Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con l’opera aperta, l’opera d’arte si trasforma da “oggetto” a “processo”. In musica, ciò avviene nell’ambito della musica aleatoria e di quella indeterminata, che costituiscono due dei principali contributi degli Stati Uniti alla storia della musica moderna e contemporanea. Particolarmente significative sono le figure di John Cage, Morton Feldman, Earle Brown e Christian Wolff. Una risposta europea è stata elaborata, a partire dagli anni Cinquanta, da Boulez, Stockhausen e Xenakis; negli anni Sessanta un notevole seguito si è avuto in Gran Bretagna (soprattutto con Cornelius Cardew) e in Italia.
Umberto Eco
L’apertura di un’opera d’arte
In tale senso, dunque, un’opera d’arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta, possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione è così una interpretazione e una esecuzione, poiché in ogni fruizione l’opera rivive in una prospettiva originale.
U. Eco, Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962
Per “opera aperta” si intende, in senso lato, un’opera d’arte la cui identità estetica, formale o materiale non è definita una volta per tutte, ma soggiace a fattori di variabilità che la rendono, entro limiti più o meno ampi, sempre diversa. La Gioconda di Leonardo o il Mosè di Michelangelo sono quelle opere e quelle soltanto; l’intervento di fattori esterni, come il luogo in cui vengono collocate o il grado di luminosità che le investe, può condizionare la loro ricezione estetica ma non ne modifica la forma né la sostanza. Un Mobile di Calder invece – una scultura mobile che assume forme sempre diverse in virtù del precario equilibrio su cui si reggono le sue componenti – non si presenta mai identico a se stesso; tuttavia, nessuna delle molteplici forme che esso assume può essere considerata “migliore” di un’altra o più vicina ad esprimere l’essenza dell’opera. L’introduzione nell’arte moderna di una tale dimensione di “apertura” ha sancito dunque il superamento dell’idea di opera come forma rigida e chiusa in favore di una sua nuova concezione che la intende appunto non più come oggetto ma come campo di possibilità.
Per quanto generalmente siano considerati sinonimi, nello specifico musicale occorre fare una distinzione tra alea (chance) e indeterminazione (indeterminacy), i due termini relativi all’opera aperta più comunemente usati dagli storici, dai musicologi e dai musicisti stessi. La parola “alea” – da cui l’aggettivo “aleatorio” e l’espressione “musica aleatoria” – è, come noto, un termine latino che significa “gioco di dadi” (e quindi, per estensione, gioco d’azzardo); la sua applicazione in ambito musicale riguarda l’adozione da parte dei compositori di strategie operative automatiche (come ad esempio l’estrazione numerica o il lancio di monete) alle quali viene affidato il compito di strutturare un’intera composizione attraverso la combinazione casuale di un certo numero di elementi musicali predefiniti. La parola “indeterminazione” – da cui l’espressione “musica indeterminata” – si riferisce invece alla mancanza di indicazioni precise rispetto alla definizione dei parametri sonori fondamentali di una composizione, come l’altezza o la durata, o anche di aspetti macroscopici come la forma; in questo caso il compito di sopperire a tale mancanza di perspicuità non è affidato a processi automatici ma all’esecutore, che è chiamato a scegliere nel momento stesso dell’esecuzione sulla base della propria sensibilità e nel rispetto del disegno estetico complessivo delineato dall’autore. Alla luce di una simile distinzione possiamo dunque considerare aleatoria ogni musica che risulti indeterminata rispetto alla sua composizione, mentre considereremo indeterminata ogni musica che risulti tale rispetto alla sua esecuzione. Ciò comporta conseguenze notevoli sul piano notazionale; se infatti un brano di musica aleatoria viene generalmente scritto in notazione convenzionale e risulta sempre identico a ogni nuova esecuzione, un brano di musica indeterminata risulta sempre diverso e si avvale di forme non convenzionali di notazione (in genere notazioni grafiche con segni e simboli che variano da autore ad autore). Sono inoltre da rilevare differenze sul piano estetico: se l’alea persegue il fine di costituire una sorta di opera d’arte “oggettiva” – mostrando con ciò sorprendenti affinità con alcuni aspetti della serialità integrale, alla quale è stata per lungo tempo contrapposta dagli storici – l’indeterminazione resta invece legata al soggetto e presenta analogie con le prassi improvvisative.
