secolo almeno uno studioso che di greco veramente s'intendeva, Agnolo Poliziano. Egli aveva letto (e interpretato e corretto con spiriti veramente critici) moltissimi testi greci, e padroneggiava quella lingua sì da scrivere in essa versi eleganti. Egli continuò la versione del Marsuppini dal II al V libro in esametri veramente squisiti. In un suo carme italiano originale, l'Ambra, la figura di Omero ha parte centrale: così il poeta greco è introdotto nell'Olimpo nostro.
In quegli stessi anni, per impulso del maestro del Poliziano, Demetrio Calcondila, appare la prima edizione a stampa di Omero: Firenze 1488. La segue la prima Aldina del 1504, molto mutata nella seconda, che è del 1517 (la terza è del 1521). La seconda Aldina diventa canonica: la Fiorentina, Giuntina, del 1519 e la Romana del 1542-50 sono essenzialmente riproduzioni di essa. Nel sec. XVI è pubblicata in Italia una sola versione latina dell'Iliade, da Andrea Divo di Capodistria (Venezia 1537): essa è in prosa, letterale, divisa per versi, e mantiene l'ordine delle parole: dunque qualcosa di simile a quello che gli scolari italiani chiamano il "traduttore". Per questa sua stessa umiltà essa rimase per secoli la traduzione dominante di Omero, quella che si soleva aggiungere al testo originale. Ma cominciano ormai anche le versioni in versi sciolti italiani: una dei primi quattro libri dell'Iliade di Paolo La Badessa di Messina (1514), una di sette libri dell'Iliade e di tutta l'Odissea di Girolamo Bacelli (1581-1582). Ludovico Dolce pubblica nel 1573 una parafrasi dell'Odissea in ottave.
Nel sec. XVI è ripresa la controversia della tarda età romana, chi sia maggior poeta, se Omero o Virgilio, ed è decisa, per lo più, in conformità alle regole aristoteliche, concepite quali assolute, in favore di Virgilio, ch'è più regolare: così p. es. da Girolamo Vida. Sono per Omero i rari antiaristotelici, primo di tutti Giambattista Giraldi Cinzio e Giordano Bruno. La controversia si complica con quella intorno al valore della Gerusalemme del Tasso, ragguagliata all'Orlando Furioso. La polemica contro Omero diviene sempre più violenta nel sec. XVII: si segnalano in essa il professore padovano Paolo Beni e il bizzarro poeta modenese Alessandro Tassoni.
Spiriti più liberi e maggior comprensione della storia e dell'arte antica mostra il secolo XVIII. Non alludiamo tanto alle versioni italiane in verso sciolto come quella di Anton Maria Salvini, la prima completa, e l'altra dei primi tre libri dell'Iliade di Scipione Maffei, quanto a discussioni teoretiche. In pieno periodo illuministico comincia a farsi innanzi, particolarmente in cerchie napoletane, una nuova poetica della naturalezza, la quale venera in Omero appunto il poeta naturale, il rappresentante ingenuo di una civiltà primitiva: il banditore di questa nuova concezione che appare quasi un'anticipazione del romanticismo, è Gianvincenzo Gravina. Ma anche il grande storico modenese Ludovico Antonio Muratori mostra qua e là pensieri simili e simile disposizione d'animo. Molto più moderno del Gravina si mostra Giambattista Vico: delle sue idee quanto a Omero si dà un cenno più oltre.
La Francia del sec. XVI è la sede, come di una filologia classica animata da spiriti veramente storici (come non era stata né l'alessandrina né quella del Quattrocento italiano), così anche di studî omerici profondi. Omero è letto e studiato al Collège de France fin dalla sua fondazione (1530); Adriano Turnebo, professore colà fin dal 1547, dà nel 1554 un'edizione dell'Iliade, alla quale aveva già spianato la via con gli studî critici ristampati nella grande opera Adversaria 1564-65. Enrico Stefano comprende nel suo Thesaurus anche la lingua omerica: l'edizione di Omero forma il primo volume dei Poetae graeci principes heroici carminis (1566). Il testo non è trascritto a caso da un manoscritto o da una stampa precedente, ma fondato su tutta la raccolta di scolî antichi allora noti e su tutti i codici all'editore accessibili: esso è il fondamento della vulgata omerica dei tempi moderni. In una seconda edizione (1588) contiene anche la traduzione latina di Emilio Porto (Lione 1584), riveduta accuratamente. Giovanni Spondano (Jean de la Sponde), un familiare di Enrico IV, pubblica (Basilea 1583) il primo commento scientifico a Omero: egli ha senso per la composizione dei carmi. A quest'età appartengono anche le Antiquitates homericae dell'olandese Everardo Feith, la prima opera di Realien omerici. Omero è noto in Francia anche fuori delle aule universitarie: già il Rabelais lo conosce benissimo, e, uomo di spiriti moderni, si ride dell'interpretazione allegorica. La Pleiade aveva letto Omero nel 1549 nel Collège Coqueret sotto la guida di Giovanni Dorat: il Ronsard dichiara nella prefazione alla Franciade (1572) di aver voluto imitare più la semplicità naturale di Omero che l'accuratezza di Virgilio; ma a Virgilio egli dà la palma nel rifacimento posteriore della prefazione (1584). Qui s'insinuano già nella letteratura francese le controversie italiane sull'eccellenza maggiore dell'uno o dell'altro epico: esse vengono risolte non differentemente da come le risolvevano gl'Italiani. Le aveva trasportate in Francia un dotto di nascita italiana, Giulio Cesare Scaligero: nella Poetica (1561) egli dispregia Omero, poeta rozzo.
Il mutamento del Ronsard ha un profondo significato: la revoca dell'editto di Nantes segnò in Francia il trionfo della Controriforma. L'università francese fu vedovata dei suoi maggiori lumi dalla cacciata degli ugonotti. Inoltre la Controriforma è stata dappertutto avversa al greco, ha imposto, se non a parole, con i fatti l'esclusività per il latino. Alla fine del sec. XVI gli studî greci in Francia sono in pieno sfacelo. Nel sec. XVII solo un grande poeta, Giovanni Racine, ha saputo intendere Omero, ha visto naturalezza e bellezza là dove gli altri non sapevano scorgere se non bassesses; ha persino intuito il divario dell'età omerica dall'età propria, la barocca. Ma il libretto Remarques sur l'Odissée d'Homère è rimasto inedito sino al 1825.
Ma verso la fine del secolo Omero, pur mal noto, fu coinvolto in quelle polemiche sulla dignità e il valore dell'antica e della nuova poesia le quali, se per un rispetto esprimono il desiderio della Controriforma di avere anch'essa la propria epopea, libera il più possibile dalle forme pagane e particolarmente dall'apparato mitologico tradizionale, prettamente cristiana e cattolica, se continuano dunque le polemiche italiane di un secolo prima intorno alla legittimità della Gerusalemme, dall'altra trasportano nel campo letterario la ribellione al principio di autorità, che era già scoppiata trent'anni prima nel campo scientifico e filosofico; gli antiomeristi, pur cattolici quanto Cartesio, corrispondono agli antiaristotelici. Omero era già stato messo in ridicolo nel primo libro apparso nel 1653) del poema burlesco dei fratelli Carlo e Claudio Perrault Les murs de Troye ou l'origine du burlesque. Ora il poeta Giovanni Desmaret, autore delle epopee cristiane, Clovis e Marie Magdaleine, attacca nel 1670 Virgilio e Omero nella Comparaison de la langue et de la poésie française avec celle des grecques et des latins. Omero è difeso nell'Art poétique dal Boileau; l'autore tuttavia si sentiva tanto libero dalla sua autorità da parodiarlo liberamente nel Lutrin. In soccorso dei poeti antichi contro i moderni scrivono volumi con spirito meno libero i padri Le Bossu e Rapin. Il grande Bossuet si mostra favorevole alla poesia moderna, all'epos cristiano, ma ammira Omero.
