Ominidi
Le origini dell'uomo: fossili e molecole si confrontano
L'antropologia molecolare
di Gabriella Spedini
30 marzo
Vengono pubblicati su Nature i risultati delle analisi condotte sul DNA mitocondriale ricavato dalle ossa di un neandertaliano, un bambino vissuto nel Caucaso 29.000 anni fa. Lo studio, guidato da Igor V. Ovchinnikov dell'Istituto di Gerontologia di Mosca e da William Goodwin dell'Università di Glasgow, comprova che il materiale genetico degli uomini di Neandertal era sensibilmente diverso da quello delle popolazioni europee attuali. Si tratta di un ulteriore risultato conseguito dall'antropologia molecolare, una scienza relativamente giovane che tuttavia ha già dato importanti contributi alla ricostruzione della storia evolutiva della specie umana.
Lo sviluppo delle indagini a livello molecolare
La locuzione antropologia molecolare fu coniata da E. Zuckerkandl negli anni Settanta, in occasione di un congresso di antropologia dedicato al tema "Classificazione ed evoluzione dell'uomo". In quella circostanza, Zuckerkandl affermò che, per ricostruire la storia evolutiva dell'uomo, le molecole proteiche potevano essere utilizzate allo stesso modo, se non addirittura in maniera più efficace, dei caratteri anatomici, dato che i cambiamenti a livello delle catene polipeptidiche sono l'espressione diretta delle mutazioni del genoma e quindi di eventi evolutivi. I più importanti studiosi di biologia evoluzionistica e di antropologia fisica presenti al congresso non accolsero con entusiasmo l'applicazione degli studi molecolari alla ricostruzione dell'albero filogenetico dell'uomo, dimostrando piuttosto un certo scetticismo; soltanto il famoso genetista T. Dobzansky sostenne che probabilmente ancor prima della fine del 20° secolo il settore di ricerca avviato da Zuckerkandl si sarebbe sviluppato straordinariamente, dimostrando tutta la sua validità. In effetti, dagli anni Ottanta l'antropologia, che per definizione è la storia naturale dell'uomo, sfrutta con grandissimo profitto le indagini a livello molecolare. Attraverso il grado di somiglianza genetica interspecifica e, nella specie, tra individui della stessa popolazione e tra popolazioni diverse si possono ricostruire le tappe evolutive che hanno portato all'identificazione della linea Homo tra i Primati e poi alla divergenza di H. sapiens dalle specie fossili del genere Homo. Per questi ultimi aspetti le indagini dei paleoantropologi (biologi dei fossili) sono indiscutibilmente prioritarie, ma i neontologi (biologi delle molecole), pur utilizzando tecniche e metodologie di studio necessariamente molto diverse, integrano, rinforzando o indebolendo, le ipotesi interpretative avanzate dai paleoantropologi. Lo strumento di lavoro dell'antropologia molecolare è costituito dai caratteri a base unigenica, come i gruppi sanguigni. A differenza dei caratteri fisici (pigmentazione, statura o altro carattere misurabile), il cui fenotipo è l'espressione dell'azione combinata di molti geni e dell'ambiente, la variabilità dei caratteri unigenici è legata esclusivamente alla presenza alternativa nello stesso locus di due o più forme (alleli) che si traducono fenotipicamente in classi discrete (per es., gruppo sanguigno A, B, 0, AB). Pertanto, se per le variabili fisiche è molto difficile valutare l'ereditarietà (cioè stimare la quota di variabilità dovuta all'eredità genetica e quella dovuta alle pressioni ambientali), nel caso delle variabili unigeniche dal fenotipo si risale direttamente al genotipo, calcolando le frequenze alleliche i cui valori nella popolazione identificano i polimorfismi genetici. Per quanto detto, le variabili fisiche non sono affidabili per ricostruzioni filogenetiche. Sfruttare la somiglianza fisica al fine di trarre conclusioni sul legame di parentela filetica più o meno stretta delle popolazioni può essere infatti fuorviante. Due popolazioni, anche geograficamente molto distanti ma sottoposte a una stessa pressione selettiva, possono assomigliarsi molto fisicamente, per es. per la pigmentazione intensa o per le proporzioni corporee di tipo longilineo. Ciò avviene nonostante la distanza genetica indichi percorsi evolutivi differenti per fenomeni migratori (flusso genico) o casuali (deriva genetica), due fattori microevolutivi legati alla storia delle popolazioni che hanno inciso in maniera determinante sul processo di diversificazione.
La svolta significativa nello studio dei polimorfismi genetici si è avuta negli anni Sessanta, con la messa a punto di tecniche elettroforetiche in aggiunta a quelle immunoematologiche utilizzate agli inizi del Novecento per identificare i gruppi sanguigni. Sfruttando la diversa velocità di migrazione in un campo elettrico di una molecola proteica in individui della stessa specie e di specie diverse, molte proteine strutturali ed enzimatiche si sono rivelate altrettanti esempi di polimorfismo genetico. Tuttavia il salto di qualità si è avuto a cavallo degli anni Ottanta, quando dai polimorfismi proteici, quali indicatori di cambiamenti evolutivi, si è passati ad analizzare i polimorfismi del DNA, con un duplice vantaggio: rendere disponibile anche la quota di variabilità che non può essere rilevata attraverso il prodotto proteico (solo il 10-15% del genoma è costituito da sequenze codificanti le catene polipeptidiche, gli esoni o expressed sequences) e lavorare su molte mutazioni 'neutre', cioè quelle che si accumulano senza essere sottoposte al vaglio della selezione, il che assicura la casualità dei cambiamenti evolutivi.
Originariamente, la tecnica dell'ibridizzazione DNA/DNA per confrontare il DNA di specie diverse permetteva di risalire alla distanza genetica, valutando in toto il grado di complementarità tra due sequenze eterologhe. Oggi le tecniche di sequenziamento del DNA permettono di individuare centinaia di polimorfismi di lunghezza dei frammenti di restrizione (RFLP, Restriction fragment length polymorphisms) mediante l'uso di enzimi che tagliano il DNA in siti specifici, producendo frammenti di lunghezza variabile. Migliaia di polimorfismi sono invece rilevabili a livello del DNA ripetitivo, non coinvolto nella codifica polipeptidica, e sono dovuti al numero variabile di sequenze ripetute in tandem (VNTR, Variable number of tandem repeats), anche per centinaia di volte. Se le unità di ripetizione sono corte (1-6 coppie di basi) si parla di polimorfismi microsatellite. L'introduzione della tecnica di reazione a catena della polimerasi (PCR, Polymerase chain reaction), nella seconda metà degli anni Ottanta, si è dimostrata estremamente vantaggiosa, poiché essa permette di amplificare specifiche sequenze di DNA per ottenerne molte migliaia di copie.