L’introduzione di elementi casuali e di ampi margini di indeterminazione nel processo compositivo costituisce senza alcun dubbio il contributo più importante dato dagli Stati Uniti alla storia della musica moderna e contemporanea. Se infatti già in autori come Charles Ives (1874-1954) o Edgar Varèse (1883-1965) sono riconoscibili tratti di indubbia originalità, è soltanto con l’apparizione di John Cage (1912-1992) e dei compositori della cosiddetta New York School che la musica americana comincia a esercitare una vasta e profonda influenza sull’Europa. Indissolubilmente legata, oltre che a quello di Cage, ai nomi di Morton Feldman (1926-1987), Earle Brown (1926-2002), Christian Wolff (1934-) e alle opere che essi producono, lavorando a stretto contatto nel corso dei primi anni Cinquanta, la musica aleatoria e indeterminata (definita da Cage experimental music per l’imprevedibilità dei suoi esiti) finisce per imporsi, verso la fine di quel decennio e per tutti gli anni Sessanta, su scala internazionale.
I primi esempi di musica indeterminata risalgono al 1950 e sono attribuibili, stando alla testimonianza di Cage, all’allora giovanissimo Wolff che in brani come Madrigals, per tre voci, lascia indeterminate le altezze indicando soltanto la direzione ascendente o discendente del profilo melodico; verso la fine di quell’anno Feldman scrive quella che è considerata la prima opera in notazione grafica, Projection 1 per violoncello solo, anch’essa priva di indicazioni precise rispetto alle altezze. Contemporaneamente Cage elabora un metodo compositivo basato sul lancio di monete e legato all’I Ching, l’antico Libro dei Mutamenti cinese, che applica nella Music of Changes (1951) per pianoforte solo, la prima composizione aleatoria, e in altre opere pianistiche immediatamente successive (Two pastorales, For MC and DT, Seven haiku). Inoltre, Brown mette a punto un tipo di notazione grafica spazio-temporale della quale si serve in opere come Folio (1952-1953) e Four Systems (1954), per vari organici, e in Twenty-five pages (1953) per un numero variabile da uno a 25 pianoforti.
A questo gruppo di opere, che costituiscono il nucleo dal quale prende corpo e si sviluppa la musica indeterminata, fa seguito un’intensa attività compositiva che differenzia sempre più i percorsi dei quattro compositori: Wolff, dopo essere passato attraverso una sorta di minimalismo ante litteram e un confronto serrato con lo strutturalismo europeo – Pierre Boulez in primis – torna all’indeterminazione nel 1957 con il Duo for Pianists 1 e con altre opere contraddistinte da una complicatissima forma di notazione nella quale gioca un ruolo determinante l’interazione tra gli esecutori; Feldman, dopo la serie delle Projections (1950-1951) e delle Intersections (1951-1953), abbandona gradualmente la notazione grafica (che ha comunque fin dall’inizio alternato a quella convenzionale) per tornarvi sporadicamente con lavori di grande respiro, tra i quali si possono citare …Out of “last pieces” (1961) e In search of an orchestration (1967), entrambi per orchestra; Brown prosegue per alcuni anni nella ricerca sulla time notation, sui grafismi e sulla flessibilità formale (Corroboree per 2 e 3 pianoforti, 1963-1964; String quartet, 1965), mentre Cage, l’unico dei quattro ad aver usato l’alea in modo sistematico e continuativo, elabora nuovi metodi aleatori alternativi al lancio di monete, dall’annerimento delle imperfezioni della carta (applicato a tutta la serie della Music for piano, 1952-1956) all’uso di stampini (Music for carillon n. 1, 1952), alla sovrapposizione di carta trasparente su mappe stellari (Atlas eclipticalis, 1961; Etudes australes, 1974-1975).
