Ontologia
di Sofia Vanni Rovighi
Ontologia
sommario: 1. Il termine. 2. Dalla logica all'ontologia. a) Brentano. b) Husserl. c) Heidegger. d) Hartmann. 3. La neoscolastica. a) Garrigou-Lagrange. b) Maritain. c) Gilson. d) Maréchal. e) Lotz. f) Fabro. g) Masnovo. h) Bontadini. 4. La philosophie de l'esprit di Lavelle. 5. L'ontologismo critico di Carabellese. 6. La filosofia dell'azione di Blondel. 7. Ontologia e filosofia analitica. □ Bibliografia.
1. Il termine
‛Ontologia' è termine usato per la prima volta nel sec. XVII per quella tendenza barocca - diffusa verso la metà del secolo, dice M. Wundt - ad adornare la propria lingua con parole greche. Il termine si trova nella Metaphysica divina di Abraham Calovius (1636) ed è usato, insieme con quello di ontosophia, da J. Clauberg nella sua Metaphysica de ente, quae rectius ontosophia, pubblicata la prima volta nel 1647. Chr. Wolff nella sua Philosophia prima sive ontologia (1730) la definisce così: ‟scientia entis in genere, seu quatenus ens est".
2. Dalla logica all'ontologia
Sembra che nella storia della filosofia ci sia un alternarsi di accentuazione ora sul problema dell'essere ora sul problema del conoscere, e certo uno dei passaggi più famosi dalla considerazione dell'essere alla considerazione del conoscere è quello operato da Kant, con la trasformazione della ‛filosofia trascendentale' da teoria sulle ‛cose in sè' a teoria sui concetti puri come condizioni della possibilità dell'esperienza. Per ‛filosofia trascendentale', sia negli scritti precritici che negli abbozzi dello scritto sui progressi della metafisica (per quanto ci si può fidare dell'edizione Rink), Kant intende l'ontologia: ‟L'ontologia è quella scienza (come parte della metafisica) che costituisce un sistema di tutti i concetti e principi dell'intelletto, ma solo in quanto si applicano a oggetti che sono dati ai sensi, e quindi devono essere attestati dall'esperienza. Essa non tocca il soprasensibile, che è tuttavia lo scopo finale della metafisica, e perciò appartiene alla metafisica solo come propedeutica, come l'atrio o vestibolo della metafisica vera e propria, ed è chiamata filosofia trascendentale perché contiene le condizioni e i primi elementi di tutte le nostre conoscenze a priori" (I. Kant, Gesammelte Schriften, Akademie Ausgabe, XX, p. 260). L'ontologia è dunque il sistema di quei concetti e principi che, pur ‟attestati dall'esperienza", debbono permetterci, per la loro universalità, di risalire dal dato di esperienza, dal sensibile, al soprasensibile. Il ‛progresso' che Kant attribuisce alla sua filosofia è la scoperta che l'uomo non ha concetti che possano prescindere dalla sensibilità (che siano immaterialia praecisive, come riteneva la scolastica), e quindi la conclusione che non c'è via teoretica al soprasensibile. La ‟filosofia trascendentale" come teoria dei concetti che sono ‟condizioni e primi elementi di tutte le nostre conoscenze a priori", resta, ma resta come logica trascendentale, ossia come teoria delle condizioni alle quali può esser dato un oggetto all'intelletto umano. Hegel dirà che ‟la filosofia critica aveva per vero dire già trasformata la metafisica in logica" (Scienza della logica, Bari 1968, t. I, p. 32), ma, diversamente da Kant, riconoscerà la piena portata ontologica di tale logica, poiché per lui i concetti esauriscono la realtà dell'oggetto. La logica hegeliana è quindi ontologia. La reazione, o piuttosto le diverse reazioni all'idealismo tedesco, e il ritorno a Kant segnano un ritorno al primato della gnoseologia nella seconda metà del sec. XIX, ma l'ontologia compare non solo con la reviviscenza idealistica, ma anche attraverso problemi suscitati dalle stesse indagini logiche e gnoseologiche.
a) Brentano
Va ricordato in primo luogo Franz Brentano (1838-1917), che operò nell'ultimo terzo del secolo scorso, ma il cui influsso si estende specialmente sul pensiero di questo secolo. Dalla sua formazione aristotelica e scolastica deriva senza dubbio l'attenzione ai problemi ontologici (il suo primo scritto è Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles, 1862); ma a problemi ontologici egli fece riferimento anche nelle opere più mature, dedicate alla psicologia e alla teoria della conoscenza. Mi riferisco specialmente alla teoria sugli oggetti ideali, a proposito della quale la maggior parte dei discepoli di Brentano si staccò dal maestro. Secondo Brentano, infatti, l'oggetto immediato della conoscenza è sempre l'ente reale. In una lettera a O. Kraus del 1909, riportata nell'introduzione alla seconda edizione della Psychologie, Brentano riconosce di avere ammesso in un primo tempo l'esistenza di verità eterne, di oggetti ideali del pensiero. ‟Aristotele, egli dice, parla non di rado come se, quando uno risponde con un ἔστι alla domanda se sia vero che nessun triangolo abbia la somma degli angoli interni maggiore di due retti, questo ἔστι abbia lo stesso senso di quando si afferma che una cosa è; all'ὄν ὡ ἀληϑές sarebbe attribuita una certa esistenza indipendente dal pensiero, un'esistenza ideale" (v. Brentano, 19242, pp. XLVI-XLVII). Ma più tardi, e già nella Psychologie, Brentano (v., 1874) risolve i pretesi oggetti ideali (universali, negazioni) in attività di pensiero: il non-essere del centauro non è altro che l'attività del pensiero che nega l'esistenza del centauro.
b) Husserl
Il problema degli enti ideali occupa una parte notevole nella filosofia di Edmund Husserl (1859-1938). Convergono su questo problema alcune teorie fondamentali del suo pensiero: quella sull'oggetto della logica, la teoria dell'intuizione delle essenze, la teoria dell'intenzionalità. Accenneremo prima a queste ultime due, per soffermarci più diffusamente sulla prima. Quando, nella seconda delle Logische Untersuchungen (Die ideale Einheit der Spezies und die neueren Abstraktionstheorien) Husserl, senza ancora adoperare il termine ‛essenza' (Wesen, Eidos), afferma che le nozioni universali (il rosso, il numero due) sono specificamente distinte dalle nozioni di fatti individuali (questo rosso, queste due palline) e polemizza con le teorie empiristiche (Locke, Berkeley, Hume), che tendono a ridurle o a un lato isolato del concreto individuo o a una sua immagine sbiadita, egli insiste nel sottolineare che l'universale (la ‛specie'; più tardi dirà: l'essenza') non è una realtà esistente - neppure come realtà del pensiero, come modo di essere della coscienza - ma è un oggetto ideale (v. Husserl, 19132, vol. Il, È 8). Nella prima Ricerca e specialmente nella quinta, dove Husserl parla dell'intenzionalità, l'oggetto ideale si precisa come il significato - il ‛noema', dirà poi nelle Ideen - dell'atto conoscitivo, ben distinto da questo. Ma, dicevo, è specialmente a proposito dell'oggetto della logica che si pone il problema dei rapporti fra logica e ontologia. Nei Prolegomena zur reinen Logik, che costituiscono il primo volume delle Logische Untersuchungen, Husserl, dopo aver negato che oggetto della logica sia l'attività psichica, e quindi dopo aver negato che la logica possa ridursi a psicologia, afferma che la logica è la scienza delle leggi che regolano ogni sapere, ogni teoria. Ma poichè non si tratta di leggi del soggetto che discorre (di leggi psicologiche), si tratta di leggi dell'oggetto di ogni e qualsiasi teoria. Ora l'oggetto di ogni e qualsiasi teoria è la ‟molteplicità" (Mannigfaltigkeit), cioè l'oggetto della matematica. L'oggetto della matematica moderna, infatti, non è più soltanto la quantità o lo spazio in cui viviamo (lo spazio euclideo), ma è ‟il concetto di un possibile campo di conoscenza da dominare mediante una teoria che abbia la tale forma" (v. Husserl, 19132, vol. I, p. 248). E Husserl esemplifica a proposito del concetto di spazio: ‟Se chiamiamo spazio la nota forma di ordine del mondo fenomenico, è naturalmente assurdo parlare di spazi per i quali non valga, ad esempio, l'assioma delle parallele. [...] Ma se per spazio intendiamo la forma categoriale dello spazio del mondo e, correlativamente, per geometria la forma categoriale della geometria in senso comune, allora lo spazio si ordinerà sotto un genere di molteplicità determinata in modo puramente categoriale, molteplicità in rapporto alla quale si parlerà naturalmente di spazio in senso ancora più ampio" (ibid., p. 251).
