Onorio III
Dal particolare punto di vista in cui ci si vuole collocare, di valutare l'azione e la personalità dei pontefici romani in relazione con la figura e l'opera politica di Federico II, O. non sembra, alla luce della più recente storiografia, doversi raffrontare con il suo grande predecessore Innocenzo III, ma piuttosto configurarsi come colui al quale toccò ‒ dopo quella sorta di intermezzo politico-ideologico in cui si trovò ad operare Lotario dei Conti di Segni ‒ riprendere la trama complessa, e comunque interrotta dalla morte di Enrico VI e di Celestino III, che aveva contraddistinto i rapporti tra papato e Impero sullo scorcio del sec. XII. Anche a dover prescindere da ogni antistorica valutazione di "grandezza" della personalità dei singoli pontefici, anche a rinunciare definitivamente a stabilire astratte e meccaniche "continuità" o "discontinuità", in forza delle quali, ad esempio, si è discusso e si discute tuttavia se Celestino III possa dirsi valido predecessore di Innocenzo III ‒ come se i contesti storici specifici non dovessero avere alcun peso nel giudizio storico ‒, il problema dei rapporti tra il papato romano e la casa di Svevia si propose, al tempo di O., nello stesso alveo in cui era decorso nel difficile rapporto tra Celestino III ed Enrico VI: il papa si trovava di fronte non più ad un fanciullino di quattro anni, che non si sapeva ancora che cosa dovesse ereditare dal padre e dalla madre, in un turbinio di ambizioni, particolarismi, rivalità tra le monarchie più importanti d'Europa (Francia e Inghilterra, a tacere del Reich tedesco, lacerato dalle fazioni), ma doveva ovviamente considerare Federico (II) sua unica controparte, sia per la successione imperiale, sia per la definizione dell'eredità del Regno di Sicilia, assicurato alla dinastia sveva, ma in un contesto che, da parte papale, si auspicava diverso da quello dell'unio Regni ad Imperium, quale era nella prospettiva sveva, specialmente di Enrico VI. O. non si trovò a scrivere la sua azione su di una pagina bianca (o quasi) come era stato nel caso di Innocenzo III.
Né paia tale affermazione contrastare con le dichiarazioni dello stesso O., all'inizio del pontificato, di voler seguire la politica del predecessore, a meno di intendere tale affermazione come riconoscimento dell'impossibilità di sottrarsi ai molteplici e gravi problemi che Innocenzo III aveva lasciato insoluti: rapporti con Regni e città d'Europa, compimento della crociata ‒ che Enrico VI non aveva potuto attuare ‒ e rapporto con la casa di Svevia per quanto concerneva la natura del vincolo tra Sede Apostolica e Regno di Sicilia. Per quello che concerneva l'Impero, era abbastanza chiaro che, dopo Bouvines (1214) e la sconfitta della coalizione anglo-guelfa, nulla si sarebbe frapposto alla successione di Federico II al trono imperiale.
Delle origini e dei natali di O. (Cencio) la recente storiografia (v. perciò Carocci-Vendittelli, 2000, II, pp. 350-351) sembra aver stabilito che né i Savelli né ‒ come si è più recentemente creduto ‒ i Capocci, famiglie cospicue romane del sec. XII, possano verosimilmente essere individuate come quelle di appartenenza del successore di Celestino III. Certezza v'è solo su quanto attestato dalle parole dello stesso Cencio nell'introduzione del Liber Censuum (v. Celestino III). "Ego Centius, quondam felicis recordationis Clementis pape III, nunc vero domini Celestini pape III camerarius, Sancte Marie Maioris Urbis canonicus": e come tale incaricato, specie da Celestino, di missioni diplomatiche in Spagna e presso Enrico VI nel 1196, insieme con i cardinali Ottavio di Ostia e Pietro di S. Cecilia; camerario della Sede Apostolica dal 1188, fu creato cardinale diacono di S. Lucia in Orphea (= in Silice, "in capite Suburrae", soppressa come diaconia nel sec. XVI) nel 1193, e quasi certamente prima del 1194 fu da Celestino III nominato capo della cancelleria pontificia. La carica di camerario venne mantenuta da Cencio fino all'avvento di Innocenzo III, nelle cui mani egli la rassegnò, poiché già il 14 agosto 1198 come camerario si trova menzionato un tal Riccardo. Abolita la duplice carica di cancelliere e camerario da parte del nuovo papa, Cencio fu 'promosso' al titolo cardinalizio dei SS. Giovanni e Paolo, ma non prese più, per la durata di quel pontificato, parte attiva nelle vicende della politica amministrativa e non della Curia; come cardinale prete dei SS. Giovanni e Paolo sottoscrisse per la prima volta nel novembre 1201 (secondo gli autori della voce Onorio III dell'Enciclopedia dei Papi il 4 luglio 1200); l'ultima volta che appare come vicecancelliere è nel 1200.
