OPERA
. Nella definizione più comune questo termine designa un componimento di genere drammatico, concepito verso il 1600 da umanisti fiorentini e romani, cui concorrono le arti riunite della poesia, della musica, della mimica e della scena. Per qualche tempo all'opera si diedero altri nomi: dramma per musica, favola in musica, ecc., e in Italia non è ancora oggi scomparso il termine, più proprio dell'opera seria, di melodramma. Nomi, questi, che pur meritando spesso preferenza per il rilievo da essi conferito all'elemento musicale, in realtà prevalente nelle manifestazioni più importanti nella storia del genere, non si addicono a tutte le opere. Attraverso scuole e singole produzioni si assiste infatti all'emersione di questo o di quell'elemento: ora del musicale, ora del poetico, ora dello scenico, come anche a quella di caratteri tali da mostrare l'opera ora in figura di dramma vero e proprio, ora di spettacolo decorativo, ora quasi di concerto, denso di valori lirici o di risorse virtuosistiche. Di qui la maggiore frequenza nell'uso, del termine opera (comparso a mezzo Seicento), in confronto con quella degli altri di quando in quando proposti.
L'ingenua lode, per molto tempo data ai Fiorentini e ai Romani della Camerata de' Bardi, d'inventori dell'opera, è temperata ormai dall'approfondimento recente degli studî musicologici medievali, che offrono documenti significativi di pratiche drammatico-musicali risalenti a tempi ben più lontani: drammi liturgici (sviluppi del tropo dialogico e della sequenza e, riguardo alla sostanza melica, del neo-responsorio romano [dal sec. VIII] e talvolta del canto profano dei varî paesi), laudi drammatiche, misteri, sacre rappresentazioni, maggi, ecc., giungono spesso, specialmente in Francia e in Italia, dal sec. XII a tutto il XIV (i maggi anche più in qua, né se ne è smarrito ancora oggi il senso), a forme vicine alle operistiche. Né la soluzione di continuità (tardo sec. XV-sec. XVI) tra quelle pratiche medievali e le nuove della Camerata, si può dire totale, riguardo al concorso di più arti (tra le quali la musica) in un complesso spettacolo rappresentativo: nel teatro, specialmente italiano, del Rinascimento (sec. XV-XVI) tragedie, commedie, favole pastorali, e nel loro seno e negl'intermedî tra l'una e l'altra delle loro zone costitutive, accolgono musiche. Presso le corti e le case principesche, a Roma, Ferrara, Mantova, Milano, Venezia, ecc., con poeti come Lorenzo de' Medici, A. Poliziano, L. Ariosto, il cardinale Bibiena, G. B. Giraldi-Cinzio, A. Beccari, L. Dolce, G. C. Frangipane, T. Tasso, collaborano musicisti come A. della Viola, A. del Cornetto, G. Zarlino, C. Merulo, A. Gabrieli e maestri di scena e decoratori come Leonardo da Vinci, Raffaello, A. del Sarto, B. Peruzzi, il Franciabigio, il Sodoma, A. Bronzino ecc. Pur nella sua intellettualistica severità, G. G. Trissino tollera (Poetica, VI) l'intervento di canti e danze nella rappresentazione di drammi; e nel sec. XVII G. B. Doni scriverà che "in ogni tempo si usò di mescolare alle azioni drammatiche ogni sorta di cantilene, o come intermedî tra atto e atto o all'interno di ogni atto quando il soggetto si prestava".
Se esaminiamo, a questo punto, la natura propria di questa molteplice produzione pre-operistica, potremo notare caratteri abbastanza importanti: la riassunzione, p. es., di spiriti e di sostanze e di alcuni stilemi della tarda liturgia e delle varie innodie sequenziali, tropistiche, ecc. nel teatro religioso dei secoli XII-XIV, conferisce spesso a questo teatro, spesso poco lontano dalla funzione sacra vera e propria, un orientamento verso valori in certo modo trascendentali, in cui il lavoro del compositore (del poeta e del musicista ecc.) raramente si volge a consapevole travaglio estetico: il procedere irmologico o semplicemente musivo, durante il quale melodie o addirittura canti sacri nella loro data versione poeticomusicale si succedono in nuovo ordinamento, riesce spesso a raffigurare l'artista come ingenuo interprete, o anzi come devoto tra i devoti che in chiesa uniscono la loro voce al coro dei chierici: nel momento culminante del mistero sacro il suo canto tende alla melodia rituale, già consacrata dalla liturgia o dall'uso per questa o per quella celebrazione. Per quanto sia pur sempre l'individuo a cantare in siffatto coro e quindi il canto dato ne sgorghi e si rielevi in personale vibrazione affettiva e ne venga così a suggere inflessioni e timbri umani e sensualistici, la posizione dell'artista è più specificamente quella del cantore popolare, e arte popolaresca ci si dimostra (anche più evidentemente se si pensi ai più o meno frequenti escorsi - irmologici originali - nel canto e nella danza del mondo profano: perfino erotico quando non addirittura licenzioso) quella di gran parte di tale teatro.
In alcune singole produzioni è però da notare uno stilema di singolare valore estetico e storico nelle zone esplicitamente narrative, agogiche (d'azione, si dirà nell'opera), specialmente per il loro procedere sillabico in un'ambito in prevalenza ristretto; procedere spesso veramente nervoso e denso di fremiti espressivi, che, probabilmente ispirato al "tono di lezione" biblico-cristiano, ritroveremo nel "recitar cantando" di E. del Cavaliere, di I. Peri e di G. Caccini. Qui, come nell'adozione, visibile in qualche dramma liturgico, di figure musicali costanti per un dato personaggio o un dato concetto, alcune produzioni del genere sanno mostrare una sufficiente consapevolezza di lavoro artistico, per quanto più frequentemente, per ragioni ovvie (concisione di linee e fissità d'affetto), ciò accada alla lirica profana delle coeve correnti trovadoriche o anche innodiche nel loro quadro non recitativo, ma esplicitamente melodico. Analoga, come s'intende, la popolaresca posizione dei maggi e delle loro varietà locali.
Il teatro religioso medievale, che s'avanza dai religiosi tempi dei secoli XII-XIV verso di noi, non riesce a mantenersi, già a mezzo il Quattrocento, in un piano di sufficiente severità; invasa da correnti sempre più dense di terrena, ribollente sensualità, o di mattinali risvegli gioiosi: canti di strada, versi carnascialeschi, scene di sfrontato erotismo, orpello di fittizie decorazioni, la sacra rappresentazione, già fuori di chiesa, finisce per smarrire ogni legittimità di spettacolo comunque accettabile non solo dal popolo, ma anche dagl'intellettuali; all'edificazione religiosa vale ormai la sola pura fonte: il culto chiesastico, nelle sue funzioni e nelle prediche, ecc.; ai divertimenti il popolo provvederà con i suoi mezzi; continuerà le rappresentazioni, ormai mere parvenze di costumi un dì popolareschi sì, ma che erano stati pur ligi a popolareschi sensi d'arte; ma feste, balletti, canti al liuto daranno a tali sensi d'arte un migliore appagamento.
Espressione legittima dell'uomo nuovo, come nella vita popolaresca con le feste, danze, canzonette, ecc., l'arte degl'intellettuali si va creando con la compiaciuta venustà dei colori d'un Botticelli e d'un Leonardo, delle polifonie dei madrigalisti e dei Veneziani della canzone strumentale. Con G. Pierluigi da Palestrina la grande polivocalità mistica, l'aspirazione verso la trascendenza, ridottasi nei limiti della Chiesa, si corona e nel tempo stesso si estingue; l'uomo nuovo, l'individuo di questo mondo, scopre sé stesso non più nei valori assoluti propostigli dalla fede; ma nella sua stessa storia di secolo in secolo, cercando a ritroso posizioni in certo modo a lui meglio rispondenti: la civiltà terrena, al di là del regno mistico (il Medioevo "gotico" e "barbaro") riconosce e ansiosamente va sviscerando i suoi valori nella classicità romana, anzi nella greca del periodo aureo. Così il teatro, come già la lirica e le arti plastiche, ricerca le antiche forme. Si scrivono egloghe e favole pastorali e tragedie e commedie "all'antica", in volgare o addirittura in latino, e commedie latine (Plauto, Terenzio) si riesumano e si riportano sulla scena, presso corti e famiglie patrizie. Splendore di apparati e di costumi, raffinata sottigliezza di verseggiatura, dolcezza di concenti si chiamano insieme a raccolta per il compiacimento del nobile pubblico. Come già s'accennava, lo stesso Trissino è costretto ad ammettere nel teatro la musica. La quale certo è quella del suo tempo, cioè polifonica, atta dunque più all'esplicazione di valori propriamente musicali che non al rilievo dell'espressione verbale. Così il contributo della musica non è facilmente estensibile a continuo canto durante l'intero spettacolo; anzi esso, tranne una o due eccezioni, si riduce nei limiti dell'intermedio tra atto e atto del balletto, o tutt'al più di singoli canti lirici, a rialzare il tono espressivo in più intensa e sicura efficacia. Certo le proporzioni tra i contributi delle varie arti tendono a modificarsi, alleviandosi la povertà del musicale. Quando ci s'inoltra nel mezzo e nel tardo Cinquecento si trovano spesso spettacoli nei quali musica e arti sceniche esercitano una funzione assai notevole se non preponderante. La musica è affidata ai più celebri maestri, i quali nella composizione degl'intermedî (ove già possiamo scorgere, oggi, l'entelechia che li avvierà a collegamento lor proprio e quindi a scissione dalla tragedia o dalla commedia, cui dapprima appartengono, fino alla loro transvalutazione in spettacolo a sé: commedia musicale, opera comica, o buffa, ecc.) sfoggiano tutte le loro virtù verso un effetto sì grande da sostenere il confronto con quello cercato dagl'inscenatori.
