Oncologia
Il termine 'cancro' trova origine nella parola greca karkínos, granchio, e con esso si identificano molteplici malattie che colpiscono tanto gli animali quanto gli uomini, tutte accomunate dalla caratteristica di una crescita incontrollata di cellule anormali dell'organismo. È probabile che il cancro abbia colpito gli animali molto prima della comparsa dell'uomo sulla terra. Pochi animali, allo stato brado, sopravvivono sino a età avanzate e poiché il cancro sia negli animali sia nell'uomo si manifesta in età adulta, esso è raramente riscontrato in animali allo stato libero mentre è una malattia comune in animali domestici in età avanzata.
La morte prematura e la possibilità di prendere in esame soltanto (ossa) fossili limitano le indagini sul cancro negli animali preistorici: la letteratura riporta due tumori ossei riscontrati in dinosauri cretacei e un sarcoma osseo in un orso delle caverne del Pleistocene. Si ha menzione del cancro nell'uomo tra le mummie egizie di circa 5000 anni fa: casi documentati riguardano tre osteosarcomi e tre carcinomi nasofaringei. Anche nelle mummie degli Incas precolombiani del Perù risalenti a circa 2400 anni fa sono stati evidenziati osteosarcomi e melanomi maligni disseminati alle ossa, dove la lesione metastatica osteolitica era chiaramente visibile ai raggi X del cranio.
La storia degli studi sul cancro (oncologia) può essere suddivisa in differenti fasi. Nel primo periodo, che va dal 500 a.C. al 500 d.C., si affermarono i concetti espressi da Ippocrate e Galeno. Il cancro era descritto, determinato e ne era accertata la prognosi grave: un eccesso di bile nera, uno dei quattro umori liquidi del corpo, era considerata la causa dell'insorgenza della malattia. Era raccomandato il trattamento del cancro solo in stato molto superficiale, di contro, in caso di malattia avanzata si reputava più opportuno non intervenire. Trattamenti elitari erano le escissioni chirurgiche e il cauterio.
Seguì un secondo periodo di circa mille anni, definito 'periodo di riposo scientifico', nel corso del quale furono delineati diversi tipi di cancro; i tumori accessibili erano ancora trattati con bisturi e cauterio ma la teoria umorale, quale causa per l'insorgenza del cancro, rimaneva ancora la più accettata. Eppure molti scrittori e medici offrirono interessanti contributi. La medicina islamica riconsiderò il problema 'cancro', ma riconfermò la teoria umorale benché Ibn Sīnā (Avicenna) e Abū 'l-Qāsim (Abulcasis) avessero introdotto il concetto di 'diagnosi precoce' e il trattamento, sempre con chirurgia e cauteri, come unica via di cura. Una importante rinascita del sapere medico si deve alla Scuola di Salerno. Tra i suoi seguaci, Teodorico Borgognoni (1205-1296), che dedicò tre capitoli della sua Chirurgia al trattamento del cancro, raccomandando una chirurgia radicale e accurata ma che utilizzasse sublimato di arsenico in tumori avanzati e/o ulcerati. A John of Arderne, primo grande chirurgo inglese, va riconosciuta l'identificazione delle caratteristiche del cancro rettale mentre il francese Guy de Chauliac, medico alla corte papale di Avignone, affiancò alla chirurgia una dieta molto rigida come aiuto a un miglior controllo della crescita del cancro.
Con il XVI sec. si aprì una nuova era per la storia occidentale e della medicina. Nel 1543 furono pubblicati due libri miliari per lo sviluppo scientifico, il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico, che rivoluzionò la visione dell'uomo nell'Universo, e il De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, che tracciò i fondamenti della struttura anatomica del corpo umano. L'anno precedente a Firenze, Antonio Beniverni aveva effettuato le prime autopsie meritando il riconoscimento di pioniere dell'anatomia patologica, disciplina che ebbe la sua piena espressione due secoli più tardi con Marcello Malpighi. La scoperta della circolazione sanguigna con William Harvey e linfatica con Gaspare Aselli permisero passi avanti fondamentali per un approccio più scientifico alle malattie, compreso il cancro, ora considerato come la risultanza di anomalie nella circolazione linfatica. Ambroise Paré rivoluzionò la chirurgia e John Hunther nel XVIII sec. la elevò a scienza. Ci furono miglioramenti nella diagnosi e nel trattamento del cancro e i fattori ambientali cominciarono a essere considerati come cause possibili di malattia.
Il quarto periodo è legato alle scoperte della biologia molecolare nei primi anni Cinquanta del XX sec. con le nuove acquisizioni sulla struttura del DNA, seguita dall'identificazione della traduzione del messaggio del DNA attraverso le molecole di RNA in nuove proteine che regolavano la morfogenesi e tutte le funzioni del corpo umano.
La carcinogenesi (le mutazioni di una cellula sana che si trasforma in una cancerogena) è un processo complesso e multifasico. Tuttavia, a livello di biologia cellulare, il cancro può includere un numero relativamente piccolo di malattie causate da imperfezioni simili (benché esistano differenze seppure impercettibili) a livello molecolare. Esso rappresenta la principale causa di morte nel mondo occidentale: ogni anno in Europa e negli Stati Uniti più di 500.000 pazienti muoiono a causa di questa malattia. Tale cifra è diminuita per la prima volta nello scorso decennio, soprattutto grazie agli studi epidemiologici che, indicando una correlazione tra tabacco e cancro polmonare, hanno portato all'introduzione di programmi per il controllo del tabagismo atti a ridurre il tumore polmonare.
L'epidemiologia ‒ che studia le variazioni di frequenza di malattia tra i gruppi di una popolazione e i fattori che influenzano tali variazioni ‒ ha fornito un'ampia serie di dati correlati al cancro ed è stata fondamentale per dimostrare come il tumore, in molti casi, possa essere messo in relazione con cause ambientali e comportamentali. Nel XVII sec., Bernardino Ramazzini ‒ medico del lavoro ‒ fece osservare che il tumore della mammella era più frequente tra le suore rispetto al resto della popolazione femminile e suggerì che esso fosse imputabile al celibato. Un secolo dopo, il chirurgo britannico Percivall Pott stilò la prima descrizione di carcinogenesi rapportata allo stato professionale ‒ il tumore scrotale risultò essere molto frequente tra gli spazzacamini ‒ e fu ancora il primo a mettere in evidenza il lungo periodo di latenza nella carcinogenesi umana; alcuni pazienti affetti da tumore scrotale, infatti, avevano lavorato come spazzacamini in età adolescenziale. Tali scoperte dimostrarono che alcune cause potevano essere individuate (prevenendo in questo modo lo sviluppo della malattia) molto prima che fossero chiariti agenti specifici e meccanismi.
Il primo studio epidemiologico moderno sul cancro è forse databile al 1842, quando, a Verona, Domenico Antonio Rigoni-Stern quantificò il rischio di tumore all'utero tra le suore e la restante popolazione femminile e dimostrò che questa malattia era presente in maniera meno importante nel primo gruppo. All'incirca nello stesso periodo, il fumo da pipa fu per la prima volta correlato al cancro del labbro. Lungo tutto il XIX sec., il tumore legato al consumo di tabacco era raro e la sua incidenza aumentò drammaticamente nel XX sec. parallelamente al diffuso consumo di sigarette, dapprima tra gli uomini e più tardi tra le donne.
L'incidenza del cancro si diversifica ampiamente nelle differenti parti del mondo, rispecchiando le variabili ambientali e comportamentali delle varie aree. L'aflatossina prodotta dalla muffa Aspergillus flavus è un potente cancerogeno del fegato e un presunto agente cancerogeno eziologico in alcuni paesi, tra cui la Cina e il Kenya dove si registra un alto tasso endemico di cancro epatico. In tali aree, inoltre, questo tipo di patologia è strettamente associabile alle infezioni da virus dell'epatite B (HBV, Hepatitis B virus) che sembra essere un cocancerogeno insieme all'aflatossina. I programmi di vaccinazione su larga scala contro l'HBV hanno evidenziato una importante riduzione nell'incidenza del cancro epatico in alcuni paesi asiatici. Restano ancora oscure molte correlazioni tra ambiente, agenti cancerogeni e cancro: Ugandesi, Nigeriani e neri del Sudafrica sono a basso rischio per lo sviluppo di tumore della laringe, polmone, stomaco, colon, retto, reni e cervello ma ad alto rischio per il carcinoma epatocellulare. I Giapponesi registrano un numero inferiore di casi di melanoma maligno, linfoma di Hodgkin e tumori della prostata, del corpo dell'utero, ovaio e mammella ma sono ad alto rischio per il tumore dello stomaco. Quest'ultimo riveste un particolare interesse poiché il tasso di mortalità per cancro dello stomaco è diminuito in tutte le aree geografiche ma resta più elevato nell'Europa orientale e nell'Asia orientale rispetto alle altre zone. L'andamento del tumore dello stomaco riflette molto verosimilmente i progressi nel trattamento e nella preservazione dei cibi, ossia la diminuzione di metodi tossici per la conservazione dei cibi (affumicatura e salamoia), un uso più frequente della refrigerazione, la diminuzione nel consumo di sale e l'utilizzazione generalizzata di antibiotici che possono avere ridotto l'impatto clinico di patogeni (quali Helicobacter pylori), probabilmente collegati al tumore dello stomaco. La diminuzione nel tasso di mortalità per cancro dell'utero osservata nel mondo occidentale, può similmente essere associata al controllo dell'infezione da HPV (Human papilloma virus) e agli screening per le lesioni iniziali dell'utero.
La composizione genetica di una determinata popolazione inoltre può dare indicazioni sulla predisposizione a sviluppare il tumore, ma tra le cause di insorgenza di patologie tumorali nell'uomo, il quadro genetico non sembra avere un ruolo determinante. L'origine ambientale più che genetica del cancro nell'uomo è dimostrata dai tassi di incidenza per tumore rilevati nelle popolazioni che emigrano da una condizione ambientale a una differente. Nei bambini di Giapponesi che emigrarono negli Stati Uniti, per esempio, si riscontrano tassi di incidenza che si avvicinano a quelli della popolazione americana piuttosto che a quelli della popolazione giapponese là residente.
Studi epidemiologici e di carcinogenesi hanno fornito una vastissima serie di agenti correlati al cancro tra cui vanno annoverati i prodotti chimici, le sostanze inquinanti, i farmaci, le radiazioni e i virus. In ultima analisi, tutti questi agenti con l'attivazione di diversi meccanismi (insulti diretti al DNA, un'anormale trascrizione genetica, ecc.) possono essere causa di insorgenza del cancro la cui risposta, in tutti i casi, consiste in una irregolare espressione genetica.
Gli strumenti tecnologici di cui oggi disponiamo, in grado di effettuare analisi complesse sulla biologia molecolare delle cellule, hanno permesso negli scorsi decenni di arricchire e completare il bagaglio di conoscenze sugli aspetti biologici delle cellule cancerogene. Tali acquisizioni hanno ulteriormente sottolineato la nozione fondamentale che il cancro dipende da variazioni nel genoma cellulare; queste mutazioni riguardano sia i geni oncogeni (che acquistano funzione dominante) sia i geni soppressori (che perdono la loro funzione) e danno origine a cellule con anomalie nei circuiti regolatori che controllano la proliferazione cellulare e l'omeostasi.