Queste polemiche sboccano nella grande querelle des anciens et des modernes (v. antichi e moderni, III, p. 467), iniziata il 26 febbraio 1687 da Carlo Perrault nella seduta dell'Accademia con la lettura della sua poesia: Le siècle de Louis le Grand: presero le parti degli antichi La Fontaine, Longepierre, con molto spirito Furetières, François de Callières, con molta dottrina Andrea Dacier, con più moderazione e finezza, di bel nuovo, Boileau (v. specialmente le Reflexions sur Longin apparse nel 1694). La lotta si esaurì ben presto.
Nel 1699 apparvero contemporaneamente due opere omeriche di natura diversa: il Télémaque di Fénelon, ispirato alla Telemachia, ma ben più pedagogistico del suo modello e per giunta condito di allusioni all'età presente, e la versione in prosa francese di Anna Dacier, moglie di Andrea, preceduta da una prefazione in cui l'autrice mostra fine gusto per le bellezze omeriche. Anna Dacier polemizzò ancora molti anni dopo, nel 1714, contro la strana opera di houdar de la Motte, traduzione dell'Iliade (nota a lui del resto solo dalla versione della Dacier) per i primi quattro libri, rifacimento abbreviato e corretto secondo il buon gusto e la morale della Controriforma per il resto, il tutto preceduto da un singolare Discours, dove osservazioni fini si alternano con stranezze e storture. Nella polemica interviene già nel 1714 il Fénelon con la sua famosa Lettre sur les occupations de l'Académie, esprimendosi con cautela ma mettendosi dalla parte della Dacier. La polemica diede lo spunto alle Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture di Giovan Battista Dubos apparse nel 1719. Questi si mostra avverso alle regole, conscio della differenza tra verosimiglianza nella vita e verosimiglianza nella poesia, consapevole anche che arte è identica con stile, ricco di senso storico.
Il movimento che culmina in Rousseau, il richiamo alla natura, doveva agevolare anche l'intelligenza di Omero: ché la poesia omerica, tutt'altro che ingenua, è giusto paia tale a chi si sia formato su Virgilio. Degli enciclopedisti almeno uno, Diderot, mostra di intenderlo. Spesseggiano sempre più le versioni, segno che anche il pubblico generalmente colto, quale si formò in quella nazione e in quegli anni, aveva sete di poesia omerica. E meno difficile diventava soddisfare questo bisogno, perché negli stessi anni rinasceva in Francia la filologia morta nel sec. XVI, nasceva qualcosa di simile a quella che noi chiamiamo archeologia: il conte di Choiseul-Gouffier esplorava la Troade in servigio di Omero; un erudito francese, Ansse de Villoison, scopriva a Venezia il miglior codice dell'Iliade, A e pubblicava di su esso (1788) testo e scolî.
Mentre verso il 1600 il greco in Francia era già morto o agonizzante, non vi era in tutto il sec. XVII nell'Inghilterra un gentiluomo che non lo conoscesse: questo attesta ancora per il principio del sec. XVIII Voltaire. Il greco occupava già allora nell'università ingelse quel posto che tiene tuttora. Ma anche a chi non sapeva di greco Omero era reso accessibile dalla versione completa di Giorgio Chapman (1598-1616), che avrà grandi difetti, ma si legge come un poema originale. Di Omero si sono occupati in Inghilterra i maggiori filosofi e poeti. Già nel 1605 Francesco Bacone respinge nel suo Advancement of learning ogni interpretazione allegorica dei poemi omerici, esige che la poesia sia letta quale poesia. Nel 1673 Hobbes pubblica una non felice versione di Omero in stanze. Milton attinge nel Paradiso perduto a determinati passi omerici. Il poeta Dryden celebra Omero come l'artista geniale, superiore a ogni metodo: è probabile che i suoi varî scritti abbiano agito su Dubos e Diderot: ché verso la fine del Seicento la cultura inglese comincia a influire sul continente europeo.
In quegli stessi anni nasceva in Inghilterra una grande filologia. Nel 1711 appare l'edizione omerica di Josua Barnes, dove per la prima volta è messa a profitto del testo l'osservazione metrica. Il grande Riccardo Bentley scopre nel 1713, sempre fondandosi sulla metrica, il digamma omerico. L'edizione omerica di Samuel Clarke, 1729-40, migliora quella del Barnes: essa diviene classica anche sul continente. Anche uno spirito tutt'altro che libero, uno spirito ligio alle regole, Pope, l'autore, del resto, della versione omerica (1715-25; alcune parti dell'Odissea tradotte sotto la sua direzione da Fenton e Broome) più variamente giudicata ma anche più celebre, era abbastanza filologo per accorgersi che Omero arcaizza: è questa una delle osservazioni più utili all'intelligenza dei carmi omerici. La vita di O., bardo errante e poeta ingenuo, è tracciata con molta fantasia, in un libro celebre (Enquiry into the life and writings of Homer, 1735) da Thomas Blackwell.
Nella contesa in favore e contro le regole, che occupa in Inghilterra tutta la seconda parte del sec. XVIII e finisce con la vittoria della concezione del poeta-genio superiore a ogni regola, Omero occupa grande posto; ma, poiché è meglio e più direttamente noto che in Francia, egli è trattato con rispetto e ammirazione, non è mai assalito o insultato. Da un certo punto in poi esercitano influsso sulla concezione di Omero le raccolte delle antiche ballate inglesi e più ancora la falsificazione dei canti del preteso antico bardo gaelico, Ossian (v.), opera, come si sa, di Giacomo Macpherson (1765). Omero diviene ogni giorno più il poeta popolare schietto, che va di porta in porta e canta come il dio lo ispira: l'analogia di Ossian ispira il pensiero che i canti omerici siano stati tramandati oralmente. Il confronto è esplicito nell'opera più geniale che nota di Giovanni Brown, Dissertation of the rise.... of poetry and music (1763). Ma al Brown spettano ancora altri meriti: egli, come aveva fatto molti secoli prima Posidonio (v. etnografia, XIV, p. 497), confronta la civiltà omerica con quella dei popoli primitivi presenti, specialmente quella di tribù indiane dell'America; si accorge che Omero ha avuto predecessori, e l'Iliade e l'Odissea sono verso il mezzo o alla fine, non in principio di una evoluzione. Maggior successo ebbe il libro, meno geniale, di Roberto Wood, Essay on the original genius of Homer (prima stampa privata nel 1769): egli accerta l'autopsia di Omero, e spiega giustamente un passo difficile dell'Odissea, mostrando che esso s'intende bene in bocca di un poeta che visse nell'Asia Minore. Anch'egli si giova di paralleli etnografici, specialmente con la vita delle tribù dell'Arabia, che conosceva di esperienza propria. Più risolutamente del Brown il Wood nega la trasmissione scritta. Il secolo si chiude in Inghilterra con la versione omerica in versi sciolti di W. Cowper (1791), molto più adeguata allo stile del testo che le precedenti.