Il vantaggio è molto maggiore quando si analizza il DNA estratto da resti scheletrici antichi o da resti mummificati. In questo caso infatti il DNA si presenta generalmente contaminato e molto degradato; pertanto la possibilità di amplificare centinaia di volte frammenti anche molto piccoli (poche decine di basi) di DNA permette di valutarne la variabilità. La PCR si applica anche ai polimorfismi del DNA mitocondriale (mtDNA), entrato nella routine degli studi di antropologia molecolare perché presenta molte caratteristiche che lo rendono particolarmente utile per ricostruire eventi evolutivi recenti: è una molecola piccola a conformazione circolare, contenente solo 37 geni contro i 100.000 presenti nel DNA nucleare, è a trasmissione unilineare materna e quindi non è sottoposto all'alea della ricombinazione e infine possiede una regione di controllo ipervariabile (HVR, Hypervariable region) che, non essendo coinvolta nella codifica proteica, accumula velocemente mutazioni, in numero da cinque a dieci volte superiore a quelle del DNA nucleare.
I polimorfismi RFLP, in numero ridotto, e i polimorfismi microsatellite, molto più numerosi, si riscontrano anche nella porzione non ricombinante del cromosoma Y, a trasmissione unilineare paterna.
La posizione sistematica dell'uomo tra i Primati: evoluzione morfologica e molecolare
Il punto di partenza per l'applicazione della biologia molecolare agli studi evoluzionistici si ha nei primi anni del 20° secolo, quando H. Nuttall mette in evidenza che la proprietà antigenica di alcune proteine, presenti sulla membrana cellulare di individui di specie diverse, induce tra loro una reazione immunitaria tanto più forte quanto più le specie sono distanti filogeneticamente. Si dimostra anche che specie dello stesso genere presentano la medesima struttura cristallina dell'emoglobina, mentre specie appartenenti a generi diversi possiedono emoglobina di tipo differente, convalidando così i risultati ottenuti da Nuttall per via immunitaria. L'applicazione di tali osservazioni alla sistematica dell'uomo si ha negli anni Sessanta con M. Goodman. Sfruttando le proprietà immunologiche di alcune proteine sieriche, egli stabilisce che, tra le scimmie antropomorfe, Gorilla e Pan (scimpanzé) africani sono molto più affini a Homo di quanto non siano Pongo (orango) e Hylobates (gibbone) asiatici. Ciò lo porta a rivedere la precedente classificazione degli Hominoidea (la superfamiglia che raggruppa le scimmie antropomorfe e l'uomo) costruita su base morfologica: gorilla e scimpanzé, già sistemati con l'orango nella famiglia Pongidae, entrano di diritto nella famiglia Hominidae. Perché questa apparente contraddizione? L'evoluzione delle molecole proteiche utilizzate ai fini filogenetici interessa i geni strutturali: rispetto a questi lo scimpanzé e l'uomo, e solo un po' meno il gorilla, sono assai simili tra loro e ciò sta a indicare che l'impalcatura delle strutture anatomiche è fondamentalmente la stessa. Inoltre mutazioni puntiformi che colpiscano i geni strutturali portano in genere a cambiamenti evolutivamente neutri a livello dei prodotti proteici.
Quelle che invece differenziano notevolmente lo scimpanzé dall'uomo sono le istruzioni dettate dai geni regolatori, che intervengono nell'assemblaggio del materiale di base durante lo sviluppo ontogenetico. Sono essenzialmente queste informazioni sui tempi e sui modi di assetto molecolare che diversificano le due specie: nello scimpanzé tempi e modi sono più ristretti, affinché le strutture funzionino in modo specializzato già alla nascita o nei primi anni di vita (per es., dentatura sviluppata e robusta adatta a una dieta ricca di fibre, divergenza dell'alluce per favorire l'arrampicamento ecc.); al contrario, nell'uomo, definito l'animale generalista per eccellenza, tempi e modi dello sviluppo sono più lunghi, assicurando una notevole plasticità fenotipica. Se scimpanzé e gorilla dal punto di vista morfofunzionale sono molto più simili all'orango perché adattati a vivere nella foresta pluviale, la loro stretta parentela genetica con l'uomo dimostra che essi costituiscono un unico gruppo monofiletico.
Sulla scia di Goodman, nel 1963 Zuckerkandl e L. Pauling, confrontando la sequenza aminoacidica delle catene globiniche, confermano che l'orango è meno affine geneticamente all'uomo e stabiliscono che il numero di sostituzioni aminoacidiche è direttamente proporzionale al tempo di divergenza delle linee evolutive considerate, funzionando così da segnatempo. Da qui è nato il principio dell'orologio molecolare: nell'assunto che le differenze genetiche accumulatesi in due linee evolutive divergenti da un antenato comune si verifichino a una velocità costante nel tempo, esse possono essere utilizzate per datare l'evento di separazione. Applicando tale principio, A. Wilson e W. Sarich, alla fine degli anni Sessanta, datano il tempo di divergenza molecolare tra l'uomo e le scimmie antropomorfe africane intorno a cinque milioni di anni fa, in contrasto con quanto affermavano i paleoantropologi, i quali ritenevano che la divergenza della linea umana fosse avvenuta almeno quindici milioni di anni prima. Applicando la tecnica dell'ibridizzazione DNA/DNA, C. Sibley e J. Ahlquist precisano che la linea dell'orango si è separata da quella gorilla- scimpanzé-uomo intorno a 13-16 milioni di anni fa, quella del gorilla dalla linea scimpanzé-uomo tra 8 e 10 milioni di anni fa e infine quella dello scimpanzé da quella dell'uomo solo tra 6,3 e 7,7 milioni di anni fa, con un leggero scarto rispetto ai risultati ottenuti da Wilson e Sarich con i polimorfismi proteici. Il confronto delle sequenze non codificanti del DNA tra l'uomo e lo scimpanzé ha definitivamente dimostrato che il genoma dello scimpanzé (e quasi nella stessa percentuale quello del gorilla) differisce da quello dell'uomo solo per circa il 2%. Sebbene la conclusione sulla tricotomia gorilla-scimpanzé-uomo non sia a tutt'oggi definitiva (anche perché non sono disponibili resti scheletrici attribuibili ad antenati diretti dello scimpanzé e del gorilla su cui poter calibrare l'evento di speciazione), l'evoluzione molecolare ha dato corpo all'intuizione di Ch. Darwin: data la somiglianza dell'uomo con le scimmie antropomorfe africane, la culla del loro antenato comune non poteva che essere l'Africa. A questo punto, quali testimonianze fornisce l'antropologia molecolare riguardo all'origine di Homo sapiens?