Come si vede, al teatro religioso popolaresco del Medioevo il Rinascimento oppone un teatro profano nettamente aulico, ispirato agli spiriti, alle forme e all'argomento (ora mitologico quasi sempre, se pur con frequenza di sottovalori allegorici d'occasione) del teatro greco-romano. Quest'arte esclude il popolo e si volge alla ristretta società dei gentiluomini, nati e viventi in ambienti saturi d'umanesimo: la stessa esigenza drammatica non vi si fa strada quasi mai, mentre quel che conta è piuttosto l'effetto sfarzoso, o sapientemente suggerito per accorti tocchi, dei varî momenti; a espressioni poetiche si alternano infatti espressioni d'altra natura: musicale, mimica, scenica, ecc., su piani non chiaramente continui dall'uno all'altro; alla continua stesura melica che gli ultimi studî attribuiscono al dramma liturgico, qui sottentra un'elegante, accorta successione di diverse forze d'arte. In un certo senso si potrebbe già vedere in siffatta struttura alcunché di analogo alla ghirlanda di musiche e di poesie che ritroveremo presso gli operisti napoletani o di derivazione napoletana del sec. XVIII, ma le condizioni propriamente storico-musicali sono tutt'altre, trovandoci nel Cinquecento ancora in regime polifonico, regime nel tempo stesso esponente e coefficiente della possibilità di simile struttura. Già a mezzo Cinquecento s'era infatti dato un saggio di quello stile di monodia dotta che dal 1582 al 1600 scioglierà definitivamente ogni vincolo di limitazioni al contributo musicale nel teatro: nel 1554 alla rappresentazione in Ferrara del Sacrifizio, dramma pastorale di A. Beccari, A. della Viola aveva contribuito con alcune musiche polifoniche e con un canto a una sola voce. Ma questo saggio, quantunque accolto con benevola curiosità, non ebbe immediato seguito: troppo fervore e troppa potenza animavano ancora la polifonia, non anche giunta alle massime sue vette (del 1554 è la pubblicazione del I libro di Messe di G. Pierluigi da Palestrina), perché il mondo musicale potesse stornare il proprio interessamento e il proprio sforzo dalla polifonia alla monodia, allora viva soltanto nell'ombra, quantunque densa d'insospettate energie, nella pratica popolaresca della trascrizione da più voci a una sola accompagnata sul liuto. Il teatro misto di poesia e di musica di questo periodo è dunque, nella realtà dei risultati, d'indole piuttosto aulica e decorativa, scarsamente capace quindi di forti sviluppi artistici fino a che esso rimanga fedele alla sua originaria natura.
Ma già la comparsa di poemi rappresentativi intimamente lirici e sviluppantisi in euritmica continuità (p. es. dell'Aminta di T. Tasso) esigeva un'aura musicale più commossa e più costante non soltanto nel verso ma tutt'intorno ad esso, in voci e in strumenti, e più che si potesse continua durante lo svolgersi dell'azione: dallo studio del teatro antico (posizione di G. G. Trissino) si dispiega ora, liberato, il senso lirico della rappresentazione. Il dramma pastorale di T. Tasso è sì raffinato come si conviene ai trattenimenti di corte, ma questa raffinatezza nasce da un animo e in un animo commosso, che supera gli angusti limiti delle sale principesche per involarsi dietro le sue dolci immagini e i suoi desiderî senza appagamento. Lo spettacolo, così, non può trattenere il poema drammatico, il quale riesce a evadere dagli apparati scenici (di qualunque importanza essi fossero, a Ferrara, o a Firenze o a Milano o altrove) per andare verso la commozione lirica. E la musica, che il Tasso definisce "... la dolcezza e quasi l'anima della poesia", è qui desiderata e invocata non per singoli interventi a scopo decorativo, ma per continua suggestione, per continuo incanto orfico; incanto quale si può avere dal patetico suono della frase intonata dal soprano d'un madrigale di Luca Marenzio, dall'accento anelante delle imitazioni gesualdine. Emotiva venustà, sensualità dolente animano infatti il poema di C. de Rore, di Luca Marenzio e dell'amico di T. Tasso: Gesualdo da Venosa, mentre nel nord della penisola si avvia l'attività di quel Monteverdi da cui il madrigale sarà spinto ai più intensi e complessi valori drammatici e nel medesimo istante infranto e gettato nel crogiuolo ardente dell'opera.
Gl'inizî e le forme basilari del genere furono però merito non già di grandi maestri ma di semplici umanisti e di artisti di secondaria importanza. Mentre infatti i compositori di musica continuano a scrivere polifonie, come per la chiesa così per il quartetto o il quintetto madrigalistico e per gl'intermedî scenici, ecc., gli umanisti di Firenze e di Roma, seguendo le vie già percorse dal Trissino con la sua tragedia, vanno ragionando dell'antico teatro greco-romano, tentando di determinarne le stilistiche, e tra le altre le musicali. Già da qualche tempo gli studî sulla musica greca erano entrati tra le cure delle accademie e dei cenacoli umanistici, e nel 1562 s'erano tradotti e divulgati scritti musicologici di Aristotele, Aristosseno e Tolomeo, con grande interessamento generale, specialmente, però, presso i letterati e gli storici. I quali, non consci di quanto potesse nell'animo del compositore l'estro polifonico, e calcolando in modo piuttosto astratto e razionalistico così le esigenze della rappresentazione e del dialogo come le corrispondenti risorse degli stili componistici, erano però sorretti, nel tempo, e per così dire legittimati nella loro ricerca d'uno stile di canto non polifonico (sui modelli - un po' arbitrariamente immaginati - del canto drammatico dei Greci) dal crescente potenziarsi delle correnti monodiche fino allora inombrate nel canto al liuto e popolaresco. Si rammenti, a questo proposito, l'importanza che la monodia era venuta assumendo, sia pur nell'ombra, nel suo dialettizzarsi con la polifonia: nel processo di trascrizione da concerto polivocale a canto solistico, ove le linee delle voci strumentalizzate si riducono ad accompagnamento accordico, dal contrappunto s'esplicava e si potenziava una semplice e più precisa sintassi tonale; quella dell'armonia propriamente detta. Già prima di L. da Viadana, prima anzi delle ricerche fiorentine, l'esecuzione secondo risorse armonistiche s'era venuta affermando presso gli organisti di chiesa, che sostengono il canto mediante un riassunto tonale a basso continuo. Primi segni questi dell'inesorabile riemersione della monodia dalla strada all'aula.