Il Rinascimento tedesco è tardivo e (almeno per quel che riguarda il greco) di breve durata. Esso fu strangolato, come in Francia qualche generazione più tardi dalla Controriforma, così in Germania dalla Riforma stessa. I grandi riformatori, Lutero, Hutten, Zwingli e specialmente Melantone sanno di greco e conoscono e apprezzano Omero, se pure lo considerano per lo più da un punto di vista strettamente pedagogistico; ma già nella seconda generazione la scuola ridiviene esclusivamente latina. Le eleganti versioni in esametri latini, dell'Iliade per opera di Eoban Hesse, e dell'Odissea per opera di Simone Lemnio, sono anteriori alla metà del Cinquecento (uscite a Basilea rispettivamente nel 1540 e nel 1549). La limitazione al latino è ribadita al principio del sec. XVIII dalla dipendenza sempre maggiore dalla cultura francese: Omero in quegli anni viveva, ma di vita vigorosa, solo in Inghilterra. Verso la metà del secolo sembrano conoscerlo e apprezzarlo soltanto, fra i Tedeschi, gli Svizzeri, il grande naturalista Albrecht von Haller, gli zurighesi Breitinger e Bodmer. I due ultimi dalla difesa del Milton contro critiche francesi passano gradatamente a studî sulla poesia primitiva, originale, di cui per loro Omero è l'esempio più insigne e unico: il Breitinger ha specialmente mostrato interesse e comprensione per le similitudini. Attraverso gli Svizzeri penetra nella cultura tedesca il pensiero dei grandi Inglesi.
Verso la metà del secolo lo studio del greco si rintroduce man mano nelle scuole tedesche e fruttifica nella cultura. Centro principale degli studî greci diviene quella che fu per eccellenza l'università dell'illuminismo, Gottinga: colà nel 1763 C. G. Heyne succede sulla cattedra di filologia classica a Matthias Gesner. Klopstock, che aveva imparato il greco e letto Omero nel collegio sassone di Schulpforta, compone la miltoniana Messiade in esametri. Omero diviene l'araldo della grecità, forma superiore, ideale di vita per il Winckelmann (v.).
Del 1766 è il Laocoonte di Lessing. Ma già in scritti che vanno dal 1759 al 1763 il "mago del Nord", Hamann, scrive su Omero pagine ben più profonde. Omero è in Germania una scoperta del romanticismo: il prosecutore di Hamann, Herder, diventa nel mondo tedesco il profeta della grecità e del suo poeta più antico. A Omero egli consacra numerosi scritti: Omero non è per lui poeta naturale (Naturdichter), ma poeta popolare (Volksdichter); i suoi carmi non epopea ma epos: novella, saga, tradizione popolare. Omero non compose 24 canti secondo le regole di Aristotele, ma cantò quel che vide: le sue rapsodie non rimasero nelle botteghe dei librai o su pezzettini di carta, ma nell'orecchio e nel cuore dei cantori e uditori, e furono raccolte solo più tardi. Herder ha anche per primo mostrato che il confronto di Omero con Ossian era torto, ha ridotto Ossian al suo vero valore. E a Herder spetta il merito di aver fatto conoscere in letture comuni Omero a Goethe (Strasburgo e Wezlar 1772). Di qui in poi tutta la Germania giovane è entusiasta per Omero, sentito a suo modo romanticamente. Cominciano a farsi fitte le traduzioni: dopo parecchi tentativi infelici, in prosa e in metri svariati, nel 1778 ne escono due in esametri, una di tutta l'Iliade del romanticissimo Leopoldo di Stolberg, una di tutto Omero del Bodmer, ormai vecchissimo: i versi non sono melodiosi né nell'una né nell'altra, ma lo Stolberg ha mostrato la via di rendere in tedesco gli epiteti omerici che sono tanta parte dello stile. Classica divenne la versione di J. H. Voss: egli pubblicò la parte che comprende l'Odissea nel 1781, la ristampò mutata e vi unì la traduzione dell'Iliade nel 1793. L'opera si segnala per la fedeltà nei particolari, ché il Voss era buon filologo; all'accuratezza della lettera non corrisponde l'ardore dello spirito. Il Voss non a caso aveva cominciato dall'Odissea: egli, ch'era di casa nell'agricola Germania del Nord, sente Omero idillicamente. Idillicamente lo sente, non soltanto per influsso di Voss, Goethe nell'Ermanno e Dorotea: maggior libertà e insieme maggior congenialità all'originale palesa l'Achilleide, rimasta purtroppo un frammento. A Omero il Goethe era ritornato dopo lunghi anni specialmente per influsso dello Schiller, che, se sapeva pochissimo di greco, aveva l'animo singolarmente disposto da natura all'intelligenza di quella poesia. Lo scritto più profondo dello Schiller è quello Über naive und sentimentalische Dichtung apparso nel 1795, nell'anno dei Prolegomena ad Homerum del Wolf. Di qui in poi la cosiddetta "questione omerica" fa sentire i suoi effetti anche su letterati puri e su critici.
Anche in Italia la seconda metà del sec. XVIII segna un ridestarsi dello spirito critico e un risollevarsi della cultura: i dotti conoscono ormai, oltre il francese, l'inglese; e alle vicende letterarie dell'Inghilterra tengono dietro assiduamente. Melchiorre Cesarotti traduce in versi sciolti Ossian appena pubblicato (1763); la seconda edizione (1772) tien conto della nuova pubblicazione del Macpherson. Ora nella prefazione della prima edizione e più moderatamente in quella della seconda, il Cesarotti, contro tutta la tradizione classicistica, prepone Ossian a Omero. E non si può dire ch'egli conoscesse Omero solo per sentito dire. Dell'Iliade egli diede dal 1786 in poi un'edizione che riproduce essenzialmente quella del Clarke, ma con versione prosastica a fronte e con versione in non bei sciolti in calce, nella quale rifece Omero alla moderna, cioè francese, persino nel titolo (Morte di Ettore). Il commento lo mostra praticissimo degli studî stranieri su O.; un volume d'introduzione appartiene già alla storia della questione omerica (v. appresso). Ai primi anni del secolo XIX appartiene la versione italiana in sciolti, che è divenuta classica, di Vincenzo Monti (1810, ristampa più corretta 1812). Il Monti sapeva poco di greco e si è aiutato con versioni latine. Sarebbe esagerato il dire che quest'opera stia all'originale come una statua neoclassica a un modello classico. Ma questo Omero è insieme più enfatico e più virgiliano dell'originale e tuttavia più fedele nel colorito dello stile che l'Omero dei romantici o del Pascoli. Generazioni e generazioni di scolari e di persone colte hanno letto Omero in questa versione e l'hanno goduto, che non è piccola lode. La traduzione di un assai migliore conoscitore dell'antichità greca e di un poeta più ispirato, Ugo Foscolo, è rimasta frammentaria: il primo libro apparve nel 1807 (Brescia, Bertoni), a confronto di quello del Monti, il terzo fu pubblicato nel 1821 nell'Antologia del Vieusseux. Tra le carte del Foscolo sono stati trovati abbozzi parziali di altri libri, fino al decimo. Sia il Foscolo sia il Monti hanno reso conto pubblicamente del loro modo di tradurre, trattando anche di passi determinati: il primo, che più in generale di Omero discusse nella lettera al Fabre, intitolata "D'Omero e del vero modo di tradurlo e di poetare", scelse per tali disquisizioni il Cenno di Giove, il famoso passo del primo libro dove Giove dà il proprio consenso a Tetide movendo le sopracciglia; il secondo la protasi dell'Iliade. La versione dell'Odissea di I. Pindemonte (primi saggi nel 1809, l'opera completa nel 1822), elaborata sull'originale, è più debole e manierata; non l'ha superata quella del Maspero (1846).