Si è generalmente interpretata questa 'uscita di scena' come sintomo di una seria divergenza tra Innocenzo III e Cencio, di cui peraltro appare difficile cercare una motivazione. Come fedele consigliere di Celestino III ‒ e prima di Clemente III ‒ non poteva essere ritenuto responsabile della situazione di incertezza e di ostilità che s'era determinata tra Enrico VI e lo stesso Celestino III, dopo gli accordi di Gravina con Tancredi di Lecce, che, ove fosse ancora stato possibile, dopo l'incoronazione del 1194, volerli utilizzare come parziale base negoziale per non cedere del tutto il controllo sul Regno meridionale da parte della Sede Apostolica, sarebbero potuti apparire ‒ ma post eventum! ‒ contrastanti con l'indirizzo politico di Lotario dei conti di Segni, circa l'eredità a favore di Federico (II), cui indubbiamente Innocenzo III si sentiva legato, avendo egli stesso dato il consenso a Costanza d'Altavilla per l'elezione del figlio a re di Sicilia. Se, d'altro canto, si guarda alla politica innocenziana per quanto concerne le nomine cardinalizie, una volta acclarato che non poteva esserci nessuna motivazione di carattere 'famigliare' nel porre in ombra Cencio (che non apparteneva né ai Savelli, né ai Capocci: dei trentatré cardinali creati da Innocenzo III, diversi appartenevano a famiglie cospicue, come i Conti, i Capocci, i Colonna, i Pierleoni, ecc.; per quelli che erano ancora viventi al momento dell'elezione di O., v. A. Paravicini Bagliani, Cardinali di Curia e "familiae" cardinalizie dal 1227 al 1254, I, Padova 1972, pp. 11 ss.) non si ottiene una spiegazione più plausibile dell'ipotizzata ostilità 'politica' di Innocenzo verso Cencio. Ed anzi, se la crociata stava a cuore ad Innocenzo III, l'impegno che l'esperienza dell'antico camerario poteva mostrare nella salvaguardia delle entrate della Chiesa doveva costituire un elemento apprezzabile per la valorizzazione dello stesso Cencio.
Comecchessia, Cencio fu eletto a Perugia il 18 luglio 1216 e consacrato papa il 24 nella stessa città; l'omonimo predecessore ‒ non antipapa, s'intende ‒ era stato quell'Onorio II che il 22 agosto 1128 aveva, dopo un periodo di conflitto, stipulato con Ruggero II d'Altavilla quell'accordo di Benevento che vedeva il Normanno investito dal papa del ducato di Puglia, in cambio del giuramento di fedeltà al pontefice romano: poteva essere un auspicio, se non proprio un indirizzo, ma non ci sono prove che questo fosse il motivo della scelta. Tra i numerosi problemi che O. doveva affrontare e che vedevano la casa di Svevia e Federico (II) in primis come interlocutori privilegiati ed imprescindibili, nel 1216 non la questione imperiale, comunque, apparve l'immediata preoccupazione di O., forse perché l'opzione sveva ‒ che non doveva significare necessariamente Federico (II) ‒ appariva ormai inevitabile.
L'immediata preoccupazione era quella della crociata, sia per l'esito sconvolgente della quarta, sia per l'impegno del IV concilio lateranense del 1215. Sul piano delle intenzioni dichiarate, non sembrava dovessero esserci dubbi. Anche se la costituzione LXXI di quel concilio, concernente la crociata, non poté essere discussa ed approvata dal concilio per la morte di Innocenzo III, non poteva esservi dubbio, trattandosi di decisione personale del pontefice, che la volontà del papa fosse ferma: "Ad liberandam Terram sanctam de manibus impiorum, ardenti desiderio adspirantes, de prudentum virorum consilio, qui plene noverant circunstantias temporum et locorum, sacro approbante concilio diffinimus ut crucesignati se praeparent quod in calendas iunii sequentis post proximum omnes qui disposuerant tran-sire per mare conveniant in regnum Siciliae; alii sicut oportuerit et decuerit, apud Brundusium et alii apud Messanam et partes utrobique vicinas, ubi et nos personaliter Domino annuente disposuimus tunc adesse [...]" (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. Alberigo et al., Bologna 1991, p. 267). Innocenzo III ‒ qualunque possa essere il giudizio circa il comportamento tenuto di fronte alla deviazione a Zara e a Costantinopoli della quarta crociata (v. in proposito A.J. Andrea-J.C. Moore, Question of Character: Two Views on Innocent III and the Fourth Crusade, in Innocenzo III, Urbs et Orbis, I, Roma 2003, pp. 525-585) ‒ non poteva mancare l'obiettivo che lo avrebbe definitivamente legittimato ad essere considerato capo del mondo cristiano ed arbitro della pace in Europa: quello della crociata. O. inaugurò la sua attività di pontefice proprio partendo dal punto in cui s'era interrotta quella del predecessore, senza che ciò si debba intendere come deliberato disegno di porsi in una linea di consapevole 'continuità': si è già detto delle mutate circostanze e si potrebbe aggiungere che quanto per Innocenzo III poteva essere il compimento di una politica di crescenti successi, per O. doveva essere il primo passo per salvare le conquiste del predecessore nel modo più opportuno.
Il 25 luglio 1216 a Giovanni, re di Gerusalemme, O. scriveva: "Non ergo propter obitum prefati praedecessoris nostri costernetur cor tuum neque formidet, quasi propter hoc Terre Sancte impediatur succursus, quoniam, etsi illius sufficientie nostra videatur inferior, ad liberationem tamen ipsius votis non minoribus aspiramus [...]" (M.G.H., Epistolae saec. XIII, I, 1883, p. 1). Contestualmente scriveva al podestà e al popolo di Milano, affinché cessassero la guerra contro i pavesi, in quanto causa di impedimento o comunque di ritardo nel compimento della crociata, minacciando, in caso di inadempienza, la scomunica. Anche a limitarsi alle lettere del primo anno di pontificato, l'intervento di O. per la promozione della crociata torna in numerosissimi scritti (v., per esempio, le lettere inviate a feudatari, signori e vescovi di Francia perché si recassero in Terrasanta, avendo preso la croce: Regesta Pontificum, I, 1874, nr. 5325).
