onomatopee e fonosimbolismo
Il termine fonosimbolismo (o simbolismo fonetico) si riferisce a una serie di fenomeni di varia natura e tipologia nei quali da un suono o una sequenza di suoni si riconosce il valore semantico in modo diretto e non mediato dalla grammatica.
Nell’accezione corrente del termine, il fenomeno fonosimbolico più noto è l’onomatopea (cfr. § 4), ma i confini del fonosimbolismo sono in realtà molto ampi, fino a rientrare a pieno diritto nell’ambito del cosiddetto iconismo linguistico (Jakobson & Waugh 1979; Simone 1995).
Il dibattito sulla natura dei segni linguistici è molto antico, e si può far risalire alla filosofia del linguaggio della Grecia antica. Nei termini della classica dicotomia tra phýsis «natura» e nómos «accordo», le due ipotesi antitetiche, riconducibili rispettivamente a Platone e Aristotele, prevedevano che tra la forma delle parole e il loro significato (e quindi, estensivamente, tra il linguaggio e il mondo rappresentato dal linguaggio) vi fosse un legame naturale da un lato, oppure un rapporto convenzionale, governato dall’uso della lingua nella società, dall’altro.
La teoria linguistica moderna è basata sul principio dell’arbitrarietà del segno: nelle lingue, il legame tra il significato e il significante non è motivato in modo diretto e naturale, ma è arbitrario e convenzionale.
Il paradigma dominante nella linguistica del Novecento ha di fatto relegato lo studio degli aspetti mimetici o variamente espressivi ai margini, nonostante le indagini condotte su varie lingue del mondo abbiano via via dimostrato come i fenomeni fonosimbolici giochino un ruolo non secondario nella struttura delle lingue (per una rassegna, Hinton, Nichols & Ohala 1994).
Attualmente, pur riconoscendosi il carattere sostanzialmente arbitrario e convenzionale dei segni linguistici, sembra prevalere un atteggiamento di accresciuta sensibilità nei confronti degli aspetti iconici e, nello specifico, fonosimbolici delle lingue.
I fenomeni fonosimbolici possono essere distinti in tre classi principali (cfr. Hinton, Nichols & Ohala 1994): fonosimbolismo mimetico, biologico o sinestetico, grammaticale o convenzionale; a tali classi è poi possibile aggiungere il cosiddetto fonosimbolismo fisico o corporeo.
Si basa sull’imitazione di suoni naturali o ambientali; i versi prodotti dagli animali sono tipicamente riprodotti mediante parole onomatopeiche, più o meno convenzionali (ad es. pio pio per il pulcino; cfr. § 4); suoni comuni e movimenti ritmici sono parimenti espressi da forme fonosimboliche di questo tipo (ad es., drin per il suono di un campanello, vrum per il motore di una macchina, cic ciac per il rumore di un passo su terreno bagnato), in cui spesso viene ripetuta una sillaba (ad es., clap clap per il battere le mani, toc toc per bussare alla porta) o compare una sequenza di consonanti iterata con apofonia vocalica (per es., tic tac, zig zag) (➔ raddoppiamento espressivo).
Si può definire come la resa fono-acustica di fenomeni non sonori, e si riferisce all’associazione tra segmenti (vocali e consonanti) e proprietà sensoriali (visive, tattili, uditive) o propriocettive degli oggetti, quali forma o grandezza. Ad es., la vocale [i] è associata in modo naturale e forse universale all’idea di piccolezza, mentre [a] e [o] rinviano all’idea di grandezza (cfr. già Sapir 1929; Jespersen 1933; Chastaing 1965; più recentemente, Dogana 1983, 1990; Fónagy 1991).
Gli effetti fonosimbolici possono interessare anche la morfologia: da un’analisi tipologica compiuta su un vasto campione di lingue, risulta che circa il 90% delle lingue considerate ha la vocale [i] nella marca del ➔ diminutivo (Ultan 1978). Per l’italiano, si confrontino i lessemi piccolo, piccino, minore, minimo rispetto a grande, massiccio, maggiore, massimo, o il suffisso -ino rispetto a -one.