Nel sec. XIX ha pubblicato saggi di versione, particolarmente dell'Odissea, non più in endecasillabi ma in esametri, virtuosissimi, G. Pascoli; ma l'Omero del Pascoli somiglia troppo al suo fanciullino. In questi ultimi tempi Omero è stato tradotto in esametri anche da E. Romagnoli (Iliade, Bologna 1924, voll. 2; Omero Minore, ivi 1925, vol. 1; Odissea, ivi 1926, voll. 2). e da M. Faggella (Iliade, Bari 1923-24; Odissea, ivi 1925), e in prosa da N. Festa (Iliade; Palermo 1919; Odissea, ivi 1926).
La questione omerica.
Col nome di questione omerica s'intende il complesso dei problemi che riguardano l'esistenza storica di un poeta O., la relazione tra questo e i due poemi conservati, la formazione di ciascuno di essi. Una questione omerica ci fu, in certo senso, già in età alessandrina, sin dal giorno nel quale i χωρίζοντες (v. sopra, p. 339) negarono che l'Odissea appartenesse al medesimo autore dell'Iliade. L'autorità di Aristarco impedì che tali studî fossero proseguiti. La questione omerica rinacque durante il sec. XVII, e rinacque, ciò ch'è singolare, non già da studio amoroso di O., ma dall'avversione contro O., dall'antiomerismo. Già nel 1635 Francesco, di Boisrobert tenne nell'Académie française un discorso contro O., mai pubblicato ma di cui abbiamo ragguaglio credibile: egli si scaglia contro O. e i suoi ammiratori. I poemi omerici non sono per nessun rispetto un'unità: sono un centone delle canzoni che il cieco O. era andato cantando per piazze e taverne e che poi cucì insieme alla meglio. Per la letteratura francese del sec. XVII, cortigiana e antipopolare, il confronto di O. con canzoni popolari significa la peggiore svalutazione. Ma già nel Boisrobert dal giudizio estetico rampolla un'ipotesi, in certo senso, storica. La ripiglia durante la querelle des anciens et des modernes Francesco Hédelin abate d'Aubignac: il suo libretto, Conjectures académiques ou dissertation sur l'Iliade, fu pubblicato postumo nel 1715, ma era stato scritto nel 1664. L'Aubignac sostiene con tutta serietà (ché tentativi fatti qualche anno fa per dimostrare che egli aveva voluto scherzare, sono falliti miseramente) che O. non esistette mai. Il suo nome significherebbe "il cieco", l'Iliade si chiamerebbe "rapsodia dell'O." cioè "raccolta dei canti del cieco", perché le singole parti sarebbero state recitate da cantori ciechi prima nelle corti, in tempo più recente anche sulle piazze, finché un redattore le mise insieme alla bell'e meglio. L'Aubignac nega che l'Iliade e l'Odissea siano unità artistiche (e riesce facilmente nella sua dimostrazione, perché le misura con criterî del proprio tempo); nega che poemi di tanta estensione potessero tramandarsi dall'antichità, da tempi nei quali non sarebbe esistita la scrittura. Che la scrittura al tempo di O. non esistesse, l'Aubignac induce da un luogo di Flavio Giuseppe secondo il quale Pisistrato (v. sopra, pag. 339) avrebbe fatto scrivere lui i carmi omerici. L'opera dell'Aubignac, nota assai tardi, non esercitò influsso notevole.
E lo stesso si deve dire delle concezioni omeriche di un pensatore ben più profondo, Giambattista Vico. Questi, nella Seconda Scienza Nuova del 1730, polemizzando contro i contemporanei che, proseguendo i metodi degli stoici, cercavano in O., poeta dotto, verità riposte, sostiene che la poesia omerica è primitiva, che essa è l'espressione naturale e spontanea di un'età ancora barbara. Il "vero O." è stato "un'idea ovvero un carattere eroico di uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, la loro storia". Di qui si spiega come quasi tutti i popoli greci lo vollero loro cittadino, perché essi popoli greci furono quest'O. E la cecità e la povertà di O. furono dei rapsodi i quali andavan cantando per le città della Grecia i poemi d'O., dei quali essi erano autori. Il Vico sa dei χωρίζοντες da Seneca e ritiene l'Odissea ben più recente dell'Iliade; conosce e adopera il passo di Flavio Giuseppe, come lo conosce e adopra l'Aubignac; risolve in simbolo anch'egli il nome di O. (significherebbe "chi connette insieme"). Ma la sua posizione è, chi ben guardi, quasi l'opposto di quella dell'Aubignac: per questo O. è il poeta della plebaglia, per il Vico il vate di tutt'un popolo, l'espressione storica più verace di un'età primitiva. L'Aubignac ha per O. il dispregio di un accademico, il Vico l'ammirazione di un romantico. Il suo O. è già l'O. romantico. Del Vico non avevano, secondo ogni probabilità, notizia i dotti inglesi della seconda metà del sec. XVIII, che, come nel 1769 Roberto Wood, negavano come lui che O. conoscesse la scrittura, che i poemi omerici potessero essere stati tramandati per scritto. E simile, almeno dalla scoperta dell'Ossian in poi, è la loro attitudine verso O.: poeta primitivo, ma, appunto perché primitivo, degno di ammirazione. È dubbio se anche dal Vico, oltre che dal Wood, abbia ricevuto impulsi lo svizzero Bernardo Merian, che nel 1789 discusse nell'Accademia di Berlino l'antichità della scrittura, sostenendo che al tempo di O. essa non esisteva.
Ma la "questione omerica" fu rivelata al gran pubblico solo dai Prolegomena ad Homerum del professore hallense Federico Augusto Wolf, pubblicati nel 1795. Il Wolf parte, come i suoi predecessori, dal diniego dell'antichità della scrittura, e ne induce che poemi di tali dimensioni, poiché non potevano essere recitati per intero, non erano in età analfabeta potuti esistere. Egli intende la notizia di Pisistrato, come se questi avesse raccolto per la prima volta e collegato in un'unità artificiale, affidandoli alla scrittura, canti separati tramandati fino allora a memoria da scuole di rapsodi. Fin qui poco di nuovo e di probante: la scrittura è come noi sappiamo, ben più antica di O.; errata è l'interpretazione delle notizie su Pisistrato, che tutt'al più stabilì che i carmi omerici fossero alle Panatenee recitati nell'ordine originario; le scuole dei rapsodi trasportano nell'antichità greca le scuole di bardi inventate per gli antichi Celti dal Macpherson (v. ossian). Pure il libro ebbe un immenso successo, e agli occhi di lettori spregiudicati segna un passo decisivo negli studî omerici. Il Wolf sosteneva più risolutamente di ogni altro che l'unità dei poemi omerici consiste nell'unità della leggenda, accertava la dipendenza di questi canti dalla leggenda. Tali pensieri dovevano trovar eco nel pubblico tedesco e in generale nell'europeo, che a essi era preparato dal Herder (ma colui del cui assenso doveva al Wolf più importare, il Goethe, lo ricusò dopo qualche esitazione; lo ricusò lo Schiller; assentirono i romantici, prima di ogni altro i fratelli Schlegel). Di più, il Wolf schizza, per la prima volta, qualche cosa che si può chiamare un'analisi della composizione omerica: la protasi dell'Iliade può riferirsi secondo lui solo ai primi 18 libri: gli ultimi devono dunque essere opera di un altro rapsodo. L'osservazione è errata (e la conclusione sarebbe semplicistica, anche se l'osservazione non fosse errata). Ma qui per la prima volta sono applicati all'Iliade procedimenti analitici, per la prima volta si tenta di spiegare storicamente contraddizioni e incongruenze. Chi ritenga legittima l'applicazione, sia pur cauta, di metodi analitici all'opera d'arte (e quindi non rigetti né la critica omerica né la critica biblica), scorgerà in questo primo tentativo di analisi, sia pur insufficiente, anzi fanciullesco, il nucleo vitale dell'opera del Wolf.
