Oncogeni e oncosoppressori
La straordinaria architettura dei tessuti del corpo umano dipende da un preciso coordinamento di proliferazione, morte e differenziamento delle cellule che li costituiscono. Un ruolo da protagonista hanno le cellule progenitrici o staminali presenti nei vari tessuti, le quali devono proliferare per rimpiazzare le cellule che vanno perse e differenziarsi in maniera finemente controllata per ricostituirne la funzione. Inoltre, le cellule devono avere un comportamento ‘socialmente corretto’, devono cioè astenersi dall’invadere tessuti diversi da quello di appartenenza. La perdita di coordinamento tra questi processi è determinante per l’insorgere del cancro e, infatti, i tessuti che si rigenerano maggiormente come la pelle, l’intestino, il fegato, il sangue sono tra i più soggetti a questa malattia. Tali processi sono controllati dall’attività dei geni, e perciò si può dire, piuttosto banalmente, che il cancro è una malattia genetica. Ma il cancro è ben diverso da quanto comunemente si intende con questo termine, che indica una patologia dovuta a un’alterazione del funzionamento di un singolo gene, appunto quello della malattia, o di pochi. L’alterazione è causata da una mutazione ereditaria, necessaria e sufficiente per sviluppare la malattia, e il gene incriminato diventa il bersaglio primario di possibili terapie.
In realtà, le malattie genetiche ed ereditabili, come la distrofia muscolare, sono piuttosto rare. Il concetto di malattia genetica risulta evanescente quando lo si applichi alle malattie più importanti, cancro incluso: in questo caso il processo patologico colpisce un complesso circuito cellulare, detto anche network o pathway, che può essere alterato in vari modi e a opera di molti geni diversi. Oltre che focalizzarsi sui singoli e a volte numerosi geni che partecipano al circuito, è perciò importante chiarire il funzionamento dell’intero circuito, che diventa così l’obiettivo principale di possibili terapie. In definitiva, il cancro è una malattia delle cellule di diversi tessuti, dovuta al malfunzionamento dei circuiti genetici che ne controllano la sopravvivenza, la proliferazione, lo sviluppo e il comportamento sociale, cioè l’invasività. Ma come possono andare fuori controllo questi circuiti così sofisticati? Semplificando, si può paragonare una cellula a un’automobile, che può andare fuori controllo se si accelera troppo o si rompe un freno: le alterazioni riscontrate nel cancro a carico di vari geni hanno effetti paragonabili, in quanto i geni acceleratori sono gli oncogeni, mentre quelli con funzione di freno sono i soppressori tumorali o antioncogeni. C’è una sostanziale differenza nel tipo di alterazioni che colpiscono queste due classi di geni. Nel caso degli oncogeni si tratta, di solito, di mutazioni puntiformi, che ne aumentano l’attività ‘acceleratrice’ o la portano fuori controllo: queste alterazioni conducono a un aumento di funzione (gain of function) dell’oncogene. Nel caso dei soppressori tumorali, si tratta di delezioni e mutazioni non senso che inattivano il gene facendogli perdere la sua funzione di freno (loss of function). Oltre che essere prodotte da mutazioni nei geni stessi o nelle sequenze che ne regolano l’attività, le alterazioni possono essere il risultato di modificazioni epigenetiche, cambi stabili nell’attività dei geni in assenza di mutazioni a carico dei geni stessi. Nel caso degli oncogeni, per ottenere un’accelerazione è sufficiente rendere più attiva una sola delle due copie del gene presenti nel genoma. Per impedire la funzione di freno di un antioncogene, è invece necessario inattivarne entrambe le copie. La trasformazione di una cellula normale in cellula neoplastica non avviene per effetto di una singola mutazione in un oncogene o in un oncosoppressore, ma richiede l’accumulo in momenti successivi di un numero critico di mutazioni. L’idea che il cancro fosse una malattia genetica delle cellule somatiche fu proposta nel 1914 dal biologo tedesco Theodor Boveri.
La storia dei geni del cancro
C’è voluto molto tempo per elaborare questi concetti che sembrano così semplici e quasi scontati. La connessione tra cancro e geni è nascosta dal fatto che molti tumori sono dovuti a fattori ambientali. Già alla fine del 18° sec. Percivall Pott comprese che il carcinoma dello scroto, una malattia frequente negli spazzacamini, era causato dai prodotti della combustione del carbone fossile, come il catrame, e nella seconda metà del 19° sec. Richard von Volkmann scoprì che il catrame era responsabile di tumori cutanei anche in altri lavoratori. La relazione tra amianto e cancro umano fu descritta nel 1907 sulla base di evidenze cliniche; sono inoltre noti fin da tempi lontani gli effetti cancerogeni del tabacco da fiuto, per es. per il cancro del naso. Il fumo di sigaretta, il catrame e vari prodotti di combustione contengono benzopireni che sono coinvolti nella loro attività carcinogenica. La relazione tra geni e cancro apparve più chiara quando si capì che i benzopireni e numerose altre sostanze, come benzene, cloruro di vinile, arsenico, cromo, sono cancerogene in quanto provocano lesioni sul DNA (DeoxyriboNucleic Acid). Ma la prova del nove per una malattia genetica è l’ereditarietà. Il cancro in genere non è ereditario, in quanto nella grande maggioranza dei casi le alterazioni geniche che lo causano non sono presenti nelle cellule germinali, e quindi non sono ereditabili, ma avvengono dopo il concepimento, nelle cellule ‘adulte’, quelle somatiche. Ciò implica che gran parte dei tumori sono riconducibili a fattori di rischio ambientali: sostanze nocive, quali fumo, inquinanti atmosferici e radiazioni, o determinati comportamenti, per es. una cattiva alimentazione.
Tuttavia, esistono numerosi tumori con una forte componente ereditaria. Il primo esempio individuato fu quello del cancro al seno, del quale già gli antichi romani sembra avessero notato la ricorrenza familiare. Ma il contributo decisivo in materia risale alla metà del 19° sec., quando il medico e neurofisiologo Paul Broca osservò che nella famiglia di sua moglie, nel corso di quattro generazioni, ben 10 donne su 24 erano morte di cancro al seno e molti altri individui di ambo i sessi avevano sofferto di altri tumori. Ne concluse che ciò non era attribuibile al caso. Oltre cento anni dopo sono stati identificati due geni, Brca1 e 2, che predispongono al cancro al seno. Un altro caso famoso fu scoperto dall’oftalmologo brasiliano Hilário de Gouvêa quando, nel 1872, praticò un’enucleazione (rimozione dell’occhio) a un ragazzo con un tumore della retina, il retinoblastoma. Il ragazzo si sposò poi con una donna senza casi di cancro in famiglia. La coppia ebbe due figlie, entrambe affette da retinoblastoma bilaterale. Anche per il melanoma, uno studio epidemiologico del 1820 aveva descritto una famiglia che andava soggetta a lesioni della pelle. Si sa ora che la presenza di un tipo di neo, il nevo displastico, può portare a un melanoma maligno, e si è identificato un gene, p16, che predispone alla malattia.