Studi in vitro e in vivo hanno indicato che il cancro è un processo multifasico in cui i vari stadi sono dettati da alterazioni nel genoma responsabili della trasformazione di una cellula sana in una derivata di origine maligna. Questo principio viene anche comprovato da studi epidemiologici che suggeriscono l'implicazione nella maggior parte dei tumori (dove incidenza ed età sono in stretta dipendenza) di eventi stocastici con un tasso limite compreso fra 4 e 7, così come da studi di patologia i quali dimostrano che le lesioni sono da considerarsi come la fase intermedia nel processo che porta le cellule sane ad assumere un comportamento maligno e invasivo. Questo quadro è stato ulteriormente validato dalla scoperta che le cellule in coltura, prima di acquisire complete capacità oncogeniche, vanno incontro a una cancerogenesi multifasica che include mutazioni multiple su più sequenze geniche. Tale insieme di dati suggerisce che il cancro nel suo processo di sviluppo può essere assimilabile all'evoluzione darwiniana secondo cui una serie di mutazioni genetiche, che ne avvantaggiano la crescita, inducono progressive aberrazioni comportamentali con stigmate di malignità sempre più evidenti.
Obiettivo successivo della ricerca sulle cellule cancerogene sarà l'individuazione degli esatti dettami che regolano la trasformazione di cellule umane sane in maligne e la traduzione di queste informazioni in trattamenti su misura per massimizzare le acquisizioni cliniche e ridurre gli effetti collaterali per ogni singolo paziente. Attualmente questo ambizioso traguardo sembra possibile poiché sono state identificate almeno sei peculiarità molecolari, biochimiche e cellulari che accomunano molti ‒ e verosimilmente tutti ‒ i tipi di tumore. Va fatto notare che tutte queste sei peculiarità ‒ ossia nuove potenzialità acquisite nelle fasi di sviluppo del tumore ‒ implicano la perdita delle difese antitumorali presenti nelle cellule e nei tessuti.
Le attuali conoscenze portano ad affermare che non vi è alcun tipo di cellula sana in grado di proliferare in assenza di segnali stimolatori. Negli scorsi decenni i ricercatori hanno identificato in questa aberrazione il primo indice di tumore e molti degli oncogeni da allora scoperti agiscono simulando normali segnali di crescita. Infatti le cellule tumorali generano propri segnali di crescita (limitando o abrogando in questo modo la dipendenza dallo stimolo in presenza di un normale microambiente) attraverso tre differenti strategie, più precisamente l'alterazione dei segnali extracellulari, dei trasduttori transcellulari o dei circuiti intracellulari. Le cellule tumorali diventano capaci di sintetizzare i fattori di crescita a cui sono sensibili () o, in alcuni casi, di potenziare i recettori dei fattori di crescita con una conseguente ipersensibilizzazione ai livelli ambientali dei fattori di crescita che di norma non sarebbero causa di proliferazione. Evidenza di questa strategia può essere rilevata nell'aumento eccessivo del recettore per i fattori di crescita epiteliali (EGF-R/erbB, Epidermal growth factor-receptor) nei tumori dello stomaco, del cervello e della mammella e del recettore HER2/neu (Human EGF receptor 2) nei carcinomi della mammella e dello stomaco. Diversamente, le cellule tumorali possono modificare la struttura dell'espressione recettoriale extracellulare, favorendo la trasmissione di segnali che agevolano la crescita, o alterare le componenti del circuito citoplasmatico ricevendo e rielaborando i segnali creatisi da recettori dei fattori di crescita resi attivi dal legante. Esempi di questa strategia sono le mutazioni nella famiglia delle proteine Ras (presenti in un ampio numero di tipologie tumorali) che liberano un insieme di segnali mitogenici nelle cellule tumorali.
Benché soddisfacente da un punto di vista concettuale, riferirsi alla sola autonomia dai segnali della crescita per spiegare l'insorgenza della malattia è troppo semplicistico. La disomogeneità nella crescita, in un tumore, può essere chiarita solo cercando di capire il contributo delle cellule e dei tessuti che circondano le cellule tumorali. Nei tessuti sani le cellule imparano da quelle vicine a crescere secondo le modalità imposte dall' o da segnali sistemici (processi endocrini). Questa trasmissione di segnali tra cellule può rivelarsi fondamentale nella proliferazione delle cellule tumorali al pari dell'indipendenza acquisita dalle cellule tumorali dai segnali di crescita. Vi è infatti una continua riprova che molti dei segnali di crescita che portano alla proliferazione delle cellule cancerogene derivino da cellule stromali che circondano le neoplastiche. In molti casi le cellule cancerogene prescelte sono quelle in grado di cooptare le cellule sane vicine nel rilascio di segnali stimolatori della crescita o ancora di coinvolgerle nella trasformazione delle cellule sane circostanti in un fenotipo maligno. In questo modo, le cellule alterate dai processi infiammatori attirate verso le aree tumorali possono favorire (piuttosto che eliminare) quelle cancerogene con una produzione locale di fattori di crescita.
Le cellule cancerogene nelle prime fasi di sviluppo devono sottrarsi a una serie di segnali antiproliferativi che agiscono nei tessuti sani per mantenere le cellule in stato di quiescenza e controllare l'omeostasi dei tessuti. Due sono i meccanismi con cui questi segnali inibitori della crescita possono bloccare la proliferazione cellulare. In primo luogo, le cellule possono essere costrette a uscire da un normale ciclo proliferativo attivo per entrare in uno stato di quiescenza. Poiché molti di questi segnali antiproliferativi (se non tutti) vengono canalizzati nella cosiddetta 'proteina del retinoblastoma' (Rb), l'interruzione di tale percorso attiva la proliferazione cellulare e rende le cellule cancerogene insensibili ai fattori inibenti la crescita che di norma agiscono su questo processo per bloccare il ciclo cellulare. La proteina Rb risulta alterata nella maggior parte delle patologie cancerogene, arrivando così a definire il concetto di perdita del gene soppressore del tumore. In certi tumori indotti da virus (per es., i carcinomi del collo dell'utero indotti da papilloma) la funzione della proteina Rb è distrutta a causa di un 'sequestro' operato dalle proteine virali. Il secondo meccanismo di inibizione della crescita è rappresentato dalla differenziazione cellulare, uno stato postmitotico non più associato alla divisione cellulare. L'aumento dell'espressione delle oncoproteine, come la c-Myc nei linfomi, o l'inattivazione del pathway della APCβ-catenina nella carcinogenesi del colon sono i meccanismi usati dalle cellule tumorali per sfuggire alla differenziazione.
Segnali solubili e con mediazione cellulare capaci di indurre la morte cellulare programmata (apoptosi) vengono ampiamente utilizzati nei tessuti sani per mantenere le cellule che li costituiscono secondo corrette configurazioni strutturali. Infatti, la potenzialità delle popolazioni cellulari di accrescersi di numero è motivata non soltanto dal tasso di proliferazione cellulare, ma anche da quello di apoptosi. Si suppone che la distruzione per apoptosi di cellule che producono oncogeni attivi costituisca il primo meccanismo con cui le cellule con predisposizione a malignità vengono eliminate dai tessuti sani. La resistenza verso il processo apoptotico, che si basa su complessi sensori ed effettori, è l'elemento distintivo di molte ‒ e verosimilmente di tutte ‒ le patologie cancerogene. La perdita del gene oncosoppressore p53 o la scomparsa dei segnali di Fas sono oggi considerate tra le più comuni mutazioni antiapoptotiche. L'alterazione dei processi legati a p53, infatti, si osserva in più del 50% dei tumori umani. Alcuni aspetti del processo antiapoptotico sembrano peraltro offrire interessanti obiettivi per lo sviluppo di nuovi farmaci in particolari patologie tumorali.
Studi in vitro hanno dimostrato che alcune cellule, nonostante l'acquisizione delle tre caratteristiche citate (non reattività ai segnali di crescita, insensibilità a segnali inibenti la crescita, insensibilità ai segnali proapoptotici) possono non essere la causa dell'insorgenza di un tumore. Infatti le cellule mammarie hanno insito nella struttura un programma capace di limitarne la proliferazione. Questo programma non ha correlazione con i segnali di trasmissione da cellula a cellula normale e la sua interruzione può essere la causa della formazione di un clone neoplastico. Studi condotti su cellule in coltura hanno evidenziato che esse, aumentate di numero per duplicazione, hanno diminuito il potenziale di proliferazione e sono entrate in uno 'stato di senescenza'. Tale condizione può essere elusa rendendo inefficaci le proteine derivate dai geni oncosoppressori Rb e p53.
Tuttavia, dopo avere sottoposto le cellule a un ulteriore ciclo di duplicazioni, esse sono entrate in un secondo stato (chiamato di crisi) caratterizzato da una massiccia morte cellulare e dall'insorgenza occasionale di una cellula rarissima (circa una su 10 milioni) che ha acquisito la capacità di moltiplicarsi senza limiti in un processo definito di immortalità. In molti casi le cellule cancerogene coltivate dopo la raccolta in vivo sembrano essere immortali e ciò significa che un potenziale replicativo illimitato può essere raggiunto in vivo durante la progressione del tumore. Negli ultimi anni è stato scoperto un ulteriore meccanismo intracellulare atto a rendere le cellule immortali. La riproduzione cellulare corrode progressivamente le terminazioni dei cromosomi (chiamate telomeri), e ciò determina la possibile incapacità di proteggere il DNA da danni estesi. Contrariamente alle cellule sane, la conservazione del telomero è riscontrabile in tutti i tipi di tumore, nella maggior parte dei casi tramite l'espressione di un enzima denominato .
Tutte le cellule presenti in un tessuto devono essere racchiuse entro 100 μm di distanza da un vaso capillare per ricevere adeguata ossigenazione e nutrimento. Durante l'organogenesi la crescita coordinata dei nuovi vasi e del parenchima assicura la giusta proporzione tra cellule e flusso sanguigno. Una volta che il tessuto si è così costituito, la crescita dei nuovi vasi sanguigni (angiogenesi) è strettamente dipendente dall'equilibrio di segnali autocrini e paracrini positivi e negativi. Per svilupparsi, le piccole lesioni neoplastiche allo stato iniziale devono acquisire capacità angiogeniche modificando questo equilibrio. Molti tumori, per esempio, producono efficaci fattori di crescita angiogenici, quali il VEGF (Vascular endothelial growth factor, fattore di crescita dell'endotelio vascolare) e l'FGF (Fibroblast growth factor, fattore di crescita fibroblastico). Altri tumori riducono l'espressione di inibitori per l'angiogenesi endogena nel tessuto circostante. In considerazione della sostenuta angiogenesi riscontrata sia nei sia nelle malattie neoplastiche ematologiche quali la leucemia, l'angiogenesi correlata a tumori diventa un interessante obiettivo da un punto di vista terapeutico.