Il Wolf aveva notizia dell'Aubignac, che trattò male; richiamò la sua attenzione sul Vico, quando i Prolegomena erano già usciti, il Cesarotti (v. sopra, p. 342); il quale nel volume proemiale della sua versione di O. aveva difeso l'unità dei poemi contro il D'Aubignac e il Vico, additando, con la chiarezza un po' pedestre dell'illuminista, certe oscurità della concezione di quest'ultimo. Egli seguitò a combattere contro il Wolf (le cui conclusioni fece così conoscere al pubblico italiano), sostenendo l'unità dei poemi e mostrando (e in ciò aveva ragione) che gli argomenti principali del Wolf erano puramente esterni. Il Wolf non poté servirsi dell'articolo su O. nel quale il danese Giorgio Zoëga giungeva a risultati simili ai suoi, perché quest'articolo, scritto nel 1788, fu pubblicato solo molti anni più tardi, postumo. Molto, invece, e proprio quello in cui secondo noi consiste il pregio maggiore dei Prolegomena, l'uso del metodo analitico, egli derivò certamente dalle lezioni di un suo maestro molto maggiore di lui, il professore gottingense Chr. G. Heyne.
Il Heyne intorno a O. non aveva fino allora stampato nulla; la sua edizione dell'Iliade, del 1802, contiene, in un excursus al libro XXIV, la prima analisi particolareggiata del poema. Essa ha, per certi rispetti, valore durevole: Heyne vide che il libro IX (l'Ambasceria) e il X (la Dolonia) hanno una posizione speciale; scorse le difficoltà gravissime che suscita il libro VIII (v. sopra, p. 334). E la sua idea della formazione del poema epico è tutt'altro che meccanica: chi raccolse in un carme i singoli canti, fu secondo lui un genio. Di qui alla nostra concezione moderna secondo la quale l'autore dell'Iliade attinge per lo più solo la materia da canti precedenti, epico-lirici i più antichi, corre assai poca differenza. Le pagine del Heyne, che pure sui contemporanei esercitarono poco influsso, sono ancor oggi vive.
Mentre il pubblico delle persone colte s'interessava in tutti i paesi del mondo per l'O. wolfiano, i dotti tacevano. La questione omerica stagna fin verso il 1830; quando d'un tratto si annunziano negli studî omerici indirizzi nuovi, e insieme comincia la reazione contro le teorie innovatrici. G. W. Nitzsch (1830-37), dopo aver combattuto gli argomenti esterni del Wolf, passa a studiare l'unità artistica dei poemi, particolarmente dell'Odissea: egli è il primo, se pure non il migliore, dei neounitarî. Goffredo Hermann pubblicò nel 1832 la breve memoria De interpolationibus Homeri, nella quale è per la prima volta espresso il pensiero di una "Iliade originaria" e di una "Odissea originaria" accresciute successivamente per aggiunte e rielaborazioni. Alcune delle sue osservazioni (p. es. sulla relazione tra la Telemachia e il resto dell'Odissea, sul libro XIII dell'Iliade) restano sino a oggi inconcusse, qualunque conclusione si debba poi da esse ritrarre. In un articolo posteriore Hermann notò l'importanza delle ripetizioni nella questione omerica, e insegnò insieme a distinguere tra ripetizioni formulari o tipiche e quindi ammissibili, e ripetizioni non ammissibili. Negli anni 1837-41 Carlo Lachmann pubblica le sue Considerazioni sull'Iliade di Omero (Betrachtungen über Homers Ilias), nelle quali cerca audacemente di decomporre l'Iliade nei canti dalla cui unione essa sarebbe nata. Il tentativo non poteva riuscire; e infatti a ciascuno di quei canti manca unità e indipendenza. Il Lachmann, insieme grande filologo classico e grande germanista, trasporta all'epopea greca presupposti ch'egli credeva di aver dimostrati per l'epopea germanica e che pienamente dimostrati non aveva neppur qui, ma che qui a ogni modo avevano più saldo fondamento. Al Lachmann rispose qualche anno dopo (1852 e 1862) il vecchio Nitzsch.
Il nome di Hermann ha contrassegnato per molto tempo l'indirizzo prevalente negli studî sulla formazione dei poemi omerici: l'impulso di Lachmann, nonostante la grandezza del nome e dell'uomo, si esaurisce presto, per la difficoltà stessa della sua posizione troppo legata a un momento degli studî germanistici e della coscienza letteraria romantica. Nelle opere che sui poemi omerici si succedono dal '50 e più fitte dall'80 sino, si può dire, alla guerra mondiale, il metodo analitico si raffina sempre più. È certo, per quanto non sia ancora abbastanza indagato, che gli studî vecchio- e neotestamentarî, romanzi, germanistici hanno fecondato gli studî omerici e ne sono stati fecondati alla lor volta (un libro capitale, le Homerische Untersuchungen del Wilamowitz, è dedicato al maggior critico del Vecchio e del Nuovo Testamento, Julius Wellhausen). Da un certo punto in poi, oltre ai criterî composizionali, allo studio delle contraddizioni e ripetizioni, vengono in aiuto criteri ricavati dalla storia della cultura (Reichel, Robert) e dalla linguistica (Fick); e criterî di vario genere vengono associati. Dapprima la relazione tra il poema originario e gli allargamenti è considerata in modo quasi meccanico, e si trasporta alla poesia un termine, "strati", derivato dalle scienze della natura. Poi, ci si avvede man mano che parti con eolismi e parti senza eolismi, parti con scudo miceneo e parti con scudo piccolo e tondo non si possono distinguere nettamente; si scorge sempre più chiaro (lo aveva già visto il Pope) che il poeta arcaizza e, come capita a chi arcaizza, riscivola talvolta nella realtà dalla quale vuole evadere. Le "interpolazioni" omeriche di Hermann erano già fin da principio tutt'altra cosa che le interpolazioni, poniamo, nei poeti latini: erano non aggiunta meccanica ma sviluppo. Questo concetto dello "sviluppo" negli ultimi anni del sec. XIX si va sempre più facendo largo nella critica omerica. Fondamentale è l'osservazione di un germanista, Andreas Heusler, che canti minori epico-lirici si distinguono dall'epopea non soltanto e non tanto per lunghezza quanto per stile. Questa considerazione, come vieta qualunque rinnovamento dei tentativi lachmanniani, così insegna a concepire le relazioni dei carmi omerici con quelli che li precedettero sempre più come una relazione tra il poeta e la sua fonte; una fonte, certo, che può avere influito su lui anche formalmente (nulla in principio impedisce di credere che il poeta dell'Iliade e dell'Odissea abbia incorporato non ballate epico-liriche, ma canti già epici, poco mutati, nel suo poema).