Nei tumori ereditari, una delle lesioni genetiche necessarie allo sviluppo del tumore viene trasmessa attraverso la linea germinale, ed è perciò presente in tutte le cellule dell’individuo. A differenza dei casi sporadici, cioè non ereditari, i tumori ereditari si caratterizzano per l’età precoce di insorgenza, la presenza di lesioni neoplastiche in diversi organi o di lesioni bilaterali in caso di organi pari come occhi e reni, e l’associazione con altre patologie; tuttavia non tutti gli individui che ereditano il gene malato sviluppano la malattia. Solo l’identificazione dei geni coinvolti nel cancro è stata in grado di dare sostanza a tutte queste osservazioni.
Oncogeni
Oncogeni virali
Di estrema importanza fu la scoperta che fece Francis Peyton Rous nel 1910 di un virus oncogeno in grado di causare nei polli un cancro del tessuto connettivo, il sarcoma. Il virus del sarcoma di Rous (Rous sarcoma virus, RSV) fu il prototipo di una famiglia di piccoli virus con genoma a RNA (RiboNucleic Acid), i retrovirus, molti dei quali capaci di provocare diversi tumori negli animali. Esistono anche numerosi virus oncogeni con genoma a DNA, come i virus papova (papilloma; polioma; SV40, Simian Virus 40) e il virus di Epstein Barr. I virus più piccoli sia a DNA sia a RNA, come i retrovirus, contengono un numero molto limitato di geni, e fu quindi relativamente facile identificare quelli responsabili delle proprietà oncogene. Nei virus a DNA sono, per es., l’antigene T del polioma e di SV40 e le proteine E6 ed E7 del virus papilloma. Anche se nell’uomo la gran parte dei tumori non è provocata da virus, questi ultimi sono però coinvolti nel 10-15% dei casi. Per es., il virus di Epstein Barr è implicato in alcuni linfomi, e il virus papilloma umano, genotipi 16-18, è responsabile di molti casi di carcinoma dell’utero. Il vaccino contro la proteina dell’involucro virale dei virus papilloma umani è usato per la prevenzione del tumore. Harald zur Hausen è stato insignito del premio Nobel per la medicina o la fisiologia nel 2008 per la scoperta delle capacità oncogene dei virus papilloma umani. Il primo oncogene fu isolato nel 1970 dal retrovirus RSV e fu chiamato Src. Fu sorprendente scoprire che Src è in realtà un normale gene cellulare che il virus cattura dalle cellule infettate e poi si converte in gene del cancro per mezzo di mutazioni. La proteina codificata da Src è una tirosinachinasi: rispetto al normale gene Src presente in tutte le cellule, il gene Src del virus oncogeno presenta mutazioni che causano un’attività chinasica maggiore e sregolata. Anche tutti gli altri oncogeni dei retrovirus, come Myc, Ras, Abl, Fos, sono normali geni cellulari modificati.
Oncogeni cellulari
Il fatto che gli oncogeni dei retrovirus fossero importanti anche nel cancro umano fu dimostrato sia dall’analisi delle alterazioni cromosomiche caratteristiche del linfoma di Burkitt e della leucemia mieloide cronica (chronic myeloid leukemia, CML) sia da esperimenti di trasferimento genico. Tutte le traslocazioni riscontrate nel linfoma di Burkitt coinvolgevano il gene Myc, provocandone un’attività smodata. Si sa ora che l’espressione della proteina Myc, la quale controlla la trascrizione di molti geni, è sregolata nella maggioranza dei tumori dell’uomo. Nel cromosoma Philadelphia, che contraddistingue la CML, era sempre coinvolto il gene Abl, codificante una tirosinachinasi.
Negli esperimenti di trasferimento genico si osservò che il DNA di cellule di carcinoma della vescica umana, se introdotto in fibroblasti di topo, era in grado di riprodurre alcune caratteristiche delle cellule cancerose. Nel 1982 fu chiarito che tale attività trasformante era dovuta al gene Ras: quest’ultimo codifica una proteina Ras che presenta, come nel caso dei retrovirus oncogeni, una mutazione a livello dell’amminoacido 12, per cui diventa iperattiva. Ras funziona da interruttore nella catena di trasmissione di segnali all’interno della cellula: se legata al guanosintrifosfato (GTP), Ras è attivata e l’interruttore è aperto; se legata al guanosindifosfato (GDP), Ras è inattiva e l’interruttore è chiuso. Vari segnali portano all’attivazione di Ras favorendone l’associazione con il GTP. Ma Ras stessa si autoregola: ha un’attività di GTPasi che favorisce la rimozione del GTP e quindi la propria inattivazione e l’interruzione del segnale. La proteina mutata nell’amminoacido 12 è difettiva in questa funzione, l’interruttore resta aperto più a lungo e il segnale continua a passare. Mutazioni in uno dei tre geni Ras presenti nel genoma si riscontrano nel 50% dei tumori. La speranza che l’identificazione di questi geni avrebbe permesso di risolvere rapidamente il puzzle del cancro si rivelò vana. Ci si rese presto conto di quanto numerosi fossero gli oncogeni, e quindi di quanto fosse difficile trovare una base unificante per la loro azione.
Oncosoppressori
La scoperta dei soppressori tumorali, o antioncogeni, fu il risultato di studi sui virus oncogeni a DNA e sulle anomalie cromosomiche presenti in cancri ereditari. L’ipotesi dei due colpi, formulata da Alfred G. Knudson nel 1971 per spiegare l’insorgenza del retinoblastoma, chiarì il quadro concettuale dei cancri ereditari: il retinoblastoma insorge a causa di due mutazioni successive che disattivano entrambe le copie di un ipotetico gene freno, per l’appunto il gene retinoblastoma o Rb. Il retinoblastoma presenta casi sia ereditari sia sporadici. I primi sarebbero dovuti all’eredità di una copia già inattiva del gene Rb e a una mutazione dell’altra copia, che avverrebbe dopo la nascita, nelle cellule della retina. In tal caso il tumore si sviluppa più precocemente rispetto ai tumori sporadici, i quali richiedono mutazioni somatiche in entrambe le copie del gene. Inoltre, è più di frequente bilaterale (colpisce infatti entrambi gli occhi) e contemporaneamente si può riscontrare la presenza di tumori in altri organi. L’analisi molecolare del DNA di famiglie affette che presentavano piccole delezioni genomiche portò alla conferma della teoria di Knudson e all’identificazione di Rb nel 1986. L’ipotesi dei due colpi è stata verificata in tutti i tumori ereditari, a eccezione delle neoplasie endocrine multiple di tipo 2, causate da mutazioni nell’oncogene Ret. Nelle forme ereditarie di cancro al seno sono coinvolti i soppressori tumorali Brca1 e Brca2 ma, diversamente dal retinoblastoma, questi due geni non sono i principali responsabili dei tumori sporadici al seno, che rappresentano la maggioranza dei casi. Altri antioncogeni famosi sono Apc, per il cancro del colon, p16, per il melanoma, e soprattutto p53, che si trova inattivato in circa il 50% dei tumori umani. La scoperta dei soppressori tumorali permise anche di chiarire il meccanismo attraverso il quale i piccoli virus a DNA causano il cancro. Diversamente dai retrovirus, i loro oncogeni, come quelli che codificano le proteine T dei virus SV40 e polioma, o E6 ed E7 del virus papilloma, non derivano da geni cellulari. Provocano il cancro perché, una volta che il virus è all’interno delle cellule, i loro prodotti inattivano i soppressori tumorali p53 e Rb, legandoli direttamente o causandone la degradazione.