Non si era dunque contro la possibilità e l'esigenza storica, nell'ormai ansiosa ricerca d'una nuova monodia d'arte: se Alfonso della Viola nel 1554 non aveva sortito fortuna e seguito, dal "manifesto" della ribellione anticontrappuntistica dato nel 1581-82 da Vincenzo Galilei con il suo Dialogo della musica antica e della moderna il mondo umanistico d'Italia sentì concretato in concetti sufficientemente precisi l'insieme di insofferenze e di aspirazioni ch'esso provava di fronte alla musica del tempo. Quando alcuni storiografi viziati d'intimo intellettualismo ancora più degli uomini della Camerata de' Bardi, vedono in questa crisi una "rivoluzione musicale da letterati" essi dimostrano di non avere percepito gli sviluppi interiori dell'arte musicale nella dialettica polifonico-monodica, inseguendo ipotetici, impossibili incrementi ulteriori d'uno stile ormai svuotato delle sue ragioni d'egemonia. Essi non intendono, infine, che mai i "letterati" avrebbero potuto deviare l'orientamento dell'arte musicale se questa medesima avesse avuto ancora legittimità di atteggiamenti conservatori. Il vizio d'intellettualismo dei Galilei e dei Bardi riduce invece i suoi effetti nei limiti delle fiorentine svalutazioni d'uno stile (il polifonico) che aveva dato espressioni concrete d'un immenso mondo spirituale; i Fiorentini insomma erano meno a posto nelle interpretazioni del passato che nelle loro inquietudini, sintomi dell'urgente prepotenza monodica. Il loro merito, che è quello non già di audaci violatori ma piuttosto di liberatori dell'intimo divenire storico-musicale, troverà riconoscimento tutt'altro che arbitrario, anzi potentemente concreto, nel madrigale di G. Caccini, nel declamato di I. Peri e di E. del Cavaliere e, se dubbio potesse rimanere, nell'opera di Claudio Monteverdi.
La loro ricerca teoretica si muove, certo, da punti non musicali ma genericamente pseudo-estetici: il Dialogo della musica antica e della moderna misconosce la validità estetico-storica di numerosi secoli d'arte musicale, rigettandoli nel gotico, nel barbaro e via dicendo; I. Peri ed E. del Cavaliere parlano troppo e troppo lascian parlare d'imitazione del linguaggio comune; G. Caccini, oltre a ciò, nella Lettera che precede le Nuove musiche racconta di "avere appreso più dai loro" cioè dagli uomini della Camerata "dotti ragionari che in più di trent'anni... nel Contrappunto..."; G. Bardi spiega come si fosse ingegnato, meditando insieme con i sodali sulla tragedia antica e sugli antichi teorici "... almeno di dare un poco di luce alla povera musica sventurata, la quale dalla declinazione sua in qua, che son tante centinaia d'anni, non ha avuto artefice che abbia il caso suo pensato, ma trattosi ad altra via che quella del contrappunto, ad essa musica nemico...". Ma tutte queste dichiarazioni tra arbitrarie, anti-estetiche e, per quanto riguarda il passato polifonico, antistoriche, di per sé non molto rassicuranti sulla giustezza delle nuove richieste, si redimono quali ingenue interpretazioni concettuali di motivi interiori veramente più validi: validi o psicologicamente (il desiderio del rilievo della parola e dell'unicità della persona fisica a esprimere voci e affetti individuali, contro l'uso del solito quartetto o quintetto vocale impersonante Venere o Aristeo o altri, ecc.) o proprio storico-artistici, per quanto subcoscienti, come l'ansito di quella monodia troppo piena ormai di nuove ragioni per tollerare più oltre il dominio d'una già violata coscienza polifonica. E infine un impulso determinante veniva da un vivo senso di drammatismo, affiorante allora nella riassunzione lirica di quel teatro, più o meno arricchito di musiche e di apparati scenici, che s'era venuto formando dal primo Rinascimento classicista fino a quell'ultimo scorcio di secolo.
Non va infatti trascurato il fatto che, se due dei tre veri professionisti di musica (V. Galilei, G. Caccini) iniziarono il loro contributo componistico alla "riforma" con monodie da camera (dapprima V. Galilei con passi danteschi [canto di Ugolino] e biblici [Lamentazioni di Geremia] a 1 voce con accompagnamento strumentale: viola, o liuto ecc.; poi G. Caccini con i mirabili madrigali del 1592), l'affermazione decisiva del nuovo stile si diede in teatro, probabilmente fin dal 1590 (Il Satiro e La disperazionee di Fileno, pastorali sul tipo dell'Aminta di T. Tasso, intonati da E. del Cavaliere [fin dall'anno prima?] su testo di Laura Guidiccioni) e specialmente dal 1594 (Dafne, di O. Rinuccini, rappresentata nella prima versione, delle varie che ne ebbe dal '94 al '99, in casa di I. Corsi, gentiluomo umanista fiorentino, con la musica di I. Peri e pochi pezzi di G. Caccini) al '95 (Il giuoco della cieca, pastorale di E. del Cavaliere su testo della Guidiccioni) ed al 1600 (La rappresentazione di anima e corpo, sorta di drmma spirituale, su testo di A. Manni e musica di E. del Cavaliere [e D. Isorelli], inscenato nel febbraio all'oratorio di S. Filippo Neri in S. Maria in Vallicella di Roma; Euridice, "tragedia" di I. Peri, con qualche pagina di G. Caccini, su testo di O. Rinuccini, inscenata il 6 ottobre alla corte di Firenze; Il rapimento di Cefalo, favola con musiche di G. Caccini e, in minor parte, di S. del Nibbio, L. Bati e P. Strozzi, su testo di G. Chiabrera. inscenato il 9 dello stesso mese nelle stesse feste di corte [che avvenivano per le nozze di Maria de' Medici con Enrico IV di Francia]; gli allestimenti dei due ultimi spettacoli si dovevano a Bernardo Buontalenti), e al 1603 (Euridice di G. Caccini, sul testo del Rinuccini, composta già e stampata fin dal 1600 ma soltanto tre anni dopo, nel dicembre, rappresentata presso la corte medicea).
Nella lettura di quelle opere che tra le suindicate ci sono giunte complete (Anima e corpo e le due versioni dell'Euridice) e delle musiche da camera appartenenti alla stessa scuola, possiamo bene scernere quel che veramente intendeva e voleva la Camerata fiorentina riguardo al nuovo stile. In fondo la lirica monodica da camera del Caccini (e probabilmente quella del Galilei, oggi perduta) in fatto di melodia non pare contrapporsi al comune canto al liuto (ambedue i musicisti erano virtuosi di tale scuola, e assai più celebri, dapprima, come interpreti che come compositori) se non per il rilievo datovi alla parola mediante un canto più puro nelle linee e nel fraseggio, spoglio, inizialmente, dall'insieme di decorativi tecnicismi vocali che dal vecchio canto erano stati tanto favoriti.
Se dalle zone più propriamente liriche, in cui prende consistenza un nucleo melodico centrale, si passa alle zone più propriamente agogiche, in cui il discorso continua, proponendo i varî suoi moti di parola in parola (cioè formando gradatamente l'atmosfera di commozione ove poi si librerà il volo rapito della melodia), allora meglio appare in luce l'indirizzo di questo cantare: nella musica dotta, tanto nella chiesastica quanto nella profana, anteriore alla Camerata, né un Palestrina né un Marenzio, per quanto geniali essi fossero e per tenaci che fossero i loro sforzi a questo scopo, la parola, l'attimo singolo e fuggevole d'un discorso verbale non potevano emergere in sé e per sé, l'uno dopo l'altro, a mo' di narrazione o d'azione scenica, in quanto la loro intonazione si determinava a seconda delle tendenze struttive dell'idea melica in regime polivocale cinquecentesco. Il risultato a questo riguardo ottenuto nella Missa Papae Marcelli o nei più trasparenti madrigali marenziani non poté essere salutato come redenzione della "parola" se non in senso assai relativo: nel confronto cioè con quello che alla parola soleva accadere presso i Fiamminghi e quasi sempre presso lo stesso Palestrina. Di qui il carattere esplicitamente totalitario dell'espressione musicale in sé e per sé, esclusiva d'ogni altra, sia pur debole suggestione. E certo di concerti polivocali potrebbe anche nutrirsi un dramma (se si astragga dalla tendenza centripeta dell'edificio polivocale quattro-cinquecentesco) con lo stesso diritto che Wagner fa riconoscere al concerto orchestrale. Ma non meno certamente l'esplicazione particolare che del drammatismo si dà nella rappresentazione scenica, con diverse persone in conflitto l'una con l'altra, per sua natura tende a spostare almeno l'espressione dei momenti d'azione verso il personaggio che visibilmente si muove sulla scena, a dettare a questo singolo personaggio il suo proprio canto. Il quale canto, nei momenti d'azione, o di narrazione, ecc., tende a sommettersi (interrotto e distratto com'è riguardo agli svolgimenti lineari che altrimenti seguirebbe) ai valori verbali.