Ma da un certo punto in poi torna a farsi valere quell'indirizzo che risale, ne siano o no consapevoli i suoi seguaci, al Nitzsch. Dal principio del secolo in poi, superato il romanticismo e insieme al romanticismo il pregiudizio che la poesia omerica debba essere a qualunque costo popolare, e l'altro pregiudizio, del pari di origine romantica, che sia possibile una poligenesi dell'opera d'arte, si cerca sempre meglio d'intendere l'Iliade e l'Odissea quali sono, di intenderle nella loro arte. Questi neounitarî non hanno tuttavia molto di comune con gl'irrazionalisti (più recenti), che, ponendosi fuori della storia, negano senz'altro il diritto dell'analisi, né con esteti che, pur di non dover rinunziare alla "tradizione" secondo la quale O. avrebbe composto Iliade e Odissea e queste ci sarebbero giunte come le compose, scrivono poetiche omeriche complicate e raffinate, senza chiedersi se esse siano adeguate alle condizioni di cultura dell'età omerica, o non rispecchino troppo il sentimento, poniamo, di Giovanni Pascoli o dei crepuscolari per poter essere omeriche autentiche. Tali esteti sono invece molto vicini essi stessi agl'irrazionalisti, poiché, come questi, di qualsiasi più evidente contraddizione trovano una ragione irrazionale o conforme solo alla ragione poetica, quale essi se la figurano, ma sempre poco persuasiva. Critici specialmente francesi che trattano l'Odissea e in genere O. quale il Baedeker di un Mediterraneo fenicio non sembra rechino un vero contributo alla scienza; le loro etimologie semitiche sono giudicate ridicole dai soli competenti, i semitisti. Tali critici, benché affettino di tender la mano agli irrazionalisti quasi a fratelli, sono in verità l'opposto loro, i sopravvissuti della "raison" cartesiana, ch'era antifilologica, antistorica, antipoetica. Più giustificati, nonostante l'esempio del Lachmann, che mette paura, sono i confronti con epopee di altri popoli; e basterebbe a giustificarli il valore dell'osservazione del Heusler, dianzi citata. Ma è forza confessare che le condizioni variano troppo da popolo a popolo perché si possa su tali paralleli fondare teorie.
Enumerare gli analitici della seconda metà del sec. XIX sarebbe fatica quanto immane, altrettanto vana. Eminenti per eccellenza di osservazioni singole sull'Odissea A. Kirchhoff (Die homerische Odyssee, Berlino 1859; 2a ediz., ivi 1879), quantunque del tutto errata sia l'ipotesi che il racconto di Ulisse fosse una volta in terza persona, e U. von Wilamowitz (Homerische Untersuchungen, Berlino 1884). Il Wilamowitz sapeva già allora che certe parti dell'Odissea attingono ai Nosti, e già allora fece intendere chiaramente che il poema, quale ci è arrivato, non è un conglomerato, ma rappresenta l'ultimo stadio della trattazione epica della leggenda. Il Wilamowitz ha dopo un lungo intervallo proseguito i suoi lavori anche durante e dopo la guerra mondiale. Il volume sull'Iliade (Die Ilias und Homer, Berlino 1916) mette in luce un grande poeta, O., il quale avrebbe poetato di suo giovandosi di poemi precedenti, e accolto nel suo canto carmi precedenti poco mutati. Il poema omerico ci sarebbe giunto, specialmente nella seconda metà, molto rielaborato. Non si può dire che i risultati sicuri, pur numerosi, siano qui adeguati al metodo analitico, virtuosissimo, né del resto poteva aspettarsi altro risultato chi sappia che l'Iliade era stata prima del Wilamowitz studiata, sì, più, ma con risultati molto meno sicuri che l'Odissea, che per la prima l'indagine fruttuosa è agli inizî. In questo volume il Wilamowitz, poiché all'analisi fa seguire una sintesi e poiché studia ogni volta la personalità poetica a cui attribuisce il poema nel suo complesso originario o la rielaborazione dei canti incorporati e dei canti aggiunti, è, in principio, ben poco lontano dai neounitarî. L'ultimo libro del Wilamowitz sull'Odissea (Die Heimkehr des Odysseus, Berlino 1927), tarda prosecuzione delle Homerische Untersuchungen, è animato da vivo desiderio di sentire l'arte di chi scrisse la strage dei Proci e le scene che la precedono e la Telemachia; che possa parere meno unitario, dipenderà dal fatto che l'Odissea è infatti (v. sopra, p. 337) meno una dell'Iliade. Questo volume del Wilamomowitz era stato preceduto da uno di Ed. Schwartz (Die Odyssee, Monaco 1924): quest'opera è eminente per potenza analitica: lo Schwartz, ottimo conoscitore della lingua omerica e al corrente della moderna linguistica più di ogni altro filologo, si giova ottimamente anche del criterio stilistico. Egli riconosce il dovere della sintesi, e dalla sintesi intitola la seconda parte del volume: ma par presupporre troppi più poemi (o rielaborazioni) sullo stesso argomento che la probabilità non consenta. Egli è forse più lontano dai neounitarî che il Wilamowitz nel suo ultimo periodo.
Opera consapevole di critica neounitaria è quella di E. Bethe, Homer, Lipsia 1914 (il secondo volume, rielaborato e ristampato nel 1929): il Bethe apprezza, in massima, altrettanto bene l'arte dei poemi quali ci sono giunti e l'arte dei loro modelli. La sua opera merita di essere continuata: ma è fin d'ora chiaro che il Bethe data i poemi omerici, e particolarmente l'Odissea, troppo in giù. Più empiricamente unitario A. Scott, The unity of Homer, Berkeley 1921, e già (con maggior influsso sull'Italia) Rothe, Die Ilias als Dichtung (Paderborn 1910) e Die Odyssee als Kunstwerk und ihr Verhältnis zur Ilias (Paderborn 1914). Insigni saggi neounitari ha dati in questo ultimo tempo F. Jacoby: i più importanti sono citati a p. 345.
In Italia ha fatto scuola l'irrazionalismo del Fraccaroli nonostante la giusta confutazione di G. De Sanctis.
Una poetica omerica (Homerische Poetik, I) è venuta pubblicando a Würzburg dal 1921 in poi Engelbrecht Drerup con i suoi scolari Stürmer e Belzner; il medesimo Drerup aveva già precedentemente (Paderborn 1913) scritto un volume speciale sul quinto dell'Iliade. Il Drerup e i drerupiani seguitano per certi rispetti il Rothe, sono continuati alla loro volta da Italiani modernissimi come E. Turolla, Saggio sulla poesia d'Omero (Bari 1930) e Fr. Arnaldi, La poesia dell'Iliade (Bologna 1932), i quali sembrano esagerare i difetti del loro archegeta.
Confronti etnografici già nel libro popolare di E. Drerup, Homer (traduz. ital., Bergamo 1910; 2a ediz., 1915). Specialmente sulla composizione e trasmissione dell'epica popolare slava M. Murko, in Sitz.-Ber. d. Wiener Akademie, CLXXXIII, pp. 3, 21; Neue Jahrbücher für das klassische Altertum, 1919, p. 280. Già il Comparetti (Mem. dei Lincei, V-IX, 1888-93) si era accorto che il confronto dei poemi omerici con il Kalevala, moderna compilazione di un dotto finno, Elias Lönnrot, da canti popolari di ogni età, non era ammissibile, ma ebbe poi il torto di volere trasformare, contraddicendosi, la conclusione negativa in un argomento positivo contro i non-unitarî.