Naturalmente occorreva tradurre in pratica il disegno e, come già per Innocenzo III, il Regno di Sicilia appariva come la base naturale di ogni operazione transmarina: in maniera nemmeno velata, O. rispondendo a Federico II, "Illustri regi Sicilie in imperatorem electo" ‒ che aveva comunicato il suo dolore per la morte di Innocenzo III ed il proprio compiacimento per l'elezione dello stesso O. ‒ precisava che "ad te legatum nostrum disponimus destinare, per quem tam super hiis que ex parte tua nobis fuere proposita, quam super Terre Sancte succursu celsitudini regie curabimus respondere". Ma alla spedizione che nell'estate del 1217, sotto la guida dei re di Ungheria, di Cipro e di Gerusalemme, non potendo puntare sulla Terrasanta s'era diretta verso Damietta (v.), alle foci del Nilo, occupandola, non s'era potuto associare Federico, non ancora del tutto sicuro della situazione in Germania, dove i fautori restanti di Ottone IV di Brunswick avrebbero potuto, proprio in assenza di Federico, impedire l'elezione del figlio Enrico a re dei Romani.
Nemmeno la precarietà della situazione politica dell'esercito crociato a Damietta, stretta d'assedio, e i continui ammonimenti di O. nei mesi che precedettero e seguirono l'incoronazione imperiale (v. Incoronazioni) di Federico II mutarono le cose. Si può giudicare come errore politico il rifiuto opposto da O. e dal suo legato il cardinale vescovo di Albano, Pelagio Galvani, all'offerta del sultano d'Egitto di cedere Gerusalemme ed altre località della Terrasanta, in cambio della restituzione di Damietta: ma si deve osservare che una conclusione concordata per Gerusalemme non poteva, con la sua forte carica di Realpolitik, soddisfare il disegno di Innocenzo III e, conseguentemente, che O. non poteva in nessun modo rinunciare ad apparire come il difensore dei sacrosanti diritti della cristianità. Non per nulla nella citata costituzione LXXI del IV concilio lateranense si descriveva la situazione di Gerusalemme come da sottrarre dalle mani degli empi. E ciò può anche spiegare perché, giunti in ritardo gli aiuti inviati nel 1221 a Damietta ‒ non Federico II in persona ‒, la colpa del fallimento fu scaricata dal papa sull'imperatore. Era un modo per condizionare tutto ciò che era ancora condizionabile nei confronti di Federico II, mantenendo fermo come debito insoluto l'impegno personale e militare dello Svevo, di cui peraltro non si poteva fare a meno come aveva mostrato l'esito della spedizione non imperiale, risultato fallimentare a Damietta. Era un precedente che poteva far comprendere azioni e reazioni del successore di O., Gregorio IX, allorché si ripeté la vicenda delle promesse e dei ritardi della crociata.
Ma c'è da notare comunque una differenza, rispetto a quello che sarebbe stato il carattere decisionista di Gregorio IX verso l'atteggiamento di Federico II per la crociata. O. credeva comunque nella cooperazione tra papato e Impero, ribadita proprio in occasione dell'incoronazione dello Svevo ad imperatore avvenuta a Roma nel 1220 (22 novembre), dopo una serie di dichiarazioni di riconoscimento dell'alta autorità della Sede Apostolica sul Regno di Sicilia, da affidare, in ogni caso, al figlio dell'imperatore, Enrico, "quem ad mandatum predecessoris vestri bone memorie domini Innocentii pape tertii fecimus coronari, emancipemus a patri potestate ipsumque regnum Sicilie […] penitus relinquamus ab ecclesia Romana tenendum": promessa di Hagenau del febbraio 1220 "de regno Siciliae ab imperio separando"; dopo che nel settembre 1219 sempre a Hagenau si erano restituite ad O. le terre matildine, le terre rivendicate da Ceprano a Radicofani, la Marca anconetana, il ducato di Spoleto, l'esarcato, la pentapoli, ecc. (cf. M.G.H., Leges, I, 1893, nrr. 65, 66, 72, 82-87). È pur vero, per quanto concerne la questione dell'unione dell'Impero col Regno di Sicilia, che Federico II gradua i suoi impegni, nel senso che prima riconosce di aver ricevuto il Regno di Sicilia dalla benevolenza di santa madre Chiesa e di riconoscerne la sovranità al punto da dichiarare che quel Regno egli avrebbe difeso personalmente a favore della Chiesa di Roma; poi, "postquam fuerimus imperii coronam adepti", emancipa il figlio Enrico affinché egli possa ottenere dalla Chiesa la corona del "regnum Sicilie ab ecclesia Romana tenendum"; finalmente ottiene il consenso dei "principes imperii" (23 aprile 1220) agli impegni assunti ad Hagenau: ed in proposito va notato che i principi dell'Impero si riferiscono a Federico II come virtualmente imperatore sette mesi prima dell'incoronazione romana e della Constitutio in basilica beati Petri (v.). E, pur non essendosi fatto alcun rilievo sulla circostanza né essendo questo il luogo per farlo, si dovrà ancora osservare circa quella Constitutio che nel rivolgersi "marchionibus, comitibus cunctisque populis", ecc. Federico si intitola "Dei gratia Romanorum imperator et semper augustus", omettendo qualsiasi riferimento al titolo di "rex Siciliae".