Il vero desiderio della Camerata, fortemente risentito e di continuo ridestato oltre che per l'orientamento storico drammatico, anche per la necessità di allestimenti di feste e spettacoli teatrali, allora in gran voga nelle corti e nei palazzi, era proprio questo: ritrovare il segreto del canto drammatico, che dal teatro greco in poi, secondo il Bardi e i suoi, non si era più schiuso. Ora, se si percorrono le pagine di E. del Cavaliere o di I. Peri o di G. Caccini, notiamo anzitutto la presenza di un canto la cui sintassi e i cui movimenti non sono suoi proprî e liberi (tranne alcuni momenti di sosta lirica: assoli o corali che siano), ma determinati da ragioni diverse: quelle del discorso verbale. Questo linguaggio che con dubbia proprietà potrebbe dirsi poetico-musicale e che, nella prefazione all'Anima e corpo di E. del Cavaliere, Alessandro Guidotti chiama "recitar cantando", rispondeva pienamente alle intenzioni degli umanisti. I. Peri nella prefazione all'Euridice attribuisce ai Greci "un'armonia e (intendi: intonazione musicale) "che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che pigliasse forma di cosa mezzana"; e racconta essersi così comportato: "conobbi... nel nostro parlare alcune voci" (intendi: inflessioni foniche) "intonarsi in guisa che vi si può fondare armonia, e nel corso della favella passarsi per altre molte, che non s'intuonano, finché si ritorni ad altra, capace di movimento di nuova consonanza; ed avuto riguardo a' que' modi e a quegli accenti, che nel dolerci, nel rallegrarci, ecc., in somiglianti cose ci servono, feci muovere il basso a tempo di quegli, or più or meno secondo gli affetti, e lo tenni fermo tra le false e le buone proporzioni, finché scorrendo tra le varie note la voce di chi ragiona, arrivare a quello che nel parlare ordinario intonandosi, apre la via a nuovo concetto..:".
Come si vede, ben poco era di comune tra il canto drammatico quivi ricercato e quello dei Greci, almeno da quanto si può vedere circa quest'ultimo nei documenti diretti che ne sono giunti e da quanto si può comunque congetturarne oggi. Se mai, un precedente noi potremmo vederne nelle zone discorsive del dramma liturgico, cui più sopra s'accennava. Ma intanto - si discuta come si vuole ogni dichiarazione, manifesto, prefazione, ecc. - il canto drammatico, o "recitar cantando", circola di pagina in paginadell'Anima e corpo e dell'una e dell'altra Euridice, con naturalezza sorprendente in simili primi saggi teatrali: l'azione vi si svolge, in grazia di siffatta scrittura, con serena continuità d'intonazione, entro una commossa aura sonora, quale s'è veduta chiedere dai poeti drammatici della scuola di T. Tasso. E in questa commozione, per quanto severamente contenuta essa appaia, il "recitar cantando" redimendosi per istintivo lirismo del compositore dal formulismo del teorico, redime la stessa rappresentazione traendola dal piano di decorativo spettacolo a quello di vero poema delicato e gentile.
Così, quantunque il nuovo stile si manifestasse in arte concreta (e anzi più frequentemente vivida) anche nella lirica da camera, la sua esplicazione teatrale, rispondente a sì avida, ansiosa ricerca, ne determina subito l'unilaterale ma significativa definizione di "stile rappresentativo": Venere, Orfeo, Euridice si muovono sulla scena, e la loro voce (non il coretto madrigalistico) nelle sue inflessioni, nel suo accento, nel suo fisico timbro, tentle a esplicarne (senza peraltro giungervi sempre) l'individualità drammatica.
E qui si può notare come la naturalezza, la fluidità del passaggio dai momenti d'azione e di racconto, espressi in recitativo, a quelli di lirica estasi, espressi in sintattico melos, dimostri già di per sé, fin dal madrigale cacciniano del 1592, la necessità storico-musicale di questo stile. Da ciò la difficoltà di lodare quelli della Camerata come di esso stile "inventori", quando ben più propriamente si deve loro riconoscere un'azione per così dire divinatrice delle nuove virtù della monodia, fino ad essi esclusa dall'aula, e specialmente delle virtù drammatico-rappresentative. In ciò possiamo intendere il buon diritto della gratitudine sentita da Giulio Caccini per i "letterati" e i teorici di Firenze, per "avere imparato dai loro dotti ragionari più che in trent'anni... nel contrappunto". Così, nello spazio di nemmeno un ventennio, musica e dramma ritornavano concordi in teatro, nelle forme possibili e caratteristiche dei nuovi tempi, che non erano certo più quelli dei Greci, e neppure quelli dei religiosi medievali, quali che fossero le apparenti simiglianze della tragedia antica e del dramma liturgico o della sacra rappresentazione con questo nuovo dramma in musica.
Inizialmente, queste apparenti simiglianze possono darsi in luce più vistosa: l'Euridice del Rinuccini, come già la prima versione dell'Orfeo di A. Poliziano, è svolta non in atti, ma da scena in scena, come nella rappresentazione sacra medievale. F. A. Gevaert vi ha nondimeno potuto scernere una struttura generale tripartita: la prima parte comprende così il prologo (dichiarazione della musa tragica, con omaggio ai principeschi sposi) e le tre prime scene (l'introduttiva, di scopo - come oggi si direbbe - d'ambientazione, con lieti canti e danze di ninfe e pastori per le prossime nozze d'Orfeo e d'Euridice; entrata d'Orfeo e sue espansioni di gioia con Arcetro e Tirsi, interrotte dall'arrivo e dal tragico racconto di Dafne, cui seguono i dolorosi canti d'Orfeo e del coro; racconto d'Arcetro, che ha seguito Orfeo nelle ansiose ricerche della morta Euridice per lande e selve, e coro). La seconda parte, che si svolge nell'oltretomba, comprende la quarta scena: incitazioni di Venere a Orfeo, strofe d'Orfeo implorante le "ombre d'Inferno", esitazioni e consenso di Plutone (a ciò pregato anche da Proserpina) e coro delle Ombre e dei Numi infernali in lode del soave cantore. La terza parte, che ci riporta nei luoghi della prima, comprende la quinta e la sesta scena: ansie d'Arcetro, dei pastori e delle ninfe e annunzio (Aminta) del sopraggiungere della coppia nuovamente riunita; arrivo e gioiose narrazioni d'Orfeo e d'Euridice, cui segue, a finale conclusione, la lode corale dell'Amore e della Musica.
Come si vede, questa "tragedia" (che meglio si direbbe favola drammatica o alcunché di simile, se si rifletta sulle qualità degli affetti e sulla conclusione, dal Rinuccini voltata da tragica in gioconda) è composta in sufficiente organicità d'insieme, seguendo di scena in scena le vicende alterne d'un dato movimento d'affetti. Ed è opportuno notare, a questo proposito, che tale organicità interiore viene da un afflato sentimentale che intorno a quegli anni sta transvalutando gli stessi spettacoli per indole loro decorativi, come gl'intermedî, in rappresentazioni coerenti e unitarie. In questa Firenze del 1600, umanisticamente raffinata nelle concezioni e nella sensibilità d'arte, non avrebbe potuto vivere il puro spettacolo quale s'era dato a mezzo sec. XVI e quale in Francia proprio allora si sviluppava, dopo il celebrato Ballet comique de la reyne (così frammentario e dominato dall'"effetto") allestito alla corte di Enrico III, nel 1581, dall'italiano violinista Baltazarini, nel Ballet de cour destinato a tanta fortuna fino a G. B. Lulli. Già nel 1594 assistevamo infatti alla prima rappresentazione di quella Dafne che altro non era se non un'amplificata riorganizzazione drammatica, sui modelli del poema pastorale, di elementi del III° intermedio delle feste del 1589 (Il combattimento d'Apollo); riorganizzazione compiuta dallo stesso Rinuccini che già di quell'imtermedio aveva dato il poema. Così l'Euridice del 1600, con il suo discorso lirico delicato sì da ricordare un filo di seta, dal principio alla fine, mostra valori estetici sufficienti ad assicurarne la sopravvivenza oltre i "meravigliosi" effetti scenici attraverso i quali nel teatro cinque-secentesco la si faceva passare. E vicende in diversa misura analoghe vedremo accadere, del resto, all'opera delle scuole romane, venete, francesi e britanniche dell'intero sec. XVII, dei cui capolavori noi sentiamo tuttora l'incanto e la potenza (specialmente musicale), quando nessuno potrebbe più tollerare le coeve concomitanze sceniche.