Un importante insieme di geni che proteggono dall’insorgenza del cancro è quello dei geni del riparo del DNA, i quali controllano la fedeltà della sua replicazione e la sua integrità durante la trascrizione. Mutazioni nei geni (Msh2, Mlh1 e altri) deputati a riparare sequenze di DNA appaiate in maniera scorretta predispongono al cancro ereditario non poliposico del colon. Il cattivo funzionamento di questi geni, infatti, causa un accumulo di mutazioni che possono colpire geni cruciali per la proliferazione e il differenziamento cellulare.
Alterazioni negli oncogeni
Gli oncogeni sono geni buoni che controllano funzioni cruciali delle cellule. È l’alterazione della loro funzione che ne attiva la capacità oncogenica. Ciò è di solito la conseguenza di riarrangiamenti nei cromosomi, di mutazioni nella sequenza del DNA, o della creazione di un numero abnorme di copie (amplificazione) del gene. Questi tre meccanismi possono causare una deregolazione dell’espressione genica e un’alterazione nella struttura della proteina che esso codifica.
I riarrangiamenti cromosomici sono molto comuni nelle cellule dei tumori del sistema emopoietico. La CML, come detto, è contraddistinta dal cromosoma Philadelphia, una traslocazione reciproca (ricombinazione) dei cromosomi 9 e 22 che fonde il gene Bcr al gene Abl. Il risultato è una proteina ibrida, nella quale l’attività della tirosinachinasi Abl è fuori controllo. I fattori di trascrizione sono però il bersaglio prevalente delle mutazioni e dei riarrangiamenti riscontrati nelle leucemie e nei linfomi. Le tre diverse traslocazioni riscontrate nel linfoma di Burkitt spostano tutte il gene Myc, situato nella regione 8q24, vicino a uno dei geni delle immunoglobuline, nei cromosomi 2, 14 e 22, provocando le deregolazione di questo fattore di trascrizione. Nelle leucemie acute linfocitica e mieloide si osserva la fusione del gene del fattore di trascrizione ALL1 con più di 50 geni diversi. Nella leucemia promielocitica acuta si osserva la fusione di PML con il fattore di trascrizione Rarα. Nella leucemia mieloide acuta si osservano frequentemente mutazioni nei fattori di trascrizione Pu.1, CebpA e Aml1. Nel linfoma follicolare e nei linfomi B a grandi cellule è spesso implicato il repressore trascrizionale Bcl6.
Quando avviene una mutazione in un oncogene, la struttura della proteina da esso codificata è modificata in maniera tale da rendere la proteina più attiva. Il caso più noto è senza dubbio quello degli oncogeni Ras (KRas, HRas e NRas) che codificano proteine capaci di legare il GTP. Spesso, le mutazioni in Ras sono correlate all’esposizione a carcinogeni ambientali. Le mutazioni di KRas sono comuni nei carcinomi del polmone, del colon e del pancreas, mentre le mutazioni di NRas avvengono principalmente nella leucemia mieloide acuta e nella sindrome mielodisplastica. Mutazioni puntiformi in BRaf, una serina/treoninachinasi controllata da Ras, si trovano nel 59% dei melanomi, nel 18% dei cancri al colon e al retto, nel 14% dei carcinomi del fegato e nell’11% dei gliomi. La gran parte di queste mutazioni cambia la valina in posizione 599 della proteina con un acido glutammico; il cambiamento avviene all’interno del dominio chinasico di BRaf, producendo una chinasi esageratamente attiva.
Nei tumori si può riscontrare la presenza di un numero altissimo di copie di alcuni oncogeni. Sono quattro le famiglie di oncogeni più frequentemente amplificati: quelli codificanti le proteine Myc (c-, N- e L-Myc), la ciclina D1, il recettore del fattore di crescita dell’epidermide e Ras. Per es., c-Myc è amplificato nei tumori al polmone a piccole cellule, al seno, all’esofago, alla cervice uterina, all’ovaio, e della testa e del collo, mentre l’amplificazione di N-Myc è frequente nel neuroblastoma, un tumore pediatrico che colpisce il sistema nervoso, in cui l’amplificazione di N-Myc è correlata con uno stato avanzato del tumore.
Meccanismo di azione
Un’idea abbastanza chiara dell’azione dei geni del cancro è stata ottenuta da studi biochimici e genetici condotti prevalentemente in sistemi modello come il verme Caenorhabditis elegans, il moscerino Drosophila melanogaster e il topo, Mus musculus. Gli oncogeni dei retrovirus e i loro omologhi in un modo o nell’altro perturbano nelle cellule la trasmissione di segnali portati dai fattori di crescita e generano segnali incontrollati che stimolano in continuazione vari circuiti di regolazione all’interno delle cellule stesse, provocandone la continua crescita e interferendo con i normali processi di differenziamento. I fattori di crescita, come quello nervoso (NGF, Nerve Growth Factor), dell’epidermide (EGF, Epidermal Growth Factor) e il fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGF, Platelet-Derived Growth Factor) sono piccole proteine che si legano a recettori specifici situati sulla superficie delle cellule e solitamente dotati di attività tirosinachinasica. Il legame del fattore di crescita al recettore causa l’attivazione chinasica e la fosforilazione di tirosine presenti nel recettore stesso (autofosforilazione) e nelle proteine a esso associate. L’autofosforilazione del recettore promuove l’interazione con proteine dotate di particolari regioni (SH2, PDZ) in grado di interagire con le fosfotirosine, innescando molto rapidamente una catena ramificata di trasmissione del segnale: nell’uomo ci sono almeno 100 proteine diverse che mediano la risposta a segnali iniziati da tirosine fosforilate. Hanno un ruolo precipuo proteine con attività GTPasi e numerose altre con attività di proteina chinasi. Altre proteine servono solo da collegamento. La trasmissione del segnale determina cambiamenti dell’attività di numerose proteine nel citoplasma e nel nucleo; queste ultime causano una riprogrammazione dell’espressione dei geni. Le mutazioni negli oncogeni riscontrate nel cancro portano a un’accresciuta segnalazione. Gli esempi sono numerosi.
Fattori di crescita e recettori tirosinachinasi
L’espressione e l’attività non regolata di fattori di crescita e dei loro recettori possono contribuire alla trasformazione maligna. In molti tipi di cancro (prostata, ovaie, cancro al polmone non a piccole cellule, CML) si osserva un’anomala espressione del PDGF (un omologo dell’oncogene virale Sis) e del suo recettore. Molto frequentemente i tumori mostrano accresciuti livelli del fattore di crescita vasculoendoteliale (VEGF, Vascular Endothelial Growth Factor), la cui espressione è indotta dalla scarsità di ossigeno (ipossia) nella massa tumorale. Agendo attraverso i tre recettori tirosinachinasi VEGFR1, 2 e 3, il VEGF regola l’espressione genica e controlla la formazione di nuovi vasi sanguigni necessari ad alimentare il tumore, consentendogli di sopravvivere. Nel cancro al seno e in quelli all’apparato gastrointestinale e al polmone sono frequenti alterazioni nell’EGFR, un recettore dell’EGF, e in altri due recettori di fattori di crescita, Kit e Her/Neu. L’EGFR presenta spesso una delezione nella regione di legame al fattore di crescita che causa l’attivazione persistente del recettore, anche in assenza di EGF. Di conseguenza, nel suo dominio intracellulare il recettore fosforila persistentemente tirosine, che servono a reclutare la proteina Src e altre trasduttrici di segnali: ciò causa una segnalazione sregolata su vari circuiti intracellulari.