Nei Prolegomena zur reinen Logik, Husserl identifica dunque logica e matematica; in Formale und transzendentale Logik, del 1929, non solo riprende questa identificazione, della quale già Leibniz aveva avuto l'idea, ma fa un passo ulteriore e identifica la logica formale con l'ontologia. La ragione infatti dell'identità di logica formale e matematica è che la base della logica formale è il giudizio predicativo; ora il giudizio predicativo è considerato dalla logica nella sua forma, il che vuol dire: prescindendo dalla natura specifica (o anche generica) dei termini. E prescindere dalla natura determinata dei termini vuol dire considerare il giudizio predicativo come quello che ha per soggetto logico l'Etwas überhaupt, l'oggetto in generale, ossia l'ente. L'indagine dunque sulle leggi del giudizio in generale - che è la logica, la pura analitica dell'apofansi - s'identifica con l'indagine sulle leggi dell'ente in quanto tale, con l'ontologia (v. Husserl, 1929, È 38, pp. 94-95). Husserl chiama sempre ontologia formale questa indagine sull'oggetto in generale, per distinguerla da quella che egli chiama filosofia prima, e che s'identifica con la fenomenologia; così come distingue la logica formale dalla logica trascendentale. Infatti la stessa identità di ontologia formale e logica formale richiede una spiegazione, e la spiegazione è data secondo Husserl dalla fenomenologia trascendentale, la quale afferma che l'ente non è altro che il correlato della coscienza, ciò che è posto dalla coscienza. La logica formale coincide con l'ontologia formale perché dice quali predicati debba avere il soggetto del giudizio in generale, e questo soggetto è l'ente in generale. Ma l'ente in generale non è altro che l'oggetto della coscienza; i predicati dell'ente sono dunque i predicati che deve avere ogni cogitatum qua cogitatum; così si risolve il problema dell'identità di logica formale e ontologia formale (v. Husserl, 1929, È 42, pp. 98 e ss.). La soluzione però non è data dalla logica formale, ma dalla logica trascendentale, che è la filosofia prima. Nel caso di Husserl - ma vedremo che non sarà l'unico - l'indagine sulla logica ha portato all'ontologia ; ha portato, direi, a mettere in luce le radici ontologiche della logica: dalla logica all'ontologia formale - a quella che Kant chiama ontologia simpliciter e paragona a una grammatica dei concetti - e dall'ontologia formale alla fenomenologia trascendentale, che corrisponde, si voglia o no, a quell'ulteriore passo verso la metafisica, proibito nella concezione kantiana. Prima di lasciare Husserl, tuttavia, accenniamo a un altro concetto, che esercitò una notevole attrattiva sui discepoli di Husserl a Gottinga: il concetto di ‛ontologie regionali'. La teoria dell'intuizione eidetica apriva la strada all'illusione che si potessero cogliere le essenze di determinati tipi o regioni di realtà, e anche le essenze di aspetti fondamentali del mondo corporeo, indipendentemente dai procedimenti scientifici. Su questo terreno si avventurò specialmente H. C. Martius (1888-1966), mentre l'indagine sulle ontologie regionali si dimostrò più feconda nel mondo umano ed ebbe applicazioni all'etica (specialmente con M. Scheler, 1874-1928), all'estetica (R. Ingarden, 1893-1970) e alla filosofia della religione.
c) Heidegger
Anche per Martin Heidegger (1899-1976), se consideriamo storicamente lo svolgimento del suo pensiero, si può parlare di un venire all'ontologia dalla logica, poiché i suoi primi scritti (Die Lehre vom Urteil im Psychologismus 1914, Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, 1916) trattano problemi di logica, e ancora nel 1929, in Vom Wesen des Grundes, Heidegger parte dalla verità logica per arrivare, come a fondamento di questa, alla presenza delle cose stesse, degli enti (verità ontica), presenza che suppone a sua volta la comprensione dell'essere degli enti (verità ontologica). In Sein und Zeit il terreno privilegiato per la scoperta dell'essere sembra l'uomo, l'ente che ha già una comprensione dell'essere (in questo senso ente ontologico, che ha il logos dell'essere), l'ente che ha coscienza di sé come uno che ‛c'è' (Dasein). Circa l'analisi fenomenologica che Heidegger fa dell'uomo come Dasein (v. esistenzialismo) ci limiteremo qui a osservare come uno dei caratteri del Dasein (uno degli esistenziali), e cioè il suo esser-nel-mondo, elimini senz'altro il primato della gnoseologia, poiché non si tratta, in filosofia, di dimostrare l'esistenza del mondo, rilevando con Kant come uno ‟scandalo della filosofia" il fatto che non si sia ancora trovata una dimostrazione probante dell'esistenza di ‟cose fuori di noi", ma piuttosto di scandalizzarsi del fatto che mai si sia cercata una tale dimostrazione (v. Heidegger, 1927, p. 205). Nelle opere successive Heidegger ha sempre più accentuato la centralità dell'Essere, sottolineando la differenza fra ente ed Essere, ma senza mai spiegare il significato preciso dell'Essere. Forse anche perché sembra che il pensiero concettuale non sia per lui la migliore apertura all'Essere, che si rivela meglio ai poeti chè ai filosofi.
d) Hartmann
Costruita invece su una base rigorosamente intellettualistica e condotta sistematicamente è l'ontologia di Nicolai Hartmann (1882-1950) che, formatosi alla scuola neokantiana di Marburgo, nella quale aveva il primato il problema della conoscenza, conclude invece affermando il primato dell'ontologia. L'ontologia è infatti al di qua di idealismo e realismo (v. Hartmann, 19252, pp. 7, 187; 1935, pp. 39-40), poiché l'ente (Seiendes), che è suo oggetto, abbraccia ogni realtà, sia quella del pensiero come quella delle cose. Anche l'affermazione che l'ente è un prodotto dell'attività dello spirito è un'affermazione sull'essere, un'affermazione ontologica (v. Hartmann, 1935, p. 4). Poiché dunque l'essere è implicito in ogni realtà, la ricerca sull'essere è la ricerca filosofica fondamentale. Il che non vuol dire che l'ontologia debba procedere deduttivamente come procedeva l'antica metafisica, ponendo all'inizio della ricerca i ‛primi principi', cioè le prime affermazioni sull'ente, per dedurne poi affermazioni ulteriori. Così procede Aristotele, secondo Hartmann, quando introduce il principio di contraddizione nel quarto libro della Metafisica, così procede Chr. Wolff. Il metodo della nuova ontologia deve essere fenomenologico, ossia partire dal molteplice che l'esperienza ci offre, poiché la ratio essendi non coincide con la ratio cognoscendi, e ciò che è primo in sé non è il primo quoad nos, come già aveva osservato Aristotele, senza però mettere in pratica questa sua osservazione (v. Hartmann, 1935, pp. 34-35).
Una distinzione fondamentale che va premessa all'ontologia, e che secondo Hartmann non è stata fatta chiaramente da Aristotele e dal Medioevo, è quella fra ente (Selendes) ed essere (Sein): per Aristotele oggetto della ‟filosofia prima" è l'ente in quanto ente (ὄν ᾖ ὄν), non l'essere; tuttavia la formula aristotelica ha il pregio d'indicare ciò da cui parte la ricerca, che è l'ente, il concreto, e poiché lo considera in quanto ente, ossia in ciò che è comune a ogni ente, mediatamente essa esprime l'essere, ciò per cui l'ente è ente. Wolff ha ripreso la formula aristotelica, ma ha il torto di confondere l'ente in quanto ente con l'oggetto in quanto tale; ora, poiché anche ciò che è solo rappresentato, immaginato, può essere oggetto di pensiero, si rischia di confondere l'essere col pensato. Si vedrà che un rimprovero analogo (il rimprovero di ‛essenzialismo') è mosso a Wolff da alcuni neoscolastici. Se è importante non confondere l'essere col pensato, è pure importante non restringere in alcun modo il significato dell'essere: non bisogna quindi identificare l'essere con uno dei suoi generi, per esempio con la sostanza, con la cosa; né col dato sensibile (errore che, per reazione, porta all'errore opposto, e cioè l'identificazione dell'essere, del vero essere, col soprasensibile). A evitare queste confusioni giova tener presenti le distinzioni che Hartmann rileva fra le determinazioni dell'essere: essenza ed esistenza sono ‛momenti' dell'essere, ‛sfere' dell'essere sono l'essere reale e l'essere ideale, ‛modi' dell'essere sono la possibilità, l'attualità (Wirklichkeit), la necessità; infine le categorie sono i ‛generi' dell'essere. Una parte notevole della Grundlegung der Ontologie è dedicata alla coppia essenza-esistenza; Hartmann polemizza a lungo contro un modo di intendere la distinzione che ne farebbe una separazione; contro l'identificazione di essenza con essere ideale e di esistenza con essere reale, e osserva che anche l'ente reale ha un'essenza e l'ente ideale ha un'esistenza ideale; riconosce tuttavia un aspetto di verità in questa identificazione, ed è che l'essenza rimane la stessa nell'ente reale e nell'ente ideale: la rotondità della sfera è la stessa in una sfera reale e nella sfera geometrica (ente ideale). Si può dunque parlare di una essenza in generale o di una essenza neutra (neutrales Sosein), ossia indifferente all'essere reale o ideale: comune al concetto universale (ente ideale) e all'ente reale. Questa considerazione permette di risolvere il pro- biema degli universali (v. Hartmann, 1935, p. 126).