Le esperienze radicali della New York School influenzano molti compositori americani, tra i quali Robert Ashley, Gordon Mumma, Roger Reynolds e Morton Subotnick, che portano avanti le ricerche dei loro predecessori sia sul piano della forma aperta che su quello delle notazioni non convenzionali; la figura di Cage ha inoltre un ruolo decisivo nella formazione di Fluxus, un gruppo di scrittori, pittori, musicisti e performer legato a una poetica neodadaista che nel corso degli anni Sessanta organizza molti happening e concerti sia in America sia in Europa.
Di poco posteriori a quelle americane, le prime esperienze europee nell’ambito dell’opera aperta maturano su un terreno culturale affatto diverso; se infatti sono soprattutto la filosofia del buddismo zen e la pittura dell’espressionismo astratto a influenzare i compositori americani, l’adozione di forme più flessibili da parte dei compositori europei è una conseguenza della crisi a cui perviene lo strutturalismo seriale postweberniano, crisi determinata dalla consapevolezza del fatto che l’eccesso di razionalismo che informa le opere seriali porta a risultati analoghi a quelli che si sarebbero ottenuti attraverso procedimenti casuali. Tranne poche eccezioni, tuttavia i compositori europei, mantengono sempre una certa distanza dalle posizioni americane più estreme, considerando l’alea più come un’estensione della tecnica compositiva che come istanza estetica. Così, in opere quali il Klavierstück XI (1956) di Karlheinz Stockhausen (1928-2007) o la Troisième sonate (1957) di Pierre Boulez (1925-), entrambe per pianoforte, il margine di indeterminazione riguarda la forma (che può essere ricomposta come in un collage) e altri aspetti macroscopici come i tempi e l’agogica (il complesso delle modificazioni dell’andamento), ma non intacca il contenuto stesso dei brani. Anche opere orchestrali come Metastasis (1953-1954), Pithoprakta (1955-1956) e Achorripsis (1956-57) del greco Iannis Xenakis (1922-2001), che a prima vista parrebbero mostrare forti analogie con alcune esperienze aleatorie americane, tradiscono in realtà una chiara impronta europeistica nel loro ascendente teorico di natura essenzialmente fisico-matematica.
Sulla scia di questi primi esempi compositivi e di altri importanti eventi (come la conferenza Alea tenuta da Boulez ai corsi estivi di Darmstadt nel 1957 e la partecipazione dello stesso Cage ai corsi dell’anno successivo), molti compositori europei hanno un confronto serrato con l’indeterminazione: da Henri Pousseur (Scambi per nastro magnetico, 1957; Mobile per due pianoforti, 1958) a Roman Haubenstock-Ramati (Mobile for Shakespeare, 1962), da György Ligeti (Volumina per organo, 1961-62) a Mauricio Kagel (Sonant e Transición II, entrambi del 1961). Dalla metà degli anni Sessanta, il Paese europeo nel quale la experimental music ha i più fecondi sviluppi è senza dubbio l’Inghilterra, grazie soprattutto all’instancabile attività compositiva, esecutiva e organizzativa di un musicista come Cornelius Cardew (1936-1981) – il cui Treatise (1963-1967) può essere considerato la “summa” europea della notazione grafica – e dei compositori della sua cerchia (Howard Skempton, Michael Parsons, Christopher Hobbs e altri).
Anche in Italia l’indeterminazione ha un largo seguito (concomitante con la presenza di Cage a Milano alla fine degli anni Cinquanta e con la pubblicazione nel 1962 dell’importante saggio di Umberto Eco Opera aperta) e influenza alcuni dei maggiori compositori del dopoguerra, da Sylvano Bussotti (Five piano pièces for David Tudor, 1959) a Bruno Maderna (Serenata per un satellite, 1969), da Franco Evangelisti (Aleatorio, 1959) ad Aldo Clementi (Informels 1-3, 1961-1963), a Franco Donatoni (Per orchestra, 1962; Quartetto IV, 1963).