E delicato parimenti ci si mostra quel discorso anche nell'intonazione del Peri o del Caccini; alieno da effetti clamorosi e da qualunque deviazione nella sua costante cura del rilievo della parola, nel suo costante "imitar col canto chi parla" (I. Peri, pref. all'Euridice) o "... quasi che in armonia favellare" (G. Caccini, Lettera ai lettori, nelle Nuove musiche, ove si pongono le basi, oltre che della nuova monodia da camera, di quella sua più vistosa transvalutazione che è la monodia rappresentativa). Delicato, ma comunque meno saldo e continuo nell'interiorità melica di quel che non appaia esteriormente. Per quanto nobile artista, I. Peri non riesce sempre, fors'anche per la povertà del mondo monodico da lui esperibile, da lui pioniere anziché riassuntore, alla sicura concretezza della poesia di O. Rinuccini. Il suo eloquio sconta un po' il fio della sua poetica, e nella sua "forma mezzana" tra il "parlare ordinario" e la "melodia del cantare" non riesce a svolgersi con sufficiente forza sintattica e largamente struttiva; esso sa adeguarsi alla singola frase, anzi alla singola parola, e talvolta anche rialzare il tono espressivo; talvolta perfino esplicarne valori spirituali ancor più densi e profondi (p. es., nel declamato d'Orfeo: Funeste piagge, ombrosi orridi campi...), ma non già sostenere allo stesso grado l'efficacia lirica del lungo discorso; la costante adesione alle più costanti inflessioni foniche del parlare comune e la sommissione dell'impulso melico al fraseggio di quel parlare vengono a livellare la scrittura (e quindi a diminuirne gl'imprevisti e i fremiti di commozione) e, d'altra parte, a frantumare la sintassi melica. Non fossero alcuni escorsi in Arioso, alcuni interventi corali, danze e via dicendo (p. es. il canto di Tirsi: Nel puro ardor della più bella stella, il canto a soli e cori Sospirate, aure celesti, con le strofe del tenore Ben nocchier costante e forte...), il discorso veramente musicale, concretato in viva e pulsante musica, si ridurrebbe, nell'Euridice di I. Peri, a ben pochi e brevi momenti.
Che se si ponga mente alla diversità degli elementi musicali concorrenti all'espressione da I. Peri a Wagner, e qui si allude specialmente ai concorsi strumentali, presso il Peri assai poco consapevolmente ordinati (molti strumenti, a pizzico, a plettro, a tastiera, ecc., ma non un'orchestrazione), s'intenderà la deficienza di tale recitativo di fronte a importanti esigenze del dramma musicale vero e proprio: tra le altre, quella della caratterizzazione musicale dei singoli individui in rapporto scenico. Per quanto alcuni musicologi abbiano voluto scernervi alcunché di simile, sta di fatto che le forze musicali non vi hanno una sensibile azione, almeno per la nostra sensibilità di oggi, la quale è pure in grado di riconoscere prontamente le figure musicali del Nerone e del Seneca e della Poppea, e fin le meno importanti, della monteverdiana Incoronazione del 1642, egualmente priva d'efficiente orchestrazione. Né valga, a rivalutare le proprietà espressive della musica d'Euridice, il ricorrere alle virtù di quei lontani interpreti e, tra essi, dello stesso Peri, come alcuni desiderano in ragione delle lodi di Marco da Gagliano ("... non può comprendere" [già nel 1607!] "la gentilezza e la forza delle sue arie chi non l'ha udite cantare da lui medesimo...", ecc.). Anche senza il Peri, la Vittoria Archilei, Giulio e la Francesca Caccini, ecc., musiche del tempo sono tuttora vive, e tra le altre i passi suaccennati della stessa Euridice. E qualche cosa di simile si potrebbe dire riguardo all'opera di Giulio Caccini, ben poco differente da quella ora esaminata se non per quella maggior "leggiadria d'invenzioni" (melodiche) che Piero di Giovanni Bardi le riconosce nella Lettera a G. B. Doni e che il Doni stesso chiamava "maggior varietà di pensieri" (in Compendio del Trattato dei generi e dei modi musicali, Roma 1635), cui si oppone presso il Peri "più scienza..." (P. Bardi, lett. cit.) e "... (pensieri) più nobili e uno stile... più tragico" (G. B. Doni, op. cit.). E in ciò si può ravvicinare meglio al Peri che al Caccini l'autore della Rappresentazione di Anima e di corpo, per i profondi accenti, di solito però assai più rudi e per così dire martellati, quasi annunziatori di H. Schütz, del suo "recitar cantando". Nell'Euridice cacciniana ritroviamo infatti le ben note "vaghezze di canto" che nei madrigali e nelle arie delle Nuove musiche sciolgono dal recitato l'onda del melodico Arioso, ma per così dire diluite nella medesima prolissa corrente dell'asintattico "favellare in armonia", e non assistite, d'altra parte, dall'intensità di certe zone dell'altra Euridice.
Artisti minori, intelligenti quanto sensitivi, ma poveri di musicale gagliardia, questi cantori al liuto, umanisti, letterati e altro, non riescono ad autoritaria costruzione musicale del dramma loro proposto. Meglio assai sanno intonare in musicale riverbero il calore di una situazione o di un'estasi lirica: il monologo dell'Orfeo di Peri (Funeste piagge...) i madrigali delle Nuove musiche (Perfidissimo volto, Amarilli ecc.) restano pagine ancora oggi vive e giovani proprio per il loro fraseggio musicale; l'intera Euridice, sia dell'uno sia dell'altro autore, vive soprattutto come poema, le cui azioni verbali sprigionano tutt'intorno un riflesso, un'atmosfera commossa in echi e risonanze sonore più che propriamente musicali. Ma quello che intanto di queste prime opere può valere, è l'avvio al nuovo teatro musicale, già in esse disegnato nelle linee basilari di una composizione atta, sì, allo spettacolo più vario, ma, quel che più conta, alla rappresentazione lirica d'un dramma.
La quale virtù, meglio che presso questi primi autori, si manifesta in risultati concreti già nell'opera che all'Euridice tiene dietro: la "favola in musica" Orfeo, composta da Claudio Monteverdi su poema (diviso in 5 atti) di Alessandro Striggio iunior, allestita nel 1607 all'accademia degl'Invaghiti in Mantova alla presenza del duca che, già ammirato dell'Euridice fiorentina, aveva incoraggiato il suo grande maestro di cappella a tale impresa. È ozioso avvertire che soltanto dalla genialità del creatore poteva nascere un capolavoro drammatico-musicale come l'Orfeo. Sta però di fatto che proprio tale genialità viene a produrre, sempre nelle grandi linee fiorentine, che del resto non sono più scomparse dal teatro musicale, l'emersione di stilemi diversi e ben caratterizzati, nei quali l'espressione lirica s'è determinata: il filo del discorso è anche ora nel "recitar cantando"; ma questa recitazione diviene, sotto la penna del sommo compositore, un fatto musicale. Le note in cui vibra il patetico suono della parola sono esse stesse vibrazioni d'un vivido impulso di natura e di possibilità nettamente musicali; il senso, più che la struttura o la comune inflessione della parola, illumina il poeta dei suoni e ne slancia l'estro musicale, oltre quei ristretti limiti, all'espressione dell'intero movimento affettivo, dalla frase al periodo, alla scena e, conseguenza necessaria nell'intuizione d'un grande drammaturgo, all'intera azione. Di qui la maggiore efficacia emotiva di questo eloquio, che pur senza perdere il menomo motivo lirico datogli dal verso, anzi giovandosene per escorsi e varietà di estri, si svolge e si potenzia in una propria logica, in una propria sintassi, chiaramente percepibile dalla scena (e dall'orchestra, nell'Orfeo presente e in certa misura disciplinata) fino nell'aula.