L'origine di Homo sapiens
È nozione ben consolidata che la famiglia Hominidae sia comparsa in Africa con il genere Ardipithecus (circa 4,5 milioni di anni fa) e il più conosciuto genere Australopithecus, presente in Africa meridionale e orientale con almeno otto specie (A. anamensis, A. afarensis, A. africanus, A. bahrelghazali, A. ghari, vissute tra 4,4 e 1,3 milioni di anni fa, e A. aethiopicus, A. boisei, A. robustus, vissute tra 2,8 e 1,2 milioni di anni fa). Le ultime tre specie, caratterizzate da un apparato masticatorio particolarmente robusto, sono attribuite da alcuni paleoantropologi a un genere a sé, Paranthropus. È altrettanto ben stabilito che i primi passi nel processo di ominazione siano stati l'acquisizione della postura eretta e della deambulazione bipede e la progressiva riduzione dei canini. In netto contrasto con le opinioni prevalenti nel primo Novecento, secondo le quali un cranio fossile per poter essere attribuito a un antenato dell'uomo doveva avere un aspetto umanoide e aver contenuto un cervello sufficientemente sviluppato a garanzia di qualità intellettive, la faccia di Australopithecus mantiene caratteri nettamente scimmieschi, con una capacità cranica compresa tra 400 e 500 cm3; inoltre, la ricostruzione dei suoi comportamenti (dieta, abilità manuale, economia di sussistenza basata sulla raccolta) dimostra che esso era ancora ben lontano dai modelli umani. Sulla comparsa del genere Homo (H. rudolfensis, H. habilis), ricollegabile alle specie meno robuste di Australopithecus e documentata in Africa orientale da resti scheletrici datati intorno a 2 milioni di anni fa, i paleoantropologi sono sostanzialmente d'accordo: incremento dell'encefalo (circa 700 cm3), dominio della savana, testimonianze di industria litica (choppers o unifacciali). I problemi d'interpretazione arrivano con la comparsa (sempre in Africa orientale, nel sito keniota di Koobi Fora) di H. ergaster, circa 1,8 milioni di anni fa, un uomo 'quasi come noi' quanto alla morfologia dello scheletro postcraniale, ma con caratteri cranici molto arcaici, a cominciare dalla capacità cranica, sostanzialmente simile a quella di H. habilis.
Che legame esiste con le forme asiatiche di H. erectus (già descritte come pitecantropo di Giava e sinantropo della Cina) e, soprattutto, con i recentissimi ritrovamenti nel sito di Dmanisi (Georgia), datati 1,7 milioni di anni fa, e nei siti dell'Europa occidentale (Ceprano in Italia e Atapuerca in Spagna), datati 800.000 anni fa? E ancora: vi è continuità evolutiva di tipo gradualistico tra H. ergaster-(H. erectus)-H. sapiens, oppure si sono verificati eventi di speciazione multipli? Al momento non si può dare una risposta univoca a queste domande, sia perché la comparsa e il differenziamento di H. sapiens rappresentano una successione ma anche una sovrapposizione di forme, in concomitanza con eventi evolutivi dai contorni sfumati e di incerta definizione, sia per la difficoltà di diagnosticare su base morfologica e morfometrica una separazione netta tra H. erectus e i primi uomini arcaici.
Semplificando, due sono i modelli ormai classici riguardanti l'origine dell'uomo moderno. Il primo è il modello evolutivo monocentrico, proposto da C. Stringer, secondo il quale l'origine di H. sapiens è recente e il processo della sua diversificazione geografica si è verificato negli ultimi 100.000 anni. Comparso in Africa, H. sapiens avrebbe 'rimpiazzato' le forme più arcaiche di Homo già presenti sia in Africa (H. heidelbergensis), sia in Europa (H. neanderthalensis), sia in Asia (H. erectus). Il secondo modello è quello multiregionale, proposto da M. Wolpoff, per il quale l'origine di H. sapiens affonderebbe le sue radici in un tempo valutabile intorno a un milione di anni, in concomitanza con la comparsa di H. erectus in Africa e con la sua primitiva migrazione verso l'Eurasia. In loco, le diverse forme di H. erectus avrebbero subito un processo graduale (anagenesi) di modernizzazione dei caratteri verso gli attuali africani, europei, asiatici. La diversificazione geografica dell'uomo sarebbe pertanto un processo molto antico ma, ad assicurare il mantenimento della cospecificità tra le linee 'razziali', Wolpoff ammette la continuità di scambi (flusso genico) tra regione e regione. In questo quadro, l'uomo di Neandertal, presente nel Vicino Oriente oltre che in Europa, rappresenterebbe una forma intermedia (H. sapiens neanderthalensis, o uomo arcaico) tra H. erectus e H. sapiens (H. sapiens sapiens, o uomo moderno). Esso quindi non sarebbe un ramo secco nell'albero dell'uomo, un cugino estinto, come propone il modello di Stringer, ma il suo diretto antenato. Il modello di Stringer è attualmente il più accreditato, ma va rivisto per quanto riguarda la fase che precede la comparsa di H. sapiens.
Secondo questo modello la prima specie di Homo che raggiunge l'Europa è H. heidelbergensis, a cui Stringer attribuisce il gruppo di forme afro-europee datate tra 600.000 e 250.000 anni fa. Alla luce dei reperti di Dmanisi, di Ceprano e di Atapuerca, lo scenario evolutivo del periodo compreso tra 1,7 milioni e 800.000 anni fa cambia sostanzialmente e la domanda più importante diventa: chi è stato il primo Homo a lasciare l'Africa?