Trasduttori di segnali
Questa classe di molecole è molto ben rappresentata. Gli oncogeni Abl, Lck e Src sono esempi non recettoriali dell’enzima tirosinachinasi, mentre gli oncogeni Akt, Raf1, Mos e Pim1 appartengono alla famiglia delle serina/treoninachinasi. Tra i trasduttori che legano il GTP hanno infine un ruolo importante le famiglie di GTPasi Ras e Rho.
Fattori trascrizionali
Tutte le vie di trasduzione dei fattori di crescita portano al nucleo della cellula, nel quale attivano oppure inibiscono l’espressione di numerosi geni, i geni precoci, causando la produzione di nuove proteine, alcune delle quali sono fattori di trascrizione che controllano l’espressione di altri geni ancora, i geni tardivi, con un meccanismo a cascata. Svariati oncogeni, come Myc, Jun, Fos e altri, sono fattori di trascrizione la cui espressione viene indotta dalle vie di segnalazione. I fattori di trascrizione formano complessi con altre proteine e si legano al DNA in modo tale da aumentare oppure, al contrario, inibire l’espressione di svariati geni. Per es., ALL1, un fattore di trascrizione coinvolto nelle leucemie, partecipa a un complesso contenente numerose proteine, molte delle quali servono direttamente alla trascrizione, mentre altre sono coinvolte nella metilazione degli istoni o nel processamento dell’RNA.
Modificazioni epigenetiche
Nel cancro si trovano frequentemente modificazioni epigenetiche negli oncogeni e nei soppressori tumorali, le quali fanno sì che l’espressione del gene che ne è oggetto sia cambiata in maniera stabile senza bisogno di mutazioni nella sequenza del gene. I cambiamenti epigenetici riscontrati nel cancro sono principalmente alcune modificazioni, come l’acetilazione e la metilazione, delle code N-terminali degli istoni, e la metilazione del DNA in corrispondenza di regioni che controllano l’espressione genica. Tali modificazioni costituiscono un codice più o meno chiaro, che determina la capacità dei geni di essere trascritti.
Regolatori dell’apoptosi
Nel corso della formazione di un tumore, l’eccessiva segnalazione oncogenica all’interno delle cellule attiva un meccanismo suicida, l’apoptosi, che ha la funzione di contrastare lo sviluppo tumorale. Spesso è necessario che l’apoptosi venga bloccata perché il tumore possa continuare a svilupparsi. Due sono le strade principali che conducono al suicidio cellulare: lo stress cellulare e i segnali dei recettori di morte. Perciò non è sorprendente che alcuni oncogeni siano implicati nella segnalazione dell’apoptosi. Per es., le due proteine mitocondriali Bcl2 e Bcl-xl inibiscono l’apoptosi, promuovono la sopravvivenza delle cellule e sono presenti in eccesso in numerosi tipi di cancro. In particolare, Bcl2 è coinvolta nell’instaurarsi del linfoma follicolare, in alcuni linfomi B a grandi cellule, nella leucemia linfocitica cronica e nel cancro al seno. L’espressione di Bcl2 viene usata come indice prognostico in vari tumori.
Nuovi giocatori
Recentemente è stato osservato che minuscole molecole di RNA che non codificano proteine, chiamate microRNA o miRNA, sono direttamente coinvolte in svariati tumori umani, dove possono agire sia da oncogeni sia da soppressori tumorali. I microRNA sono lunghi 21-23 nucleotidi e si legano a specifici RNA messaggeri, impedendone la traduzione in proteine. Alcuni di essi regolano i processi cellulari importanti per la formazione del cancro. Vari microRNA sovrabbondano nelle cellule cancerose, per es. i miR-17-92, la cui espressione è fortemente stimolata da Myc. Tali molecole possono favorire lo sviluppo del cancro, ostacolando l’espressione di soppressori tumorali e di proteine che stimolano il differenziamento e l’apoptosi. L’opposto farebbero i miRNA sottorappresentati nel cancro, come let-7 o i miR-15a-16-1; questi ultimi sono perduti o poco espressi in moltissimi casi di leucemia linfocitica cronica. Inoltre sembra che l’insieme dei miRNA presenti caratterizzi abbastanza bene i diversi tipi di cancro. I profili di espressione di tutti i miRNA di una cellula sono relativamente facili da ottenere, e vengono sempre più utilizzati per una diagnosi più precisa del cancro.
Le cellule staminali del cancro
Recentemente si è visto che anche nei tumori esistono cellule progenitrici, chiamate cellule staminali cancerose, necessarie per il mantenimento del tessuto tumorale. Sono così chiamate perché presentano caratteristiche simili alle cellule staminali che si trovano in particolari nicchie di vari tessuti adulti sani e che ne assicurano il mantenimento, rimpiazzando le cellule che vanno perse. Esse sono particolarmente importanti nei tessuti in continua rigenerazione come la pelle, l’intestino, il sangue. Le cellule progenitrici si replicano in maniera asimmetrica: generano due cellule, una delle quali rimane staminale mentre l’altra prolifera e si incanala lungo la via differenziativa del tessuto nel quale è localizzata. Anche se la loro costituzione genetica non è ancora stata studiata con chiarezza, le cellule staminali cancerose differiscono dalle cellule staminali dei tessuti normali probabilmente perché hanno mutazioni che contribuiscono alla loro tumorigenicità. Una conseguenza dell’esistenza di questo tipo cellulare è che le cellule all’interno del tumore non sono omogenee, ma costituiscono spesso uno spettro più o meno ampio di cellule a diversi stadi differenziativi e a volte con alterazioni genetiche diverse. Queste popolazioni di cellule all’interno del tumore possono avere una differente sensibilità alla chemioterapia, alla radioterapia e ad altri trattamenti, e ciò rende difficile la loro totale eradicazione. In particolare, le cellule staminali cancerose sono resistenti ai consueti trattamenti chemio- e radioterapici e costituiscono un bersaglio molto importante per nuove terapie e farmaci, perché, se non eliminate, sono in grado di ricostituire il tumore.
Un sistema complesso
La scoperta di una miriade di oncogeni e soppressori tumorali ha rivelato un mondo nascosto alla radice di questa malattia, ma non ne ha risolto il problema. Va chiarito quali siano i geni più importanti nei vari tipi di tumore e il tipo di relazioni esistenti. Oncogeni e oncosoppressori partecipano, con ruoli diversi, ai complessi circuiti che regolano la sopravvivenza, la crescita, il differenziamento e l’integrità del genoma. Gli oncogeni sono i componenti attivi di questi circuiti, mentre gli oncosoppressori esercitano funzioni di controllo sul loro corretto funzionamento. Le mutazioni che producono un’attività inappropriata degli oncogeni o che inattivano le barriere fisiologiche poste in atto dai soppressori tumorali possono perciò dare il via alla tumorigenesi. Molte sono le barriere naturali contro il cancro a disposizione delle cellule: i posti di blocco del ciclo cellulare (blocchi G1/S e G2/M, controllo della corretta duplicazione dei centrosomi nei cromosomi), l’apoptosi, la risposta allo stress cellulare, la risposta al danneggiamento del DNA, il differenziamento.