Più del 90% dei decessi per tumore va imputato alle cellule tumorali che si spostano dalla loro sede originale invadendo i tessuti adiacenti ed estendendosi a nuove sedi in cui riescono a formare nuove colonie, chiamate metastasi. In questo processo sono coinvolte diverse proteine, comprese molecole che regolano le aderenze tra cellula e cellula, proteine che legano le cellule a matrici extracellulari (integrine) e proteasi extracellulari. Nelle cellule cancerogene, l'alterazione più frequentemente osservata nella relazione tra cellula e condizioni ambientali riguarda una molecola denominata E-caderina. Infatti la funzione inibitrice della crescita della E-caderina va persa nella maggior parte dei tumori epiteliali, l'espressione forzata della E-caderina nelle cellule cancerogene coltivate inibisce il loro potenziale invasivo e metastatico e, infine, l'interferenza con la E-caderina rafforza entrambe le proprietà. Un ulteriore fattore che rende il processo più complesso è rappresentato dal ruolo dei diversi tipi di cellule implicate nell'espressione delle proteasi. In molti tipi di cancro, per esempio, le proteasi capaci di degradare la matrice cellulare sono rilasciate non da cellule tumorali bensì dal coinvolgimento delle cellule stromali e infiammatorie circostanti.
Le sei nuove potenzialità delle cellule cancerogene sopra descritte vengono acquisite, nella maggior parte dei casi, con una serie di mutazioni nel genoma cellulare. Benché un dogma della biologia moderna indichi che la mutazione di un gene specifico è un processo di scarsissima efficacia, tenuto sotto stretto controllo da un complesso sistema che monitorizza e ripara il DNA, i tumori compaiono nell'uomo con un'alta frequenza. Risulta sempre più evidente che la funzione delle proteine chiamate 'sentinelle del genoma' (come, per es., p53 e altre ancora) va perduta in molti tipi di tumore. Questa perdita implica l'instabilità del genoma e la formazione di cellule mutanti con vantaggi selettivi.
Inoltre è stato recentemente dimostrato che l'apoptosi può essere fonte di instabilità del genoma poiché il DNA da corpi apoptotici può essere inglobato nelle cellule vicine attraverso la fagocitosi. L'instabilità del genoma dovrebbe essere considerata come un capitolo a parte, oltre alle sei potenzialità acquisite. Essa rappresenta il metodo apparentemente adottato dalle popolazioni soggette a evoluzione delle cellule premaligne per acquisire questi sei endpoint biologici che accomunano tutti i tipi di cancro. Tale acquisizione fondamentale consente di elevare la diagnosi e il trattamento del tumore a scienza razionale in grado di capire con precisione come e perché uno specifico regime terapeutico abbia o meno successo e di sperare in un futuro in cui i farmaci anticancro avranno azioni mirate per ciascuna delle potenzialità assunte dalle cellule cancerogene.
La scoperta di cellule staminali cancerogene nei tumori solidi ha cambiato la concezione della carcinogenesi e ne ha modificato l'approccio terapeutico. La capacità di autorinnovarsi è una caratteristica specifica delle cellule staminali del midollo osseo. Nel sistema emopoietico, vi sono tre differenti popolazioni di progenitori multipotenti: (a) cellule staminali con una capacità di rinnovamento a lungo termine; (b) cellule staminali con una capacità di rinnovamento a breve termine; (c) progenitori multipotenti che non sono in grado di rinnovarsi ma che possono differenziarsi nelle diverse filiere del midollo osseo. I progenitori multipotenti e le filiere da essi derivate sono soggetti a una rapida divisione cellulare, consentendo in questo modo di popolare il midollo osseo. I fattori che determinano la capacità di autorinnovarsi di una cellula e le modalità con cui le cellule tumorali acquisiscono questa potenzialità non sono ancora noti. Le cellule staminali multipotenti posseggono sia la capacità di autorinnovarsi sia quella di generare, attraverso la differenziazione, cellule destinate a un organo specifico. Il concetto di cellule staminali d'organo è complesso e in relazione alla molteplicità dei tipi di cellule e delle funzioni di un organo, ma vi è sempre maggiore evidenza dell'esistenza di queste cellule staminali multipotenti.
Nella ghiandola mammaria sana, per esempio, sono state descritte tre filiere cellulari: (a) cellule mioepiteliali che formano uno strato di cellule basali; (b) cellule duttali epiteliali; (c) cellule alveolari con capacità di secernere latte. Benché studi sui trapianti nei topi abbiano dimostrato che la maggior parte delle cellule mammarie hanno capacità limitata di autorinnovarsi, sono state identificate popolazioni clonali in grado di riassumere la totalità delle funzioni della ghiandola. Uno studio ha esposto in maniera chiara come le cellule epiteliali mammarie umane derivate dalla riduzione mammoplastica siano state usate per generare sferoidi non aderenti (denominati 'mammosfere') in colture cellulari e dimostrare la presenza di tre filiere cellulari mammarie; inoltre, aspetto ancora più importante, ha evidenziato che le cellule nelle mammosfere sono state ottenute tramite clonazione, a dimostrazione dell'esistenza di una singola cellula staminale multipotente.
Benché le cellule staminali possano autorinnovarsi, generalmente esse sono quiescenti, permanendo per la maggior parte del tempo nella fase G0 del ciclo cellulare. Poiché le cellule staminali sono in grado di riparare il loro DNA grazie alla capacità di autorinnovarsi, esse arrivano ad accumulare le mutazioni acquisite dopo l'esposizione ad agenti cancerogeni. Cellule con qualità di cellule staminali sono state identificate in tumori maligni di origine emopoietica e in alcuni tumori solidi. È dunque possibile supporre che queste cellule staminali tumorali rappresentino solo una piccola frazione del tumore, in quanto dotate della capacità di rigenerare una neoplasia, mentre a molte cellule tumorali viene riconosciuta questa capacità rigenerativa. L'origine delle cellule staminali multipotenti nei tumori può essere di varia natura. Esse possono insorgere a seguito della trasformazione maligna di una cellula staminale sana che è stata sottoposta per un tempo prolungato a insulti oncogeni. O ancora, la cellula tumorale originaria potrebbe essere una cellula pluridifferenziata che, sviluppando la capacità di autorinnovamento continuo, ha acquisito così le proprietà di una cellula staminale.
Le cellule staminali tumorali (con capacità di autorinnovamento sia intrinseche sia acquisite) danno origine a cellule che non sono in grado di autorinnovarsi a lungo termine ma che conservano la capacità limitata di dividersi. In fisiologia, questo processo verrebbe chiamato 'differenziazione', poiché la cellula acquista tratti specifici inerenti al differente tipo di tessuto. Ma nel tumore le cellule sono prive della capacità di subire una differenziazione in cellule fenotipicamente mature. Spesso avviene una limitata differenziazione che dà luogo alle ben note distinzioni istopatologiche e molecolari dei tumori. Infatti più la cellula tumorale avanza in questo processo, più diventa differenziata e simile alla sua normale controparte, manifestando di conseguenza un più lento tasso di crescita. Fino a che punto di questo lungo processo il tumore così definito 'dedifferenziato' riesca a giungere è incerto, tuttavia è possibile che l'autorinnovamento rappresenti una capacità in un più alto grado di differenziazione.
È già stato detto che la carcinogenesi è una malattia che si sviluppa nell'arco di più anni, multifasica, con differenti manifestazioni, che causa un danno genetico progressivo esteso anche ai tessuti. Il tasso di mortalità per forme di cancro comuni è ancora troppo alto per essere accettabile. Nonostante gli enormi passi avanti nella conoscenza dei meccanismi della cancerogenesi, i nuovi e potenti farmaci utilizzati in clinica insieme ai successi nel trattamento di alcune forme tumorali, le statistiche sulla mortalità globale sono destinate a non subire grosse variazioni fino a che non sarà data più enfasi alla ricerca sul cancro orientando la maggior parte delle risorse verso la prevenzione di nuove malattie piuttosto che al trattamento di quelle in fase terminale. L'approccio più logico per il controllo di questa patologia è prevenirne lo sviluppo prima che insorgano eventi genetici ed epigenetici causa di malattie maligne invasive e metastatiche.
La chemioprevenzione fa uso di agenti farmacologici che impediscono, arrestano o favoriscono la regressione della carcinogenesi agli stadi iniziali. La ricerca sulla prevenzione della malattia offre varie opportunità di ridurre il tasso di cancro attraverso programmi aggressivi che identificano individui a più alto rischio di malattia mediante strategie di prevenzione scientificamente solide suggerite dalle recenti acquisizioni della ricerca sperimentale e clinica. Il buon successo della chemioprevenzione dipende dalla conoscenza dei meccanismi della carcinogenesi a livello molecolare, cellulare e tessutale. L'approccio più razionale alla chemioprevenzione prevede l'identificazione di nuovi agenti capaci di agire su specifiche cellule e molecole bersaglio. Attualmente sono disponibili molti agenti per identificare processi molecolari e cellulari che hanno un ruolo importante nella cancerogenesi; inoltre questi agenti sono in grado di prevenire il cancro in modelli sperimentali. L'obiettivo di molti studi in corso è quello di sviluppare agenti chemiopreventivi per il controllo delle forme comuni di cancro nell'uomo e nella donna.
È stata condotta un'indagine sull'efficacia della chemioprevenzione nel tumore polmonare tra i fumatori e gli ex fumatori negli studi Alpha-Tocopherol, Beta-Carotene cancer prevention study e Beta-Carotene and retinol efficacy trial, protocolli su larga scala atti a testare l'efficacia chemiopreventiva del β-carotene, dell'α-tocoferolo e del retinolo. I risultati ottenuti non hanno validato l'uso del β-carotene e dell'α-tocoferolo quali agenti chemiopreventivi per i tumori polmonari. Contro ogni aspettativa, i dati hanno evidenziato che sia i fumatori sia gli ex fumatori che avevano assunto un maggior quantitativo di β-carotene, erano più a rischio di tumore polmonare. Gli alti livelli dell'antigene nucleare della proliferazione cellulare, un riscontrabile nel carcinoma polmonare a grandi cellule, sono stati presi come parametro per stabilire l'efficacia di una chemioprevenzione con acido 13-cis retinoico (13-cRa). In uno studio su ex fumatori, i livelli dell'antigene nucleare per la proliferazione cellulare hanno subito una diminuzione causata dal 13-cRa, che si è dimostrato un potenziale agente chemiopreventivo in questa popolazione. Studi preclinici suggeriscono che l'inalazione di budesonide possa essere un efficace agente chemiopreventivo per il tumore del polmone. Sono in corso studi specifici di fase III al fine di stabilire l'efficacia di questo agente in pazienti considerati ad alto rischio per il tumore del polmone.
Il tamoxifene, un modulatore selettivo dei recettori dell'estrogeno con un'azione antiestrogena nei tessuti mammari, è un agente chemiopreventivo efficace nelle donne ad alto rischio di tumore della mammella. I risultati dello studio sulla prevenzione per il cancro della mammella (BCPT, Breast cancer prevention trial) con tamoxifene, primo studio randomizzato su vasta scala, hanno portato a riconoscere il ruolo della chemioprevenzione nella capacità di inibire lo sviluppo di questo tipo di tumore. Dal 1998 tale studio clinico ha evidenziato una riduzione del 49% del rischio di tumori invasivi della mammella trattati con tamoxifene, e questo farmaco è il primo agente per la prevenzione primaria a essere stato approvato dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti. Tuttavia, alcuni dati clinici indicano che il tamoxifene aumenta il rischio di cancro dell'endometrio e di malattie tromboemboliche. Il potenziale chemiopreventivo del raloxifene, un modulatore selettivo del recettore per l'estrogeno che può avere minori effetti collaterali, è stato sperimentato nello studio Multiple outcomes of raloxifene evaluation (MORE). Obiettivo del MORE era valutare se il raloxifene riduca il rischio di fratture nelle donne in postmenopausa con osteoporosi. Dal novembre 1999 i dati del MORE hanno dimostrato una riduzione del 72% dei tumori invasivi della mammella dopo trattamento con raloxifene. Non è stato evidenziato un aumentato rischio di cancro dell'endometrio per il raloxifene mentre è stato registrato un incremento nel rischio di malattie tromboemboliche del tutto simile a quello per il tamoxifene.