Homo ergaster e Homo erectus: il dibattito è aperto
I resti scheletrici rinvenuti a Dmanisi, in Georgia (i risultati degli studi sono stati presentati in un convegno tenutosi a Tautavel, in Francia nell'aprile 2000), consistenti in una calotta cranica appartenente a un individuo di sesso maschile e di giovane età e in un cranio quasi completo appartenente a una giovane donna, ripropongono il modello arcaico di H. ergaster per i caratteri morfologici e la capacità cranica, pari rispettivamente a 780 cm3 e 625 cm3.Pur presentando alcuni elementi anatomici che li avvicinano al classico H. erectus asiatico, i reperti della Georgia non sono però accompagnati dall'industria litica di H. erectus, conosciuta come acheuleana. Secondo il classico modello interpretativo, sarebbe stato proprio il progresso tecnologico a permettere a H. erectus di adattarsi ai nuovi ambienti fuori dall'Africa. I manufatti litici dell'uomo della Georgia sono invece molto rozzi, simili a quelli che H. habilis aveva 'inventato' in Africa quasi mezzo milione di anni prima. Se è vero quindi che è stato H. ergaster a lasciare l'Africa per primo, bisogna porsi altre domande, come quella formulata dal paleoantropologo americano I. Tattersall: lo sganciamento completo dal primitivo ambiente situato ai margini della foresta e l'acquisizione di una struttura corporea di tipo moderno, adatta a spostarsi in un ambiente aperto e diversificato, avrebbero spinto H. ergaster all'esplorazione di nuovi territori? La questione al momento attuale rimane aperta.
Anche per quanto riguarda i reperti di Ceprano e Atapuerca l'uso del condizionale è d'obbligo. L'antichità della calotta cranica rinvenuta a Ceprano, se verrà confermata, e gli evidenti caratteri di H. erectus fanno ritenere che l'uomo di Ceprano potrebbe aver seguito una direttrice migratoria est-ovest per arrivare in Europa, ricollegandosi a H. erectus asiatico. Quanto ai reperti spagnoli della Sierra di Atapuerca, coevi rispetto a quelli di Ceprano, l'équipe spagnola di J. Arsuaga li attribuisce a una nuova specie, H. antecessor, comparsa in Africa dopo H. ergaster, di cui conserverebbe alcuni caratteri nella morfologia cranica. In Africa H. antecessor avrebbe portato alla linea di H. sapiens, mentre in Europa, che avrebbe raggiunto attraverso l'Africa settentrionale, H. antecessor avrebbe costituito la base evolutiva di H. heidelbergensis, una specie, dunque, esclusivamente europea.
Le evidenze che emergono da questo scenario dai contorni incerti sono il ruolo da protagonista di H. ergaster nella culla africana e la certezza che l'Europa sia stata colonizzata in tempi molto più antichi di quanto si pensasse. Se l'umanità arcaica (H. erectus o H. antecessor) non ha avuto successo evolutivo, così come non l'hanno avuto le specie più recenti H. heidelbergensis e H. neanderthalensis, altrettanti tentativi sperimentali mal riusciti, lo si deve con buona probabilità a limitate capacità intellettive. Lungi dal seguire un percorso lineare e continuo, il cammino dell'uomo si è spianato solo quando l'eredità sociale, cioè la cultura, si è potuta sviluppare grazie a un cervello e a un sistema di comunicazione, il linguaggio articolato, estremamente efficienti.
Per cercare di definire in modo più preciso i contorni dello scenario paleoantropologico, a partire dagli anni Ottanta nel dibattito sull'origine dell'uomo si sono inseriti gli antropologi molecolari ed è cominciata una vera e propria corsa a favore dell'uno o dell'altro modello evolutivo. Nel 1987 un articolo di R. Cann, M. Stoneking e A. Wilson, pubblicato sulla rivista inglese Nature (nr. 325, 7 gennaio), suscita immediate reazioni, non tutte positive. Confrontando le sequenze dell'mtDNA di individui appartenenti a una popolazione africana con quelle di individui degli altri continenti, gli autori ne hanno ricostruito la genealogia, risalendo alla forma ancestrale dell'mtDNA, detta coalescente, datata tra 140.000 e 290.000 anni fa. Per la costruzione dell'albero filogenetico delle popolazioni esaminate, essi hanno applicato il metodo della 'massima parsimonia'. L'assunto era che l'uso del minor numero possibile di mutazioni fosse più affidabile per stabilire nell'albero sia la posizione reciproca delle popolazioni sia la diversa lunghezza dei rami, indicativa del tempo intercorso dalla loro separazione. L'mtDNA delle popolazioni africane è risultato il più simile al coalescente, per cui gli autori hanno concluso che la comparsa del primo nucleo di H. sapiens fosse avvenuta in Africa. Tra tutte le popolazioni esaminate è risultato inoltre che quelle africane erano geneticamente più differenziate perché, per il principio dell'orologio molecolare, hanno accumulato il numero più alto di mutazioni in ragione della loro maggiore antichità.
Molte critiche sono state avanzate riguardo a questa analisi: il campionamento è stato troppo limitato e inoltre nel campione africano solo due individui erano autoctoni mentre diciotto erano neri americani, il tasso evolutivo è stato stimato dagli autori nell'assunto della completa neutralità e della velocità costante delle mutazioni lungo i differenti rami e infine il metodo della massima parsimonia non si è dimostrato del tutto attendibile in termini di analisi statistica. Quella che viene messa in dubbio non è comunque l'origine africana dell'uomo, testimoniata anche dai primi resti cranici con caratteristiche moderne, ma la maggiore antichità degli africani rispetto alle altre popolazioni. Infatti, il più alto differenziamento genetico della popolazione africana, sia al suo interno sia rispetto alle popolazioni non africane, potrebbe essere piuttosto effetto del fattore dimensione. Una popolazione originaria numericamente grande e suddivisa al suo interno per fenomeni di isolamento potrebbe esserne la causa. In questo caso, le popolazioni non africane emerse da una o da più di una di tali sottopopolazioni, avendo perso per strada casualmente alcune varianti genetiche, rappresenterebbero dei sottoinsiemi dell'assetto africano.