Tuttavia, un oncogene da solo non è capace di superare tutte queste barriere fisiologiche, né può farlo la sola inattivazione di un soppressore tumorale. Si osserva invece che un tumore maligno è il risultato di un processo sequenziale di alterazioni che colpiscono oncogeni, soppressori tumorali e geni di microRNA. La ricostruzione dei circuiti cellulari nei quali operano oncogeni e soppressori tumorali è perciò diventata un obiettivo primario della ricerca sul cancro.
I geni del cancro e i loro pathway
Le proteine Ras
Le proteine Ras sono coinvolte sia nella tumorigenesi, con mutazioni a loro carico in oltre il 50% dei casi, sia in numerosi disturbi dello sviluppo. Queste proteine collegano input extracellulari a cascate di segnali intracellulari, e sono controllate dai nucleotidi GTP e GDP. Tipicamente, Ras si trova sulla membrana cellulare in uno stato inattivo, nel quale è legata al GDP. In seguito alla stimolazione di recettori tirosinachinasi da parte di fattori di crescita, viene reclutato e attivato tramite l’espulsione del GDP e il legame al GTP, che causa un cambio di conformazione portando la proteina nello stato attivo. Ciò consente efficaci interazioni con un certo numero di molecole effettrici coinvolte in varie cascate di trasduzione del segnale, come la cascata MAP chinasi, innescata dall’interazione tra Ras attiva e Raf. Una lenta attività GTPasi, intrinseca a tutte le proteine RAS, taglia via il γ-fosfato del GTP, portando alla formazione di Ras-GDP, che è inattivo, e alla terminazione del segnale. Nella figura 1 è rappresentata la struttura tridimensionale di Ras: sei foglietti β e cinque α-eliche connessi da una serie di dieci anse. In A è mostrata la struttura della proteina inattiva legata al GDP; in B, la struttura della proteina attiva legata al GTP. GDP e GTP sono rappresentati da un insieme di palline colorate. Le differenze tra le due forme sono principalmente nelle due regioni chiamate switch I (circa 30-40 residui, in rosso) e switch II (circa 60-76 residui, in verde), entrambe le quali sono coinvolte nelle interazioni di Ras con i suoi regolatori e i suoi effettori. Il γ-fosfato del GTP causa un cambiamento significativo nell’orientamento della regione switch II.
Nel cancro si riscontrano mutazioni negli amminoacidi 12, 13 o 61, per effetto delle quali Ras rimane nello stato attivo e stimola continuamente le proteine che sono sotto il suo controllo. Le mutazioni riscontrate nei tumori indeboliscono l’attività GTPasi di Ras: la conseguenza è che Ras rimane legata al GTP, e quindi attiva, per tempi eccessivamente lunghi. Nonostante grandi sforzi volti a capire i meccanismi molecolari e cellulari dell’azione delle proteine Ras, la complessità delle cascate di segnalazioni da esse regolate indica che c’è ancora molto da imparare. Per es., le proteine KRas e NRas hanno una struttura e una funzione molto simili, ma, mentre mutazioni in KRas si trovano in circa il 50% dei casi di cancro al colon umani, solo il 5% avvengono a carico di NRas. Ciò sembra dovuto non solo al loro diverso quadro di espressione, ma anche a differenze funzionali nelle due proteine, forse collegate alla migliore capacità di KRas di segnalare attraverso Raf.
Le proteine Myc
Le proteine Myc sono fattori di trascrizione la cui attività è alterata in circa il 70% di tutti i tumori. Le Myc più frequentemente sregolate sono, nell’ordine, c-Myc e N-Myc. Oltre a essere coinvolta in varie altre funzioni, Myc è in grado di inibire il differenziamento e di promuovere la crescita delle cellule: una combinazione di funzioni piuttosto potente che, se sregolata, può dare un contributo fondamentale all’insorgenza del cancro. Tuttavia, il meccanismo molecolare con il quale opera Myc è ancora sfuggente. Nella figura 2 sono riportati due modelli di tumorigenesi indotta da Myc: il modello gene-specifico e quello globale. Secondo il modello classico (gene-specifico), Myc opera alterando l’espressione di specifici geni bersaglio. È noto che, nel nucleo delle cellule, Myc si associa a un partner chiamato Max, interagendo con la proteina TRRAP. I complessi Myc-Max legano specifiche sequenze di DNA, le E-box, in prossimità di specifici geni bersaglio, di cui stimolano la trascrizione. I prodotti di tali geni medierebbero gli effetti di Myc sul funzionamento della cellula. Il problema è la sovrabbondanza di bersagli: i geni regolabili da Myc sono numerosissimi, ammontando al 10-15% di tutti i geni della cellula. Così, trovare pochi geni chiave responsabili della funzione tumorigenica di Myc è più difficile che trovare un ago nel classico pagliaio.
Oltre ai geni attivati da Myc, ne esistono svariati altri la cui espressione è repressa da Myc, per es. i geni che inibiscono la proliferazione cellulare. Un’ipotesi alternativa, ma non necessariamente in contraddizione con l’altra, è nata dall’osservazione che Myc influenza alcune modificazioni istoniche. Myc incrementa l’acetilazione della lisina 9 e la metilazione della lisina 4 dell’istone 3, come anche l’acetilazione di vari residui dell’istone 4. Tutte queste modificazioni, caratteristiche della cromatina attiva, favoriscono l’attivazione dei geni. La mancanza di Myc, invece, facilita la metilazione della lisina 9 dell’istone 3, che reprime l’espressione dei geni. È noto che le modificazioni degli istoni rappresentano una sorta di codice che influenza fortemente il fatto che un gene sia espresso oppure no. Gli effetti di Myc sul codice istonico potrebbero essere sia diretti, tramite l’interazione di Myc con proteine in grado di modificare gli istoni, sia causati da specifici geni bersaglio di Myc, per es. il gene dell’acetilasi istonica Gcn5. È possibile che Myc regoli la struttura della cromatina e quindi l’espressione genica in maniera molto vasta. Inoltre, si ipotizza che sia richiesto per mantenere in attività molteplici domini nel genoma. Poiché il numero di molecole di Myc presenti in cellule sane è piccolo, si pensa che ogni complesso Myc-Max sia in grado di influenzare domini genomici sorprendentemente grandi (modello globale).
Si è osservato che variazioni nella quantità di Myc, anche solo di due volte, hanno grandi effetti sul comportamento delle cellule. L’alto livello di molecole Myc presenti nei tumori può efficacemente bloccare varie porzioni del genoma in uno stato anormalmente attivo, che sarebbe molto resistente a una modulazione, rendendo incontrollabili pathway cellulari importanti per la trasformazione neoplastica.
Recentemente è stato messo in evidenza un ruolo cruciale di Myc nel mantenimento dei pool delle normali cellule staminali e nel loro differenziamento. Si pensa che, nella progressione tumorale, Myc favorisca la formazione di cellule iniziatrici del cancro che mantengono una certa plasticità di sviluppo, ma che differiscono dalle normali cellule staminali del tessuto dal quale deriva il tumore.