Difficile stabilire se ciò fosse dovuto al desiderio di esaltare l'unicità e superiorità assoluta del titolo imperiale, rispetto ad ogni altro ‒ pur sempre menzionato in tutta la precedente documentazione ‒ o fosse una dichiarazione di ostentato mantenimento di impegno verso le promesse di rinuncia ad ogni forma di unione: una risposta plausibile al dilemma potrebbe essere rappresentata dal fatto che la Constitutioin basilica beati Petri è tale perché è legge dell'Impero e non riguarda il Regno di Sicilia; ma è argomento non convincente, allorché si tenga presente che una tradizione del documento, la cosiddetta forma B, il cui autografo era ancora "in tabulario pontificio" al tempo di Gregorio X (cf., per tutto ciò, la nota dell'editore: ibid., pp. 106-107), reca la datazione (a differenza delle altre testimonianze di altre tradizioni) al 25-31 dicembre 1220 e in cui si legge "Romanorum imperator semper augustus et rex Sicilie". Ed è anche vero che del novembre del 1220 (cf. ibid., nr. 84) risulta una "declaratio regis de Regno Sicilie" in cui Federico scrivendo in "Monte Gaudii" (= Monte Mario), tra le altre cose, prometteva che "regnum ipsum proprietari [non] subtrahatur Ecclesie vel aliquo tempore imperio uniatur".
D'altra parte l'impegno finanziario dell'imperatore era cospicuo, ove si pensi che Federico II ‒ dopo che era slittata nuovamente la data di partenza fissata a Ferentino nel marzo 1223 per il giugno 1225 e che nella dieta di San Germano (v.) del luglio 1225 era stato fissato un nuovo termine per l'agosto del 1227 ‒ avrebbe accettato di pagare una penale di 100.000 once d'oro se non fosse partito nemmeno alla data definitivamente stabilita. E certamente la data dell'agosto del 1227 non era stata prevista, nel 1225, sapendo che O. sarebbe morto il 18 marzo 1227! Né va sottovalutata la circostanza che sullo stesso piano delle sanzioni ecclesiastiche in qualche modo lasciate intravedere dal papa a Federico II, in caso di inadempienza (scomunica che, come si è visto, era stata annunziata anche al re di Gerusalemme Giovanni di Brienne e ad altri, ove non avessero intrapreso la spedizione), non si profila ancora quell'automatismo in forza del quale chi viene scomunicato per aver disobbedito al papa (nella fattispecie col venir meno all'impegno della crociata) viene assimilato all'eretico (cf., in proposito, O. Hageneder, Il sole e la luna. Papato, imperi e regni nella teoria e nella prassi dei secc. XII e XIII, Milano 2000, pp. 100, 102, 104). E sembra ormai da confinare nell'ambito della mitologia storiografica la spiegazione di tutto l'atteggiamento di O. verso Federico II a proposito della crociata come determinato da debolezza o pavidità da parte del papa e da calcolo cinico da parte dell'imperatore (v. in proposito le giuste osservazioni di Carocci-Vendittelli, 2000, II, p. 354): il successo dell'impresa dipendeva dal recupero di un minimo di pacificazione tra i Regni d'Europa, specialmente tra Francia, Inghilterra, Aragona, senza tralasciare quelle particolari entità economiche che erano le città comunali italiane la cui autonomia l'azione di Innocenzo III certamente poteva aver più represso che ridefinito in un quadro di consolidata autorità della Chiesa.
Su di un piano più propriamente religioso ed ecclesiastico un aspetto che coinvolse a un tempo il papato, l'imperatore e i comuni fu per un verso quello antiereticale e per un altro, e di più ancora, il definirsi sempre più come forza innovatrice e potenzialmente rivoluzionaria del movimento francescano, insieme con gli altri Ordini mendicanti. Dopo il difficile incontro tra Innocenzo III e la primitiva "fraternitas" raccoltasi intorno a Francesco, dopo un generico assenso ottenuto dallo stesso pontefice di una "forma vitae" della comunità, nel 1221 O. approvava non ufficialmente il testo di una Regula non bullata ‒ in forma cioè ufficiosa ‒ e nel novembre 1223, con la bolla Solet annuere, lo stesso papa approvava ufficialmente il testo della Regulabullata, ufficiale: al di là di ogni questione specifica circa la piena rispondenza di questo secondo testo alle intenzioni di Francesco, della fictio giuridica, in virtù della quale la Regulabullata appariva una conferma di quanto già concesso da Innocenzo III, che non aveva mai accordato nulla di simile, O. otteneva con la 'normalizzazione' ‒ sia pure densa di incognite latenti nello stesso Ordine francescano (il cui cardinale protettore era stato nominato Ugolino di Ostia, futuro Gregorio IX) ‒ un doppio risultato, poiché, per un verso, trovava l'appoggio di un movimento di carattere sostanzialmente pauperistico e popolare, ma rigorosamente ligio alla Sede Apostolica come per espressa volontà di Francesco, ribadita anche nel testo più deciso del Poverello, il Testamentum; per un altro, la difesa dell'ortodossia romana non si appoggiava più esclusivamente sulla dichiarata volontà di Federico II di combattere tutti gli eretici, ribadita all'atto dell'incoronazione imperiale nel 1220. E sarà da ricordare, non tanto sotto il pontificato di O., quanto nei successivi, l'appoggio che proprio dai Francescani sarebbe stato fornito al papato nella lotta contro lo Svevo.