L’associazione soggettivamente comprovata tra timbro vocalico e dimensione ha un fondamento biologico, dal momento che esiste in natura un rapporto inversamente proporzionale tra la frequenza acustica di un suono e la grandezza del corpo o dell’oggetto che lo produce; si tratta del cosiddetto codice della frequenza (cfr. Ohala 1983; Hinton, Nichols & Ohala 1994). In altri termini, suoni acuti sono prodotti da corpi o oggetti di piccole dimensioni, mentre corpi o oggetti voluminosi producono suoni gravi; la differenza tra la voce di un violino e quella di un violoncello è pertanto analoga a quella che esiste tra la voce di un bambino e quella di un adulto. In parallelo, la frequenza fondamentale intrinseca dei vari suoni vocalici impiegati nelle lingue umane è diversa a seconda delle loro caratteristiche articolatorie (➔ vocali) e il valore delle loro armoniche dipende direttamente dal volume della cavità orale: [a], in quanto vocale più aperta, ha valori formantici (➔ fonetica acustica, nozioni e termini di) più elevati per la prima formante, ma bassi per la seconda formante; viceversa, [i] ha la prima formante bassa, ma la seconda assai elevata. Il fonosimbolismo di tipo sinestetico ha dunque chiare basi biologiche, che ridimensionano in quest’ambito l’arbitrarietà del segno.
Fa riferimento all’associazione di certi segmenti o sequenze di suoni con significati sulla base di elementi lessicali che esprimono prototipicamente quei significati; ad es., per i parlanti italiani i fonemi sibilanti /s/ e /ʃ/ sono associati con l’idea di «movimento sinuoso», essenzialmente perché compaiono come suoni iniziali di parole come serpente, scivolare, sciare, sciogliere; nel gruppo /fl/ si può individuare un valore iconico di «mollezza», come testimoniano vocaboli come floscio, flaccido, fluido (cfr. Dogana 1983: 199).
Parimenti, la consonante /l/ può facilmente evocare l’idea di «liquidità» o di «luce», ancora una volta per la sua presenza in parole come flutto, fluido, liquido, luce, brillare, lume, barlume (analogamente, in inglese float, flow, gleam, glitter), mentre /r/ rinvia a impressioni di «movimento rapido», «rotolamento», ma anche di «durezza», ben espresse nei lessemi italiani duro, rapido, ruvido, rotolare, vibrare, tremare, ecc.
Sono infine da ricordare associazioni fonosimboliche di tipo psicologico e psicanalitico, in particolare le connotazioni rispettivamente di «mascolinità» e «aggressività» per /r/ e di «femminilità» e «dolcezza» per /l/: la vibrazione vigorosa della punta della lingua coinvolta nella produzione di /r/ richiamerebbe l’erezione del membro maschile; d’altro lato, una pronuncia imperfetta di questo segmento sarebbe associata alla paura di castrazione, e per questo sarebbe statisticamente più frequente nei ragazzi che nelle ragazze (cfr. Fónagy 1991: 500 segg.).
I numerosi e coerenti risultati empirici raccolti in quest’ambito sembrano confermare la rilevanza psicologica di certe associazioni, senza tuttavia giustificare il loro uso come principio esplicativo del rapporto naturale e non convenzionale tra suono e senso, tanto in riferimento all’origine del linguaggio quanto all’uso della lingua; rapporti sia di tipo iconico che mimetico del genere qui considerato hanno infatti sempre e comunque carattere secondario e soggettivo, sono cioè derivati dalla presenza nel lessico di alcune parole che fungono da elementi prototipici trainanti nelle associazioni stesse (cfr. Vineis 1983; Bertinetto & Loporcaro 1994: 158 segg.).
Indica la produzione di suoni o prosodie che esprimono lo stato emotivo o psico-fisico del parlante; rientrerebbero in questa categoria colpi di tosse, fischi, grugniti, grida, singhiozzi o prosodie ‘espressive’ in quanto eccessive, click e tic, come pure alcune manifestazioni verbali di comportamenti patologici quali la sindrome di Tourette (cfr. Ostwald 1994).
