onomastica
. Nell'uso dei nomi propri di rado D. viene condizionato da necessità metriche o di rima (per cui si vedano casi in cui la forma originaria viene ritoccata nella desinenza, per es. Absalone). Molti nomi grecizzanti sono invece ossitoni secondo le regole del tempo (cfr. Parodi, Lingua 232-234; e v. GRECISMI): Calliopè, Penelopè, Diogenès, Flegiàs, Semiramìs, Semelè, Tanaì (cfr. anche Cliò e Minòs).
Spesso il nome classico non subisce adattamenti e viene preferito a quello moderno e più consueto appunto per esigenze auliche. Si vedano nomi come Abraam, Babel, Belisar, Iob, Iosafat, cui si aggiungono, in uno stesso luogo del Convivio (IV XXVII 20), Achilles, Telamon, Peleus. In Agobbio e Ascesi vien preferita invece la forma popolare (nel secondo caso la scelta serba anche un'intenzione simbolica). I nomi geografici classici di Ausonia e Benaco hanno la medesima funzione: si noti che Eridanus, contro Po e Padus, compare solo nelle espistole (VII 23), ossia nella prosa dettatoria. Analogamente un nome di uso comune e di origine araba come Mongibello compare nella Commedia ma non nelle egloghe, dov'è usato il nome classico.
Un particolare sforzo di adattamento riguarda invece i nomi stranieri, i cui suoni richiedono un accorgimento speciale perché siano resi in volgare italico. Si vedano Bruggia, Clugnì, Doagio, Guanto, Pontì; la rima ha invece condizionato probabilmente la resa di Boemme, Calaroga, Caorsa.
Talora l'accorgimento appare soprattutto rivolto a una particolare resa espressiva, come nel caso di Osterlicchi, Tambernicchi (If XXXII 26 e 28), dove la rima è in funzione dell'onomatopea.
Talora D. preferisce usare il nome proprio nella sua forma corrente, e diremmo popolare, come nel caso di Proenza, Fegghine, Adice, che riflettono l'uso toscano, o di Sobilia (lf XX 126; cfr. ALLOTROPIA). Corniglia, che deriva dal nome latino secondo il processo subìto nell'uso volgare da forme analoghe, ma inconsueto in questo caso, appare sempre in rima, come in rima è Sinigaglia. Viceversa ‛ Elba ' è riaccostato alla forma originaria di ‛ Albis ' e reso con Albia.
Un aspetto particolare dell'o. dantesca, riconducibile al simbolismo della cultura medievale, consiste nell'uso dei nomi propri di persona assunti tacitamente o esplicitamente per quel che essi significano. questa disposizione si rivela già nel cap. I della Vita Nuova, dove il nome di Beatrice viene indicato come quello che perfettamente si addiceva a colei che lo portava; donde l'uso ambiguo di esso, assunto talora più come attributo che come nome proprio. Ancora nella Vita Nuova il poeta riassume nella formula Nomina sunt consequentia rerum la credenza nella corrispondenza fra nome e cosa nominata (XIII 4) e in XXIV 3-4 il nome della gentile compagna di Beatrice, Giovanna, la donna del Cavalcanti che altrove è detta Vanna (Rime LII 9), viene riportato al significato che acquista nella storia biblica la figura di Giovanni, e quindi spiegato col ‛ senhal ' di Primavera, che con bizzarra etimologia vien fatto equivalere a prima verrà. In quest'ultimo capitolo, centrale nella struttura teologica del libello, il simbolismo è affidato appunto alla corrispondenza fra i nomi (v. GIOVANNA).
In Rime CVI 150-153, ancora in un'esplicita corrispondenza posta fra nomi reali e reali significati che si nascondono sotto di essi, troviamo accanto al nome di Bianca nuovamente quello di Giovanna (bella, saggia e cortese / la chiaman tutti, e neun se n'accorge / quando suo nome porge, / Bianca, Giovanna, Contessa chiamando) interpretato come " saggia ", mentre in Pd XII il poeta richiama esplicitamente l'etimologia isidoriana (oh madre sua veramente Giovanna, / se, interpretata, val come si dice!, vv. 80-81; cfr. Isidoro Etym. VII IX 5) e adopera il vocabolo nel duplice valore di nome proprio e di aggettivo. Del resto nello stesso canto, oltre il nome Felice adoperato con la medesima funzione (v. 79), anche a proposito del nome di Domenico il poeta richiama il significato simbolico ricavato dall'etimologia, attribuendo la corrispondenza fra nome e reale destino della persona che lo porta al diretto intervento divino (quinci si mosse spirito a nomarlo / del possessivo di cui era tutto. / Domenico fu detto, vv. 68-70). È lo stesso criterio con cui D. introduce nelle sue opere il nome della Beatrice, abbandonandosi nella Vita Nuova a qualche gioco retorico, come la paronomasia di Beatrice beata, ecc., e alludendo nella Commedia a una vera e propria virtù intrinseca del nome, come in Pd VII 13-14, dove al di là della sottigliezza con cui il suono del nome viene richiamato attraverso le sillabe che lo comprendono (Be e ice), v'è la convinzione del potere taumaturgico del nome stesso in virtù del suo significato intrinseco. Anche l'accoglimento della pseudoetimologia del nome Galilea (Cv IV XXII 16-17) implica la credenza nella stretta connessione fra il simbolo e il nome che lo designa: ma il problema riguarda, a questo punto, il concetto stesso dantesco di simbolo e di allegoria.
Sulla necessaria corrispondenza fra nome e significato intrinseco di esso si fonda anche il bisticcio di Pg XIII 109-110 (Savia non fui, avvegna che Sapìa / fossi chiamata), dove, su un altro piano, il poeta non fa altro che cogliere l'occasione per rendere eloquente il discorso con una paronomasia.
Un interesse particolare offrono, nel campo dell'o. dantesca, i nomi dei diavoli della quinta bolgia, alcuni dei quali sono composti mediante comici accostamenti (Alichino, Calcabrina, Barbariccia, Graffiacane, Malacoda), altri sono nomi alterati (Cagnazzo, Draghignazzo) o bizzarramente derivati dal greco (Ciriatto). Fra le tante personificazioni del Fiore, spiccano alcuni nomi analogamente composti, come Malabocca e Bellaccoglienza, che dipendono dal ruolo svolto dai rispettivi personaggi simbolici che designano.
V. anche IPOCORISTICI, NOMI.