Il dibattito è tuttora aperto ma, comunque sia, l'origine africana recente dell'uomo è stata confermata negli anni Novanta, oltre che sulla base dell'mtDNA, anche partendo dalle frequenze alleliche di molti polimorfismi proteici e del DNA nucleare. La configurazione dell'albero ottenuto utilizzando questi dati rimane infatti sostanzialmente immutata: alla radice si trova la biforcazione che separa le popolazioni africane, poste su un ramo, dalle popolazioni non africane, poste sull'altro.
La riprova che l'ipotesi multiregionale di Wolpoff sia, al momento, più debole è arrivata nel 1997, quando l'équipe diretta dal biologo estone S. Pääbo ha amplificato con la PCR alcune sequenze di mtDNA estratto da un frammento omerale dell'uomo di Neandertal e le ha quindi confrontate con quelle appartenenti a individui originari dei diversi continenti: le sequenze del neandertaliano presentano in media ventisette siti differenti rispetto alle sequenze moderne, mentre tra loro gli europei, gli africani, gli australiani e gli asiatici differiscono in media solo rispetto a otto siti. Una conferma è giunta nel 2000 con gli studi di Ovchinnikov e Goodwin. La prima conclusione è che i neandertaliani non possono essere considerati i 'nonni' dell'uomo 'moderno': se così fosse, essi avrebbero dovuto condividere una somiglianza genetica più stretta con gli europei. Il secondo risultato, non meno importante, è che l'uomo moderno si è differenziato geograficamente in tempi relativamente recenti. La ricostruzione genealogica per via paterna, attraverso i polimorfismi del cromosoma Y, delle moderne popolazioni asiatiche ha portato a un'analoga conclusione. In netto contrasto con la visione gradualista di Wolpoff, è stato messo in evidenza che gli attuali asiatici non possono essere considerati i diretti discendenti di H. erectus; essi infatti si sarebbero separati dal ramo africano di H. sapiens tra 100.000 e 60.000 anni fa.
Attualmente, quasi tutte le testimonianze molecolari sembrano favorire il modello monocentrico di Stringer. Stabilito dunque che rispetto alle nostre radici 'siamo tutti un po' africani', come è avvenuto il popolamento dei continenti non africani? Quali direttrici migratorie hanno seguito i primi uomini che, dotati di un 'buon' cervello e di un linguaggio verbale fluente, hanno lasciato l'Africa per colonizzare con successo tutti i continenti? Anche in questo caso l'antropologia molecolare si è rivelata un valido supporto della paleoantropologia per delineare a ritroso i percorsi migratori e le linee del popolamento. Sulla base dei polimorfismi dell'mtDNA, oggi sono ammesse due principali direttrici di dispersione di H. sapiens africano: una dall'Africa settentrionale verso il Medio Oriente, documentata dalla presenza di H. sapiens in Israele intorno a 90.000 anni fa, e una dall'Africa orientale verso l'India occidentale, attraverso la penisola arabica; in questo secondo caso mancano testimonianze fossili, ma sono stati descritti manufatti litici sulle coste dell'Africa orientale (Eritrea) che testimonierebbero come H. sapiens, intorno a 120.000 anni fa, avesse imparato a sfruttare anche le risorse marine. L'analisi dei polimorfismi dell'mtDNA verrebbe dunque a conferma di questa prova indiretta di una corrente migratoria dall'Africa verso oriente. Una variante genetica (aplogruppo M), che era prima considerata originaria dell'Asia orientale, è presente con frequenza elevata nella penisola arabica e in Etiopia mentre è assente in Medio Oriente. La separazione della linea asiatica da quella africana sarebbe avvenuta almeno 50.000 anni fa.
Per quanto riguarda l'Europa, dal punto di vista paleoantropologico risulta che H. sapiens, dopo aver transitato per il Medio Oriente, vi si è insediato intorno a 35.000 anni fa (sito di Cro-Magnon, in Francia). Per il genetista B. Sykes la storia del popolamento dell'Europa è scritta nell'mtDNA. Dopo aver esaminato ben 6000 europei, egli ha concluso che l'mtDNA è riconducibile a sette tipi che identificano sette linee ancestrali femminili, comparse in Europa in differenti regioni (dal Caucaso alla Siria e all'Europa meridionale) tra 45.000 e 8000 anni fa. Sebbene siano state avanzate alcune critiche a questo lavoro, resta il fatto che nell'arco compreso tra 90.000 e 15.000 anni fa (data dell'arrivo dell'uomo in America, attraverso lo stretto di Bering) l'uomo colonizza tutti i continenti. Non più soltanto anatomicamente moderno, si avvia rapidamente ad 'ammodernare' anche il suo bagaglio culturale: l'industria litica è raffinata, la caccia organizzata rappresenta la maggior fonte di sostentamento, i siti abitativi diventano più razionali, compaiono le prime manifestazioni artistiche (pitture rupestri, graffiti, ciottoli dipinti, statuine di pietra, osso, avorio e steatite) e i riti funebri sono accompagnati da ricchi corredi.
Diversi fuori, simili dentro
Con le migrazioni dall'Africa si verificano due eventi determinanti per il processo di diversificazione dell'uomo: il ventaglio di opportunità ambientali si allarga, esigendo risposte differenziate, e le opportunità di incontro tra popolazioni si allentano in aree marginali, creando situazioni di isolamento, o al contrario si rinforzano nelle aree contigue, favorendo il processo di fusione tra gruppi.
Rispetto alla diversità geografica (selezione) e in conseguenza dei fenomeni di isolamento, le popolazioni si sono apparentemente tanto diversificate che "non ci sono, tra tante migliaia di uomini, due facce perfettamente identiche", come faceva osservare 2000 anni fa Plinio il Vecchio nel settimo libro della sua Naturalis historia. Questa osservazione, che conserva la sua validità al giorno d'oggi come nel passato, non significa però che le popolazioni, rispetto alle frequenze alleliche, siano altrettanto dissimili. Le indagini molecolari, al contrario, hanno messo in evidenza che in termini genetici la specie si è mantenuta sostanzialmente omogenea; infatti più del 99% delle sequenze del DNA è identico nella popolazione. Questa osservazione è di per sé sufficiente a invalidare le classificazioni razziali.