Attualmente è in corso su donne in postmenopausa lo studio sul tamoxifene e raloxifene (STAR), che mette in parallelo l'efficacia di entrambi i farmaci nella riduzione del cancro della mammella come endpoint primario. Lo STAR è il primo studio di chemioprevenzione di fase III che adotta una terapia farmacologica standard di base (tamoxifene) come braccio di controllo. L'identificazione di validi biomarcatori di efficacia dell'attività chemiopreventiva ‒ detti Surrogate endpoint biomarkers, SEBs ‒ permette di disegnare studi di prevenzione più circoscritti e a breve termine. Agoaspirati citologici poco invasivi e alcuni biomarcatori potrebbero essere utili per identificare la popolazione femminile in grado di beneficiare di studi di prevenzione per il cancro della mammella e, per quanto concerne i SEBs, anche per monitorare l'efficacia di potenziali agenti preventivi. I ricercatori stanno anche valutando se i polimorfismi individuali in geni metabolizzanti o geni associati a tossicità possano essere utilizzati per individuare le categorie che meglio di altre potrebbero trarre benefici dal tamoxifene o da altri agenti preventivi. La relazione tra polimorfismi metabolici e predisposizione al cancro della mammella è stato l'obiettivo di parecchie rivalutazioni recenti. La priorità è data alla ricerca di agenti efficaci nei tumori della mammella negativi per i recettori per gli estrogeni. Tra gli agenti candidati a produrre buoni risultati si annoverano gli inibitori della tirosina-chinasi dell'EGF-R, la COX-2, le farnesil-transferasi e i retinoidi. La somministrazione per cinque anni del retinoide sintetico fenretinide, come prevenzione all'insorgenza di un secondo tumore della mammella, non ha mostrato diversità di incidenza tumorale dopo una media di otto anni, a eccezione di una possibile riduzione nelle donne in premenopausa. Un recente studio randomizzato ha dimostrato che la fenretinide induce una significativa riduzione di rischio di secondo tumore della mammella nelle donne in premenopausa, elevato in età più giovane, continuando parecchi anni dopo il termine del trattamento. In considerazione dei limitati effetti collaterali, è auspicabile uno studio in giovani donne ad alto rischio.
I risultati delle valutazioni di endpoint secondari condotti su studi clinici randomizzati controllati su vasta scala e avvalorati da dati preclinici ed epidemiologici suggeriscono che la vitamina E e il selenio riducono il rischio di carcinoma prostatico. Inoltre l'analisi degli endpoint secondari sui dati del Nutritional prevention of cancer study, disegnato per testare l'efficacia dell'integrazione nella dieta del lievito arricchito di selenio per la prevenzione di nuovi tumori cutanei nei pazienti con un'anamnesi di cancro cutaneo, hanno dimostrato una riduzione del 63% nel cancro prostatico. Basandosi sull'evidenza crescente che il selenio e la vitamina E possono ridurre il rischio di cancro della prostata, nel 2001 è stato avviato il Selenium and vitamin E cancer prevention trial (SELECT), uno III randomizzato, a due bracci: placebo e controllo. Studi dei primi anni Novanta hanno dimostrato che l'attività della 5-α-reduttasi, un enzima che catalizza la trasformazione di testosterone in diidrotestosterone ‒ metabolicamente molto più attivo ‒ era decisamente poco presente nella popolazione maschile giapponese che registra un tasso di incidenza di cancro della prostata tra i più bassi al mondo. Questi risultati hanno suggerito che con l'inibizione di tale enzima era possibile ridurre il rischio di cancro della prostata. Attualmente si sta valutando l'efficacia della finasteride (un inibitore antagonista della 5-α-reduttasi) come agente chemiopreventivo nello studio di prevenzione del cancro della prostata.
Fattori legati allo stile di vita quali l'abitudine al fumo, all'alcol, l'esposizione solare, i comportamenti sessuali, l'attività fisica, l'obesità e la dieta possono influenzare il rischio di cancro. È necessario prendere coscienza di ciò per poter identificare strategie efficaci, indagini cliniche comprese, che possano prevenirne l'insorgenza. Le conquiste in campo biotecnologico stanno rendendo possibile la creazione di piante geneticamente progettate in cui sono state migliorate sia le peculiarità agronomiche ‒ come la tolleranza agli erbicidi ‒ sia quelle qualitative con un aumento delle proprietà nutritive e di altri componenti alimentari fisiologicamente attivi. I cibi funzionalmente migliorati () sono uno dei possibili meccanismi attraverso cui gli agenti chemiopreventivi potrebbero essere inclusi negli interventi di salute pubblica per ridurre il rischio di malattia. Negli Stati Uniti la quantità di acri destinata a raccolti geneticamente modificati è in continua espansione; i cibi e i prodotti alimentari di raccolti modificati, compresi i semi di soia, le piante oleifere, il grano, il cotone, i pomodori e le patate stanno entrando nei cicli produttivi delle principali industrie. Raccolti modificati con proprietà qualitativamente migliorate includono pomodori con maggiore durata commerciale, gusto, colore e consistenza al tatto migliori, semi di soia con l'80%, o anche più, di acido oleico (monoinsaturo) e con maggior contenuto di amminoacido essenziale; i semi di soia si sono dimostrati agenti potenziali nella prevenzione del cancro. Dati epidemiologici hanno suggerito che il consumo di questo alimento è associato a una diminuzione nel rischio di tumore della mammella, dell'endometrio e della prostata. Attualmente sul mercato sono disponibili molti prodotti di consumo a base di soia, come per esempio il tofu, il latte, i formaggi, lo yogurt congelato, i frappé per la colazione, le noccioline, i surrogati della carne e i condimenti per insalata. L'ingegneria genetica sta aprendo la via a brillanti opportunità per migliorare le proprietà nutrizionali di cibi vegetali.
La recente conclusione del primo studio di fase III per la prevenzione del tumore della prostata mediante finasteride, ha dimostrato che un agente chemiopreventivo può ridurre il rischio di sviluppo del tumore. L'entusiasmo che è seguito alla relativa riduzione di rischio nel settore dello studio che utilizza la finasteride è stato mitigato dall'incidenza di tumori ad alto grado osservati, per la maggior parte, in uomini sottoposti a finasteride rispetto a quelli del gruppo placebo. Rimane controverso se la più alta incidenza osservata nei tumori ad alto grado sia reale o correlata ad un fattore patologico o di campionatura. Nonostante tale studio, si osserva una certa riluttanza della comunità urologica a raccomandare l'utilizzo diffuso della finasteride come agente chemiopreventivo. La prevenzione della malattia nelle fasi iniziali può offrire una migliore qualità di vita rispetto ai trattamenti nella fase terminale.
I recenti studi di biologia molecolare offrono un grande potenziale per l'identificazione di geni oncogeni e geni soppressori coinvolti nel processo di carcinogenesi e nello sviluppo del tumore. Le tecniche molecolari si sono infatti dimostrate idonee per identificare le mutazioni degli oncogeni nei campioni citologicamente negativi prelevati a pazienti senza una diagnosi di tumore solido. Questi test, dotati di alta sensibilità e accuratezza diagnostica, hanno portato alla scoperta di differenti cellule tumorali esfoliate nei fluidi corporei. I cambiamenti genetici possono essere considerati come il primo indice di comparsa di un evento mentre altri segnali sono correlati a manifestazioni più tardive quali invasione e metastasi. I fluidi corporei a volte contengono cellule o resti di cellule in cui sono insite le mutazioni genetiche del tumore a cui sono riferibili. La scoperta di mutazioni dei geni oncogeni nelle cellule tumorali ottenute da urine, feci, lavaggio broncoalveolare (BAL), espettorato e lavaggio dei dotti è stata possibile in pazienti con tumori rispettivamente della vescica, del colon, del polmone e della mammella. Grazie alle nuove tecniche di biologia molecolare si è arrivati a stabilire diagnosi definitive e a classificare i tumori basandosi sulla identificazione di impronte digitali (fingerprints) o particolari alterazioni molecolari che si riscontrano in specifici tipi di tumore e a scoprire cellule cancerogene in fase iniziale con l'utilizzazione di tecniche molecolari sensibili, anticipando in questo modo gli interventi terapeutici. Potenziando gli aspetti traslazionali della ricerca dal laboratorio al paziente, la biologia molecolare facilita e massimizza il trasferimento delle acquisizioni biologiche alle applicazioni diagnostiche, prognostiche e terapeutiche.
L'uso delle tecniche molecolari, nella clinica, ha applicazioni differenti e potenziali. I pazienti ad alto rischio di tumore (come, per es., i forti fumatori, pazienti a rischio per familiarità o pazienti esposti ad agenti cancerogeni nell'ambiente professionale) potrebbero essere sottoposti a screening per identificare la presenza di cellule neoplastiche nei fluidi corporei attraverso l'analisi delle mutazioni oncogene. Questo screening risulterebbe molto più utile se tali mutazioni fossero riscontrate in una fase iniziale che precede malattie più avanzate e non trattabili. Utilizzando cellule esfoliate dai liquidi corporei o campioni di tessuto è possibile: (a) valutarne la morfologia (per es., mediante le colorazioni con ematossilina ed eosina); (b) valutare l'espressione di specifici prodotti proteici o geni, mediante l'analisi immunoistochimica (IHC) e la FISH (Fluorescent in situ hybridization); (c) identificare le alterazioni molecolari (per es., mediante southern blot, la PCR-SSCP, Polymerase chain reaction/single-strand conformation polymorphism, reazione a catena della polimerasi/polimorfismo della conformazione a singolo filamento); (d) eseguire, tramite , multiple valutazioni di geni con una singola procedura. Attraverso l'uso combinato delle tecniche sopra descritte è possibile valutare le mutazioni genetiche e le alterazioni nei parametri di espressione.
L'introduzione di microchip e altre tecnologie ha permesso di identificare con grande sensibilità le mutazioni 'missense' in alcuni geni. L'applicazione dell'intera gamma di metodi a base molecolare per la valutazione dei campioni tessutali e cellulari e la strutturazione di nuove modalità terapeutiche mirate a specifici target molecolari hanno indotto a cambiamenti nelle tecniche precedentemente utilizzate per la rilevazione e il trattamento dei campioni tessutali così come per la . Questa avanzata tecnologia dovrebbe in futuro essere inclusa tra le analisi tessutali condotte durante le indagini diagnostiche su qualsiasi lesione potenzialmente neoplastica; i patologi dovranno infatti pensare sempre a una diagnosi su base molecolare. I protocolli verranno migliorati e costantemente aggiornati affinché i campioni possano essere trattati in modo da non precludere l'applicazione ottimale dei test molecolari. L'insieme di informazioni sulla predisposizione alla malattia, la farmacogenomica e altri dati biologici con i quali un individuo può essere potenzialmente identificato hanno un indiscusso interesse per i ricercatori (e indirettamente per la deontologia). I marcatori molecolari per la diagnosi tumorale e l'approccio al paziente diventano tanto più importanti quanto più semplice è la loro identificazione attraverso vari metodi analitici.