Tali fenomeni tuttavia non costituiscono una vera e propria classe fonosimbolica, dal momento che si tratta di produzioni sonore non appartenenti in senso stretto al sistema linguistico; possono al più essere collocati ai margini della comunicazione umana latamente intesa, in considerazione dei suoi vincoli biologici.
Il rapporto naturale, in quanto motivato su base mimetica, tra suono e senso sembra trovare la sua massima espressione nelle onomatopee, segni linguistici che riproducono direttamente suoni, rumori o voci di animali, usando i mezzi fonetici e grafemici disponibili; ad es., in italiano, din don per il suono delle campane, chicchirichì e coccodè per il verso del gallo e della gallina.
Le parole onomatopeiche, presenti in tutte le lingue del mondo, in virtù del loro legame immediato e diretto con i referenti possiedono un’elevata capacità espressiva, e nel contempo mostrano un adattamento di suoni extralinguistici, non articolati, al sistema fonologico di una lingua.
Tuttavia, le onomatopee non sono una pura e semplice mimesi dei versi prodotti dagli animali, ma mostrano esse stesse aspetti convenzionali. Infatti, ogni lingua usa parole onomatopeiche diverse per lo stesso referente; esemplare è il caso del canto del gallo, che è denominato in italiano chicchirichì, in francese cocorico, in inglese cock-a-doodle-doo, a conferma del carattere culturale, dunque convenzionale, e non naturale, tra suono e senso anche in questo ambito.
Inoltre, le stesse onomatopee possono diventare unità grammaticali a tutti gli effetti; se in italiano beee è l’onomatopea che esprime il verso della pecora, i derivati belare e belato ne rappresentano la grammaticalizzazione mediante l’aggiunta di morfemi verbali o nominali. In parallelo, andrà osservato che beee, muuu, miao, al pari di tutte le onomatopee autentiche, per il fatto stesso di essere inserite nella stringa fonetica, e dunque per essere elementi strutturali di un enunciato, contengono già in forma potenziale la loro progressiva grammaticalizzazione in belare, muggire, miagolare (Grammont 1933; Vineis 1983).
Per le onomatopee pare preferibile parlare di convenzionalità e di arbitrarietà relativa, piuttosto che di mero rapporto naturale tra suono e senso, dal momento che la resa imitativa del fenomeno sonoro (verso di animale, rumore, ecc.) è non solo filtrata attraverso la fonologia di una lingua specifica, ma anche inserita all’interno del suo sistema grammaticale.
Il termine inglese ideophone (coniato in origine da Doke 1935 per le lingue bantu) si è diffuso nelle descrizioni di lingue esotiche (per es., dell’Asia meridionale o dell’Oceania) ed è ormai impiegato anche per alcuni segni espressivi delle lingue occidentali.
L’ideofono è una categoria linguistica simile all’➔ interiezione, ma con funzione referenziale o emotiva e spiccato carattere iconico, per cui rientra nell’ambito del fonosimbolismo, in molte lingue africane l’ideofono esprime suoni fisici non articolati (ad es., in ciLuba múcimá nku-nku-nku «un cuore trepidante», letteralmente «che fa tun tun»), colori particolarmente intensi (ad es., in liNgala pémbe pee «bianco vivo») oppure azioni percepite come forti o ripetute (ad es., in kiSwahili kuanguka pu «cadere rumorosamente»; cfr. Mioni 1990: 256).
Nelle lingue europee, e quindi anche in italiano, gli ideofoni mantengono carattere eminentemente descrittivo e presentano spesso carattere olofrastico, comparendo in enunciati monorematici (uffa!; bum!) o come incisi (poi, glu glu, affondò; mangiava, gnam gnam, di gusto).