Meno contrastata l'approvazione, avvenuta il 22 dicembre 1216, dell'altro grande Ordine mendicante, quello domenicano, altro elemento, di carattere spiccatamente dottrinale, nella lotta contro l'eresia, cui si aggiunse il deciso appoggio a un'intensa ripresa degli studi teologici, non solo a Parigi, ma ovunque fosse possibile, presso le scuole e gli "studia" degli Ordini religiosi, con la bolla Super Speculam, del 22 novembre 1219, in cui fra l'altro si proibiva lo studio e l'insegnamento del diritto romano ai "clerici" all'Università di Parigi, una misura che più che favorire un orientamento antiromanistico di Filippo II Augusto o rintuzzare l'egemonismo giuridico rappresentato dal diritto romano, ovviamente favorevole all'Impero, mirava a porre in una condizione di parità la Chiesa anche nel campo specifico dell'interpretazione della "sacra pagina", in cui consisteva ancora gran parte della teologia, nonché in quello giudiziario, del diritto canonico, cui O. fornì uno strumento aggiornato delle disposizioni normative ecclesiastiche con la Compilatio quinta, raccolta curata dall'arcidiacono di Bologna Tancredi ed estratta direttamente dagli atti della cancelleria pontificia. Tutto ciò non era necessariamente un atto ostile verso l'imperatore, che nel 1224 fondava lo Studium di Napoli, in alternanza anche polemica con Bologna, ma non in funzione antipapale (cf. da ultimo O. Capitani, La fondazione dell'Università di Napoli e lo Studio di Bologna: alcune riflessioni, in Storia, filosofia, letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, Napoli 1999, pp. 155-174).
Basterà qualche rapido cenno a eventi collegati con l'attuazione della crociata. Fu opera dell'arbitrato di O. se si giunse a una normalizzazione dei rapporti tra Filippo II Augusto e Simone di Montfort da un lato e Giacomo d'Aragona dall'altro, dopo le tensioni susseguitesi alla lotta contro gli albigesi e all'espansionismo di Simone a danno della Provenza e della stessa Aragona; più complessa l'azione diplomatica di O. all'interno del conflitto anglo-francese, sorto dalle conseguenze della sconfitta di Bouvines (v.) e della promulgazione della Magna Charta. Di fronte alla ribellione di molti baroni inglesi contro Giovanni Senzaterra, morto nel 1216, allo schierarsi di diversi nobili inglesi a favore di una successione del figlio di Filippo II Augusto, Luigi, a Giovanni contro i diritti di Enrico (III), legittimo erede di Giovanni, O. non solo si adoperò energicamente a favore di Enrico, ma fece in modo che alla causa della Corona inglese aderissero Galles e Scozia. Alla fine, Luigi, figlio di Filippo II Augusto, lasciò l'Inghilterra, dopo che O. aveva affrettato l'incoronazione di Enrico III.
Nel 1217, le due monarchie raggiungevano un accordo, assicurando al papato un fronte unitario delle monarchie occidentali europee per l'impresa crociata. La qual cosa, in ogni modo, doveva restare di spettanza peculiare di colui che stava per diventare imperatore. E così non converrà collocare questo avvenimento, dell'incoronazione imperiale di Federico II (1220), nell'angustia di una visione ormai superata della politica europea, che si articolava su diversi piani in un gioco di distribuzione di compiti e di disponibilità di forze che non poteva tener conto solo dell'Impero, senza peraltro livellamenti di quella che era stata e si proclamava ancora una potestà universale, cui non poteva non richiamarsi l'altra potestà proprio per le sue stesse esigenze sopranazionali. Se ci si pone da questo punto di vista si comprende allora perché O. si adoperasse tanto per concludere il matrimonio di Federico II con Iolanda di Brienne, figlia del re di Gerusalemme (1223): la trasmissione ‒ sia pure nominale ‒ del titolo di re di Gerusalemme a chi deteneva il titolo imperiale, non solo sottolineava ancor di più il carattere del tutto particolare che aveva l'Impero, ma toglieva ogni pretesto che si fosse addotto per rivendicare, attraverso un'alleanza matrimoniale diversa, un diritto sulla Terrasanta che avrebbe riproposto i conflitti tra le monarchie europee e, specialmente, tra Francia ed Inghilterra.