Grazie ai progressi degli ultimi anni nel campo della diagnostica radiologica, i radiologi hanno potuto sviluppare tecniche altamente sofisticate per visualizzare e analizzare le immagini corporee. La tomografia computerizzata (TC) è stata per lungo tempo il perno attorno al quale ruotava la diagnostica radiologica per il paziente oncologico. Essa garantisce infatti risultati precisi e non invasivi per molti dei processi in atto, è largamente disponibile e il costo è relativamente contenuto; la tomografia computerizzata resta tuttora tra i più importanti e fondamentali mezzi diagnostici in seguito alla sua continua evoluzione. Tra le più recenti innovazioni vanno annoverate la TC spirale (elicoidale), la diagnostica per immagini multifasica e lo scanning multidetector. Le potenzialità diagnostiche e l'accuratezza della TC sono in continuo miglioramento. Con la TC spirale l'acquisizione dei dati può essere monitorata grazie alla somministrazione di mezzi di contrasto nelle molteplici fasi di incremento ottenendo un risultato ottimale nella identificazione e nelle diagnosi del tumore.
Inoltre si stanno affinando nuove tecniche incentrate su immagini tridimensionali (3D) e la TC virtuale per sfruttare i vantaggi di alcune delle potenzialità della TC spirale. Queste tecniche sono potenzialmente valide per la scelta sia della tecnica chirurgica sia del trattamento radioterapico. La TC si è inoltre dimostrata utile nelle procedure interventistiche, spesso necessarie per confermare la malignità e la sottotipizzazione del tumore. Il TC scan è lo strumento attorno al quale ruota la radiodiagnostica oncologica poiché permette di prendere in esame più organi e i sistemi a essi correlati in un unico esame, garantendo alta sensibilità e specificità. L'introduzione della TC spirale, associata ai rapidi progressi nella tecnologia delle immagini tridimensionali, conferma che essa continuerà a essere considerata un esame chiave sia per la scoperta sia per la stadiazione della malattia. Tecnologie più recenti, quali le immagini tridimensionali in tempo reale e la visualizzazione di immagini virtuali, sicuramente daranno maggior valore al ruolo della TC, consentendone il passaggio da modalità diagnostica a modalità terapeutica.
La risonanza magnetica (MRI, Magnetic resonance imaging) si basa sull'effetto dei campi magnetici sul movimento rotatorio di alcuni nuclei nei tessuti biologici. Per le leggi dell'elettromagnetismo, i nuclei con numeri di massa dispari hanno una carica netta e si allineano in presenza di un campo magnetico esterno. Nel corpo umano il nucleo di idrogeno (numero di massa 1) è molto spesso usato in questo tipo di indagine clinica per la sua elevata presenza nell'acqua e nei tessuti lipidici. Il tessuto neoplastico in genere si 'rilassa' con velocità differenti rispetto ai tessuti che lo circondano. La diversità nei tempi di rilassamento dei tessuti produce differenti intensità di segnale a gradi specifici nel periodo della misurazione. Da ciò si evince che dalla diversità nelle modalità di rilassamento tra i tessuti e dalle variazioni di intensità di risposta al segnale prodotte dipende il contrasto tra i tessuti sulle immagini restituite dalla risonanza magnetica.
I tessuti che appaiono chiari sulle immagini della risonanza magnetica sono quelli che hanno la più alta intensità di risposta al segnale mentre i tessuti che appaiono scuri dimostrano una bassa intensità di risposta. La risposta al segnale dipende non soltanto dal tempo impiegato dal tessuto per rilassarsi ma anche dal numero di nuclei di idrogeno in esso presenti (ossia dalla 'densità protonica'). L'uso di mezzi di contrasto nella MRI può facilitare il rilevamento del tumore e di altre patologie. L'agente utilizzato con maggior frequenza è il gadolinio, un raro metallo paramagnetico, che ritarda la caduta delle molecole di idrogeno limitrofe. Poiché la MRI si è dimostrata sensibile alle differenze nei composti e al contenuto di fluidi, i tumori (che hanno una consistenza diversa dal tessuto sano) spesso presentano un aspetto più accentuato e di lettura più facilmente comprensibile in queste immagini rispetto a quelle ottenute con la TC.
L'uso della diagnostica funzionale nella pratica clinica oncologica attuale include: (a) la localizzazione del tumore maligno primitivo, in particolar modo se la sede primaria è sconosciuta; (b) la diagnosi differenziale di lesioni rilevate nello studio delle immagini anatomiche; (c) la stadiazione della malattia; (d) le stime sulla probabilità di recidive; (e) il monitoraggio terapeutico. Soltanto la tomografia a emissione di positroni (PET, Positron emission tomography), che utilizza come tracciante un analogo radioattivo del glucosio, il [18F]-fluorodeossiglucosio (FDG-PET), e la risonanza magnetica spettroscopica protonica (MRS, Magnetic resonance spectroscopy) vengono impiegate nella normale pratica clinica oncologica. Sono in corso di sviluppo anche tecniche di diagnostica ottica che sono applicate sull'uomo soltanto in modo limitato.
La PET è la tecnica di diagnostica per immagini funzionale più sensibile utilizzata nella pratica clinica, poiché permette di quantificare i processi che avvengono a concentrazioni subnanomolari. Sebbene la sua risoluzione sia in un ordine di magnitudo inferiore a quanto disponibile con la MRI, quella che si ottiene con le PET oggi disponibili si avvicina ai 4 mm. Similmente a molte altre tecniche funzionali, la PET era inizialmente impiegata per lo studio della fisiologia e della patologia del cervello. Come con tutti i radiofarmaci, la distribuzione di FDG lungo tutto il corpo obbedisce al tracciante principale che viene somministrato in quantità così piccole (〈10 mg) che mentre segna il percorso di interesse, lascia quest'ultimo completamente intatto. Non sono stati rilevati effetti farmacologici o tossici.
Un importante risultato nell'uso della PET nella clinica si incentra sulla necessità di fornire informazioni quantitative (per es., il tasso metabolico di glucosio regionale). Insieme alla ipersensibilità, aumentano sempre più le potenzialità quantitative della PET ma la loro utilizzazione clinica è rara, in particolar modo in campo oncologico. L'uso e il rapporto costo-efficacia della PET stanno cominciando a essere riconosciuti anche nella clinica. La proliferazione di fornitori satelliti di FDG a sedi che utilizzano gamma camere DHC, e il rimborso per più ampie indicazioni alla sua utilizzazione, possono spiegare l'inatteso incremento del 30% nell'uso della PET per i prossimi cinque anni. Le tecniche di risonanza magnetica stanno sostituendo la PET sia per una maggiore idoneità di utilizzazione rispetto a quest'ultima, fatta eccezione per la diagnostica basata su recettori ed enzimi, sia per le informazioni complementari che può fornire alla PET. Grazie al sinergismo delle conquiste tecnologiche, alla ricerca interdisciplinare e alla pubblica assistenza, la diagnostica funzionale permetterà presto di raggiungere l'ultimo obiettivo: la caratterizzazione non invasiva del tumore.
La PET sfrutta la fisica del decadimento di positroni per produrre immagini tridimensionali quantitative ad alta risoluzione della distribuzione della radioattività nel corpo umano. Nella PET, una forma marcata con positroni di una molecola biologicamente attiva viene iniettata nel corpo e utilizzata per tracciare il comportamento biochimico di questa molecola attraverso una diagnostica per immagini non invasiva. Così ogni studio eseguito attraverso la PET richiede la precedente iniezione di uno specifico tracciante per PET radiomarcato per creare immagini di una determinata distribuzione molecolare o funzione tessutale. Per esempio, la biochimica dell'uso del glucosio può essere resa quantitativamente con immagini che utilizzano il [18F]-fluorodeossiglucosio (FDG). Per rendere attraverso le immagini differenti funzioni tessutali, come per esempio il flusso sanguigno, è richiesto un diverso tracciante, il 15O-H2O. Quale strumento per la diagnostica per immagini molecolare in oncologia, la PET ha una eccellente versatilità perché può essere utilizzata in combinazione con migliaia di radiotraccianti in grado di riprodurre immagini di molte molecole chiave ed eventi su base molecolare importanti per la normale fisiologia e patofisiologia tessutale.
La diagnostica per immagini con FDG-PET sta diventando sempre più una componente essenziale per il trattamento del paziente oncologico. La glicolisi accelerata dei tumori maligni si è dimostrata essere una caratteristica di molti fra i tumori più comuni, e la diagnostica per immagini con FDG- PET può fornire informazioni riguardo la localizzazione del tumore, la stadiazione e il tipo di risposta al trattamento. Riconoscendo i vantaggi che la FDG-PET può avere per il paziente oncologico, il Centers for Medicare e Medicaid Services ha ampliato la lista dei tumori per i quali sia possibile richiedere un rimborso per la PET. I vantaggi riconosciuti a tale metodica fanno sì che essa venga utilizzata nelle seguenti patologie: tumore polmonare non a piccole cellule, tumore colorettale, tumore della testa e del collo, tumore dell'esofago, tumore della mammella, tumore della tiroide e linfoma.
L'unità PET/TC combina l'alta risoluzione dell'unità PET con l'alta risoluzione dell'unità della TC spirale. Le immagini risultanti riproducono la funzionalità tessutale e la biochimica in un contesto anatomico ad alta risoluzione. La TC ha consentito un ulteriore miglioramento della PET, creando immagini più facili da interpretare e riproducibili più rapidamente. Tra gli ulteriori vantaggi della PET/TC vanno annoverati una migliore risoluzione diagnostica attraverso il segnale respiratorio e una migliore programmazione del trattamento oncologico radioterapico.
La diagnostica per immagini molecolare si avvantaggia di nuove tecnologie che consentono di visualizzare i recettori cellulari, i processi metabolici e biologici fondamentali nel processo tumorale; la stessa espressione viene usata anche per indicare la visualizzazione di molecole diagnostiche e terapeutiche. Tale procedura offre la possibilità di seguire la distribuzione di farmaci e ormoni nel corpo e stabilire il loro effettivo trasporto su bersagli molecolari, quali i recettori o i geni. Questo elemento consente di dar luogo a terapie mirate con peptidi o terapie radionucleiche guidate con anticorpi, in grado di rilasciare in maniera selettiva la radioattività sulle cellule tumorali.
In campo diagnostico le attività si collegano per la maggior parte nel trattamento del tumore iniziale della mammella, nella tecnica della linfoscintigrafia del linfonodo sentinella e nella applicazione della FDG-PET per la scoperta di vari tumori. La ricerca è impegnata anche sul fronte dello sviluppo di procedure adatte a una diagnostica per immagini cellulare ex vivo e una diagnostica per immagini in vivo della espressione genica nei modelli animali. In campo terapeutico, le attività si focalizzano in task force multidisciplinari e coinvolgono particolarmente tumori neuroendocrini, linfomi non Hodgkin e tumori cerebrali.
Il chirurgo nel trattamento delle patologie tumorali non può prescindere dalla conoscenza della storia naturale dei singoli tipi di tumore, dei principî e delle potenzialità chirurgiche, dei trattamenti radioterapici e sistemici come di altre nuove modalità terapeutiche. Egli svolge un ruolo fondamentale per quanto concerne la prevenzione, la diagnosi, la scelta terapeutica e qualche volta le cure palliative nel paziente oncologico.