Per ciò che riguarda le sfere dell'essere (reale e ideale), Hartmann adduce come esempio tipico di ente ideale l'ente matematico: come l'ente reale, l'ente ideale non si riduce al pensiero che lo pensa, ma ha una sua inseità; uno degli argomenti per dimostrarlo è l'applicabilità della matematica al mondo reale. Le leggi matematiche dominano il mondo reale; valgono anche indipendentemente dall'esistenza di un mondo reale, ma questo, il mondo reale, non sarebbe quello che è senza essere soggetto alle leggi matematiche; ora, il mondo reale è ‛in sé', dunque anche le leggi applicabili a esso sono in sé, ossia indipendenti dal pensiero che le conosce. Rilievi analoghi si possono fare circa l'ente logico. L'affermazione che l'ente reale è in sé, affermazione nella quale consiste il realismo riguarda la gnoseologia di Hartmann piuttosto che l'ontologia, ma è continuamente ripresa anche nella Grundlegung der Ontologie (non è del resto facile segnare i confini fra gnoseologia e ontologia), e la posizione di Hartmann oscilla, ci sembra, fra la presentazione del realismo come un dato d'immediata evidenza teoretica (v. Hartmann, 1935, pp. 154 e ss.) e il rinvio agli stati emozionali per provare il realismo. Secondo quest'ultima teoria, è l'esperienza dell'oggetto come ostacolo quella che ci convince che il mondo ha un'esistenza indipendente dal nostro spirito (v. Hartmann, 1935, pp. 177-178).
La teoria sui modi dell'essere, alla quale Hartmann ha dedicato un intero volume (Möglichkeit und Wirklichkeit), segna in certo modo il passaggio dall'ontologia fenomeno- logica, descrittiva, alla metafisica in senso stretto, a quella metafisica che implica una Weltanschauung, e che Hartmann vorrebbe escludere. La tesi fondamentale di Hartmann sui modi dell'essere è infatti che solo ciò che è attuale (wirklich) è possibile, che non c'è possibile oltre l'attuale. E, come ammette l'Autore stesso, un ritorno alla teoria megarica (e, aggiungeremmo, spinoziana). Il modo fondamentale di essere, il modo assoluto di essere è l'attualità (Wirklichkeit). Aristotele aveva visto questa legge modale fondamentale, osserva Hartmann, quando affermava la priorità dell'atto sulla potenza: il suo torto è quello di concepire la possibilità come potenza (δύναμις), cioè come modo di essere orientato teleologicamente verso l'atto (v. Hartmann, 1938, pp. 82-83). Possibilità e necessità sono invece modi relativi: un ente è possibile o necessario sempre in base a qualcosa (auf Grund von etwas) (v. Hartmann, 1938, p. 44). Per ciò che riguarda il necessario, bisogna infatti distinguere necessità logica e necessità reale; la prima è sempre necessità ipotetica ed è, quindi, chiaramente relativa ma anche la necessità reale è relativa, perché è il non poter essere altrimenti, e il non poter essere altrimenti indica una dipendenza. Per ciò che riguarda il possibile, occorre eliminare il concetto della possibilità come indifferenza rispetto all'essere o al non essere, concetto che deriva solo dal limite della nostra conoscenza. Infatti, finché non si realizzano tutte le condizioni che rendono possibile una cosa o un evento, l'evento può attuarsi o non attuarsi, e poiché noi non conosciamo mai tutte le condizioni del realizzarsi di una cosa, pensiamo che il possibile possa anche non attuarsi; ma quando tutte le condizioni si realizzano, il possibile si attua e non può non attuarsi (v. Hartmann, 1938, p. 157). La composizione di un terreno e certe condizioni meteorologiche, per esempio, sono condizioni della possibilità di una coltura di grano e di un altro cereale (quindi anche di non-grano), ma quando a quelle e ad altre condizioni si unisce anche la volontà dell'agricoltore di seminarvi grano, la possibilità di quella coltura, e non di altre, si attua e si attua necessariamente. E, d'altra parte, finché non si realizzano tutte le condizioni, la cosa non è neppure realmente possibile. La possibilità reale s'identifica dunque con l'attualità e con la necessità. Ma nelle condizioni o cause dell'attuarsi di qualcosa non si può risalire all'infinito, dunque ci debbono essere cause prime (erste Gründe), che non dipendono da altro, che sono assolutamente, e quindi sono contingenti (v. Hartmann, 1938, p. 44). Contingente (zufälig) infatti è ciò che non ha una ragion d'essere (e per Hartmann avere una ragion d'essere, un fondamento, un Grund, vuol dire avere il proprio fondamento ‛in un altro'), ciò che è da sé così come è (rein aus sich selbst heraus so ist wie er eben ist; v. Hartmann, 1938, p. 38), che non ha un fondamento: quindi la contingenza è il modo di essere originario. ‟Dio come ente assolutamente necessario è piuttosto l'ente assolutamente contingente" (v. Hartmann 1938, p. 94). Un contingente originario non è affatto una realtà contraddittoria (ibid., p. 39) e, del resto, se anche lo fosse, questa non sarebbe un'obiezione per Hartmann, poiché secondo lui il fondo dell'essere è irrazionale (ibid., pp. 53, 60). Data questa concezione della realtà, si capisce che l'errore fondamentale da esorcizzare sia la visione teleologica del reale: tutta l'ontologia di Hartmann è in polemica con la concezione finalistica del reale, ma egli ha dedicato a questa polemica uno speciale - anche se breve - volume: Teleologisches Denken (v. Hartmann, 1951). La difficoltà di conciliare questa visione irrazionalistica del reale con la tesi che la conoscenza è apprensione dell'ente, tesi che suppone una certa intelligibilità del reale, è risolta da Hartmann con l'affermazione che il conoscere umano è limitato, non coglie il reale fino in fondo, ma ne coglie appunto solo gli aspetti intelligibili,che non escludono l'esistenza di un fondo irrazionale.
Alla struttura del mondo reale Hartmann ha dedicato un'intera opera che espone la dottrina delle categorie. Le categorie sono ‟principi costitutivi dell'essere" (v. Hartmann, 1940, p. 41); sono sì i predicati più universali, ma predicati che esprimono primariamente la struttura del reale, non i nostri (umani) modi di concepire il reale. Questo concetto delle categorie segna un ritorno al modo aristotelico di intenderle, e aristotelico è anche il metodo nella ricerca delle categorie: metodo analitico, che risale dal concreto ai suoi elementi costitutivi, senza pretendere di coglierli tutti, accettando il rimprovero di essere ‟rapsodico" (rimprovero mosso da Kant all'enumerazione aristotelica; v. Hartmann, 1940, pp. 220 e ss., 582 e ss). Riconoscendo la provvisorietà della sua enumerazione, Hartmann stabilisce dodici coppie di opposti (coppie in verità piuttosto eterogenee): Principio-Concreto; Struttura-Modo; Forma-Materia; Interno-Esterno; Determinazione-Dipendenza; Qualità-Quantità; Unità-Molteplicità; Concordanza-Discordanza; Opposizione-Dimensione; Discreto-Continuo; Substrato-Relazione; Elemento-Connessione (Gefüge). Hartmann stabilisce anche ‛leggi categoriali'. Più interessante, forse, di queste impalcature è la dottrina della stratificazione del reale in gradi diversi di realtà (Schichten oder Stufen; v. Hartmann, 1940, p. 188) irriducibili l'uno all'altro; una dottrina opposta a ogni forma di monismo, sia idealistico che materialistico. Hartmann riconosce che si tratta di una teoria molto antica, ripresa e accentuata nella distinzione-opposizione di natura e spirito, caratteristica dell'idealismo tedesco. Insufficiente è però la distinzione di questi due soli gradi di realtà: già Platone ne distingueva tre nella sua teoria della triplice anima: concupiscibile, irascibile, intellettiva, e tre ne distingueva pure Aristotele nel De anima: vegetativa, sensitiva, intellettiva. Hartmann ritiene che si debbano distinguere quattro gradi fondamentali di realtà: la realtà corporea inanimata, la realtà vivente e, nell'ambito dello spirito, lo spirito soggettivo e lo spirito oggettivo, cioè le opere dello spirito (arte, diritto, morale).
All'essere spirituale Hartmann ha dedicato un'opera specifica, ma con questo si entra nel campo della metafisica speciale o della filosofia seconda, cioè di quella che indaga i vari tipi di realtà. Non va dimenticato - anche se non entra nell'ambito di questa voce - che Hartmann è autore di un'Ethik, di un'Aesthetik nonché di una Philosophie der Natur.