Come è naturale, se si considerino le proprietà di tale regime estetico, il "recitar cantando" tenderà, ben più che non facesse quello della Camerata, ad una propria curva, che nell'empito lirico giungerà ad ampie espansioni melodiche, ora insensibilmente rientranti nel recitato, ora più francamente contornate (perfino a strofe) a modo di aria o di canzone. Cosicché alcuni studiosi vedono, non senza un fondo di verità, nell'opera monteverdiana esempî di queste forme chiuse che nel mezzo Seicento emergeranno nel corso della partitura teatrale. Ciò, beninteso, in un senso molto lato, poiché l'Aria di L. Rossi o di A. Cesti o di F. Provenzale, illustrata poi e stabilizzata presso A. Scarlatti è formalmente cosa ben diversa e, nella maggior parte dei casi, intimamente autoctona e autonoma, simile a pezzo da concerto, mentre qui essa ha forme libere e varie e sempre in funzione del contesto drammatico. E non per nulla nell'Orfeo del 1607 la forma "chiusa" è assai meno praticata che quella del libero Arioso: C. Monteverdi intuisce chiaramente, infatti, le proprietà della quadratura melodica, e chiaramente sa dove essa quadratura sia legittima, e quindi necessaria, agli stessi fini dell'azione drammatica. Si può dire a questo proposito che per ritrovare esempi di tale chiarezza di visione bisogna saltare dall'Orfeo del 1607 a quello del 1762 (C. W. v. Gluck). Di solito le voci monteverdiane si muovono in fluida libertà, passando insensibilmente, e sempre in pari saldezza sintattica, dal concitato respiro del racconto o dell'azione al largo arioso dell'estasi lirica. Con quanto maggior potenza di quel che non avvenga al Caccini, si intenderà senza pena ponendo mente all'assai maggiore ricchezza del mondo monteverdiano, nel quale ogni moto dell'animo umano è immediatamente compreso e assimilato nell'intuizione dell'eterno dramma che è il viver nostro di tutti. Di qui la riespressione del poema verbale nel musicale, in nuova imperiosa sintassi costruttiva. Ed ecco, all'appello di questa intuizione dell'uomo-artista, sorgere nel quadro del melodramma, presso il Peri e il Caccini così monocromo come per una diffusa, pallida luce lontana, le dovizie del nuovo madrigale; né soltanto del libro V, ma anche dei libri non ancora composti. La composizione musicale del dramma non lascia alcuna delle risorse musicali, melodizzando il recitato fino a trarne il respiro dell'Arioso e l'incanto dell'euritmica Aria; intensificando il tocco armonistico fino al rilievo del più fuggevole inciso verbale (al quale così non si rinunzia pure in tale melica linearità) e suscitando da questo tocco le più varie risonanze timbriche, così nei registri vocali come nei timbri dei numerosi strumenti disciplinati nelle funzioni loro proprie ai fini espressivi (13 tipi, con 34 suonatori, in vario giuoco da pagina a pagina); creando con l'intervento di pezzi strumentali (Ritornelli, Sinfonie, Toccate, ecc.) o corali (omofoni o contrappuntistici) un franco rilievo prospettico tra piani e piani dell'architettura generale.
Come si vede, l'Orfeo del 1607 oltre il suo intrinseco valore estetico può mostrarne agli occhi nostri di oggi anche uno più esplicitamente storico: nell'opera che a questa tiene dietro nel tempo, cioè nella Dafne composta da Marco da Gagliano (sul vecchio testo di O. Rinuccini già musicato presso la Camerata) e rappresentata a Mantova nel 1608 per gli sponsali di Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia, si nota l'efficacia dell'incoraggiamento dato da Monteverdi alla varietà del quadro operistico. Il compositore, anch'egli polifonista nei madrigali, ma imbevuto dalle poetiche di casa Bardi e ammiratore delle opere del suo amico Peri (così egli parla della prima Dafne: "... il piacere e lo stupore che partorì nell'animo degli spettatori questo spettacolo, non si può esprimere...") al recitativo "fiorentino", non molto rianimato a dir la verità, alterna con grande frequenza, e per passi molto più poderosi per mole e per vigor di musica, interventi corali e strumentali, atti a rialzare i toni della rappresentazione.
In ciò egli mostra un istinto di musicista più forte della sua convinzione dei concetti da lui stesso vantati nella prefazione ("... persuadasi pur" [il cantore di teatro] "che il vero diletto nasca dalla intelligenza delle parola"): i migliori passi del suo lavoro non son certo i recitativi (cui del resto è probabile abbia posto mano lo stesso Peri), ma proprio quegli interventi corali e strumentali in cui la "parola" perde la sua egemonia in favore della musica. L'espressione ne risulta, in tal modo, meno coerente di quella raggiunta nell'Euridice, ove il Peri si sommette quasi sempre al poeta, o nell'Orfeo ove ogni stilema è in funzione d'un autoritario intuito drammatico-musicale. L'opera di Marco da Gagliano, nel suo insieme, e cioè nonostante le singole belle pagine di musica, dà più nella decorazione che nel dramma. E infatti nella lunga prefazione c'imbattiamo in concezioni a tale proposito abbastanza significative: "... spettacolo" (il melodramma) "veramente da principi e oltre ad ogni altro piacevolissimo, come quello nel quale s'unisce ogni più nobil diletto, come invenzione e disposizione della favola, sentenza, stile, dolcezza di rima, arte di musica, concerti di voci e di strumenti, e squisitezza di canto, leggiadria di ballo e di gesti, e puossi anche dire che non poca parte vi abbia la pittura per la prospettiva e per gli abiti: di maniera che, con l'intelletto, vien lusingato in uno stesso tempo ogni sentimento più nobile dalle più dilettevoli arti ch'abbia ritrovato l'ingegno umano...". E quantunque qui sia opportuno ridurre a valori relativi al tempo la portata estetica di queste forse inabili frasi, resta nondimeno visibile una rispondenza tra esse frasi e il risultato pratico dell'opera d'arte, i cui varî momenti non nascono l'uno dall'altro per costante vigore d'affetti, ma piuttosto si succedono per gusto di stilizzata decorazione risolventesi musicalmente in valori concertistici, teatralmente in valori di spettacolo; in quelli stessi, cioè, che l'Euridice per un senso, l'Orfeo per un altro avevano saputo oltrepassare, pure avendoli avuti al tempo loro concomitanti.
L'opera già con queste sue prime e fondamentali manifestazioni dava così il saggio dei suoi possibili valori: il Dramma (intimamente poetico: Euridice di I. Peri e, più spurio, di G. Caccini, oltre che Anima e corpo; intimamente musicale: Orfeo di C. Monteverdi), il Concerto e lo Spettacolo (ambedue annunziati da coesistenti caratteri della Dafne di Marco da Gagliano). Sempre tra questi valori, e più spesso riuscendo ai due ultimi (insieme o non), si volgerà nei secoli la produzione operistica, e sempre ne richiamerà le iniziali direttive.
L'incoraggiamento dato alla varietà del quadro, di cui s'è veduto l'effetto nella Dafne di M. da Gagliano, è un aspetto della complessa azione esercitata da Claudio Monteverdi nel mondo musicale del Seicento. Intanto esso significa già di per sé un superamento dell'umanistico intellettualismo della Camerata; il che, in fatto d'opera italiana seicentesca, si risolve in una liberazione delle forze musicali ormai conscie della legittimità delle loro ambizioni. Di qui i nuovi sviluppi del teatro musicale, orientati a totalità musicale, quali che esse ambizioni potessero essere: drammatiche, come apparranno dapprima quelle del più diretto discepolo di Claudio, Pietro Francesco Cavalli, o più esplicitamente concertistiche o rappresentative (spesso concomitanti come già nella Dafne del 1608) come si daranno nella produzione ulteriore di M. da Gagliano, in quella dei romani (S. Landi, V. Mazzocchi, M. Marazzoli, L. Rossi, M. A. Rossi, L. Vittori, ecc.), di I. Melani pistoiese, dell'avanzata scuola veneta (A. Cesti, G. Legrenzi, ecc.) e dei primi napoletani (il semiveneto A. Stradella e F. Provenzale).
Per quanto grande sia l'importanza dell'Orfeo del 1607, essa non spiegherebbe da sola il valore di quell'azione direttiva che s'è dianzi riconosciuta al Monteverdi nelle vicende del Seicento: all'Orfeo tengono dietro, infatti, numerose opere che nei caratteri stilistici mostrano disparate influenze e origini, cosicché la luce monteverdiana se non fosse stata rialimentata, avrebbe potuto scomparire. L'attività del grande drammaturgo, invece, con l'Orfeo non aveva fatto che principiare, e le sue manifestazioni ulteriori, sia per il valore estetico che noi possiamo scernere nelle sopravviventi, sia per quello dai contemporanei attribuito alle altre oggi smarrite, ci mostrano una costante ascesa a più alti valori di musica drammatica. Le pagine della sua stessa madrigalistica e della musica "rappresentativa" che ad essa s'accompagna nelle edizioni del VlI e dell'VIII libro, possono giovarci, nella mancanza d'intere partiture teatrali del periodo 1609-40, come documenti di quella costante ascesa (forse interrotta nell'ineguale, perché affrettata, composizione del Ritorno d'Ulisse, 1641) la cui finale ragione si spiega nell'Incoronazione di Poppea del 1642.