Le prime descrizioni di interventi chirurgici sui tumori sono presenti nel papiro Edwin Smith risalente al Medio Regno (all'incirca 1500 a.C.). Dopo più di tre millenni, nella prima decade del XIX sec., ebbe inizio l'età moderna della chirurgia come trattamento elettivo per i tumori viscerali.
I progressi nel trattamento chirurgico per la maggior parte dei tumori sono legati a due grandi eventi medico-scientifici. Il primo fu l'introduzione, da parte di William Morton e di Crawford Lang, dell'anestesia generale. La prima operazione importante effettuata in anestesia generale con etere fu una escissione della ghiandola sottomascellare e di parte della lingua, praticata da John Collins Warren il 16 ottobre 1846 al Massachusetts General Hospital. Il secondo caposaldo fu raggiunto nel 1867 quando Joseph Lister rese noti i principî di sepsi e antisepsi. Questi due progressi hanno reso possibile una chirurgia senza dolore e senza infezioni e quindi hanno favorito il trattamento dei tumori per via chirurgica.
Tra le grandi figure che dettero avvio all'oncologia chirurgica va annoverato Christian Albert Theodor Billroth che a Vienna, tra il 1850 e il 1880, sviluppò una meticolosa tecnica chirurgica ed eseguì le prime gastrectomie, laringectomie ed esofagectomie. Richard von Volkman nel 1878 fu il propulsore in Germania del trattamento del cancro del colon per via chirurgica e Theodore Kocher introdusse nel 1882 nuove tecniche per la rimozione dei tumori tiroidei. Negli anni intorno al 1890 William S. Halsted promosse il concetto della resezione en bloc per il cancro della mammella, comprensiva dei linfonodi regionali. Tra gli esempi di resezioni radicali per tumore vanno ricordate le conquiste chirurgiche per la prostectomia radicale attuata da Hugh Young nel 1904, l'isterectomia radicale eseguita da Ernest Wertheim nel 1906, le resezioni addominoperitoneali per il cancro del retto operate da W. Ernest Miles nel 1908 e la prima lobectomia per tumore portata a termine con successo da Evarts Graham nel 1933.
Le moderne innovazioni tecniche stanno ampliando in maniera significativa il raggio di azione del chirurgo in una gamma di nuovi campi. Negli ultimi decenni la chirurgia ha acquistato un maggior impatto grazie allo sviluppo di tecniche di microchirurgia che migliorano l'esecuzione di trapianti liberi per la ricostruzione, di dispositivi di ricucitura automatica, di moderne attrezzature endoscopiche che tengono conto dell'ampia azione di una chirurgia miniinvasiva video assistita e degli importanti miglioramenti nel postoperatorio e nel trattamento del paziente critico.
La chirurgia assume un ruolo dominante nella diagnosi del cancro quando si rende necessaria l'acquisizione di tessuto per un corretto esame istologico. Esistono molte tecniche per reperire tessuti dubbi per malignità, compresi l'agoaspirato, la core biopsy, le biopsie incisionale ed escissionale.
L'agoaspirato implica l'aspirazione di cellule con un ago che viene guidato nel tessuto sospetto. L'esame citologico di questo materiale può fornire una diagnosi provvisoria di presenza di tessuto maligno. Tuttavia, in genere, non si indica una più ampia resezione chirurgica soltanto sulla base dei risultati dell'agoaspirato e senza prima disporre di altri dati clinici o strumentali a conferma della diagnosi. È possibile prelevare un campione di tessuto con aghi ideati appositamente per questa pratica (spesso ad aspirazione automatica) introdotti nel tessuto sospetto. L'agobiopsia fornisce tessuto sufficiente per la diagnosi della maggior parte dei tumori.
Con la biopsia incisionale si ottiene la rimozione di tessuto a forma di piccolo cuneo da una massa tumorale più ampia. Le biopsie per incisione sono a volte necessarie per diagnosticare vaste masse che richiederebbero procedure chirurgiche più severe. Nel caso di biopsia escissionale, si effettua l'escissione dell'intero tessuto sospetto di malignità con scarso margine di tessuto sano circostante. La biopsia escissionale diventa procedura di scelta quando l'esecuzione non contamina nuovi piani tessutali o compromette ulteriormente il trattamento chirurgico definitivo.
La chirurgia è un trattamento semplice e sicuro in pazienti affetti da tumori solidi quando il tumore è circoscritto alla sede anatomica di origine. È possibile trattare con una resezione chirurgica estesa che includa anche aree regionali limitrofe alcuni di questi pazienti benché la diffusione del tumore ad aree regionali sia predittiva di micrometastasi ignote a distanza. Un chirurgo oncologo, prima di programmare un intervento, deve identificare con molta cura i pazienti che possono essere trattati con la sola chirurgia locale in modo da creare un buon equilibrio tra il trattamento locale e il grado di morbilità che esso può avere sulla qualità della vita.
La terapia più adeguata per tumori che possono essere trattati localmente va scelta a seconda dei singoli tipi di tumore. In molti casi, se una terapia chirurgica definitiva lascia un relativo margine di tessuto sano, la terapia locale può essere considerata sufficiente. L'escissione di melanomi primari della cute, che possono essere trattati localmente con la sola chirurgia in circa il 95% dei casi, e di tumori iniziali della mammella chirurgicamente trattabili nel 90% dei casi, ne è un esempio. La resezione dei tumori del colon con un margine di 5 cm dal tumore si associa a recidive anastamotiche in meno del 3% dei casi.
In casi di presenza di dolore o anomalie funzionali, spesso vi è indicazione a una resezione chirurgica che può migliorare la qualità di vita nei pazienti oncologici. La chirurgia a scopo palliativo allevia problemi meccanici, quali, per esempio, occlusioni intestinali, o il dolore acuto con la rimozione della massa.
Negli ultimi anni si è guardato con attenzione al concetto di chirurgia citoriduttiva. La resezione chirurgica della parte più importante della malattia, come via terapeutica in casi di tumori specifici, permette un miglior controllo dei residui macroscopici di malattia non asportati, associata a trattamenti radioterapici o a terapie mediche sistemiche.
Grazie al perfezionamento delle tecniche chirurgiche, oggi la chirurgia può essere utilizzata anche in caso di ricostruzioni necessarie dopo una terapia definitiva o per riparare alle menomazioni anatomiche, migliorando sostanzialmente sia l'aspetto funzionale sia quello estetico. Il recente impiego di lembi cutanei liberi ‒ nel contesto di tecniche anastomotiche microvascolari ‒ ha avuto un grande impatto sulla chirurgia, poiché permette di conservare le aree interessate da un danno chirurgico mediante l'innesto di tessuto cutaneo sano.
L'origine della radioterapia risale alla fine del XIX sec., quando Wilhelm Conrad Röntgen, professore di fisica a Würtzburg, scrisse una relazione su 'un nuovo tipo di raggi' che chiamò raggi X. La radiologia divenne disciplina scientifica e Röntgen fu il primo vincitore del Premio Nobel nel 1901. Antoine-Henri Becquerel scoprì, nel 1902, che l'uranio produceva una radiazione simile a quella dei raggi X e negli anni successivi Marie e Pierre Curie identificarono una sostanza con radiazioni due milioni di volte superiori all'uranio che chiamarono radium. I raggi X furono impiegati per le diagnosi ma risultò subito evidente che erano nocivi avvalorando l'idea che essi potessero essere utilizzati nel trattamento del cancro. Una paziente affetta da cancro della mammella fu trattata con raggi X già nel 1896 da Emil H. Grumble di Chicago mentre Anton Ultimus Sjorgen applicò questo trattamento a un epitelioma della bocca nel 1899. Nel 1906 a Parigi Jean-Alban Bergonié e Louis Tribondeau descrissero nell'articolo De quelques resultats de la Radiothérapie, et essai de fixation d'une technique rationnelle, scritto per i "Comptes rendus des Séances de l'Académie des Sciences", i primi elementi di radiobiologia affermando che "l'effetto delle radiazioni sulle cellule vive è tanto più intenso quanto maggiore è la loro attività riproduttiva e tanto minore quanto più differiscono per morfologia e funzionalità"; osservazione che è alla base del trattamento del tumore con radioterapia. La prima applicazione del radio a scopo radioterapico si deve a Margaret Cleaves, che lo introdusse nell'utero in un caso di cancro di quest'organo.
L'era della radioterapia moderna ebbe inizio nel 1920 quando Claudius Regaud dimostrò che con un adeguato frazionamento era possibile ridurre in maniera notevole gli effetti tossici della radioterapia. Un secondo passo avanti derivò dalla calibrazione della dose somministrata nel paziente: emettendo una dose efficace mirata al tumore si potevano risparmiare i tessuti sani circostanti. La recente introduzione della si incentra proprio su questo obiettivo e la comparsa nel prossimo futuro di nuove metodologie radioterapiche basate sull'utilizzazione di particelle pesanti, come i protoni e/o ioni carbonio aumenterà in maniera definitiva le indicazioni e l'efficacia di questo trattamento. I nuovi progressi in campo radioterapico sono stati essenziali per la chirurgia conservativa ‒ oggi largamente impiegata ‒ del cancro della mammella, della testa, del collo e dei tumori ginecologici.
La chirurgia e la radioterapia non possono curare una neoplasia con metastasi diffuse in numerosi organi a distanza. Con la chemioterapia vengono somministrati farmaci antineoplastici che raggiungono i diversi organi e sistemi attraverso la circolazione sanguigna. Nei primi anni del Novecento, Paul Erlich sviluppò una serie di neoplasie murine che potevano essere trapiantate in modelli animali per vagliare potenziali farmaci anticancro. Gli agenti alchilanti, i primi agenti chemioterapici moderni, furono un prodotto dei programmi segreti per gas bellici delle due guerre mondiali. Una esplosione nel porto di Bari durante la Seconda guerra mondiale e l'esposizione dei marinai all'iprite fecero osservare che gli agenti alchilanti causavano ipoplasia midollare. Alfred Gilman e Frederick S. Philips cominciarono il primo studio clinico dell'azotoiprite in pazienti con linfoma maligno allo Yale Medical Center. Questi agenti furono utilizzati per la prima volta nel 1943 per trattare la malattia di Hodgkin e i linfomi linfocitici. Dopo che Sidney Farber ebbe reso note le sue osservazioni sull'effetto accelerativo dell'acido folico sulla crescita delle cellule leucemiche in bambini affetti da leucemia linfoblastica e sullo sviluppo di antagonisti dell'acido folico quali farmaci tumorali, la chemioterapia cominciò a essere presa in seria considerazione. Questi composti diedero origine ai primi trattamenti farmacologici in caso di cancro diffuso nel coriocarcinoma gestazionale, ancora ampiamente usati nella pratica clinica attuale.