3. La neoscolastica
Nonostante la profonda differenza di Weltanschauung (antifinalistica, programmaticamente atea quella di Hartmann), nonostante la differenza di metodo, che vuol essere fenomenologico-descrittivo, mentre quello di Wolff voleva essere rigorosamente deduttivo, lo Hartmann si riconnette in certo modo all'ontologia wolffiana, la quale a sua volta era una rielaborazione della metafisica scolastica, della seconda scolastica, la scolastica rinascimentale, che ha il suo maggiore esponente in Fr. Suarez. Un consapevole ritorno alla scolastica si ebbe con la neoscolastica, che ha i suoi inizi nella seconda metà del sec. XIX. La neoscolastica però non intendeva riprendere la scolastica suareziana e wolffiana - con la quale è anzi spesso in polemica - ma si riferiva alla scolastica del sec. XIII e in particolare a Tommaso d'Aquino. Anche nella neoscolastica si verifica quel ritorno dalla gnoseologia all'ontologia, rilevato nelle correnti di cui si è parlato sopra. Mentre, infatti, le opere più significative della neoscolastica alla fine dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento sono dedicate al problema della conoscenza, alla difesa del suo valore oggettivo contro il kantismo, il positivismo, l'idealismo, dal secondo-terzo decennio si comincia a insistere sulla metafisica, e proprio sulla concezione dell'essere. La teoria della distinzione reale di essenza ed essere nelle creature era sempre stata un segno distintivo del tomismo, e in un'opera del 1899 il domenicano Del Prado l'aveva presentata addirittura come la verità fondamentale della filosofia cristiana, ma in un passato più recente si è riscoperta l'attualità di questi temi anche in rapporto con altre correnti della filosofia contemporanea. La metafisica, la dottrina sull'essere, si presenta come la giustificazione ultima del valore della conoscenza.
a) Garrigou-Lagrange
‛Filosofia dell'essere' è espressione di Réginald Garrigou-Lagrange (1877-1964) per indicare la filosofia tomistica (v. Garrigou-Lagrange, 19223 e 19285). L'essere è il primo concetto che ci formiamo, in virtù di una intuizione astrattiva dell'intelligibile, e su questo concetto si fondano i primi principi, le verità fondamentali che, note implicitamente a ogni uomo (al senso comune), sono enunciate esplicitamente dalla filosofia. La prima è il principio di identità, che il Garrigou-Lagrange formula così: ‟ogni ente ha una natura determinata che lo costituisce tale" (v. Garrigou-Lagrange, 19223, p. 166), ossia ogni ente è se stesso e non altro. Il principio di non-contraddizione è la forma negativa del principio di identità: l'ente non può non essere quello che è. Da questi due principi il Garrigou-Lagrange fa derivare il principio di ragion d'essere (ogni ente ha la sua ragion d'essere, ogni ente è intelligibile), il principio di causa (ciò che non ha in sé la sua ragion d'essere deve averla in un altro, e questo altro è la sua causa), il principio di finalità (omne agens agit propter finem). Applicando tali principi alla realtà che l'esperienza ci offre, si può dimostrare l'esistenza di Dio. La realtà che l'esperienza ci offre, realtà che sorge e scompare, che muta, non ha infatti in sé la ragione della propria esistenza; postula quindi l'esistenza di un altro, di un primo ente che è l'ipsum esse subsistens, del quale si dimostrerà poi che è creatore, intelligente e libero. Garrigou-Lagrange si rifà in primo luogo ai testi di Tommaso d'Aquino, ma si giova anche dei grandi commentatori di Tommaso, specialmente del Gaetano (Tommaso de Vio, 1468-1534) e di Giovanni di S. Tommaso (1589-1644) e, pur non aderendo alle tesi nelle quali Suarez si scosta dalla tradizione tomistica, non lo ritiene un corruttore della metafisica; non sdegna poi il contributo di Leibniz, come si vede dall'affermazione del primato del principio di identità su quello di non contraddizione e dell'affermazione del principio di ragion d'essere. L'atteggiamento spesso inquisitoriale dell'uomo, la sua rigidezza, la sicurezza dell'evidenza delle sue proprie opinioni, il suo disprezzo per quasi tutta la filosofia moderna, la sua polemica contro il modernismo hanno fatto dimenticare il valore del suo pensiero: in fondo il suo tomismo, che non escludeva, come si è detto, nè i commentatori di Tommaso nè Leibniz, era molto più aperto di quello che vede nella scolastica posteriore a S. Tommaso e in Leibniz solo la corruzione della verità.
b) Maritain
Anche per Jacques Maritain (1882-1973) l'ontologia è a fondamento della teoria della conoscenza. La prima verità sulla quale si fonda ogni discorso non è cogito ergo sum, ma scio aliquid esse (v. Maritain, 1934, pp. 147 e ss.); ora, dalla concretezza di questa apprensione si diramano due vie: una che porta l'attenzione all'aliquid est e una che ritorna sullo scio. La prima è la via diretta, il movimento primo dello spirito, l'aliquid est è il punto di partenza di tutta la filosofia; la seconda è quella che porta alla critica della conoscenza. Ma anche la critica della conoscenza dipende dalla prima via, poiché nel suo procedere formula dei giudizi, e i giudizi si fondano sui primi principî (principio di identità, principio di non-contraddizione), che sono proposizioni sull'essere, esprimono leggi dell'essere (ibid., pp. 425, 101 e ss.). L'essere è appreso in ogni realtà, è illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, secondo l'espressione tomistica, è implicito in ogni oggetto. Così, come ens concretum quidditati sensibili (espressione del Gaetano), l'essere è appreso da ogni uomo, in qualunque conoscenza, ma l'uomo può portare la sua attenzione all'aspetto per cui il concreto è ‛ente'; può considerare l'ente in quanto ente, e allora fa metafisica. ‟L'ente che è oggetto del metafisico, l'ente in quanto ente non è nè l'ente particolare delle scienze della natura, nè l'ente vago del senso comune [...]: è l'ente reale in tutta la purezza e l'ampiezza della sua intelligibilità o del mistero che gli è proprio" (v. Maritain, 1932, p. 52). Questa conoscenza dell'ente in quanto ente è una intuizione, ‟una percezione diretta, immediata [...) superiore a ogni discorso e dimostrazione, poiché è all'origine di ogni dimostrazione" (ibid., p. 54). Si tratta però di una intuizione intellettuale, di una intuizione astrattiva (ibid., p. 66).
L'ente, dicevamo, è implicito in ogni realtà, quindi si predica di ogni realtà, di qualunque genere, sia essa sostanza, qualità o quantità; trascende quindi le categorie e in questo senso è trascendentale. E poiché è trascendentale, è analogo, ossia non dice la stessa cosa di ciò di cui si predica, ma esprime solo una similitudine fra le cose designate. ‟L'ente mi presenta una diversità intelligibile infinita, che è la diversità di qualcosa che posso tuttavia legittimamente chiamare col medesimo nome [...] poiché mi è dovunque noto in virtù della similitudine delle relazioni che le cose più diverse hanno con un certo termine essenzialmente diverso designato in ciascuna" (ibid., p. 73). L'analogia dell'ente è per Maritain (che segue qui il Gaetano) in primo luogo analogia di proporzionalità; il che vuol dire che non c'è un unico modo di essere per tutte le cose, ma che ogni cosa sta all'essere secondo la sua natura o essenza : la sostanza sta al suo essere come la qualità sta al suo, ecc. E qui compare già la polarità, nell'ente, di essenza ed esistenza: l'ente è ciò che è, il che implica un ‛ciò', un quid, e il suo essere o esistere (o almeno il suo poter esistere). Ora anche Maritain pone l'accento sull'è', sull'essere in atto che, nelle creature, è limitato da una essenza determinata, è sempre l'essere di questo o di quello, non la totalità dell'essere (solo Dio è ipsum esse subsistens). Anche Maritain vede nella riduzione del reale a contenuto intelligibile, a essenza, un errore fondamentale di Cartesio e di molta filosofia moderna, ma non pone questa affermazione al centro della filosofia, come fa invece É. Gilson.