Nonostante le numerose, anzi innumerevoli deviazioni la critica omerica pare avviata a un certo accordo metodico tra gli studiosi più serî; in che direzione, si è cercato di tratteggiare nei paragrafi precedenti. Non mai i problemi omerici hanno appassionato gli spiriti quanto in questi ultimi anni dopo la guerra mondiale, pur così poco favorevoli agli ozî accademici. La questione omerica è stata spesso proclamata morta; essa vive e vivrà, perché non è già una stortura tedesca, ma un problema di grande importanza nella storia dello spirito umano. Metterla da parte significherebbe rinunziare all'analisi, cioè al ragionare (che è tutt'altra cosa della raison antistorica).
Iconografia, edizioni, bibliografia.
Iconografia. - L'effigie di O., liberamente creata dagli artisti in base agli elementi tradizionali della sua cecità, della sua vecchiezza, e ispirata naturalmente all'altezza del suo genio poetico, assume un tipo definitivo e più o meno costante nel periodo ellenistico. Prima di allora si ha memoria di qualche altra immagine, p. es. di una dello scultore argivo Dionisio dedicata a Olimpia nel sec. V insieme a quella di Esiodo. Famosa fu specialmente la statua di O. assiso in trono, dedicata in Alessandria da Tolomeo Filopatore. Monete, specialmente di città d'Asia Minore, recavano la testa di O., che è riprodotta anche in alquante gemme. In trono con aspetto simile a quello di Giove è nel noto rilievo di Archelao di Priene (v. IV, p. 25, figura). Ma le figurazioni che più hanno pretesa di volerne rappresentare i tratti caratteristici sono busti o teste di età ellenistica e romana, nei quali un vecchio scarno, barbato, pieno di nobiltà, presenta con la più grande efficacia, col viso rivolto in alto e con la contrazione dei muscoli dell'occhio, i segni della cecità. Niuno forse dei parecchi esemplari conservati in molti musei è un originale, e le repliche possono risalire a più di un originale. Un tipo completamente diverso dagli altri sarebbe (posto che abbia voluto rappresentare O.) quello del cosiddetto Epimenide (v. XIV, p. 95, figura) del Museo Vaticano, con lunga barba a punta, e cecità rappresentata in modo diverso dalla precedente e derivata da altra malattia dell'occhio.
Ediz.: Le edizioni moderne del testo dell'Iliade sono innumerevoli. La prima che abbia veramente valore critico è la seconda di I. Bekker, Bonn 1858; molto comoda per la brevità dell'apparato quella di A. Nauck. L'edizione di A. Ludwich, Lipsia 1902-07, offriva sinora uno degli apparati più completi, se pure non dei più intelligentemente disposti. Lo supera ora per completezza (sfruttati fortemente anche gl'innumerevoli papiri) quella di T. W. Allen, Oxford 1931 (sui suoi difetti, G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934, p. 208 segg.). Lo studioso che non si occupi ex professo del testo omerico, si contenterà dell'edizione minore di tutto Omero di D. B. Monro e dello stesso Allen, Oxford 1908. Tentativi falliti di dare un testo più originario, di W. Christ, Lipsia 1884; di P. Cauer, 2a ediz. 1902-07; di A. Fick, Gottinga 1883-86.
Il miglior commento è quello di W. Leaf, Londra 1900-1902; carico di dottrina quello di Ameis e Hentze (con appendici critiche; le ultime edizioni sono curate da P. Cauer). Per le versioni v. pp. 341-342.
Edizioni dell'Odissea di A. Ludwich, Lipsia 1889-91 e di Monro-Allen, Oxford 1908 (voll. 3 e 4 dell'Omero completo). Tentativo di ricostruzione di un testo eolico di A. Fick, Gottinga 1883. Edizione commentata di Ameis-Hentze (riedizione del 1910, di P. Cauer).
Della Batracomiomachia c'è un'edizione di Ludwich, Die homerische Batrachomyomachie des Karers Pigres (Lipsia 1896), ricchissima di materiale manoscritto, ma poco critica (persino nel titolo).
Edizione commentata degl'Inni di Allen e Sikes, Londra 1904; il solo testo (con quello delle altre opere minori) nell'edizione clarendoniana dell'Allen. Dell'Inno a Demetra diede un'edizione con introduzione V. Puntoni, Livorno 1896.
Una buona edizione complessiva degli scolî all'Iliade manca (ché invecchiata è quella maneggevole di I. Bekker, Lipsia 1824); le raccolte A e B sono state pubblicate, ciascuna per sé e non bene, da G. Dindorf, Oxford 1875; E. Maass ha aggiunto (Oxford 1888) la raccolta T. I ginevrini pubblicati da Nicole (Ginevra 1891). Un'edizione degli Scholia minora prepara V. de Marco: v. per ora: Sulla tradizione manoscritta degli Scholia minora all'Iliade, in Memorie dei Lincei, 1932. Un lavoro complessivo è lontano; anche i papiri dànno molto materiale. Edizione degli scolî, tanto più poveri, all'Odissea di G. Dindorf, Oxford 1855.
Bibl.: Alcune delle opere fondamentali sono citate sopra, nel paragrafo sulla questione omerica.
La migliore introduzione alla questione omerica: G. Finsler, Homer, Lipsia 1924, 3ª ed. Per la linguistica e la storia del testo più esteso, P. Cauer, Grundfragen der Homerkritik, 3ª ed., Lipsia 1921 segg.; E. Bethe, Homer, Lipsia 1914-27, in tre volumi (il secondo vol. in 2ª ed., 1929).
Le più antiche menzioni dei poemi omerici sono raccolte e discusse da U. Wilamowitz, Homerische Untersuchungen, Berlino 1884, p. 392 segg. I testi biografici raccolti in Vitae Homeri et Hesiodi, ed. Wilamowitz, Bonn 1915, e nella clarendoniana. Tutta la questione biografica è collocata su un nuovo fondamento da F. Jacoby, in Hermes, LXVIII (1933), p. 1 segg.
Grammatiche (tutte mediocri e antiquate): D. B. Monro, A gramm of the homeric dialect, Oxford 1891; J. v. Leuwen, Enchiridium dictionis epicae, 2ª ediz., Leiden 1918; O. Nazari, Il dialetto omerico, Torino 1926. Lessici: H. Ebeling, Lexicon homericum, Lipsia 1880-85; A. Gehring, Index homericus, Lipsia 1891; per una serie di espressioni, F. Bechtel, Lexilogus zu Homer, Halle 1914. Ricerche sulla storia della lingua: J. Wackernagel, Sprachliche Untersuchungen zu Homer, Gottinga 1916; K. Meister, Die homerische Kunstsprache, Lipsia 1921; C. Robert e F. Bechtel, Studien zur Ilias, Berlino 1901.
Sugli allungamenti: W. Schulze, Quaestiones epicae, Gütersloh 1892; O. A. Danielsson, Zur metrischen Dehung, Upsala 1897; F. Solmsen, Untersuch zur griech. Laut-u. Verslehre, Strasburgo 1901; F. Sommer, in Glotta, I, p. 145 segg.; su abbreviazioni Debrunner, Antidoron für Wackernagel, Gottinga 1923, p. 179 segg. Per le contrazioni: F. Bechtel, Die Vokalkontraktion bei Homer, Halle 1908. Sul digamma: A. Pagliaro, in Riv. di fil. class., n. s., III (1925), p. 231 segg.