Gertrude B. Elion e George H. Hitchings, vincitori del Premio Nobel per la medicina o fisiologia nel 1988, dimostrarono l'importanza della sintesi dell'acido nucleico come fattore inibente della crescita e crearono efficaci antipurinici analoghi per il cancro e altre malattie. Le potenzialità chemioterapiche degli alcaloidi della vinca, delle epipodofillotossine e dei complessi del platino sono state riconosciute in tempi diversi negli ultimi quarant'anni del secolo scorso. Il programma del National Cancer Institute degli Stati Uniti per l'identificazione di farmaci antitumorali sottopone a screening migliaia di prodotti naturali e composti sintetici, per individuare i composti guida con particolari meccanismi di azione. Sono le scoperte pionieristiche che risalgono alla nascita della chemioterapia che hanno permesso di sviluppare paradigmi per i ritrovati farmacologici che, debitamente aggiornati, costituiscono ancora un valido riferimento. Molti sono composti ancora oggi utilizzati come agenti anticancro e sono in corso studi per testare l'efficacia di altri. I farmaci chemioterapici agiscono specificatamente sulle cellule dell'uomo in maniera simile a quanto alcuni antibiotici fanno sui batteri: essi ostacolano la moltiplicazione cellulare interferendo sulle capacità di replicare il DNA; in alcuni casi inducono l'apoptosi nelle cellule cancerogene.
La prima generazione di chemioterapici risale agli anni Quaranta del XX secolo. Le conquiste in campo chemioterapico nei due decenni successivi hanno portato allo sviluppo di interventi terapeutici curativi in pazienti con diversi tipi di tumori solidi avanzati e neoplasie ematologiche. Tali acquisizioni hanno avvalorato il principio secondo il quale i farmaci anticancro potrebbero curare il tumore e successivamente essere integrati nei programmi di trattamento affiancati da chirurgia e radioterapia negli stati iniziali della malattia con risultati eccellenti. La tossicità sui tessuti normali del corpo e lo sviluppo di resistenza cellulare a questi agenti chemioterapici sono stati gli ostacoli più importanti riscontrati nei trattamenti. Nel corso degli anni Novanta le tecniche molecolari per l'analisi del DNA di cellule normali e neoplastiche hanno portato all'identificazione di alcuni meccanismi critici che causano la morte della cellula, indotta da chemioterapia. Moderne tecnologie hanno permesso di comprendere meglio i cambiamenti insiti in queste cellule che possono conferire sensibilità o resistenza al trattamento farmacologico. Questo nuovo insieme di informazioni, relative ai percorsi molecolari attraverso i quali agisce la chemioterapia e ai cambiamenti genetici che possono indurre una resistenza verso la terapia farmacologica, ha aperto la via a moderne strategie terapeutiche. L'insuccesso della chemioterapia fu dapprima imputato alle variazioni nelle caratteristiche della crescita del tumore. Successivamente l'attenzione si spostò sul ruolo dei meccanismi di resistenza, specifici e permanenti, che potevano insorgere dopo l'esposizione ai farmaci o essere già presenti come conseguenza di mutazioni genetiche intrinseche nel tumore. Nel corso degli anni Ottanta fu identificata una nuova forma di resistenza a più farmaci (gene mdr), e specificatamente a prodotti naturali che comprendono le antracicline, il taxolo, gli alcaloidi della vinca e farmaci analoghi delle purine e delle pirimidine. A questo meccanismo di resistenza fu attribuito un ruolo di primaria importanza nel fallimento della chemioterapia in vitro. Attualmente la chemioterapia viene utilizzata in quattro differenti impieghi clinici: (a) nel trattamento di induzione per malattie avanzate (curativa); (b) nel supporto a metodi locali di trattamento (adiuvante); (c) nel trattamento primario in alcuni pazienti che presentano malattie localizzate dove forme di terapia locale, da sole, sarebbero inadeguate (neoadiuvante); (d) nell'induzione diretta in sedi 'santuario' (intratecale) e nella perfusione diretta alla sede delle regioni specifiche del corpo interessate da tumore.
Nella chemioterapia di induzione in pazienti con forme di cancro avanzato è possibile stabilire la responsività ai farmaci. La risposta è definita tale in presenza di una riduzione di almeno il 30% nel diametro della massa tumorale valutabile. Una crescente evidenza porta a suggerire che gli indici di qualità della vita sono migliori nei pazienti che mostrano una responsività alla terapia.
Con 'chemioterapia adiuvante' si intende l'utilizzazione di un trattamento sistemico dopo che il tumore primario è stato controllato con modalità alternative, siano esse chirurgiche o radioterapiche. Inizialmente l'idea di utilizzare la chemioterapia come supporto a un trattamento locale suscitò grande entusiasmo. Il razionale per la chemioterapia adiuvante impone di trattare malattie micrometastatiche quando la massa tumorale è ancora di dimensioni limitate, in modo da migliorare ulteriormente la potenziale efficacia del trattamento farmacologico. È stato comprovato che una terapia farmacologica, a questo stadio, garantiva un tasso più alto di curabilità. La scelta di un programma di trattamento adiuvante per un determinato paziente si basa normalmente sul tasso di responsività in gruppi separati di pazienti con tumori avanzati con stessa istologia. L'idoneità di una popolazione di pazienti al trattamento adiuvante viene determinata in base ai dati disponibili sul rischio medio di sviluppare recidive in seguito al solo trattamento locale. La chemioterapia adiuvante oggi viene considerata come trattamento standard in tumori mammari e colorettali allo stato iniziale.
L'espressione 'chemioterapia neoadiuvante' è stata utilizzata per descrivere una terapia farmacologica, somministrata come trattamento primario in pazienti con tumore avanzato che, una volta in regressione, avrebbe permesso al chirurgo di limitare la resezione chirurgica. Una chemioterapia combinata che utilizza agenti citotossici multipli permette di raggiungere obiettivi che non sono possibili in caso di un trattamento con un unico agente chemioterapico. In primo luogo, essa riesce a uccidere il maggior numero di cellule entro i limiti di tossicità tollerati dal paziente per ogni farmaco senza compromissione del dosaggio. In secondo luogo, garantisce un raggio di interazione più ampio tra i farmaci e le cellule tumorali con differenti anomalie genetiche. Infine, è in grado di prevenire o rallentare il successivo sviluppo di resistenza al farmaco.
Più di un secolo fa alcuni medici notarono la regressione del tumore in alcuni pazienti oncologici che avevano contratto infezioni batteriche. William Coley, chirurgo del Memorial Hospital di New York, fu il primo a dedicare la sua vita professionale a creare approcci terapeutici basati sull'ipotesi che le cellule del sistema immunitario potessero uccidere quelle cancerogene. Egli utilizzò batteri resi inattivi (oggi considerati come la prima ) per generare un'ampia gamma di reazioni immunitarie nei pazienti oncologici. Malgrado alcune promettenti risposte cliniche, i risultati furono complessivamente imprevedibili. Il concetto che le cellule del sistema immunitario potessero controllare il cancro fece un ulteriore passo avanti tra gli anni Sessanta e Settanta del XX sec. con la teoria dell', che sottintende la presenza di tali cellule specializzate in grado di cercare e distruggere le cellule tumorali. Secondo questa ipotesi si dovrebbe registrare una insorgenza di tumore unicamente in caso di deficit del controllo da parte del sistema immunitario del paziente. Benché vi sia oggi una chiara evidenza che questo principio sia riferibile solo a un numero limitato di casi di tumore (e in modo particolare per il cancro indotto da alcuni virus), viene ampiamente accettata la teoria che le cellule del sistema immunitario possano provocare reazioni contro il cancro e molti scienziati e clinici stanno studiando protocolli immunoterapici in cui sia possibile un approccio specifico o aspecifico al tumore.
Oggi definiremmo la terapia di Coley come aspecifica: essa rafforza l'attività globale del sistema immunitario invece di ottenere cellule specifiche in grado di controllare il cancro. In tempi più recenti, è stato utilizzato un approccio aspecifico del tutto simile per la terapia locale del cancro della vescica mediante BCG (Bacillo di Calmette Guérin). Tale vaccino della tubercolosi provoca una infiammazione cronica locale, un'immunoreazione che coinvolge cellule immunitarie indefinite in grado di ridurre la ricomparsa di questo specifico tipo di tumore, fornendo un esempio delle potenzialità di immunoterapie aspecifiche locali. Nella maggior parte dei tumori sono le metastasi diffuse ai diversi organi a determinare la severità della prognosi. Pertanto la gran parte delle immunoterapie aspecifiche è studiata per reperire i tumori nelle varie sedi del corpo. Le citochine che si generano in risposta a infezioni batteriche e virali (come, per es., gli interferoni e le interleuchine) possono essere oggi prodotte per l'utilizzazione clinica. Tuttavia diversi studi clinici hanno indicato che un numero relativamente limitato di pazienti trae beneficio da queste molecole.
Nel corso degli anni Novanta del XX sec. è stata sviluppata una nuova strategia terapeutica a partire dalla precedente esperienza clinica ottenuta nel campo dei trapianti di midollo osseo. Nei pazienti leucemici, trattati con alte dosi di radioterapia o chemioterapia, l'infusione di midollo osseo o di cellule staminali periferiche raccolte da un familiare o donatore compatibile si associa dopo poche settimane alla generazione di un nuovo sistema immunitario. Le cellule immunitarie del donatore producono in molti casi un'importante reazione immunitaria contro la malattia neoplastica (originariamente chiamata 'effetto trapianto contro leucemia' o GVL, Graft versus leukemia) che permette di evitarne la ricomparsa. Sorprendentemente, in alcuni pazienti leucemici con ricaduta di malattia dopo il trapianto di midollo, la reinfusione di una semplice sospensione di cellule del sangue periferico del donatore ha permesso una seconda remissione completa della malattia. Questi risultati clinici hanno incoraggiato la nascita di nuovi protocolli (chiamati 'minitrapianti') in cui pazienti con patologie ematologiche maligne o tumori solidi ricevevano una chemioterapia più leggera prima dell'infusione di cellule staminali e immunitarie da donatore compatibile. Risultati preliminari hanno indicato che questo nuovo approccio può generare un'importante attività immunitaria chiamata 'trapianto contro tumore' (GVT, Graft versus tumor) in assenza di tossicità rilevante. Tuttavia vi è anche un effetto negativo rappresentato dall'attacco delle cellule immunitarie del donatore ad alcuni tessuti del ricevente: intestino, cute o fegato, effetto noto come 'malattia da trapianto contro ospite' (GVHD, Graft versus host disease). Molti sono i protocolli clinici in corso per cercare di dissociare GVT e GVHD attraverso una purificazione selettiva delle cellule implicate in questi effetti immunologici.
Partendo dal successo parziale ottenuto con l'attivazione aspecifica del sistema immunitario, i clinici hanno cercato di identificare molecole specifiche (antigeni) espresse unicamente dalle cellule tumorali. Gli anticorpi, un componente critico del sistema immunitario, circolano nel sangue, si legano ad antigeni estranei e producono importanti risposte contro questi bersagli. Gli anticorpi sono in grado di riconoscere differenze impercettibili tra le molecole e si sono dimostrati di notevole importanza per identificare gli antigeni specifici per il tumore, scoperti negli anni Novanta. Questi antigeni vengono usati in almeno tre differenti approcci immunoterapici specifici per il cancro. La possibilità di disporre a livello clinico di umanizzati ha enormemente agevolato l'uso di questi nuovi strumenti terapeutici in oncologia medica.