c) Gilson
Per Étienne Gilson (1884-1978) i fallimenti della metafisica dipendono dal fatto che i metafisici hanno sostituito all'essere uno degli aspetti particolari dell'essere, di quegli aspetti che sono studiati dalle scienze della natura (v. Gilson, 1948, p. 7). Ma c'è un errore, o uno scambio, più radicale ancora, ed è quello d'intendere l'ente come essenza. L'ente è ciò che è; ora, ciò che è più importante e primordiale nell'ente è il suo essere, ma spesso si è invertito l'ordine dei due concetti e si è inteso per ‛ente' il ‛ciò che', il quid, l'essenza. Anzi, dall'esposizione de L'être et l'essence, sembra che tutti i filosofi - salvo uno, Tommaso d'Aquino - abbiano commesso questo errore, che oggi, per influsso appunto di É. Gilson, è chiamato comunemente dai neotomisti ‛essenzialismo'. Si capisce la facilità di cadere in questo errore poiché, dice Gilson, i nostri concetti esprimono l'essenza, ‟la nostra rappresentazione concettuale del reale è congenitamente cieca all'esistenza. I nostri concetti presentano tutti il medesimo carattere di neutralità esistenziale" (v. Gilson, 1948, p. 9). L'unica ontologia vera, immune da essenzialismo, quella di Tommaso d'Aquino, è certo debitrice a quelle che l'hanno preceduta, specialmente a quella di Aristotele, ma ‟l'ontologia di Aristotele è sollecitata da due tendenze opposte: quella, spontanea, che lo induce a collocare il reale nell'individuale concreto, e quella ereditata da Platone che lo invita a collocarlo nella stabilità intelligibile di una essenza una, che rimane sempre identica a se stessa nonostante la pluralità degli individui" (ibid., p. 56). Dopo Tommaso, la vera concezione dell'essere vien meno già con Duns Scoto, ma soprattutto con Suarez, che ha influito notevolmente sulla filosofia moderna, specialmente su Wolff. La caratteristica dell'ontologia di Tommaso consiste, secondo Gilson, nell'affermazione del primato dell'esse: l'ente non è semplicemente un oggetto intelligibile: è ciò che esiste, che ha l'atto di essere o esistenza (Gilson assume i due termini come sinonimi, diversamente da Fabro, come si dirà). Ora, la dottrina che meglio esprime questa verità è la teoria della distinzione reale di essenza ed essere nelle creature, anche se Gilson ammette che l'espressione ‛distinzione reale' non è felice (ibid., pp. 104-105). Essa afferma infatti che l'atto di essere di tutto ciò che non è Dio non è un complementum possibilitatis, quasi l'ultimo tocco di perfezione dell'essenza, ma è l'atto per cui una cosa semplicemente è, ‟l'atto costitutivo ultimo di ogni cosa" (ibid., p. 111), e tale atto non può derivare se non dalla pienezza dell'Essere, che è Dio. Secondo San Tommaso, Dio non è ‟una essenza infinita che contenga eminentemente in sé la causa di tutte le sue possibili partecipazioni , ma è ‟il puro essere esistenziale che si distingue da tutto il resto per il rifiuto che la sua pienezza oppone a ogni aggiunta ulteriore" (ibid., p. 113). L'esistenza non è oggetto di un concetto: i concetti sono tutti concetti di essenze; e tuttavia, pur senza averne un concetto, si conosce l'esistenza: la si conosce nel giudizio. Dopo aver esposto varie teorie sul giudizio di esistenza, Gilson conclude: ‟Affinché il giudizio di esistenza [...] diventi intelligibile bisogna ammettere che il reale contenga un elemento trascendente l'essenza stessa, e che la nostra conoscenza intellettuale sia naturalmente capace di captare questo elemento. Vi sarà dunque per noi, come per Platone e per Plotino, un ‛al di là dell'essenza', ma che, invece di essere il Bene o l'Uno, sarà l'atto di esistere. Se è al di là dell'essenza, è al di là del concetto" (ibid., p. 281). L'esistenza è colta nel giudizio ‟che è esso pure un atto". Nel giudizio di esistenza il soggetto intelligente apprende in modo immediato nell'oggetto ‟ciò che vi è in esso di più intimo e profondo: l'actus essendi" (ibid., p. 283). Soltanto un'ontologia di questo tipo è in grado di fondare una teoria realistica della conoscenza.
d) Maréchal
Sul giudizio, come atto in cui si rivela l'essere, insiste pure Joseph Maréchal (1878-1944). La sua maggiore opera, Le point de départ de la métaphysique, reca il sottotitolo Leçons sur le développement historique et théorique du problème de la connaissance, il che vuol dire che il punto di partenza della metafisica è secondo l'autore il problema della conoscenza, inteso come problema della possibilità della metafisica. Se è la metafisica quella che pone il problema, metafisica è anche la soluzione: il giudizio affermativo suppone che vi sia un oggetto assoluto quale sua norma; l'affermazione vera è il riflesso in noi dell'attualità dell'oggetto, attualità che s'identifica con la sua intelligibilità (v. Maréchal, 1926, p. 242). Si tratta però di una intelligibilità parziale, o piuttosto di una intelligibilità solo parzialmente scoperta dall'intelligenza umana; intelligibilità che, proprio per questo suo carattere parziale, postula una piena intelligibilità, identica con una infinita Intelligenza. Questa, che noi abbiamo, forse impropriamente, chiamato postulazione, avviene mediante la coscienza della finalità della nostra intelligenza verso la conoscenza intuitiva di un Essere assoluto.
e) Lotz
La teoria di Maréchal è stata ripresa e ripensata in rapporto all'ontologia heideggeriana da Johannes B. Lotz (n. 1903) e K. Rahner. Poiché Rahner si è poi occupato soprattutto di teologia, ci limiteremo a un cenno sull'ontologia di Lotz. In un saggio pubblicato nella Miscellanea in onore di Rahner, Lotz indica tre eventi (Ereignisse) filosofici fondamentali: il chiarimento del metodo trascendentale da parte di Maréchal, l'accentuazione della differenza ontologica da parte di Heidegger, la riconquista del concetto tomistico dell'essere (Lotz parla di concetto ‛tommasiano' per non confonderlo con quello della tradizione tomistica). Il metodo trascendentale è quello che parte dalla conoscenza, anzi dall'attività umana per ricercare le condizioni che la rendono possibile; la differenza ontologica è la differenza fra ente ed essere ; il concetto tomistico di essere da riconquistare è il concetto dell'essere come actus essendi. La differenza ontologica si rivela specialmente nelle attività spirituali umane e in modo particolare nel giudizio; giudicare è infatti un andar oltre il dato bruto per esprimere l'essenza (Washeit), per dire ciò che il dato è. Anche l'è' della copula non è semplice connessione di idee, ma posizione di qualcosa come reale, come risulta specialmente nel momento dell'assenso, di quella che Lotz chiama sintesi veritativa e distingue dalla sintesi predicativa (v. Lotz, 1957, pp. 61-62). Nella sintesi veritativa si coglie l'essere come distinto dall'ente (che è il punto di partenza, il soggetto del giudizio), come ciò che va oltre l'ente e insieme lo fonda. ‟La trascendenza trova nell'intima struttura del giudizio la sua concreta realizzazione" (ibid., p. 70). L'uso tedesco della maiuscola per tutti i sostantivi o i verbi sostantivati (Sein) si presta assai bene al rapido passaggio dall'essere come ciò che è colto in ogni ente (essere simpliciter, Sein-schlechthin) all'ipsum Esse subsistens, sebbene Lotz ripeta che essi non vanno confusi. L'essere simpliciter non è solo il modo in cui l'intelletto umano coglie gli enti, ma è qualcosa di reale (qui è particolarmente evidente l'influsso heideggeriano), che però non è l'ipsum Esse subsistens. A questo si arriva riflettendo sulla pretesa di assolutezza che ha ogni giudizio, cioè sulla pretesa di valere per la realtà, e quindi per ogni intelligenza. In questa pretesa c'è il riconoscimento di qualcosa che s'impone all'intelligenza finita, che la misura e che è insieme il fine della sua ricerca: l'essere affermato dal giudizio si mostra fondato sull'Essere sussistente,che è insieme supremo valore e fonte di ogni valore. L'essere indeterminato, l'ipsum esse è ciò che è primariamente inteso (das Zunächstgemeinte), l'ipsum Esse subsistens è ciò che è al termine di ogni ricerca (das Zunächstgemeinte; v. Lotz, 1964, p. 151).
f) Fabro
Sulla peculiarità dell'esse tomistico insiste Cornelio Fabro (n. 1911) che, fin dalla sua prima opera, ha messo in luce il rapporto fra il concetto tomistico di esse (actus essendi) e quello di partecipazione (v. Fabro, 1939). Anch'egli polemizza con tutte le forme di essenzialismo - errore che egli vede insinuarsi nella scolastica sin dalla fine del sec. XIII, con Enrico di Gand e Duns Scoto e continuare poi fino ai nostri giorni - ma, a differenza di Gilson, distingue ‛esistenza' da esse. L'esistenza è concepita dalla scolastica tradizionale, che Fabro rifiuta, come l'uscire dalla possibilità, il venire a essere, mentre l'esse tomistico è l'atto di ciò che è. Il puro essere è perciò atto puro, infinita energia di essere, l'essere finito è l'atto di una essenza, partecipato dall'Essere sussistente. Un ente finito non sarebbe ente se non fosse in atto, se cioè non gli fosse continuamente partecipato l'essere dall'ipsum Esse subsistens, ma non sarebbe limitato se in lui non rimanesse un elemento potenziale, che è l'essenza. L'essenza non va quindi confusa con la possibilità, una possibilità che passerebbe poi all'atto (e quindi scomparirebbe come possibilità), ma come la reale potenza che c'è in ogni ente finito; di qui la distinzione reale - e la composizione - di essenza ed essere nelle creature: composizione diversa da quella di materia e forma, poiché questa é composizione nell'essenza (la forma è determinazione dell'essenza), mentre la composizione di essenza ed essere è l'attuazione di una essenza già determinata dalla forma, e, perché così compiutamente determinata, capace di ricevere l'essere. La partecipazione dell'essere agli enti è la creazione: questa è la differenza fondamentale tra la concezione tomistica di partecipazione e quelle neoplatoniche antiche, di Plotino e di Proclo, dalle quali pure Tommaso ha tratto partito; una partecipazione panteistica, infatti, annullerebbe quella differenza ontologica fra essere ed ente che, nonostante i rimproveri di Heidegger, è ben presente a Tommaso. Fabro mette spesso a confronto la concezione tomistica con quella heideggeriana, ed è d'accordo con Heidegger nell'affermare che vi è stato nella tradizione occidentale un oblio dell'essere, una indebita identificazione fra l'ente in quanto ente e l'essere, ma questo errore non c'è in Tommaso d'Aquino: anzi Fabro parla di un oblio dell'esse tomistico da parte, come si diceva, non solo della filosofia moderna, ma anche della scolastica. Heidegger ha il merito di aver riaffermato che il problema dell'essere (Seinsfrage) è il problema fondamentale della filosofia, di aver sottolineato la differenza ontologica, ma non ha saputo ricuperare e riconoscere l'attualità della concezione tomistica dell'essere. Il Fabro mette a raffronto la concezione tomistica anche con quella hegeliana dell'essere: Hegel ha il merito di porre l'essere a fondamento della sua metafisica, e Fabro riconosce alcuni punti di contatto fra i due pensatori. ‟Come in S. Tommaso, anche in Hegel il concetto indeterminato iniziale di ens-esse è intrinsecamente dialettico in quanto rivela in sé, per il suo riferimento al concreto finito, la presenza del non essere. Anche per Hegel l'essenza (Wesen) rappresenta il momento della ‛negatività' ch'è intermedio fra il Sein iniziale e il Sein mediato (Existenz)" (v. Fabro, 1957, pp. 40-41), ma per Hegel la dialettica apparentemente ternaria è in realtà binaria, è solo unità di opposti, non vera mediazione, poiché egli non ammette la creazione dal nulla, cioè l'atto con cui l'ipsum Esse subsistens partecipa l'essere a ciò (la creatura) che per sé sarebbe nulla (ibid., p. 43).