Le proteine Wnt
Mutazioni che alterano questo pathway sono frequenti nel cancro colorettale. La proteina Apc, per la sua capacità di tenere a freno la β-catenina, agisce da soppressore tumorale: entrambe le copie del gene Apc vengono di solito inattivate nel corso dello sviluppo del cancro al colon. Una mutazione in una delle due copie del gene Apc è all’origine della poliposi familiare del colon; la β-catenina, invece, ha le proprietà di un oncogene. Nella figura 3 è schematizzato il legame di Wnt ai suoi recettori, frizzled (Fz), Lrp5 e Lrp6, che causa l’invio di un segnale a un complesso proteico comprendente β-catenina, Apc, axina e le due chinasi Gsk3β e Ck1. In assenza di segnale, la β-catenina viene degradata. Il segnale provocato da Wnt, invece, ne impedisce la degradazione. La fosforilazione (P) della tirosina 142 della β-catenina le permette di interagire con Bcl9-2 e di migrare nel nucleo, dove il complesso β-catenina-Bcl9-2 lega i fattori di trascrizione Lef e Tcf, causando così l’espressione di geni bersaglio, tra i quali Myc. La β-catenina è anche implicata nell’adesione e nella motilità delle cellule, attraverso la sua interazione con la caderina-E. La fosforilazione della tirosina Y654 della β-catenina causa la dissociazione del complesso tra caderina-E e β-catenina: ciò determina una perdita dell’adesione cellula-cellula e un’aumentata mobilità cellulare. Questo aspetto può essere importante per la capacità delle cellule cancerose di mobilizzarsi e formare metastasi.
Il recettore Notch
Notch è un recettore di membrana che viene legato da altre proteine presenti sulla membrana di una cellula adiacente, per es. Delta. In seguito al legame con uno di questi ligandi, il recettore Notch viene tagliato in due parti. La parte citoplasmica migra nel nucleo, dove causa l’attivazione di vari geni. L’interazione tra i recettori Notch (Notch 1-4) e i loro ligandi (Delta 1, 3, 4 e Jagged 1, 2) influenza molti processi di sviluppo, sia nell’embrione sia dopo la nascita. Principalmente, Notch è coinvolto nel mantenimento delle cellule staminali, nelle decisioni binarie sul destino cellulare e nell’induzione del differenziamento. Riguardo al cancro, Notch è bifronte: ha una faccia che stimola e l’altra che sopprime la tumorigenesi. Quale delle due venga mostrata dipende dal contesto cellulare e dalle interazioni con altre vie di trasduzione del segnale attive nella cellula. Per es., l’espressione aberrante del dominio citoplasmico di Notch in cellule del sangue, provocata da traslocazioni cromosomiche o dall’integrazione di virus, causa leucemie dei linfociti T. Per provocare il cancro, Notch deve cooperare con oncoproteine che siano in grado di superare il posto di blocco G1-S del ciclo cellulare. Ma Notch1 può anche funzionare da soppressore tumorale nella pelle del topo, inibendo la segnalazione attraverso i pathway sonic-hedgehog (Shh) e Wnt. Nella figura 4 sono schematizzati i vari strati di cellule in via di differenziamento nell’epidermide, e alcune delle proteine presenti. Dopo che sono stati ricevuti i segnali del differenziamento, Notch1 provoca l’espressione dell’involucrina, della cheratina-1 (K1) e dell’inibitore del ciclo cellulare Waf1 (p21), e al tempo stesso ostacola l’espressione di filaggrina e di loricrina fin quando la cellula non si trova in stadi successivi del differenziamento. Nell’epidermide, sia la segnalazione Wnt, mediata da β-catenina, sia la segnalazione di Shh, mediata da Gli2, sono normalmente represse da Notch1. Se Notch1 non c’è oppure non funziona, la riattivazione dei due pathway di Wnt e Shh finisce per causare lo sviluppo di tumori simili al carcinoma delle cellule basali.
La proteina Rb
La proteina retinoblastoma, Rb, è un importante soppressore tumorale la cui funzione è inattivata, direttamente o indirettamente, in quasi tutti i tipi di cancro umano. È ancora dibattuto, però, quale sia l’identità delle cellule nelle quali Rb impedisce l’instaurarsi del tumore e quale, tra le sue numerose funzioni, sia la più importante per la soppressione tumorale. Risulta ora sempre più chiaro che gli effetti di una lesione di Rb non sono sempre gli stessi, ma possono variare notevolmente sia da un tipo cellulare all’altro, cellula staminale, progenitore o cellula differenziata, sia a seconda del tessuto. In particolari contesti, la presenza di Rb potrebbe persino essere benefica per la progressione tumorale in stadi precoci. Rb influenza la risposta agli agenti terapeutici, per cui la presenza o assenza di questo soppressore tumorale può essere un’informazione preziosa per indirizzare le cure mediche.
Rb, che può legarsi a oltre 100 proteine e reprimere direttamente la trascrizione di circa 200 geni, ha un ruolo importante nell’arresto del ciclo cellulare, nella stabilità genomica, nell’apoptosi e nel differenziamento. La sua funzione di regolatore della progressione del ciclo cellulare, che si ritiene cruciale per prevenire l’insorgenza di tumori, è quella meglio studiata. Rb può rispondere a una miriade di segnali antimitogenici. È il guardiano del posto di blocco G1-S del ciclo cellulare che impedisce un ingresso non programmato delle cellule nella fase mitotica. Ciò avviene principalmente attraverso la repressione della trascrizione di numerosi geni necessari alla replicazione del DNA e alla mitosi. La prosecuzione del ciclo cellulare è possibile solo contrastando l’azione di Rb; ciò avviene per effetto di vari segnali, per es. i fattori di crescita che provocano l’attivazione dei complessi tra le cicline e le chinasi ciclina-dipendenti (CDK, Cyclin-Dependent Kinase), i quali, a loro volta, modificano Rb fosforilandolo in numerosi punti. Una volta fosforilato, Rb è inefficace come repressore e lascia libero il fattore E2f di trascrivere i geni necessari alla replicazione del DNA e alla mitosi. Una volta inattivato, Rb rimane nello stato inattivo, fosforilato, fino alla conclusione della mitosi, quando i gruppi fosfato vengono rimossi dall’azione di una fosfatasi e Rb riprende la sua attività di guardiano per un successivo ciclo cellulare. Rb può anche essere chiamato in causa in risposta a stress cellulari, allo scopo di indurre l’arresto del ciclo cellulare e proteggere così le cellule.
L’analisi dei tumori umani ha mostrato che la funzione di Rb può essere sconvolta agendo o direttamente su Rb o sui componenti del pathway Rb come i complessi cicline/CDK e i loro inibitori. In un sottoinsieme di tumori, per es., si osserva l’iperespressione delle cicline di tipo D. Un effetto simile può essere anche provocato dall’inattivazione del soppressore tumorale p16 (CDKN2A), il cui gene viene perduto o silenziato in un gran numero di tumori umani; p16 è un inibitore dei complessi cicline/CDK, per cui la sua perdita provoca un’iperattività di tali complessi e di conseguenza la fosforilazione e l’inattivazione di Rb. Inoltre p16 è parte del programma di senescenza cellulare che limita un’inappropriata proliferazione e la tumorigenesi. In alcuni tumori si osservano mutazioni della CDK4 che bypassano l’azione di p16. Nei retinoblastomi e nel cancro al polmone a piccole cellule, invece, lo sconvolgimento dell’azione di Rb avviene prevalentemente a causa della perdita o della mutazione del relativo gene. Si osserva inoltre la delezione di Rb, anche se meno frequentemente, in altri tumori, quali il cancro al seno, alla vescica e alla prostata. Infine, Rb è il bersaglio delle oncoproteine E7 del virus papilloma umano che sono coinvolte nell’eziologia del cancro all’utero. Così, lo sconvolgimento di almeno uno dei componenti il triumvirato Rb-p16-ciclina D sembra essere cruciale per la formazione e la progressione di moltissimi tumori.