Già il frammento dell'Arianna (1608) a noi pervenuto sorpassa nettamente quanto vedevasi nell'Orfeo. L'intuizione del musicista, pur nascente in un mondo spirituale assai più denso di esperienze, di travagli e di dolore, concentra e unifica, al suo solo prodursi, tutto quel mondo nella più sottile, immateriale quasi, e pur fermissima linea dell'arioso (Lasciatemi morire), la cui sintassi, nel tempo stesso esplicita nell'euritmia del giro melico, è di natura così ideale e generata da tanto profonde ragioni drammatiche, che per forze proprie ci conduce, ansiosi e dimentichi d'ogni "arte", dalla cerchia lirica dell'arioso all'agogico discorso ("recitar cantando"?) che all'arioso tiene dietro. E noi questo recitativo intendiamo, in quanto nel suo svolgersi, tormentato e rotto ch'esso sia, sempre ritorna in noi l'eco del primo canto: annunzio e insieme finale catarsi.
Così già questo frammento, d'un solo biennio posteriore all'Orfeo, ci mostra un superamento che è spirituale quanto musicale: la maggiore ricchezza ha immediatamente raggiunto una nuova sintesi, densa di moti lirici e cioè musicali; il discorso si svolge, intanto, in maggiore severità melica, se si levi al canto spiegato; in maggiore intensità e varietà di ritmi e soprattutto d'armonie, se continui a mo' di racconto o di azione. E non minore densità di valori musicali troviamo nelle pagine successive all'Arianna: nel Combattimento di Tancredi e Clorinda la stessa poesia del Tasso è vinta e oltrepassata dal musicista che ad essa dà ben maggiore profondità di significati, ben maggiore ampiezza di risonanze e di relazioni interiori. Anche qui, il dramma suggerito dalla poesia è intimamente rinnovato nell'atto di riassumersi in musica.
Tale l'esempio, di anno in anno ripresentato ai musicisti, del drammaturgo cremonese: come s'è accennato, da Venezia fin giù a Roma all'attività del Monteverdi s'accompagna le crescente attività di nuove scuole, e nel 1642 (anno dell'Incoronazione) il numero degli operisti è già grande: non soltanto i toscani (che d'altra parte venivano da più regioni) come D. Belli, Marco e G. Battista da Gagliano, F. Vitali, lo stesso vecchio Peri, Francesca di Giulio Caccini avevano continuato, pure influenzati dal Monteverdi, le pratiche "fiorentine", e a Bologna queste pratiche avevano trovato simpatie tra alcuni di quei maestri (tra gli altri il Giacobbi e il Vernizzi) e a Roma, dal 1620 al '40 circa, s'era venuta formando, intorno alla casa dei Barberini, quella scuola, abbastanza distinta per caratteri teatrali proprî, della quale dianzi si sono menzionati gli esponenti, e opere si scrivevano e si allestivano comunque nelle principali città nord-centrali, ma anche gli stessi allicvi o imitatori di Claudio avevano iniziato con meritata fortuna quella produzione cosiddetta "veneziana" che poi doveva giungere alle manifestazioni, ammirate e seguite anche oltralpe, della maturità di P. F. Cavalli e di M. A. Cesti. E ad esempi monteverdiani aveva già dato risposta la Germania del "veneziano" (come allievo di G. Gabrieli, e del Monteverdi grande ammiratore) Heinrich Schütz, il primo compositore non italiano di musica drammatica e oratoriale, la cui Dafne, sul poema del Rinuccini tradotto e adattato dall'Opitz, s'era rappresentata al castello di Hartenfels (Torgau) nel 1627.
Se si guardi, pur rapidamente, alla figura assunta dal teatro musicale attraverso questa prima metà del sec. XVII, da zona a zona della penisola (la Dafne schütziana, la cui musica andò distrutta nel 1760, e l'opera di J. T. Staden: Seelewig, del 1644 non ebbero proprî notevoli effetti storici), si potrà notarne in genere un sempre più forte impulso verso la varietà e la vastità delle linee. Il che valeva poi, sotto altro punto di vista, una crescente attitudine all'efficacia della rappresentazione di fronte a un pubblico anche folto e meno raffinato: dalla tenue favola pastorale della Camerata, che già sapeva varcare i limiti della decorazione strettamente cortigiana in grazia della sua trepida aura sentimentale, siamo stati tratti in pochi anni al commovente dramma musicale dell'Orfeo e al vivido movimento di scene, di cori, di danze e di "sinfonie" della Dafne di Marco da Gagliano, capaci ambedue di conquistare anche i non esteti. E nell'Arianna del 1608 il Monteverdi sollevava la musica drammatica a un piano assai superiore a quello del trattenimento di corte. Ora, nelle vicende ulteriori, questo movimento continua e s'accentua: nel secondo ventennio del secolo il quadro dell'opera viene ad accogliere, presso la seuola romana, toni assai disparati, riguardo tanto alla vicenda scenica, che varia da momenti serî a momenti comici (fatto fino allora non verificatosi in sede d'opera), quanto alla stessa partitura, che già presso S. Landi (Morte d'Orfeo, 1619), Domenico e Virgilio Mazzocchi, M. Marazzoli, ecc. tende a "rompere il tedio del recitativo" (D. Mazzocchi) per mezzo di frequenti espansioni melodiche, più o meno libere o in sé virtualmente concluse. La corrente iniziata con l'ex-intermedio del Gagliano (la Dafne) può ritrovarsi qui in pieno sviluppo, in considerazione non soltanto dell'economia musicale ma anche della scenica, che in sé già contiene le maggiori possibilità dello spettacolo. Ecco, su tale via, apparire nel 1634 al teatro Barberini il multiforme "dramma musicale" S. Alessio, di S. Landi su testo di mons. Giulio Rospigliosi (poi papa Clemente IX, il più celebre e tipico librettista della scuola romana, seguito in livello assai inferiore da O. Tronsarelli e poi da P. della Valle, L. Vittori, ecc.), in cui la trama, veramente tragica, dell'azione è di quando in quando alleggerita da scene comiche, tratte dall'osservazione della vita quotidiana delle corti e del contado, da fantasie grottesche e via dicendo. E, poco tempo dopo, nel 1637, l'Erminia sul Giordano di Michelangelo Rossi (il celebre allievo di G. Frescobaldi), e nel 1639 (secondo il Rolland nel 1637) la commedia musicale Chi soffre speri, di Virgilio Mazzocchi e Marco Marazzoli, ambedue su testo del Rospigliosi e allestite con "meraviglioso" sfarzo scenico in quello stesso teatro Barberini che era diventato il centro dell'opera romana. La quale dunque nella sua breve fioritura aveva tratto in evidenza tutte quelle tendenze, che abbiamo annunziato, verso la varietà, la policromia della rappresentazione in musica (p. es. con il "rompere il tedio del recitativo") giungendo all'analoga varietà e policromia dello "spettacolo", che con le scenografie e le macchine e i costumi del Barocco (proprio allora in rigoglioso sviluppo, dopo B. Buontalenti con Gian Lorenzo Bernini e poi G. Torelli, ecc.) usciva dalla sala, dal teatrino di corte, ov'eran potute rimanere ancora, nonostante tutto, le opere del primissimo Seicento per riapparire nel teatro Barberini (inaugurato già con la prima del S. Alessio, cioè nel 1634) che, pur riservato a invitati, era capace di oltre tremila persone. E l'opera vi si atteggia così a spettacolo per masse, a queste appellandosi con l'effetto, questa volta veramente composito, e a maggior diritto definibile con le sopracitate parole di Marco da Gagliano, di più stimoli tra loro esteriormente giustapposti o in alterna vicenda di giuoco: "... favola,... musica,... esquisitezza di canto, leggiadria di ballo e di gesti,... prospettiva" (intendi scenografia) ".... abiti", ecc. Come avverrà nella scuola veneziana, l'azione delle arti sceniche vi ha grandissimo peso; e, come avverrà a Napoli, già in questa Roma barberiniana emerge la figura del cantante, assai più che non avesse fatto presso la Camerata, pure ricca di siffatti musici a principiare dal Peri e dalla famiglia Caccini. La "rottura del tedioso recitativo" si dà infatti, come s'è detto con D. Mazzocchi, come più frequente fioritura di Arie e Mezz'arie (alcunché di analogo, fenomenicamente, all'Arioso), che, pur ancora disciplinata dalla generale "economia" della rappresentazione, già s'avvia a raddensare l'interessamento musicale del pubblico nei singoli momenti ov'essa meglio si ostenda. Quivi la necessità del concorso scenico, a integrare il quadro teatrale. I valori propriamente musicali, d'altra parte, vi si riducono non soltanto nella frequenza ma anche nella forza lirica delle loro apparizioni: la loro funzione comincia a svolgersi non tanto dall'immediato intuito del compositore quanto dall'interpretazione, più o meno fervida o, altrimenti, decorativa, del celebre cantante; oltre gli stessi compositori, quasi tutti buoni interpreti, i discepoli di G. Caccini e le donne: Adriana Basile, Leonora Baroni, Caterina Martinelli, ecc., cui, verso la fine della scuola romana, terranno dietro gli evirati, da. L. Vittori a B. Ferri, a F. Grossi (il "Siface"), ecc. Così, a differenza di quello che avverrà a Venezia e a Napoli, i valori musicali non riescono quasi mai a sopravvivere oltre quelli virtuosistici e scenici. Specialmente questi ultimi si potenziano fino a svalutare le pagine di musica, pur lucidamente ordinate ch'esse siano in esteriore architettura generale. Di ciò si ha un'idea, probabilmente pallida, dalle relazioni che i contemporanei ci lasciarono circa la riuscita di quelle feste teatrali, p. es. delle prime rappresentazioni barberiniane: del S. Alessio ("... le quali" [scene] "si mutarono più volte componendo palazzi, giardini, selve, inferno, angeli che parlando volavano per aria e finalmente una gran nuvola calata a basso che aprendosi mostrò la gloria del Paradiso"), dell'Erminia sul Giordano, del Chi soffre speri, probabilmente riuscite anche più vistose (v. A. Ademollo, I teatri di Roma nel sec. XVII, Roma 1888), ecc.