g) Masnovo
Di Amato Masnovo (1880-1955), più noto come studioso di filosofia medievale, ma anche uno dei più acuti filosofi neotomisti, ricorderemo, per ciò che riguarda l'ontologia, la dottrina sul possibile e la concezione del principio di causalità. D'accordo con Kant nel rilevare che l'assenza di contraddizione non esaurisce la nozione di possibilità, poiché non-contraddizione può esserci solo fra le parti di un composto, e la possibilità del composto suppone che siano singolarmente possibili le parti di cui è costituito, Masnovo afferma che la conoscenza della possibilità suppone la conoscenza della realtà attuale. L'essere, poi, della possibilità (ma non il suo essere conosciuto) si fonda pure sulla realtà attuale, poiché se nulla esistesse, nulla sarebbe possibile. Più precisamente: a meno di identificare il possibile con l'attuale, e quindi di escludere che ci sia del possibile oltre l'attuale, si deve ammettere che il possibile è ciò che può partecipare all'essere e, ancora più precisamente, ciò che può essere attuato da una volontà intelligente; possibile è ciò che è pensabile da una Intelligenza che sta all'origine del reale (v. Masnovo, 1930). Tesi confermata dal fatto che chi, come Hartmann e, prima di lui, Spinoza, nega che a fondamento della realtà stia una Volontà intelligente nega il valore oggettivo della nozione di possibile, nega che ci sia del possibile oltre l'attuale. Dalla dottrina sul possibile deriva come conseguenza che il problema di Dio non può porsi come problema se a Dio competa l'esistenza, poiché non si sa a quale nozione di Dio faccia riferimento un tale problema, e non si può sapere se una nozione che si prescelga di Dio risponda a una realtà possibile, sia quindi un autentico concetto o non piuttosto una pura combinazione di parole. Il problema di Dio, in filosofia, si pone chiedendosi se la realtà della quale abbiamo esperienza rimandi ad un'altra realtà che abbia tali attributi da poter essere nominata Dio. Dio in filosofia - soleva dire Masnovo - si trova come predicato e non come soggetto. È questa la ragione per la quale Masnovo non ritiene valido l'argomento di S. Anselmo nel Proslogion (v. Masnovo, 1918).
A proposito del principio di causalità, Masnovo ha il merito di sganciare il significato metafisico di tale principio da quello che chiamerei fisico-epistemologico, col quale è legato in Hume e in quasi tutti coloro che, da parte neoscolastica, criticano la posizione di Hume. Il principio di causalità nel suo significato metafisico è formulato in questi termini da Masnovo: ‟ciò che diviene, in quanto diviene, non ha in sé la ragione sufficiente del suo divenire" (v. Masnovo, 19777, p. 54). È quindi del tutto indipendente dalla possibilità di stabilire rapporti necessari fra determinati fenomeni ritenuti effetti e le loro cause.
h) Bontadini
Una posizione originale, che egli chiama neoclassica piuttosto che neoscolastica, è quella di Gustavo Bontadini (n. 1903). Neoclassica perché, pur intendendo conservare il patrimonio della scolastica tradizionale, si rifà idealmente alle sue fonti classiche, in modo speciale alle speculazioni greche sull'essere, e in modo particolare a Parmenide. Classica (o neoclassica) anche perché il principio che la fonda è ‟la pietra di paragone, cui deve riferirsi ogni critica o comunque ogni valutazione della metafisica, in quanto, come sosteniamo, non si riscontra nella tradizione occidentale altro principio che possa validamente entrare con esso in concorrenza come fondamento di affermazione metempirica. L'aggettivo di classica denota quindi, a un tempo, una condizione storica e una dignità teoretica" (v. Bontadini, 1971, vol. I, p. 97). Tale principio, che Bontadini chiama ‟principio di Parmenide" è da lui formulato così: ‟l'essere non può essere originariamente limitato dal non essere" (v. Bontadini, 1952, p. 245; 1971, vol. I, p. 291). La scolastica e la neoscolastica non avevano finora sentito l'esigenza di semantizzare il termine ‛essere', paghe di dichiarare che l'essere è indefinibile, perché è quello in cui si risolve ogni altro concetto; Bontadini ritiene invece necessaria una semantizzazione del termine e afferma che ‟[...] il significato di ‛essere' emerge solo in correlazione col significato del ‛non'. In altri termini, non vi è alcun contenuto intenzionale del termine ‛essere', se non in quanto esso esprime l'opposizione al negativo" (ibid.). Negativo inteso non come semplice non essere di qualche cosa, ma come ‛nulla'. Ora l'esperienza del nulla è implicita nell'esperienza del divenire: ‟La mente umana è folgorata dalla luce metafisica, quando riconosce che l'insidenza del nulla, che affligge la realtà dell'esperienza tutta quanta, non può essere originaria" (ibid., p. 98). E quando Bontadini parla di ‟esperienza" non intende l'oggetto piuttosto che il soggetto, o viceversa, ma l'unità dell'esperienza o l'intero, ossia la realtà presente, ‟la realtà che viene affermata in virtù della sua ‛presenza': la realtà di cui si ha esperienza" (ibid., p. 277). Con questo concetto Bontadini supera quello che egli chiama ‟dualismo gnoseologico", cioè la separazione del conoscere dal reale, del conosciuto dal reale. Ciò da cui si prendono le mosse, l'immediato, è invece il reale saputo. Ora l'esperienza, si diceva, si manifesta inficiata di non essere, mentre l'essere non può essere originariamente limitato dal non essere. Ma poiché il divenire implica il non essere - e l'esperienza del divenire è innegabile, come prima verità di fatto, come il principio di non contraddizione è la prima verità di ragione, per usare i termini di Leibniz, autore caro a Bontadini - è necessario trascendere l'esperienza e affermare l'esistenza dell'immutabile. A questo passaggio Bontadini ha dedicato a più riprese un'acuta analisi per ‛rigorizzare' la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Innanzi tutto ha analizzato il divenire per mostrarne il carattere contraddittorio. Nel divenire, ‟in qualsiasi divenire, anche nel più tenue, che è il moto locale, a ogni secondo battito, l'essere non è' (L'esser qui, che testé era, non è più [...]) [...]. Il divenire si presenta perciò contraddittorio [...]" (v. Bontadini, 1971, vol. II, pp. 189-190). La contraddizione è sanata solo se si ammette che l'ente mutevole sia ‛creato' dall'Essere immutabile. ‟La creazione, infatti, come atto che suscita dal nulla la realtà corruttibile, è insieme, come pertinenza dell'Essere intelligibile, fuori del tempo [...]. Ora [...] quello che nell'esperienza appare come il semplice non essere dell'essere, visto nell'assoluto è l'atto intemporale che pone l'annullamento" (ibid., p. 192). Il diveniente sarebbe quindi contraddittorio se fosse la realtà originaria; non è invece contraddittorio se è visto come ‛creato', cioè come posto di fronte al nulla dall'Essere che è totalmente essere.
4. La philosophie de l'esprit di Lavelle
Non si inserisce nella tradizione scolastica o neoscolastica, ma le si avvicina nelle conclusioni l'ontologia di Louis Lavelle (1883-1951). Lavelle è con R. Le Senne il rappresentante più eminente di una corrente che egli stesso ha chiamato ‟philosophie de l'esprit" e che si connette con lo spiritualismo francese di Maine de Biran, Ravaisson, Lachelier.