Formule ed epiteti omerici: M. Parry, L'épithète traditionnelle dans Homère, Parigi 1928; M. Parry, Les formules et la métrique d'Homère, Parigi 1928. Ripetizioni: W. Arend, Die typischen Szenen bei Homer, Berlino 1933. Similitudini: H. Fränkel, Die homerischen Gleichnisse, Gottinga 1921.
Per lo sfondo sociale e storico dei due poemi, oltre le opere citate del Cauer e del Finsler, E. Buchholtz, Die homerischen Realien, Lipsia 1871-85 (antiquato ma sempre indispensabile). Per la religione: K. Fr. Nälgesbach, Homerische Theologie, 3ª ed., Norimberga 1884; E. Rohde, Psyche, I, 9ª-10ª ed., Tubinga 1925, p. 37 segg.; Hedén, Homerische Götterstudien, Upsala 1912; M. P. Nilsson, Götter und Psychologie bei Homer, in Arch. f. Religionswissenschaft, XXII (1923-1924), p. 363 segg.; C. Bickel, Homerischer Seelenglaube, Berlino 1926. Per lo stato omerico, Fanta, Der Staat in der Ilias und Odyssee, Innsbruck 1882; L. Bréhier, La royauté homérique, in Revue historique, LXXXIV-LXXXV (1904); M. P. Nilsson, Das homerische Königtum, in Sitzber. d. preuss. Akad. d. Wiss., 1927, p. 23 segg.; C. W. Westrup, Le roi de l'Odyssée et le peuple chez Homère, Parigi 1930.
Per la psicologia omerica, J. Böhme, Die Seele und das Ich im homerischen Epos, Lipsia 1929.
Per le relazioni dell'Iliade, con l'età micenea e l'età arcaica: M. P. Nilsson, Homer and Mycenae, Londra 1933; Fr. Poulsen, Der Orient u. die frühgriechische Kunst, Lipsia 1012. Il problema era già stato posto da W. Helbig, Das homerische Epos aus den Denkmälern erläutert, 2ª ed., Lipsia 1887 (ancora indispensabile). V. anche F. Noack, Homerische Paläste, Lipsia 1903; E. Belzner, Homerische Probleme, I, Lipsia 1911.
Per le due forme di scudo: W. Reichel, Homerische waffen, 2ª ed., Vienna 1901; C. Robert e F. Bechtel, Studien zur Ilias, Berlino 1901, per bronzo e ferro; K. J. Beloch, Griechische Geschichte, I, ii, 2ª ed., Strasburgo 1913, p. 109 segg.
Per la relazione con Esiodo v. E. Bethe, Homer, I, p. 303 segg. (importante perché dà il materiale anche per i lirici, ma errato nel giudizio); U. v. Wilamowitz, Hesiodos'Erga, Berlino 1928, p. 53 seg.; F. Jacoby, in Hermes, LXVIII (1933), p. 42 segg., e I. Sellschopp, Untersuchungen zu Hesiod, Amburgo 1934, che ritiene l'Odissea posteriore a Esiodo.
Per la "questione omerica" in senso stretto: sui diritti della critica, fondamentale G. De Sanctis, Per la scienza dell'antichità, Torino 1909, pp. 53 segg., 76 segg., contro G. Fraccaroli, L'irrazionale nella letteratura, Torino 1903 (brillante ma non profondo) e in Riv. di fil., XXXIII (1905), p. 273 segg. La concezione dell'Iliade che è più vicina alla nostra è quella di E. Bethe (Homer, I, p. 308 segg.) e di Jacoby (v. sopra), ma in principio non è molto lontano neppure il Wilamowitz, Die Ilias und Homer, Berlino 1916, specialmente pp. 316 segg., 330, 356 segg., 412 segg. Sulla Dolonia: Wilamowitz, Die Ilias u. Homer, cit., p. 60 segg.; Bethe, Homer, I, p. 124 segg. Sul Catalogo delle navi e dei Troiani, fondamentale Jacoby, in Berliner Sitz.-Berichte, 1932, p. 572 segg.
Per oggetti d'arte peloponnesiaca e per sopravvivenze micenee nell'Odissea, Nilsson, Homer and Mycenae, pp. 123 segg., 138. Per la relazione della navigazione di Ulisse con un poema sulla spedizione degli Argonauti e conseguenze per la geografia, K. Meuli, Odyssee u. Argonautika, Säckingen 1921. Per il progresso etico, G. Pasquali, La scoperta dei concetti etici nella Grecia antichissima, in Civiltà moderna, I, p. 343 segg. Un'interpolazione importante per il sistema penale rilevato da G. Pasquali, Studi ital. di fil. class., n. s., I (1928), p. 225. Sui Fenici, Beloch, Griech. Gesch., 2ª ed., I, ii, p. 66 (i libri di V. Bérard, Les Phéniciens et l'Odyssée, Parigi 1902; e Les navigations d'Ulysse, Parigi 1927-29, e altri non giungono a conclusioni accettabili).
Sulla Batracomiomachia, d'importanza fondamentale sotto il rispetto linguistico, J. Wackernagel, Sprachliche Untersuchungen zu Homer, cit., p. 188 segg.; ma il problema storico-letterario è ancora insoluto.
Per l'inno ad Apollo, fondamentale F. Jacoby, in Berliner Sitz.-Ber., 1933, p. 682 segg. Sulle relazioni dell'Inno a Demetra, con la poesia orfica, L. Malten, in Archiv für Religionswissenschaft, XII (1909), p. 417. Il carattere secondario della parte eleusinia dell'Inno a Demetra, è affermato da Wilamowitz, Glaube der Hellenen, II, Berlino 1932, p. 79; O. Kern, in Real-Encycl., XVI, col. 1212.
Sui primordî della filologia omerica: J. Wackernagel, in Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung, XXXIII (1893), p. 45 segg. Per i grandi alessandrini Zenodoto, Aristofane, Aristarco, v. alle voci relative. Sul testo di Omero, riassuntivamente, G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934, p. 201 segg.
Sui ritratti omerici: J. J. Bernoulli, Griech. Ikonogr., I, Monaco 1901 (invecchiato); K. A. Esdaile, in Journal of Hellenic Studies, XXXII (1912), p. 298; P. Marconi, in Boll. d'arte, 1926-27, p. 164; Fr. Poulsen, Antike, X (1934), p. 195.
Sulla fortuna di Omero dal Medioevo in poi: G. Finsler, Homer in der Neuzeit, Lipsia 1912; G. Rossi, O. nel Medioevo, in Varietà letterarie, Bologna 1912; J. Schott, Homer and his Influence, Londra 1926; B. Briod, L'homérisme de Chateaubriand, Parigi 1928. Sul D'Aubignac, che il Finsler prende troppo sul serio, F. Nicolini, Divagazioni omeriche, Firenze 1919. Sul Vico e la critica omerica, B. Croce, Saggio sullo Hegel, ecc., Bari 1913, p. 278.
Sulla storia della questione omerica orientata bene, oltre l'Homer del Finsler, la parte prima del primo volume (la sola pubblicata) di: C. Cessi, Storia della letteratura greca, Torino 1933.