Anche sotto questo angolo di visuale, l'incoronazione imperiale costituiva un fattore positivo nella costruzione del disegno della crociata. Certamente non l'unico né il più cogente, poiché Federico era stato eletto re dei Romani fin dal 1196, vivente il padre e no-nostante l'ostilità di Celestino III, prima ancora di essere eletto re di Sicilia per volontà di Costanza d'Altavilla il giorno successivo alla morte del padre, Enrico VI; lo stesso Innocenzo III, ove fosse stato ancora in vita, non avrebbe potuto far altro che prendere atto della situazione, essendo venuti meno gli ostacoli che s'erano frapposti alla richiesta dei principi elettori tedeschi di eleggere Filippo di Svevia ed essendo ormai impensabile una nuova candidatura di Ottone IV: il nocciolo della questione tornava ad essere il Regno di Sicilia e, subordinatamente, l'unio Regni ad Imperium. Ma se a questi due elementi si aggiunge l'imprescindibilità della crociata, si capisce facilmente che né O. né il suo predecessore né tutto sommato il suo successore avrebbero potuto mediare fra tre esigenze così intricate. Si obietta solitamente che O. avrebbe potuto e dovuto chiedere maggiori garanzie circa la distinzione tra Impero e Regno: ma ci si dimentica che O. ne ottenne non certamente di minori di quelle che aveva ottenuto Innocenzo III da Federico e da Ottone IV di Brunswick: questi a Spira, il 22 marzo 1209, s'era impegnato a restituire le terre matildine, l'esarcato, la pentapoli, le terre da Ceprano a Radicofani, la Marca anconetana e il ducato di Spoleto e quanto al Regno di Sicilia aveva usato la stessa terminologia che avrebbe usato Federico II nei riguardi di O.: "Adiutores etiam erimus ad rettinendum et defendendum ecclesie Romane regnum Sicilie ac cetera iura" (cf. M.G.H., Leges, I, 1893, nr. 31) e, prima ancora, nella cosiddetta "promissio Egrensis", ad Innocenzo III.
Tanto doveva bastare anche ad Innocenzo III e alla Chiesa romana, ove si pensi che al concilio di Lione (v.) del 1245 Innocenzo IV esibì, contro la 'malafede' di Federico II, proprio i testi della "promissio Egrensis". Né si dovrebbe esagerare nel dipingere la buona fede di O. come dabbenaggine, visto che il 10 novembre del 1220 ‒ cioè meno di due settimane prima della cerimonia dell'incoronazione in S. Pietro ‒ scriveva a Niccolò Chiaromonte, cistercense e familiare del papa, creato da poco da O. cardinale vescovo di Frascati, e al fido suddiacono e cappellano Alatrino, per affidare loro i "capitularia" da redigere in forma di leggi pubbliche emanate a nome del re della cui abilità manovriera l'entourage di O. ma anche lo stesso papa non si fidava, avendo egli fatto eleggere il figlio già eletto re di Sicilia "in Romanorum regem": ragione per la quale O. esortava alla massima prudenza i due legati raccomandando loro di esercitare una costante pressione perché il re destinato a diventare di lì a poco imperatore mostrasse di tener fede ai patti e alle promesse stipulati. Ma ancor più importante ‒ a conferma di quanto si è venuto dicendo circa la strategia tripolare di O. (Europa-Impero/Sicilia-crociata) ‒ è la raccomandazione finale: "Necessitatem vero Terre Sancte exaggeretis sicut res ipsa deposcit, insinuantes regie celsitudini quomodo fiducia et spes illius negotii in eo post Deum quasi tota dependet" (ibid., nr. 83).
Ma la fattibilità della crociata dipendeva anche dal consenso delle città italiane, sia per l'appoggio militare, finanziario e logistico che potevano fornire alle truppe imperiali, sia per l'orientamento complessivo delle loro risorse verso un solo scopo che manifestamente esulava dalla diuturna, non intermessa rivalità reciproca dei comuni dell'Italia centrosettentrionale, che, rispondendo positivamente all'appello del papa di una concordia per la crociata, gli avrebbero fornito anche un'immagine di forza ben diversamente coagulante in Italia, rispetto a quella che, dal Barbarossa in poi, s'era palesata essere quella imperiale. E ciò serviva, nella complessa rete della politica della Chiesa di Roma, a bilanciare alquanto il peso determinante del concorso imperiale: il "quasi", ove si volesse portare all'estremo l'esegesi del linguaggio della Curia ("quasi tota dependet" consigliava O. ai suoi legati di rappresentare a Federico II), potrebbe infatti significare anche questo.
In quest'opera di convinzione e coinvolgimento delle parti politiche in Italia, il papa si servì di due personalità diverse, ma di indubbio spicco del suo entourage, Ugolino dei Conti di Segni e il suddiacono e cappellano Alatrino.
Il cardinale vescovo di Ostia Ugolino ‒ che sarebbe stato papa Gregorio IX e che avrebbe condotto una politica decisamente antisveva, almeno nell'assumere certe iniziative di carattere militare ‒ era persona di notevole esperienza curiale e aveva avuto a che fare con gli Svevi sin dal momento in cui il futuro Federico II era un fanciullo controllato da Gualtiero di Palearia e Marcovaldo di Annweiler; era stato creato da Innocenzo III cardinale vescovo di Ostia nel 1206, aveva guidato le missioni in Germania ‒ al tempo in cui il papato si mostrava favorevole alla candidatura di Ottone IV di Brunswick quale imperatore ‒ che avrebbero dovuto sanzionare la rinunzia dello stesso Ottone al Regno di Sicilia. Anche al di là di rapporti personali amichevoli con O., quindi, tutto indicava che a lui fosse affidato il compito (1221) di svolgere una sua azione nei comuni dell'Italia centrosettentrionale per predisporre le condizioni di pacificazione tra gli stessi (in Toscana e Liguria [Pisa e Firenze; Pisa e Genova]; in Lombardia ed Emilia [Piacenza, Milano, Reggio, Lodi, Bologna, Ferrara, Modena] e in Veneto [prima Treviso e Belluno, poi Padova]). I risultati delle legazioni di Ugolino non furono tutti positivi, sia dal punto di vista dell'effettiva pacificazione dei rapporti tra i singoli comuni, sia da quello della raccolta di impegni finanziari consistenti per l'impresa di Terrasanta. La crociata non si fece ‒ come già detto ‒ nel 1221, soprattutto per il disastro di Damietta e per le preoccupazioni di carattere generale che aveva ancora Federico II e che dovevano rappresentare anche agli occhi di O. motivo di cautela se, come si è detto, per ben due volte lo stesso pontefice concesse una dilazione all'imperatore. Ugolino, comunque, accumulò un notevole patrimonio di esperienza constatando quanto, anche dal punto di vista degli obiettivi della Chiesa romana, potesse essere inaffidabile una politica che si mostrasse favorevole ai comuni: e non solo quelli all'interno delle terre della Chiesa, ma anche fuori di esse.