Nell'introduzione alla seconda edizione del volume De l'étre, che è il primo della trilogia La dialectique de l'éternel présent (seguono De l'acte e Du temps et de l'éternité), Lavelle, ricordando la data della prima edizione (1928), osserva che introdurre il problema dell'essere nella filosofia poteva sembrare, allora, una specie di paradosso: era una reazione al soggettivismo fenomenista dominante. Ma, continua Lavelle, soggetto e fenomeno sono pur sempre essere. ‟L'io non può porsi se non ponendo la totalità dell'essere, sì che la totalità dell'essere è non già posteriore alla posizione dell'io da parte dell'io stesso, ma supposta e implicita in esso come condizione della sua stessa possibilità" (v. Lavelle, 19472, p. 12). La tesi fondamentale di Lavelle è che l'essere è atto, non cosa, e gran parte della sua opera è dedicata a spiegare questa affermazione. Il termine ‛atto' è preferito ad ‛attività' per quattro ragioni: perché ‛attività' è nome astratto, mentre ‛atto' è concreto; perché ‛attività' esprime una possibilità, mentre ‛atto' esprime il compimento; perché l'attività ha bisogno, per svolgersi, di una sollecitazione esteriore, mentre l'atto è ‟generatore di sé"; perché ‛attività' rimanda al suo contrario, che è la passività, mentre l'atto non ha contrario (v. Lavelle, 1937, p.13). Quest'ultima osservazione mette in rilievo il carattere onnicomprensivo dell'essere, che è atto: non c'è nulla che sia fuori dell'essere e l'essere è univoco (v. Lavelle, 19472, p. 10). L'essere si coglie nell'esperienza dell'atto che mi fa essere: è questa l'esperienza sulla quale si costruisce la metafisica (v. Lavelle, 1937, p. lì). In questa esperienza l'essere si rivela come atto, cioè come interiorità, capace di fondare l'esistenza' di me come coscienza, come pensiero. Nell'esperienza metafisica fondamentale l'esistenza, che è mia, si scopre come partecipazione all'essere. Il concetto di partecipazione esprime il rapporto fra l'esistenza e l'essere. Il titolo di alcuni paragrafi de L'acte spiega come Lavelle intenda la partecipazione: essa ‟non è l'appartenenza statica a un tutto del quale si faccia parte, ma la cooperazione dinamica a un ideale che si promuove senza posa" (v. Lavelle, 1937, p. 174). La partecipazione infatti non è solo dono di essere, ma anche suscitatrice di libertà, fondamento dell'autonomia della persona (ibid., pp. 180-183). Tale autonomia implica il potere di realizzarsi, di andar oltre la propria essenza; e qui Lavelle si esprime con una frase che ricorda Sartre: ‟L'io non è se non il potere di farsi. Ma allora la sua esistenza va oltre la sua essenza". L'esistenza non è solo riferimento a sé, capacità di farsi; è anche manifestazione dell'altro, del dato, che Lavelle chiama: la ‛realtà'. ‟L'esistenza è inseparabile dall'atto di partecipazione: sempre personale, soggettiva e concentrata in un atto di libertà che rinasce perpetuamente [...]. La realtà, al contrario, è impersonale, oggettiva, valida per me e per tutti [...]" (v. Lavelle, 19472, p. 40); è qualcosa di opaco e di resistente all'io. Essere, esistenza e realtà sono ‟aspetti inseparabili uno dall'altro, aspetti sotto i quali il medesimo ente (être) può essere definito, quando è introdotta la partecipazione e perché essa possa intervenire" (ibid., p. 6).
Come l'atto di affermazione è il momento nel quale coincidono la conoscenza e l'essere, il gnoseologico e l'ontologico (ibid., p. 17), così la volizione è il momento nel quale coincidono l'essere e il bene, l'ontologico e l'assiologico. La separazione di essere e bene dipende infatti dal presupposto che l'essere sia una cosa, un oggetto; se invece si concepisce l'essere come atto, lo si vede come fonte del volere e dell'intelligenza. L'atto originario infatti è volere di sé, e il bene è precisamente ciò che è voluto; il bene è ‟la ragion d'essere" dell'essere (ibid., p. 80). Lavelle distingue il bene dal valore: il valore sta al bene come l'esistenza sta all'essere; e cioè il valore è il bene in rapporto a una volontà che cerca di realizzarlo. Essere e bene s'identificano, esistenza e valore non s'identificano, poiché l'esistenza è libertà, e può anche rifiutare il valore, ma il valore è ciò che dà significato all'esistenza, ciò senza cui l'esistenza non meriterebbe di essere vissuta.
5. L'ontologismo critico di Carabellese
Ontologismo critico chiamò la sua filosofia Pantaleo Carabellese (1877-1948), e la spiegazione è data dalle parole con le quali inizia la sua principale opera teoretica, Il problema teologico come filosofia: 'La filosofia o è anche metafisica o non è". Per metafisica si deve intendere, con Aristotele, la scienza dell'essere in quanto essere, dell'essere (e questa è l'interpretazione carabellesiana) uno e universale. È ancora possibile una metafisica dopo la Critica kantiana perché il vero significato della Critica non è, secondo il Carabellese, l'affermazione dell'irraggiungibilità dell'essere, ma l'affermazione che l'essere è ‛idea', è immanente al conoscere: ‟il risultato vero della Critica [...] è la noumenicità dell'essere in sé come puro oggetto, cioè la riduzione della cosa in sé a Idea" (v. Carabellese, 1931, p. lì). L'errore del realismo è la concezione dell'essere come un al di là del conoscere, dell'essere come altro; Kant non ha fatto che formulare chiaramente il realismo e scoprirne la difficoltà, difficoltà che si supera se si concepisce la cosa in sé non come altro dal conoscere, ma come l'universalità del pensato.
Il pensato è il concreto, l'essere saputo o, come dice il Carabellese ne L'idealismo italiano (v. Carabellese, 1938, p. 301) il mio-saper-l'essere. Il punto di partenza della filosofia, il dato di esperienza, non è nè l'oggetto scisso dal soggetto nè il soggetto scisso dall'oggetto; ma la sintesi dei due. Soggetto e oggetto sono le condizioni trascendentali del concreto, il quale è sempre inadeguato alle sue condizioni trascendentali che, nella loro purezza, superano la coscienza concreta (v. Carabellese, 19402, p. 175). In questo superare, in questo non essere esaurito nel concreto consiste la trascendenza dell'oggetto, che si potrà anche scrivere con la maiuscola: Oggetto. Una trascendenza così concepita non esclude affatto che l'Oggetto sia immanente ai concreti: l'Oggetto si attua nei concreti pur non attuandosi mai tutto in essi, proprio perché è la loro universalità.
Questa, dell'oggettività come universalità, è la vera scoperta kantiana. ‟L'oggettività [...] è universalità. E che infatti l'oggettivo sia oggettivo perché universale, risulta dalla semplice considerazione che l'oggetto è fatto oggetto proprio dal valere per tutti" (v. Carabellese, 19402, p. 50). La vera cosa in sé ‟è nè più nè meno che l'Unicità di quella coscienza in cui e per cui tutte le cose si affermano" (v. Carabellese, 1931, p. 83). Precisata così la natura dell'oggetto, non c'è più difficoltà a tornare al concetto della filosofia come scienza dell'essere in sè. ‟E il problema oggettivo della filosofia sta appunto nel vedere come possa esserci nel concreto, da cui essa si dispicca, un essere in sè che di quel concreto è la universale oggettività" (ibid., p. 137). Ora questo non è altro che il problema di Dio, il problema teologico come filosofia, poiché l'Oggetto, unico e universale, non è altro che Dio. Il problema dell'esistenza' di Dio non è problema filosofico, ma nasce dalla contaminazione fra l'esigenza religiosa e l'esigenza filosofica. La religione è adorazione, fede, e induce a pensare che debba esistere Dio come oggetto di fede e di adorazione; ma non è possibile che Dio esista; infatti se esistesse egli, Essere assoluto e unico, non ci sarebbe più posto per l'esistenza di noi, soggetti finiti. Dio non esiste, ma è condizione della nostra esistenza. ‟Non l'esistenza di Dio, che l'inabisserebbe nel nulla, sente il credente, ma l'esistenza pura dell'io, costituita da quell'unico assoluto oggetto, che è in sè, e che perciò non ha una sua propria esistenza" (ibid., p. 167). L'esistenza, non di Dio, ma dell'io in Dio si sente nell'adorazione; l'essenza di Dio si spiega con la filosofia: è l'essenza dell'assoluto Oggetto. Abbiamo così già accennato all'altra condizione trascendentale del concreto: il soggetto. Come l'Oggetto non può esistere se non realizzandosi nei molteplici soggetti, non è se non ‟l'essere uno di quei molti che siamo noi" (v. Carabellese, 19402, p. 51), così il soggetto non può esistere come Soggetto unico e universale, come lo concepisce l'idealismo, ma esiste solo nel concreto, cioè come pensiero dell'Essere o dell'Oggetto: ‟Noi, molti io, pensiamo Dio, l'unico".