Il gene p53
Il gene oncosoppressore p53 è uno dei più frequentemente mutati nel cancro: circa il 50% di tutti i tumori nell’uomo hanno perduto il gene o producono un proteina mutante, inattiva. La proteina p53 è un fattore di trascrizione che funge da centro di controllo della risposta agli stress cellulari. In condizioni normali è inattiva, poiché viene continuamente e rapidamente degradata a opera dell’oncoproteina Mdm2. In seguito a qualsivoglia stress cellulare, però, la degradazione di p53 operata da Mdm2 si ferma. In tal modo, p53 può accumularsi e attivare la trascrizione di numerosi geni, tra i quali ci sono vari inibitori del ciclo cellulare e proteine proapoptotiche. Ciò mette in opera due diversi meccanismi di difesa: l’apoptosi oppure un blocco irreversibile della proliferazione, chiamato anche senescenza. Gli stress cellulari più importanti nel corso della trasformazione maligna sono il danno al DNA e un’abnorme segnalazione oncogenica.
La proteina p53 rileva il danno al DNA attraverso pathway multipli ai quali partecipano svariate chinasi (Atm, Chk, p38, Jnk, Abl) e reagisce provocando la morte per apoptosi delle cellule danneggiate. Vista la ridondanza di chinasi, l’alterazione di una sola di esse non ha un grande impatto sulla funzione di p53. Fa eccezione Atm, che sembra avere un ruolo particolare nei tumori emopoietici. La proteina p53 sente invece i segnali oncogenici attraverso Arf, la cui espressione è stimolata da tali segnali. Arf interagisce con Mdm2, impedendogli di degradare p53. L’asse Arf/Mdm2/p53 è particolarmente importante per la soppressione tumorale.
Si può dire che essenzialmente ogni tumore solido manchi di una normale risposta p53; in circa la metà dei casi ciò è dovuto ad alterazioni nella p53 stessa, mentre nell’altra metà si verificano alterazioni nei regolatori di p53. Tra le alterazioni che non colpiscono direttamente p53, le più frequenti sono il silenziamento di Arf e l’iperespressione di Mdm2. Dati molto recenti indicano che la funzione di p53, cruciale per la soppressione tumorale, è quella della risposta a segnali oncogenici, mediata da Arf, piuttosto che quella della protezione del danno al DNA. Una possibile spiegazione è che il danno al DNA, oltre a provocare l’apoptosi mediata da p53, stimola anche altre forme di morte, alcune delle quali, come la catastrofe mitotica, sono persino favorite in assenza di p53. Perciò l’attivazione di p53 in risposta al danno al DNA non è indispensabile per la protezione contro il cancro perché la gran parte delle cellule danneggiate sarebbe eliminata ugualmente, con o senza p53. Invece, p53 è assolutamente necessaria per impedire la crescita di cellule soggette a un’abnorme segnalazione oncogenica, e solo cellule nelle quali p53 non funziona possono continuare a crescere in queste condizioni e permettere lo sviluppo del tumore. Tuttavia, molti studi sul ruolo di Arf nella segnalazione oncogenica sono stati condotti in topi, e resta da chiarire se Arf è così importante per l’attivazione di p53 in risposta alla segnalazione oncogenica in cellule umane. Inoltre l’inattivazione di Arf è quasi sempre accompagnata dall’inattivazione di p16, per cui è difficile chiarire quale dei due fornisca il contributo più importante.
La dipendenza da oncogeni: un tallone di Achille del cancro?
Le cellule cancerose contengono molteplici anomalie genetiche ed epigenetiche. Nonostante questa complessità, spesso la loro crescita e la loro sopravvivenza sembrano dipendere in maniera critica dall’attività di un singolo oncogene, e quindi possono essere messe in crisi se esso viene inattivato. Questo fenomeno, chiamato dipendenza da oncogeni, fornisce una base razionale per una terapia mirata a livello molecolare: è possibile che l’inattivazione mirata di oncogeni possa essere un trattamento specifico e valido contro il cancro. L’efficacia di tale strategia richiede nuovi metodi, comprendenti genomica integrativa e biologia dei sistemi, per identificare lo stato della dipendenza da oncogeni in specifici tumori e per capire perché l’inattivazione di un particolare oncogene causa la regressione di un certo cancro. Può anche essere necessaria una terapia combinata per impedire al cancro di sfuggire a un dato stato di dipendenza oncogenica.
L’identificazione dei pathway coinvolti nell’inizio e nella progressione dei tumori è estremamente utile per la diagnosi e la prevenzione, e sta permettendo lo sviluppo di nuovi farmaci che colpiscano le cellule cancerose molto più efficacemente delle cellule sane. Per es., l’acido retinoico, una forma di vitamina A, viene impiegato con successo per trattare molti casi di leucemia promielocitica acuta, caratterizzati dalla presenza della proteina ibrida Pml-Rarα (recettore dell’acido retinoico α). L’acido retinoico ripristina, almeno in parte, la normale funzione del fattore di trascrizione Rarα e causa il differenziamento delle cellule tumorali. È un esempio di terapia differenziativa. Si pensa anche allo sviluppo di farmaci che abbiano bersagli multipli. La scoperta del coinvolgimento dei microRNA nel cancro umano potrà fornire ulteriori strumenti per la prevenzione e la terapia, in quanto questi piccolissimi RNA si prestano a un utilizzo terapeutico. Sono inoltre in fase di sperimentazione molecole, per es. inibitori delle istone deacetilasi, dirette a contrastare le modificazioni epigenetiche che si riscontrano nei tumori.
Il fenomeno della dipendenza da oncogeni offre l’opportunità di una terapia mirata a singoli geni. Si sono compiuti notevoli progressi nella produzione di anticorpi diretti contro alcuni fattori di crescita e i loro recettori e di piccole molecole in grado di inibire le attività enzimatiche di oncogeni, prendendo di mira principalmente i domini tirosinachinasi. È stato invece molto più difficile sviluppare nuovi agenti terapeutici nei casi in cui i prodotti degli oncogeni non siano enzimi. Molta attenzione viene rivolta a colpire i passi iniziali nello sviluppo del cancro, considerati bersagli prioritari. Una prova della validità di questo concetto è stata data dallo sviluppo di un farmaco in grado di inibire l’accresciuta attività della tirosinachinasi Abl, provocata dalla fusione Bcr-Abl, l’evento iniziale della leucemia mieloide cronica. Attraverso lo screening di librerie di composti chimici è stato trovato un composto capace di inibire la chinasi Abl: l’imatinib, commercializzato come Gleevec® negli Stati Uniti e Glivec® in Europa. Tutte le cellule leucemiche portano la fusione Bcr-Abl, e l’imatinib si è dimostrato in grado di indurre una completa remissione della malattia in molti pazienti. Tuttavia, in una frazione dei soggetti trattati con il farmaco si osserva una recidiva, dovuta all’insorgenza di nuove mutazioni nella proteina Abl, che rendono la proteina resistente al farmaco. In realtà l’imatinib non è del tutto specifico per il dominio chinasico di Abl, essendo in grado di inibire anche le tirosinachinasi dei recettori Kit e PDGFR (recettore del PDGF). Per questo motivo l’imatinib ha dimostrato una certa efficacia anche nel trattamento del tumore stromale del tratto gastrointestinale, un tumore raro che spesso è caratterizzato da un’attività anomala di Kit, della leucemia linfoblastica acuta e di sindromi mielodisplastiche, nelle quali si osservano alterazioni nel PDGFR.