Nelle prime O. dovette sperimentare tutte le conseguenze del parziale successo della politica delle cosiddette "recuperationes" di Innocenzo III, nella Marca anconetana e nel ducato di Spoleto. Nella Marca anconetana, infatti, la concessione ad Azzo VII d'Este in feudo del territorio (1217) non risolse la conflittualità continua dei comuni, né poté consentire un'energica azione da parte della Sede Apostolica. Nella Marca, nonostante le dichiarazioni esplicite di Federico II e le assicurazioni date dallo stesso imperatore ad O. circa le intenzioni di Bertoldo di Urslingen, figlio di Corrado, non si evitò un conflitto tra una parte imperiale, che aveva i suoi capi in Gunzelino di Wolfenbüttel e Bertoldo, e il rettore cardinale Ranieri Capocci (1222); l'intervento di Federico presso lo stesso Bertoldo perché richiedesse il perdono al pontefice e cessassero le azioni militari contro le terre della Chiesa ottenne una sorta di tregua. Fu anche decisivo l'intervento delle truppe imperiali a Viterbo, nel corso di un conflitto che aveva visto opposti i romani ai viterbesi. Una mediazione del papa era fallita ed aveva provocato la fuga di O. nel Lazio meridionale: i viterbesi riuscirono a respingere i romani, che furono obbligati a riaccogliere Onorio III. Il pontefice, comunque, negli anni successivi si trovò nuovamente a fronteggiare i rinnovati assalti delle fazioni favorevoli all'Impero e, soprattutto, all'autonomia comunale, di cui s'era fatto assertore Parenzo Parenzi, che era stato eletto senatore di Roma: O. fu costretto (maggio 1225) a rifugiarsi a Tivoli e poi a Rieti rientrando a Roma solo nel febbraio 1226. Rimane indubbio che il sistema di governare ducato e Marca attraverso i rettori e, soprattutto, attraverso i legati, che rimase invariato per tutto il sec. XIII, non sortì l'effetto di assicurare un consolidamento centrale del potere nel cosiddetto nascente 'Stato pontificio', anche oltre Onorio III.
Da escludersi, peraltro, sembra ogni ipotesi di precedenti tensioni tra Ugolino e Federico II che, appresa la sua nomina a legato per la crociata, si affrettò a scrivere al cardinal vescovo di Ostia una lettera (10 febbraio 1221) in cui certamente in uno stile ditirambico, ma non perciò necessariamente insincero, l'imperatore si congratulava con Ugolino, ma soprattutto con l'oculata scelta di O. ‒ indicato come "venerabilis pater noster" ‒ e con la Chiesa romana "quia negotium multis initiatum laboribus, optatum finem indubitanter assumet" (ibid., nr. 91, p. 114). Federico II proseguiva protestando il suo impegno nei riguardi dell'opera di Ugolino, come delegato diretto del papa che doveva essere certo del pieno appoggio imperiale, poiché la questione della crociata "magis humeris nostre maiestatis incumbit" (ibid., p. 115). Gli stessi intenti, d'altronde, l'imperatore manifestava a tutti i suoi fedeli e ai comuni di Lombardia e di Tuscia (ibid., nrr. 92-93).
Alatrino, di cui si è già sottolineata l'importanza assunta agli occhi di O. ‒ di cui era cappellano ‒, aveva avuto modo di condurre le trattative con Federico per la questione dei beni matildini, nel periodo in cui s'era trovato in Germania, e fedele ad O., che insieme con il cardinale vescovo Niccolò Chiaromonte gli aveva affidato il compito di stendere gli atti relativi all'incoronazione di Federico, non doveva essere sgradito nemmeno allo Svevo se, tutto sommato, questi aveva provveduto a garantire la restituzione dei beni, la separazione della corona imperiale e l'impegno per la crociata in documenti che dovevano essere stati stesi certamente con la consapevolezza del cappellano di Onorio. Condizione che, con tutta probabilità, lo accreditava, ancora nel 1226, ad assumere l'incarico di recarsi presso la seconda Lega lombarda, nel tentativo di mediare tra comuni e imperatore. Non sembra probabile, come afferma la Chronica regia Coloniensis, che O. avesse spinto i comuni dell'Italia settentrionale (prima a S. Zenone, presso Mantova, Milano, Bologna, Brescia, Vicenza, Padova, Mantova e Treviso; poi anche Faenza, Vercelli e Alessandria e infine Verona, Piacenza e Lodi) a stringere una seconda Lega lombarda contro Federico II. O. non aveva alcun interesse a creare ostacoli e pretesti a Federico II per ritardare la crociata e conseguentemente, fallito un tentativo di mediazione tra i ribelli e l'imperatore, lanciò la scomunica contro i comuni che, preoccupati nella difesa dei propri interessi, avevano posto in secondo piano le urgenze della spedizione in Terrasanta. Lo stesso Federico II, d'altro canto, il 29 agosto 1226, si era rivolto ad O. perché si assumesse il compito di mediare.