6. La filosofia dell'azione di Biondel
Finora abbiamo parlato di correnti filosofiche che fin dall'inizio intendono svolgere un'ontologia; altre arrivano all'ontologia essendo partite per strade diverse: dalla filosofia dell'azione o dalla logica. Fra le prime viene subito alla mente la filosofia di Maurice Blondel (1861-1949), il quale nell'opera sua più originale, Action, del 1893, cercava di raggiungere le tesi fondamentali della concezione cristiana senza passare per quelle dottrine metafisiche che la scolastica e la neoscolastica consideravano come praeambula fidei. Era l'azione vissuta quella che, mai soddisfatta delle mete raggiunte, sperimentando sempre un dislivello fra l'intenzione profonda, la volonté voulante, e la volonté voulue, obbligava a riconoscere l'esistenza di un trascendente, inteso non solo come ente supremo, ma come Dio creatore e redentore. Dopo molti anni di silenzio, Blondel pubblicò un'ampia trilogia, nella quale i due volumi su L'action, che riprendono il pensiero della prima Action, sono preceduti da due volumi su La pensée e da uno su L'être et les êtres: la dialettica dell'azione passa per l'ontologia, o piuttosto L'être et les êtres" rende esplicita l'ontologia implicita nella dottrina sul pensiero e sull'azione. Si tratta infatti per Blondel, nelle diverse opere, sempre di un medesimo problema: il passaggio da ciò che è dato e vissuto e immediatamente conosciuto a un Assoluto che si manifesta come il Dio della rivelazione cristiana. Blondel parla di ‟ontologia integrale" (v. Blondel, 1935, pp. 21 e ss.), di ‟scienza concreta dell'essere" (ibid., p. 163) per indicare appunto un'ontologia che si vale non solo di concetti astratti, ma di tensione volitiva e della nostra aspirazione profonda alla pienezza dell'essere (ibid., p. 167). Alla domanda ‟che significa essere?" Blondel risponde non già con una definizione, poiché ‛essere' è un concetto primo, non risolubile in altri, ma col mettere in rilievo le valenze del termine ‛essere': innanzi tutto la duplicità di nome e di verbo (ente ed essere attuale) e il primato del verbo, poi l'esistenza, intesa talora come sinonimo di essere (verbale), talora come ciò per cui un ente ha l'essere in proprio, che lo distingue e in certo senso lo oppone agli altri. Ma la dualità di significato che ha più importanza nello svolgimento dell'opera è quella di essere come dato, come ciò che immediatamente appare, ed essere vero (nel senso di vere esse, essere autenticamente). Di qui il secondo problema (dopo quello del significato dell'essere): qual è l'essere vero? Per rispondere, Blondel esamina quali siano gli enti, a chi o a che cosa attribuiamo il nome ‛ente' (v. Blondel, 1935, p. 72). ‛È' la materia, ma non è un ente autosufficiente, ‛è' solo come parte o momento di qualcosa di determinato e formato; ‛sono' i viventi, ma in modo precario, perché non hanno perfetta unità, perché sono composti di parti, e quindi possono disgregarsi (ibid., p. 91); ‛sono' le persone, ma neppure queste hanno piena autonomia, poiché hanno bisogno di altre persone, di una società, per sviluppare la loro personalità, perché la personalità umana suppone un organismo vivente dal quale emerge; ‛è' l'universo intero, ma non è pienamente ‛uno', quindi non è pienamente essere, poiché ens et unum convertuntur; infine ‛è', ma non pienamente, tutto ciò che diviene, che si svolge nel tempo. Blondel usa spesso per indicare gli enti anche quell'ente che siamo noi il termine ‟abbozzi (ébauches) di essere" (ibid., pp. 23 e 47). L'essere vero, pieno, immutabile trascende dunque i vari tipi di enti sopra enumerati. ‟Gli enti ‛sono', e tuttavia non ‛sono' assolutamente" (ibid., p. 135). ‟Per un verso ci sembra di trovare l'essere in noi e intorno a noi nelle realtà che si impongono alla nostra esperienza [...]. Ma d'altra parte non possiamo fare a meno di conferire all'essere degli attributi del tutto diversi da quelli che ci suggeriscono le realtà sperimentate in noi e fuori di noi" (ibid., p. 67). Sorge quindi il problema: come possono coesistere l'Essere e gli enti? Blondel risponde col concetto di creazione: l'essere viene agli enti per creazione. Fedele alla convinzione che Dio è al di là di tutti i nostri concetti, alcuni dei quali possono esprimerlo solo analogicamente, Blondel esita ad affermare che Dio è persona, anche perché ritiene che la rivelazione cristiana dica molto meglio della metafisica chi è Dio, e la dottrina cristiana parla di Trinità delle persone divine facendoci intravedere un'eterna generazione nell'Essere infinito.
7. Ontologia e filosofia analitica
L'ontologia, sia pure in senso diverso da quello classico, scolastico e wolffiano, ricompare anche in una corrente filosofica che sembrava aver eliminato tutti i problemi tradizionali: la filosofia analitica. L'anello di congiunzione fra questa ontologia e quella classica è costituito dalla scuola di Fr. Brentano e specialmente da A. Meinong. Ho detto sopra che non tutti i discepoli di Brentano accettarono la riduzione degli enti ideali a realtà psicologiche; fra questi è Meinong che riconosce oggettività intenzionale non solo agli enti esistenti, ma anche agli enti immaginari (come il centauro) e agli enti ideali (universali, relazioni, proposizioni, negazioni). Come ogni rappresentazione ha il suo rappresentato (Object, in senso stretto), ogni giudizio il suo giudicato (che Meinong chiama Objectiv, per distinguerlo dall'oggetto della semplice rappresentazione), ogni valutazione ha il suo valutato (Dignitativ) e ogni desiderio ha il suo desiderato (Desiderativ). Oggetti e oggettivi non vanno confusi con le cose rappresentate o giudicate; ci si può infatti rappresentare anche enti immaginari e, secondo Meinong, perfino enti contraddittori, come un quadrato rotondo. Così pure il giudicato può anche essere contraddittorio, ma anche se è vero (o almeno possibile) non è una cosa esistente; che la neve sia bianca non è una cosa esistente, ma un oggetto di giudizio (Objectiv).
Le cose (e anche gli atti di conoscenza) ‛esistono', gli oggetti di rappresentazione ‛sono', ma non è detto che siano realtà esistenti; i giudicati ‛sussistono' (bestehen); ciò che è oggetto di valutazione (per esempio la giustizia) ‛vale' (gilt); ciò che è oggetto di corretto desiderio ‛deve essere (soll). Nel giudizio, Meinong distingue l'assenso da ciò a cui si dà l'assenso. Posso chiedermi se una proposizione sia vera, se l'oggetto che vedo sia un albero; ora, ‛l'essere un albero dell'oggetto' è distinto dal ‛sì', dall'assenso che do quando dico: ‛quell'oggetto è un albero'. Meinong chiama ‛assunzione' (Annahme) quell'elemento del giudizio che è al di qua dell'assenso, che è neutro rispetto al ‛sì' o al ‛no' del giudizio. La teoria delle assunzioni fu diffusamente discussa da B. Russell (v. Lenoci, 1972, p. 316), e tutta la teoria degli oggetti ha suscitato una notevole attenzione da parte della filosofia analitica.
Russell non ammette che ogni frase grammaticalmente corretta anche ‛circolo quadrato' - abbia un oggetto, esprima una entità, come ammetteva Meinong, e si domanda a quali condizioni una frase possa denotare un oggetto. La sua risposta, nel famoso articolo On denoting del 1905 (v. Russell, 1905), è che, per denotare un oggetto, ossia per essere significante, una frase come ‛un uomo', ‛alcuni uomini', ‛l'attuale re d'Inghilterra', ‛il moto di rivoluzione della Terra' ecc., deve essere inserita in un enunciato che possa essere vero o falso. E affinché l'enunciato possa essere vero o falso bisogna che il soggetto di esso esista. L'enunciato ‛l'attuale re di Francia è calvo' non è nè vero nè falso; per diventare suscettibile di verità o falsità dovrebbe essere trasformato così: ‛esiste un x e uno solo che è attualmente re di Francia ed è calvo'. Secondo questa teoria un significato (un ‛senso' secondo la terminologia di Frege) rimanda sempre all'apprensione di una realtà esistente; il soggetto di un giudizio può essere predicato di un altro, come quando dico: ‛un uomo cammina per la strada', dove ‛un uomo' è predicato del giudizio ‛la figura che si muove laggiù è un uomo'; ma a fondamento di tutti i giudizi deve stare sempre l'esperienza immediata di un ‛questo'. Se, oltre l'intuizione (acquaintance) di dati sensibili, abbiamo anche l'intuizione di universali è un problema sul quale, come su molti altri, il pensiero di Russell è mutato: da un ‛platonismo' iniziale a un nominalismo (v. Russell, 1927; tr. it., pp. 62-63).
Ma il problema degli universali è solo uno dei problemi ontologici che si ripresentano a logici e analisti del linguaggio: J. Kaminsky ne indica altri: per es. come si giustifica (se si giustifica) la distinzione fra oggetto (o cosa) e proprietà (per es. quando si dice che un oggetto ha un determinato colore), fra soggetto e predicato, fra significato e denotazione, fra intensione ed estensione. Sembra però che tutti ricadano nel problema degli universali (v. Stegmüller, 1956-1957) inteso come problema se ci siano o no oggetti non- concreti. P. F. Strawson (n. 1919) afferma che il nostro discorso rinvia originariamente a un mondo di individui (corpi materiali e persone), e descrive i modi in cui questi sono identificati e sono loro attribuiti certi predicati. Ci sono poi gli universali, che non hanno un'esistenza indipendente dagli individui, ma vengono da questi ‟esemplificati" (v. Strawson, 1959). Gli analisti trattano il problema soprattutto nelle sue ripercussioni logiche, e cioè domandandosi se e come sia possibile formulare enunciati significanti senza ammettere l'esistenza di oggetti non-concreti, piuttosto che esaminando e distinguendo i vari modi di ‛essere'; ma certo resta sullo sfondo l'osservazione aristotelica che ‟l'essere si dice in molti modi".
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