Già negli anni Cinquanta, W. Boyd, il primo a studiare la distribuzione geografica delle frequenze alleliche (sistema AB0), fa osservare che il sistema di classificazione razziale 'sierologica', usato in sostituzione di quelli a base morfologica che avevano dominato l'antropologia a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, deve essere considerato un espediente e non un'operazione fine a sé stessa. Il concetto tradizionale di razza quale categoria a base tipologica comincia a indebolirsi e viene definitivamente liquidato dai moltissimi studi sui polimorfismi proteici e soprattutto del DNA realizzati a partire dagli anni Ottanta. È ormai ben chiaro che vi è un continuum dei valori di frequenza allelica da una regione geografica all'altra, tanto che non vi è una regione nella quale si possa tracciare una linea netta che separi valori alti e valori bassi di frequenza, come è stato messo in evidenza nelle mappe genetiche costruite dal genetista L.L. Cavalli-Sforza.
Nel 1991 un gruppo di genetisti di popolazione, guidati dallo stesso Cavalli-Sforza, ha presentato un ambizioso progetto di lavoro centrato sulla diversità del genoma umano (HGDP, Human genome diversity project). Analizzando cinquecento popolazioni 'indigene' (venticinque individui per popolazione) scelte tra quelle in "pericolo di estinzione fisica e/o culturale" in rappresentanza di 5000 gruppi etnici, nell'intento di ricostruire attraverso i geni l'evoluzione non solo dei caratteri biologici e patologici ma anche degli aspetti comportamentali e delle 'proprietà intellettive' di tali gruppi, gli studiosi si proponevano di creare una banca dati che, secondo Cavalli-Sforza, avrebbe rappresentato "un enorme potenziale per illuminare la nostra conoscenza sulla storia e l'identità umana". Tuttavia, un'operazione scientifica di questo genere, apparentemente asettica, porta con sé implicazioni etiche di notevole portata, come è stato evidenziato dal Comitato internazionale di bioetica dell'UNESCO: esiste il rischio di non tenere conto delle remore culturali, creando un sistema di classificazione 'mascherato' attraverso etichette genetiche che potrebbero essere sfruttate anche commercialmente, avviando così un'operazione senza alcuna ricaduta positiva per le popolazioni indigene. In sostanza, le critiche riguardano l'inosservanza della Dichiarazione di Helsinki (1964) sui diritti umani: "Nelle ricerche sull'uomo, il benessere dell'individuo è prioritario rispetto a quello della scienza e della società"; ma la comunità scientifica, in rappresentanza del Consiglio nazionale delle ricerche statunitense, ha al contrario plaudito all'iniziativa, pur paventando i rischi insiti in un progetto di tale portata che può scontrarsi con la libertà di scelta degli individui.
La questione, oggi come ieri, è sempre la stessa: chiamare in causa lo scienziato e le sue responsabilità, che sono tanto più grandi quando l'oggetto di studio è l'uomo. Indagare sulla natura biologica dell'uomo può portare infatti all'estremizzazione di considerarlo esclusivamente come un veicolo di geni, con una visione riduzionistica che fa perdere di mira l'essere umano nella sua interezza.
La realizzazione del Progetto Genoma umano sta portando a risultati scientificamente straordinari che si tradurranno in grandi benefici per la salute via via che si scopriranno i geni responsabili delle varie patologie. Tuttavia esiste il rischio che il messaggio implicito nel Progetto Genoma, lanciato attraverso i mass media, semini l'idea che i geni possano spiegare tutto: l'obesità ma anche la criminalità - con un ritorno alla visione lombrosiana -, l'omosessualità, le capacità intellettive, i comportamenti sociali, come l'aggressività e gli stili di vita. Da questo messaggio distorto può nascere la presunzione, più o meno palese, che in futuro si possa arrivare a formulare giudizi e valutazioni di merito tra i portatori di geni 'buoni' e quelli di geni 'cattivi', tra 'normali' e 'anormali'.
È certamente vero che il DNA aiuta l'antropologo a capire il "divenire biologico" dell'uomo, per dirla con Dobzhansky, e a ricostruire la nostra evoluzione come specie, ma è altrettanto vero che arrivare al sequenziamento totale del DNA non sarà sufficiente per capire tutto quanto si può sulla natura umana: "così come la sequenza di note in una sonata di Beethoven non ci può dare la capacità di suonarla", è stato detto.
"L'uomo non è solo animale", scriveva G.-L. Buffon. Al suo divenire biologico contribuiscono in larga misura le sue scelte di fronte alle opportunità ambientali che egli stesso ha saputo cogliere e creare, nel bene e nel male. Nel discorso sull'evoluzione dell'uomo, dunque, "riconoscere il potere dei geni", per usare le parole del neurobiologo P. Changeux, non significa affatto che l'uomo sia ciecamente sottomesso alla loro 'autorità suprema'. Grazie alle evidenze scientifiche della paleoantropologia e dell'antropologia fisica e molecolare, il nostro passato emerge con contorni sempre più netti, ma per legare il vecchio al nuovo non vi è dubbio che ci si debba muovere in un contesto che contempli anche la lettura in chiave culturale della nostra storia naturale.
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Le origini dell'uomo
La grande varietà di forme e di modelli di vita presente nel regno animale non permette di individuare un percorso dell'evoluzione biologica unitario per tutte le specie. Esistono alcuni grandi schemi strutturali che caratterizzano forme e funzioni di organismi appartenenti ai diversi phyla della sistematica. In ciascuno di essi gli apparati che assicurano le funzioni vitali sono integrati e coerenti; somiglianze e differenze tra gruppi sistematici interni ai phyla suggeriscono parentele più o meno prossime e individuano l'antenato comune. A questo fine è utilizzato lo studio di anatomia e fisiologia comparate, un campo della ricerca biologica che mette a confronto le soluzioni adottate dagli esseri viventi per assicurarsi la sopravvivenza nelle diverse situazioni ambientali.
L'evoluzione che ha condotto all'uomo moderno ha comportato un gran numero di modificazioni, realizzatesi a partire dalla divergenza evolutiva della linea Homo dalle scimmie antropomorfe. Nel complesso albero filogenetico umano, comprendente vari rami estinti senza discendenza come l'uomo di Neandertal, va sottolineato che sono dimostrati casi di convergenza evolutiva. Pertanto, le tendenze evolutive non necessariamente valgono per tutti i taxa del gruppo.