Come accade per le onomatopee e in generale per i fenomeni fonosimbolici, anche nella formazione degli ideofoni sono attivi alcuni meccanismi fonologici e morfologici, quali la ripetizione di sillabe (ad es., toc toc, drin drin, glu glu, brum brum) o anche di parole più lunghe (lemme lemme), come pure l’alternanza di vocali tra consonanti identiche (zig zag, din don, tic tac, ecc.; ➔ raddoppiamento espressivo).
Fenomeno tipico della lingua parlata, specialmente in contesti colloquiali o in ambiti pragmatici affettivi (per es., il ➔ baby talk), gli ideofoni sono molto frequenti nei cartoni animati (il cui pubblico è costituito perlopiù da bambini), ma anche nei fumetti, da sempre ricettivi verso questo fenomeno.
Da uno spoglio effettuato da Mioni (1990: 264) su un corpus di fumetti italiani, risulta che accanto ai molti ideofoni che hanno un antecedente inglese (ad es., slam per «porta sbattuta con violenza», sniff per «annusare», smack per «bacio») ve ne sono molti tipicamente italiani, e alcune vere e proprie neoformazioni, come trrr per il rumore del trapano o strumento affine, tun tun per la percussione.
Individuare criteri che distinguano nettamente onomatopea e ideofono non è semplice; ad es., forme come pio pio, cip cip, ecc. possono essere classificate come voci sia onomatopeiche che ideofoniche. Parimenti, il confine tra interiezione e ideofono è labile; ad es., brrr per esprimere la sensazione di freddo è certamente un ideofono, ma potrebbe essere anche considerata un’interiezione; bum indica come ideofono un rumore forte e improvviso o un’esplosione, mentre come interiezione esprime piuttosto il dubbio su un’affermazione poco credibile o eccessiva.
In virtù della tendenza a motivare il rapporto tra suono e senso, il fonosimbolismo è spesso utilizzato in ambito poetico e letterario. Da sempre poeti e scrittori sfruttano intenzionalmente le capacità mimetiche ed evocative dei suoni e le qualità espressive della parola. Già in ➔ Dante troviamo onomatopee (ad es., tin tin, in Par. X, 143), fenomeni fonosimbolici di tipo sinestetico e fonoiconismi (ad es., graffia li spirti, iscoia ed isquatra, in Inf. VI, 18).
Il ricorso agli aspetti fonosimbolici del linguaggio si fa sempre più ampio nella poesia moderna, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. L’uso di elementi fonosimbolici è particolarmente evidente nella poesia futurista, che li interpreta come strumento per superare schemi percepiti ormai vecchi e sterili («passatisti» nel gergo dei futuristi); si veda ad es. l’incipit de La fontana malata, di Aldo Palazzeschi: Clof, clop, cloch / cloffete, cloppete, clocchete, con la sua sequenza di ideofoni.
Ma si considerino anche i Calligrammes di Guillaume Apollinaire, nei quali la diversa lunghezza e la disposizione dei versi delineano il profilo di un oggetto materiale (nave, anfora, fumo, ecc.): in questo caso, come in tutti i carmi figurati, si verifica uno scarto dalla linearità del significante e dall’arbitrarietà del segno (grafico), per ottenere una rappresentazione visiva e immediatamente iconica del significato (cfr. Pozzi 1981; Dogana 1990; Fónagy 1993).
In riferimento al valore fonosimbolico che associa il fonema /r/ all’idea di «rotolamento» e «vibrazione» (cfr. § 3.3) si possono citare ad es. i seguenti versi di Eugenio Montale:
Trema un ricordo nel ricolmo secchio
nel puro cerchio un’immagine ride
(“Cigola la carrucola nel pozzo”, in Ossi di seppia, vv. 3-4)
o quelli di Giovanni Pascoli:
sento tra i queruli
trilli di grilli, sento tra il murmure
piovoso del Serchio
(“Il cane notturno”, in Odi, vv. 1-3)
Ricordiamo infine che anche la pubblicità fa ampio impiego di fenomeni fonosimbolici, soprattutto del fonosimbolismo sinestetico e convenzionale (➔ pubblicità e lingua).
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