Sono state sviluppate due classi di agenti attivi contro il recettore dell’EGF: un anticorpo monoclonale che lega il dominio extracellulare del recettore, ossia il cetuximab, e alcuni inibitori della sua attività tirosinachinasi, come l’erlotinib e il gefitinib. Molti sforzi sono stati rivolti a inibire l’angiogenesi tumorale, stimolata dal VEGF in numerosi tessuti. È stato sviluppato un anticorpo monoclonale umanizzato contro il VEGF, il bevacizumab, e alcune piccole molecole in grado di legare i recettori VEGFR1 e VEGFR2, e che in realtà legano anche Kit e PDGFR. Il bevacizumab, commercializzato con il nome di Avastin®, è usato contro vari tumori, tra i quali il carcinoma del colon e del retto e il carcinoma renale.
Un approccio terapeutico diverso è quello di cercare di ricostituire la funzione di un soppressore tumorale, perduta nelle cellule cancerose. L’interesse si è rivolto principalmente a p53, e in particolare all’asse Arf-Mdm2-p53. Nei tumori che presentano mutazioni in Arf o in Mdm2, p53 è ancora presente, anche se non in grado di funzionare perché instabile. Tali tumori potrebbero essere suscettibili a farmaci in grado di riattivare p53. Sono state trovate piccole molecole come nutlin e RITA in grado di indebolire il legame di Mdm2 a p53 e, così, di stabilizzare p53.
Un atlante stradale del cancro
Per lo sviluppo di nuove terapie mirate occorre capire quali vie di segnalazione non sono più regolate nei vari tipi di tumore. Attualmente questo è possibile grazie alle nuove tecnologie e alla biologia sistemica. Uno sforzo in questa direzione è stato recentemente compiuto per il glioblastoma, il tumore cerebrale più frequente e più aggressivo, dalla rete di ricerca TCGA (The Cancer Genome Atlas). È stato prodotto un insieme molto completo di dati sui geni più comunemente mutati e sulle vie di segnalazione sregolate nel glioblastoma. Era già noto da studi precedenti il contributo allo sviluppo del neuroblastoma di mutazioni in grado di attivare le tirosinechinasi recettoriali (receptor tyrosine kinase, RTK) e il pathway PI(3)K (PhosphatidylInositol-3-OH Kinase), come anche il ruolo di alterazioni nei soppressori tumorali Rb e p53. L’analisi sistematica di 206 glioblastomi ha rivelato numerose mutazioni in p53, in EGFR ed Erbb2, due recettori dell’EGF, e nelle due subunità, catalitica e regolativa, della PI(3)K. Inoltre, nel 23% dei tumori sono state trovate mutazioni che inattivano NF1, una proteina della classe GAP, che ostacola l’attività delle proteine Ras. Nel complesso, alterazioni nel pathway RTK-Ras-PI(3)K sono presenti nell’88% dei glioblastomi. Il pathway Arf/p53/Mdm2 è risultato alterato nell’87% dei casi, a causa di mutazioni in p53, perdita del soppressore tumorale Arf e amplificazioni nelle oncoproteine Mdm2 e Mdm4. Il pathway Rb, invece, è sregolato nel 78% dei tumori, principalmente in conseguenza di delezioni di un segmento del genoma comprendente i soppressori tumorali p16 (CDKN2A), ARF e p15 (CDKN2B), e dell’amplificazione del gene CDK4. Risulta chiaro che la grande complessità delle mutazioni genetiche e delle alterazioni tendono a concentrarsi in poche e cruciali vie di segnalazione, evidenziando la loro importanza nella formazione dei tumori. Uno studio di un team della Harvard medical school guidato da Ronald A. DePinho (Zheng, Ying, Yan et al. 2008) ha anche mostrato che l’inattivazione concomitante dei due soppressori tumorali p53 e Pten è in grado di promuovere lo sviluppo del glioblastoma, a partire da cellule progenitrici, stimolando fortemente la proliferazione delle cellule e impedendone il differenziamento. L’incapacità di differenziare è correlata all’attività dei fattori di trascrizione E2f e Myc. L’inattivazione di Myc ripristinava la loro capacità di differenziare.
Queste conoscenze permetteranno di esplorare e chiarire in dettaglio i meccanismi che causano la sregolazione dei pathway e, di conseguenza, di fornire una base razionale per terapie efficaci.
Un’efficace strategia
Molti studi sull’inattivazione di un singolo oncogene sono stati condotti prendendo a bersaglio Myc, in sistemi modello murini. In vari tipi di tumori precedentemente indotti dall’attivazione di Myc, lo spegnimento dell’oncogene causa la completa regressione del tumore, dovuta al differenziamento e all’apoptosi delle cellule tumorali. Ma cosa succede nei tumori che non sono stati iniziati da Myc? Risultati stupefacenti sono stati ottenuti nei topi che servono da modello del cancro al polmone nell’uomo: infatti in questi animali il tumore inizia in conseguenza di alterazioni geniche nell’oncogene Ras. Inibendo Myc nei primi stadi di formazione del cancro, questo non si sviluppa più ma, addirittura, se Myc viene inibito in topi che avevano precedentemente sviluppato il cancro al polmone anche in stadio avanzato, i tumori regrediscono rapidamente fino a scomparire del tutto.
Potrà essere questo un approccio di successo per il trattamento delle neoplasie umane? In realtà, nonostante il suo ruolo da protagonista nei processi che portano al cancro, Myc non è mai stato preso troppo sul serio come bersaglio terapeutico. Il motivo è che, vista la sua importanza nel mantenimento delle cellule staminali adulte e nella rigenerazione di vari tessuti quali la pelle e il midollo, si pensava che la sua inibizione avesse effetti devastanti anche sui tessuti sani. Questa filosofia viene contraddetta da studi recentissimi, nei quali sono stati esaminati gli effetti dell’inibizione di questo oncogene in tessuti sani, che mostrano come essa possa invece rappresentare una terapia efficace e sicura per molti tipi di cancro. Sebbene l’inibizione di Myc in animali sani rallenti la proliferazione di tessuti in rapida divisione come la pelle e i villi intestinali, i topi continuano a godere di buona salute e, cosa ancora più importante, le anomalie spariscono rapidamente se si ripristina Myc. Tutto ciò dimostra che gli effetti collaterali dell’inibizione di Myc, pur se risultano rilevanti, sono ben tollerati e reversibili in maniera rapida.
Si vedrà presto se queste ricerche segneranno una nuova alba per le terapie che abbiano Myc come bersaglio; è certo però che nuovi farmaci che prendono di mira la funzione di Myc o di altri singoli oncogeni possono costituire un’efficace strategia anticancro.
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