Tra le modificazioni anatomiche e fisiologiche più importanti realizzatesi nel corso di tale processo evolutivo si possono citare le seguenti, spesso legate tra loro: il progressivo sviluppo della postura eretta e della locomozione bipede; la graduale espansione dell'encefalo, legata all'aumento della capacità cranica; l'aumento complessivo della statura e della massa corporea, in particolare al passaggio da Australopithecus a Homo; la progressiva riduzione del muso; la modificazione della forma del palato e della dentatura; le modificazioni nella struttura del bacino, soprattutto nelle femmine, a causa dell'incremento delle dimensioni della testa del feto; lo sviluppo e il prolungamento della gestazione; le modificazioni nell'assetto della mano, che risultano nella capacità propria dell'uomo di afferrare gli oggetti con precisione; il comportamento più evoluto, con produzione di manufatti e sviluppo del linguaggio.
Deve essere tuttavia sottolineato che le conoscenze attuali sull'evoluzione umana, grazie anche a discipline quali la genetica molecolare e la paleocronologia, sono assai più dettagliate rispetto a quelle di pochi decenni fa, in parte superate alla luce delle moderne scoperte.
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Le principali specie
Ardipithecus ramidus
Noto finora solo da un sito in Etiopia (presso il fiume Awash, a sud di Hadar), è il più antico tra gli Ominidi fossili conosciuti (4,5 milioni di anni fa). La maggior parte dei resti è costituita da denti, pochi sono i frammenti craniali e postcraniali. La capacità cranica non è conosciuta, la statura è stimata a circa 122 cm, il peso a 30 kg. È possibile che A. ramidus avesse postura eretta e locomozione bipede; il suo habitat era di foresta.
Australopithecus anamensis
Il genere Australopithecus, presente solo in Africa, comprende varie specie, i cui caratteri e la cui sistematica sono ancora in discussione. Nell'insieme, esse rappresentano uno stadio evolutivo degli Ominidi (sottofamiglia Ominini) in cui si realizzarono adattamenti funzionali a un'andatura bipede e a una dieta onnivora, con modesto aumento della capacità cranica. Per fisiologia, ecologia ed etologia erano forse più simili alle scimmie antropomorfe attuali che non all'uomo.
La specie Australopithecus anamensis è rappresentata da materiale datato a 4,4-3,9 milioni di anni fa, proveniente da siti del Lago Turkana, di Kanapoi e della Baia di Allia (Africa). Tale specie presenta una mescolanza di caratteri primitivi, craniali, e avanzati, postcraniali. Mancano stime sulla sua capacità cranica e sulla sua statura; il peso è dubitativamente stimato fra 47 e 55 kg. Vari caratteri sono interpretati come indizi di un bipedalismo ormai acquisito. Si ritiene che A. anamensis vivesse sia in ambiente di savana aperta o foresta, sia in ambiente di foresta a galleria.
Australopithecus afarensis
Vissuto tra 3,9 e 2,9 milioni di anni fa, è il più antico ominide ben documentato da reperti fossili. È presente in vari siti dell'Africa orientale, tra i quali il più ricco è quello di Hadar, nella regione dell'Afar; da qui provengono i resti di circa trentacinque individui, tra cui: lo scheletro parziale noto come 'Lucy' e datato a 3,18 milioni di anni fa, attribuito a una femmina di circa venticinque anni; un cranio ben conservato; i resti di tredici individui appartenenti a un medesimo gruppo, morti a causa di un evento catastrofico. I resti del sito di Laetoli (3,7-3,6 milioni di anni fa) includono l'eccezionale testimonianza di piste di orme di tre individui a locomozione bipede. A. afarensis presenta alcuni caratteri più evoluti, legati al bipedalismo e alla dieta onnivora, e altri più primitivi, in particolare neurocranici. La capacità cranica è stimata a 375-550 cm3, di poco superiore a quella dello scimpanzé. È presente un pronunciato dimorfismo sessuale tra maschi e femmine, manifesto per es. nella statura (1,5 m contro 1,1), nel peso (45 kg contro 29), nello sviluppo degli arti anteriori e nelle dimensioni dei canini. Il suo habitat includeva ambienti boschivi e formazioni a essenze cespugliose e di savana.
Australopithecus africanus
La specie Australopithecus africanus, comparsa circa 3 milioni di anni fa ed estintasi attorno a 2,3 milioni di anni fa, è nota in base a numerosi ritrovamenti in Sudafrica. Il tipo della specie è il cranio detto 'bambino di Taung', ritrovato nel 1924 presso Kimberley; a esso si aggiungono resti rinvenuti a Sterkfontein, presso Johannesburg, e nel Transvaal centrale. La sua capacità cranica media è di circa 450 cm3. A. africanus è il primo ominide in cui si manifesta un inizio di flessione basicraniale. Rispetto ad A. afarensis, i denti posteriori sono più grandi e i canini più ridotti e sessualmente non dimorfi, la forma della mandibola si avvicina a quella dell'uomo moderno. Alcuni dati suggeriscono che la dieta di A. africanus fosse diversificata e includesse anche proteine animali. A. africanus aveva locomozione bipede e viveva in habitat con copertura arborea sparsa.
Australopithecus aethiopicus
Vissuto tra 2,8 e 1,9 milioni di anni fa, A. aethiopicus (o Paranthropus aethiopicus) e il più antico degli australopiteci cosiddetti 'robusti' a causa della robustezza dell'apparato masticatorio, dovuta a un particolare adattamento alla masticazione di cibi vegetali coriacei. È riferito a questa specie un cranio pressoché completo, rinvenuto a ovest del Lago Turkana nel 1985, che presenta accentuato prognatismo, grande cresta sagittale mediana e capacità cranica ridotta (circa 410 cm3).
Australopithecus robustus
Anche la specie Australopithecus robustus (o Paranthropus robustus) è nota per la particolare robustezza dell'apparato masticatorio, con presenza di una cresta sagittale molto pronunciata. Vissuta tra 1,8 e 1,2 milioni di anni fa in Africa meridionale, presenta denti grandi e robusti, capacità cranica media di circa 530 cm3, peso intorno a 36 kg. La faccia è massiccia e piatta, con arcate sopracciliari pronunciate. Le mascelle sono ampie e robuste, con denti posteriori massicci.