Gli anticorpi contro l'antigene CD20 delle cellule B, associati in alcuni casi a molecole radioattive, sono stati inclusi con successo nelle principali terapie per il linfoma delle cellule B, un tipo di cancro la cui incidenza è in aumento in tutto il mondo occidentale. Gli anticorpi contro HER2, una molecola sovraespressa in circa il 30% dei tumori della mammella, sono stati impiegati con esito positivo in malattie avanzate e sono in corso di valutazione nella prevenzione di ricadute di malattia. I peptidi derivati da antigeni cancerogeni vengono usati nei protocolli di vaccinazione contro il cancro al fine di stimolare un'immunoreazione altamente specifica. Inoltre gli anticorpi o i peptidi vengono utilizzati per selezionare le cellule immunitarie specifiche per alcuni tipi di cancro che vengono espanse ex vivo e reinfuse nei pazienti. È molto probabile che uno di questi approcci porterà all'identificazione di una cura per uno specifico tipo di cancro. Un obiettivo forse più facilmente raggiungibile è, però, la scoperta di una approccio terapeutico capace di controllare la progressione delle cellule neoplastiche.
Con le recenti scoperte e acquisizioni sui processi dei segnali di trasmissione intracellulare è stato possibile cominciare a disegnare una rete che, come descritto da Robert A. Weinberg, assomiglia per complessità e raffinatezza ai circuiti elettronici integrati. Come detto in precedenza, i genotipi delle cellule cancerogene sono una manifestazione di sei alterazioni che potrebbero rappresentare un potenziale bersaglio per un meccanismo di difesa anticancro.
Un ruolo dominante nello sviluppo di una terapia molecolare per il cancro è assunto dall'inibizione dei segnali di crescita. Generalmente le cellule normali hanno bisogno di segnali di crescita mitogenici per passare da uno stato di quiescenza a uno di proliferazione attiva. Questi segnali vengono trasmessi alla cellula attraverso recettori transmembrana che legano classi distinte di molecole emettitrici di segnali: fattori di crescita diffusibili, componenti della matrice extracellulare e molecole di adesione/interazione tra cellula e cellula. Le nostre conoscenze ci portano a ritenere che nessun tipo di cellula normale possa proliferare in assenza di questi segnali di stimolo. Molti oncogeni tumorali agiscono simulando, in un modo o in un altro, normali segnali di crescita. Si può concludere che le cellule tumorali autogenerano molti dei loro segnali di crescita, e in questo modo riducono la dipendenza dagli stimoli provenienti dal microambiente.
I recettori di superficie che trasducono i segnali stimolatori all'interno della cellula sono essi stessi bersaglio di deregolazione durante la patogenesi tumorale. I recettori per i fattori di crescita (GF, Growth factor), che spesso agiscono per mezzo di una tirosina-chinasi a livello citoplasmico, sono sovraespressi in molti tipi di tumore. Primo esempio di proliferazione dipendente dal fattore di crescita è l'interazione tra ormoni e recettori per l'estrogeno o per l'androgeno. Sono disponibili molti agenti ormonali utilizzati nel trattamento dei pazienti oncologici. Principalmente essi sono impiegati nelle terapie dei tumori ormonoresponsivi, quali il cancro della mammella, della prostata o i carcinomi dell'endometrio. Le sindromi paraneoplastiche, quali la sindrome carcinoide o i sintomi causati dal tumore, anoressia compresa, possono essere trattati con terapie ormonali. La sovraespressione recettoriale può rendere la cellula tumorale iperesponsiva ai fattori di crescita che di norma non indurrebbero la proliferazione.
Sono stati sviluppati nuovi agenti terapeutici per il trattamento del cancro, che identificano come bersaglio gli elementi chiave dei processi di trasduzione dei segnali, compresi EGFR, i recettori ErbB, i recettori per la tirosina-chinasi, altre chinasi, i geni Ras, PI3/Akt, e la chinasi bcr-abl, per menzionarne solo alcuni. Ampia è la caratterizzazione dellafamiglia dei recettori ErbB e dei loro ligandi. La famiglia include quattro recettori omologhi: EGFR (ErbB1/EGFr/HER1), ErbB2 (HER2/neu), ErbB3 (HER3) e ErbB4 (HER4). Questi recettori sono composti da un dominio extracellulare, un segmento di transmembrana lipofilica e un dominio della proteina intracellulare della tirosina-chinasi con un segmento terminale regolatore di carbossile. A seguito della dimerizzazione recettoriale la tirosina-chinasi si attiva e la tirosina si autofosforila. Questi eventi portano al reclutamento e alla fosforilazione di parecchi substrati intracellulari, responsabili dei segnali mitogenici e di altre attività cellulari.
Molti studi sperimentali e clinici comprovano l'opinione che l'EGFR è un importante obiettivo per la terapia anticancro. Due gli approcci terapeutici che hanno dato risultati molto promettenti e sono oggi utilizzati negli studi clinici per inibire l'EGFR: (a) gli anticorpi monoclonali (Mabs); (b) piccole molecole inibitorie dell'attività enzimatica della tirosina-chinasi dell'EGFR. I Mabs in genere vengono orientati al dominio esterno dell'EGFR al fine di bloccare l'azione del ligando e l'attivazione dei recettori. Gli inibitori della chinasi della tirosina (TKI, Tyrosine kinase inhibitors) ostacolano l'autofosforilazione del dominio intracellulare della chinasi della tirosina per EGFR. L'impiego potenziale dei Mabs nella terapia del cancro comprende l'uso di anticorpi come 'bloccanti' e agenti interferenti con la funzione fisiologica di un recettore; in questo caso, l'antigene è una molecola, la cui attività biologica è ben conosciuta, che agisce con una trasduzione dei segnali se attivato da un ligando particolare. Farmaci allo studio, volti all'inibizione del recettore ErbB1, includono IMC-C225, ABX-EGF, e MDX-447. L'uso del trastuzumab, un Mab diretto al recettore ErbB2, nel trattamento del cancro della mammella è ben noto. Gli anticorpi contro l'antigene CD20 delle cellule B hanno una notevole attività clinica nei pazienti affetti da linfomi a basso e alto grado. Radioimmunoconiugati anti-CD20 hanno inoltre dimostrato una importante attività clinica nei pazienti con linfomi pretrattati con chemioterapia.
Numerosi TKIs sono stati sintetizzati e valutati per una potenziale attività preclinica. Queste molecole sono generalmente antagoniste reversibili che legano il dominio catalitico intracellulare della tirosina-chinasi. Modelli a base farmacologica che riproducono il legame dei composti nella tasca dell'ATP della chinasi della tirosina sono stati utilizzati per mettere a punto, con esito positivo, potenti e selettivi inibitori TKI per EGFR. Tra questi, si attendono risultati positivi da tre serie di composti che includono: 4-anilinoquinazoline, 4-[ar(alk)ylammino]piridopirimidine, e 4-fenilamminopirrolo-pirimidine. Alcuni di questi inibitori hanno dimostrato, in modelli preclinici, una promettente attività antitumorale.
I farmaci più studiati includono ZD1839, OSI-774 e PRI-166, mirati a inibire la chinasi della tirosina dell'ErbB1. Vi sono anche inibitori della chinasi della tirosina per i recettori pan ErbB, quali CI-1033 e EKB-569 che sembrano legare irreversibilmente la tirosina-chinasi bloccando la funzione del recettore. L'effetto principale di questi agenti non è volto a fare regredire il tumore ma piuttosto a ritardarne la crescita, anche se alcuni farmaci provocano comunque una regressione del tumore. Forse gli endpoint principali nella valutazione di questi agenti dovrebbero essere la sopravvivenza media, il tempo di progressione della malattia, una migliore qualità di vita e altri benefici clinici quali il performance status e il controllo del dolore. Occorrerebbe dunque stabilire soglie di risposta specifiche come pure altri analoghi endpoint, inclusa la valutazione dei cambiamenti metabolici della neoplasia mediante PET scan.
La molecola per eccellenza tra tutti questi farmaci può essere considerata l'imatinib mesilato (Glivec, precedentemente nota come STI571), un inibitore selettivo della chinasi intracellulare ABL, dell'oncoproteina nata dalla fusione chimerica BCR-ABL tipica della leucemia mieloide cronica, del recettore transmembrana c-KIT e del PDGF-R (Platelet derived growth factor receptors, recettore del fattore di crescita derivato dalle piastrine). L'imatinib si dimostra molto efficace nei pazienti affetti da leucemia mieloide cronica e, in maniera minore, in quelli con altri tipi di leucemia, positive per cromosomi Philadelphia. Questo farmaco inoltre inibisce l'attività irregolare della tirosina-chinasi del recettore c-KIT nelle cellule dei tumori stromali gastrointestinali, dove una importante attività antitumorale è stata confermata da uno studio clinico multicentrico.
Tenendo presente che i vasi sanguigni sono un determinante critico per la crescita del tumore in vivo, la cellula del vaso endoteliale è diventata un altro obiettivo importante per la terapia del cancro e sono stati sviluppati molti inibitori dell'angiogenesi con funzione di agenti terapeutici anticancro. Gli inibitori della tirosina-chinasi dei recettori per il VEGF e quelli della polimerizzazione della tubulina delle cellule endoteliali sembrano essere gli agenti candidati a dare i risultati clinici più rilevanti.
La ripresa della malattia, nonostante una buona risposta iniziale, è dovuta spesso all'insorgenza di una resistenza acquisita ai farmaci, reputata quindi come la causa principale del fallimento della terapia o di una scarsa prognosi a lungo termine. Si pensa che le cause che provocano una resistenza acquisita ai farmaci siano imputabili a diversi meccanismi che comprendono mutamenti genetici e metabolici nelle cellule target, incluso un deterioramento o una sovraespressione degli enzimi che metabolizzano il farmaco. Questo suggerisce che variazioni nelle attività enzimatiche possono influenzare notevolmente il risultato dell'approccio terapeutico. Tra i meccanismi di resistenza acquisita al farmaco, si stima che i sistemi che 'riparano' il DNA e che controllano il ciclo cellulare abbiano un ruolo determinante. Si ritiene che l'uso combinato di nuove tecnologie possa permettere una visione più completa delle basi genetiche e biologiche che conducono a manifestazioni di resistenza nelle cellule tumorali, con il vantaggio di poter modificare la strategia terapeutica in relazione alla responsività del paziente.
Quest'area della ricerca si sta sviluppando velocemente. Comunque, mentre la relazione tra il genotipo e il fenotipo enzimatico è nota per alcuni loci, ci sono ancora parecchie incertezze sull'attribuzione di uno specifico fenotipo a un dato genotipo per altri loci. Analisi di concordanza possono stabilire l'affidabilità e valori di predittività dei metodi di genotipizzazione rispetto ai metodi di fenotipizzazione. Una volta stabilita una buona correlazione, le analisi molecolari, relativamente più veloci e meno costose, possono fornire un metodo diagnostico efficace che attesti la capacità metabolica del paziente di biotrasformare i profarmaci in derivati efficaci e di neutralizzare quelli tossici.
Lo spettro di risposta farmacologica, in termini di resistenza o di intolleranza ai farmaci anticancro, è effettivamente uno dei maggiori problemi nel trattamento delle patologie neoplastiche. Molti degli agenti in uso clinico sono sottoposti a bioattivazione per diventare farmacologicamente attivi. Diverse attività enzimatiche coinvolte nel processo di biotrasformazione mostrano una importante gamma di variabilità tra individuo e individuo. Le alterazioni nei processi metabolici possono influenzare le caratteristiche farmacocinetiche del medicamento, indicendo mutamenti negli effetti terapeutici o tossicità al farmaco stesso o ai suoi derivati. Uno studio sul profilo farmacogenomico dei pazienti oncologici può quindi fornire utili basi genetiche per selezionare pazienti da sottoporre a uno specifico trattamento antineoplastico.
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