Il papa accettò e, dopo molti sforzi, il 5 gennaio 1227, poté chiedere per i ribelli un'amnistia da parte imperiale impegnandosi dal canto loro i comuni a ritornare all'obbedienza verso l'imperatore, a fornire un congruo numero di cavalieri per la spedizione crociata e a inserire nei rispettivi statuti il testo della Constitutio imperiale promulgata all'atto dell'incoronazione di Federico nella basilica di S. Pietro. L'imperatore accettò; più lento fu l'accoglimento da parte dei comuni, che ricevettero una dura lettera di rimprovero da parte di O. (10 marzo 1227) che, significativamente, metteva in guardia gli stessi comuni che per la dilazione nell'accettare i termini della mediazione "ne ipsi imperatori differendi eiusdem Terre Sancte succursum occasionem videamini dare". Un tentativo di razionalizzare una situazione che sembrava continuamente sfuggire di mano, come questa volta, per responsabilità imperiale. O. dovette energicamente protestare per la politica di stretto controllo dell'episcopato siciliano, forse nel corso di repressioni di ribellioni della feudalità del Regno, cui era legata anche per vincoli familiari una parte dell'alto clero siciliano. Un modello da seguire con perseveranza, dunque, lasciava al successore O. quando moriva il 18 marzo 1227.
fonti e bibliografia
Oltre a quelle citate nella voce di S. Carocci-M. Vendittelli, Onorio III, in Enciclopedia dei Papi, II, Roma 2000, p. 362, e a quelle comprese nel testo di questa stessa voce, si dovranno comunque tener in particolare conto le opere citate anche nella voce di O. Capitani, Gregorio IX, ibid., pp. 379-380 e nella voce di N. Kamp, Federico II, in quest'opera.
Massimo rilievo hanno le fonti documentarie: Historia diplomatica Friderici secundi; Regesta Pontificum Romanorum, a cura di A. Potthast, I, Berolini 1874, nrr. 5317-7861; Chronica regia Coloniensis, in M.G.H., Scriptores rerumGermanicarum in usum scholarum, XVIII, a cura di G. Waitz, 1880; M.G.H., Epistolae saec. XIII e regestis pontificum Romanorumselectae, a cura di C. Rodenberg, I, 1883 (riprod. anast. 1983, pp. 1-260); Regesta Honorii papae III, I-II, a cura di P. Pressutti, Romae 1888-1895; Le liber Censuum del'Église Romaine, a cura di P. Fabre-L. Duchesne-G. Mollat, I-III, Paris 1889-1952 (in modo particolare il vol. I, Paris 1910, pp. 1-2 e 7-12); M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutioneset acta publica imperatorum et regum, I, a cura di L. Weiland, 1893; per le Constitutiones v. il testo; fonti documentarie, più che narrative, come si è detto, fra le quali, comunque, non si possono non menzionare Martino Oppaviense, Chronica, in M.G.H., Scriptores, XXII, a cura di G.H. Pertz, 1872; Rolandino da Padova, Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane, in R.I.S.2, VIII, 1, a cura di A. Bonardi, 1905-1908; Riccardo di San Germano, Chronica, ibid., VII, 2, a cura di C.A. Garufi, 1936-1938, ad indicem s.v. Onorio III; Salimbene de Adam, Chronica, a cura di G. Scalia, I-II, Bari 1966; Salimbene de Adam, a cura di C.S. Nobili, con Introduzione di M. Lavagetto, Roma 2002 (con trad. a fronte).
Per la valutazione complessiva del pontificato di O., tra le varie trattazioni di storia ecclesiastica più recenti, Apogeo del papato edespansione della cristianità (1054-1274), in Storia del cristianesimo: religione, politica, cultura, a cura di A. Vasina, V, Roma 1997 (trad. it. del testo francese di analogo volume pubblicato sotto la direzione di A. Vauchez: Apogée de la papauté et expansion de la chrétienté, Paris 1993), tocca in numerosi punti l'azione di O., ma quasi esclusivamente per questioni amministrative e religiose (v. ad indicem); superata, nel complesso, anche se abbastanza ricca di bibliografia italiana, la trattazione della Storia della Chiesa, a cura di A. Fliche-V. Martin, X, Torino 1968, come quella di E. Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976; la monografia di D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, Torino 1990, offre una trattazione esterna e superficiale degli interventi del papa. Indicazioni di dettaglio si trovano nelle numerose pubblicazioni apparse in occasione dell'VIII centenario della nascita di Federico II; si ricorderanno Federico II e il mondo mediterraneo; Federico II e le città italiane; Federico II e le scienze, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, ad indicem; Federico II e le nuove culture, Spoleto 1995, più che altro interessante per aspetti di contorno dell'ambiente in cui si mosse anche O.; si segnala in esso G.G. Merlo, Federico II, gli eretici, i frati (pp. 45-67); tocca appena O. il saggio di P. Herde, Federico II e il Papato. La lotta delle cancellerie (pp. 69-87), ricco, comunque, di notizie bibliografiche recenti sulla diplomatistica papale, oltre che imperiale.