Australopithecus boisei
I resti di Australopithecus boisei (o Paranthropus boisei), vissuto tra 2,3 e 1,4 milioni di anni fa in Africa orientale, sono stati rinvenuti in vari siti della Tanzania, del Kenya e dell'Etiopia. Sostanzialmente simile nell'aspetto ad A. robustus, A. boisei, tuttavia, ne differisce per alcuni caratteri, come la taglia maggiore, la faccia più ampia e i denti ancora più massicci. La cresta sagittale è ampia e l'arcata zigomatica è molto pronunciata lateralmente; la capacità cranica è di circa 510-545 cm3, il peso è stimato a circa 49 kg nei maschi e 43 kg nelle femmine. Per quanto riguarda l'habitat, i resti sono associati ad ambienti di savana.
Homo rudolfensis
Il genere Homo è caratterizzato da encefalo più sviluppato di quello degli australopiteci e presenta cranio privo di cresta sagittale; l'area di inserzione dei muscoli nucali è generalmente ridotta, la faccia è relativamente piccola rispetto alla volta, il profilo facciale è poco o affatto sporgente in avanti, la mandibola è meno massiccia che negli australopiteci, l'arcata dentaria è arrotondata e le corone dei denti sono ridotte.
La specie Homo rudolfensis, alla quale sono assegnati pochi resti che sono stati rinvenuti a Koobi Fora, risale a 2,0-1,9 milioni di anni fa. La sua capacità cranica è di circa 750 cm3, maggiore di quella di Homo habilis e degli australopiteci, come maggiore era probabilmente la sua statura; la faccia è ampia, a prognatismo ridotto, il peso può essere stimato a circa 63 kg nei maschi e 43 kg nelle femmine.
Homo habilis
Vissuto probabilmente tra 1,9 e 1,5 milioni di anni fa, Homo habilis deriva il suo nome dal ritrovamento in associazione a industrie litiche. Nel tipo della specie, un individuo giovanile proveniente dalla Gola di Olduvai in Tanzania, la capacità cranica è valutata intorno a 690 cm3. La faccia è primitiva, ma meno prominente che negli australopiteci; anche i denti posteriori sono ridotti, pur restando più grandi che nell'uomo moderno. Si ritiene che i maschi potessero raggiungere una statura di circa 127 cm e un peso di 45 kg e che le femmine fossero di taglia più ridotta.
Homo ergaster
Vissuta tra 1,9 e 1,7 milioni di anni fa, la specie Homo ergaster è stata classificata in base a resti provenienti dal sito di Koobi Fora, sul Lago Turkana, e a uno scheletro giovanile quasi completo proveniente da Nariokotome. La sua capacità cranica è stimata intorno a 800 cm3, il peso tra 52 e 63 kg e la statura intorno a 160-170 cm, assai elevata rispetto a quella di H. habilis. L'anatomia di H. ergaster rivela adattamenti specifici a condizioni ambientali di habitat tropicali aperti. Si suppone inoltre che possedesse una notevole efficienza locomotoria; il cranio, al contrario, è ancora molto arcaico.
Homo erectus
Comparso intorno a 1,8-1,7 milioni di anni fa, Homo erectus è ben documentato in Asia, soprattutto in Cina e in Indonesia; potrebbe essere, secondo alcuni studiosi, il primo ominide a diffondersi in ampie regioni del Vecchio Mondo. Come in H. habilis, la faccia ha una mandibola ancora relativamente robusta, arcate sopraorbitarie pronunciate e un cranio allungato e basso. Nell'arco della lunga storia evolutiva di questa specie, la capacità cranica media sembra aumentare da circa 900 cm3 a circa 1100 cm3. Il suo scheletro è più robusto di quello dell'uomo moderno, mentre le sue proporzioni sono variabili. È testimoniata l'associazione di resti di H. erectus con la presenza di fuoco; le sue industrie litiche sono più evolute di quelle di H. habilis.
Homo neanderthalensis
Vissuto circa tra 200.000 e 30.000 anni fa in Europa e in Asia occidentale, Homo neanderthalensis aveva un cranio più lungo e più basso dell'uomo moderno, con ossa più spesse e un pronunciato rigonfiamento nella regione occipitale; la sua capacità cranica era compresa tra 1450 e 1740 cm3. La fronte era sfuggente, il mento assente, la faccia larga e sporgente; i denti erano massicci, il palato ampio. Si ritiene che la statura media maschile fosse di circa 168 cm. La cassa toracica era più ampia, la clavicola più lunga e gli arti inferiori relativamente più corti che in H. sapiens.
L'uomo di Neandertal è l'ominide fossile meglio conosciuto per qualità e quantità di reperti; è inoltre l'unico per il quale esistano dati di genetica molecolare. Tuttavia, è anche l'ominide per il quale sono state formulate le ipotesi più controverse. La sua corporatura, estremamente robusta e con maggior sviluppo della massa muscolare rispetto all'uomo moderno, lascia pensare che l'uomo di Neandertal fosse adattato ai climi freddi dell'era glaciale e a un'economia di caccia e raccolta. I neandertaliani avevano certamente una struttura sociale, come dimostrano il gran numero di manufatti complessi e l'esistenza di sepolture, rinvenute per la maggior parte in Francia e in Spagna; secondo i paleontologi è plausibile che disponessero altresì di un linguaggio articolato.
Homo sapiens
Le prime forme di Homo sapiens compaiono circa 120.000 anni fa. Rispetto ad altre specie più antiche del genere Homo, H. sapiens è caratterizzato da fronte alta, arcate sopracciliari ridotte o assenti, mento prominente e scheletro gracile. La capacità cranica media è di circa 1400 cm3 nei maschi e circa 1250 cm3 nelle femmine. La tendenza alla 'gracilizzazione' si è realizzata in H. sapiens nell'arco di decine di migliaia di anni. In particolare, la faccia, la mandibola e i denti nel Pleistocene superiore, cioè circa 30.000 anni fa, erano del 20-30% più robusti che nell'uomo attuale. Durante quel periodo, l'uomo assume in misura sempre maggiore l'aspetto di H. sapiens moderno e comincia a disperdersi su tutta la Terra e a diversificarsi; si costituiscono le prime comunità organizzate di cacciatori-raccoglitori. Successivamente (Neolitico), diversi gruppi scelgono la sedentarizzazione e fondano villaggi stabili, dando in tal modo inizio alle attività di sfruttamento agricolo del suolo e di allevamento degli animali domestici.