Cosicché, beninteso entro limiti ristretti alla reale figura storica dell'opera barberiniana, potremmo anche ammettere che "la scenografia diverrà subito" (nel 1600) "l'elemento fondamentale dell'opera in musica", in effetto della comparsa del cantante "elemento estetico... cui si deve... se melodrammatico e scenografico, a cominciare da un certo punto della storia, fanno tutt'uno..." (F. Torrefranca, La scenografia e l'opera in musica fino al Romanticismo, in Il Pianoforte, maggio-giugno 1927).
E infatti nella scuola romana uno squilibrio è evidente, specialmente al nostro sguardo di oggi cui principale cura è quella dei valori musicali assoluti. Nel confronto con la "favola" e con l'allestimento scenico questi valori si mostrano in verità poco resistenti: i varî Mazzocchi, Marazzoli, Vitali, ecc., e lo stesso S. Landi, pure estroso ricercatore di varianti formali, non hanno polso sufficiente a stringere in riassunto musicale le geniali proposte scenico-letterarie d'un Rospigliosi e a lottare da pari a pari con un Gian Lorenzo Bernini. La Fiera di Farfa, che il librettista scatena nel 2° atto del Chi soffre speri, non trova presso i musicisti che una povera successione (non sovrapposizione, come sarebbe convenuto) di figure e di movimenti.
Comunque, dall'esperienza barberiniana venivano all'opera alcuni contributi: quelli, già dianzi notati, d'una maggior varietà nel discorso musicale, con la comparsa del recitativo secco e con la frequenza e la molteplicità formale quivi conferite alle zone melodiche e alle "sinfonie" (al 1° atto del S. Alessio S. Landi premette una sinfonia a 5 voci strumentali [3 per i violini, 1 per arpe, liuti, tiorbe, bassi di viola e violoncelli, 1 per i "gravicembali"] composta di 4 tempi: Fugato, Eco, breve Lento, Fugato, e al 2° atto una in tre tempi: Allegro fugato in 4/4, Adagio maestoso e melodico in 3/4, Allegro fugato in 4/4, ove si vede, già nel 1632, la forma diventata poi celebre nella sinfonia operistica di A. Scarlatti), e d'una analoga varietà nelle vicende della rappresentazione, che viene ad accogliere la possibilità, nell'opera, di elementi comici, o altro, tratti dalla vita quotidiana. Oltre che nell'arricchimento dell'opera seria, di cui si vedrà il potenziamento a Venezia, tali elementi agiranno in diretta loro esplicazione nella commedia musicale (già annunziata, se non nell'incerta Diana schernita [1629] di G. Cornacchioli su testo di F. Parisani, certo in gran parte del Chi soffre speri, e poi chiaramente caratterizzata nell'opera del Marazzoli e di A. M. Abbatini su testo del Rospigliosi: Dal male il bene [1653]) e nella futura opera buffa napoletana, cui già l'opera del 1653 offre il tipico stilema del finale concertato.
I primi segni evidenti del clima operistico così ampliato e rinnovato dalla molteplicità delle esperienze monteverdiane, tardo-fiorentine, romane, si producono verso il 1640 a Venezia, ove assumono subito, fino dal primo loro apparire, significato assai più largo ed estensivo. Quando Benedetto Ferrari e il romano (da Tivoli) Francesco Manelli conducono a Venezia una compagnia "lirica", il teatro s'apre al pubblico pagante. Il vecchio teatro privato dei Tron, ricostruito nel 1629 e ora denominato di S. Cassiano Nuovo o, nel 1637 presenta al popolo la prima opera "veneziana": l'Andromeda, del Manelli su testo del Ferrari, cui l'anno dopo segue La maga fulminata, degli stessi autori; nel 1639, quando a Roma il card. A. Barberini ancora scaccia a bastonate un intruso dal suo grande teatro di famiglia, a Venezia si aprono al pubblico altri due teatri d'opera: quello dei Ss. Giovanni e Paolo, con la Delia, di P. Sacrati su testo di G. Strozzi, cui seguono, sempre nello stesso anno, l'Armida con musica e testo di B. Ferrari e l'Adone di C. Monteverdi, e quello di S. Moisé, inaugurato con l'Arianna monteverdiana del 1608. E al S. Cassiano appariva intanto il primo melodramma (cui per la prima volta si dà ufficialmente il nome di Opera) di Pietro Francesco Cavalli, il maggiore discepolo di Claudio, e cioè Le nozze di Tetide e Peleo. Così s'iniziava la vita operistica veneziana, che durante il sec. XVII si svolgerà in 16 teatri con 356 opere di circa un'ottantina d'autori, in discreta parte appartenenti a quella scuola.
Per quanto al termine non si possa dare un'accezione così assoluta quale oggi noi ne usiamo, questo teatro veneziano del 1600 può meritare nei confronti con il fiorentino e con gran parte del napoletano l'attributo di "teatro di masse". L'orientamento dei compositori romani trova qui, meglio che a Roma, i suoi logici sviluppi: se i teatri di Venezia non hanno grande capacità, essi accolgono però di serata in serata il pubblico più vario e "qualunque". Nel loro proseguire settecentesco spesso vi avranno accesso libero, anche senza pagamento, i gondolieri e i poveri della città, i quali, sia pure in vista di "spettacoli" o di celebri virtuosi anziché di valori lirici propriamente detti, vi accorreranno numerosi.
Ma nel sec. XVII la musica dei veneziani offriva gran copia di valori lirici, tali da agire nel gran pubblico, ben diversamente da quanto s'è visto nella musica dei romani. Fuoco centrale di tale scuola era infatti il vecchio Monteverdi, e cioè il sommo musicista, non già, come a Roma, il librettista Giulio Rospigliosi (tra il Badoaro, il Busenello, l'Aureli, il Minato, ecc., solo il secondo è all'altezza del romano), e di fronte a maestri di scena come G. Torelli, G. e L. Burnacini, ecc. si trovano e si troveranno compositori come P. F. Cavalli, A. Cesti, G. Legrenzi e altri come P. A. e M. A. Ziani, G. Rovetta, ecc., minori per originalità, non per sensibilità musicale.
Come si può pensare già dalla menzione di questi nomi, il rapporto viene qui a invertirsi, per quello che concerne l'autorità del musicista e del poeta, sia pur quest'ultimo il geniale F. Busenello; mentre il peso degli artifizî scenici graverà storicamente più sul gusto contingente della rappresentazione che non sul reale impegno delle forze musicali. È infatti nel seno di questa scuola che prenderanno nuova e duratura larghezza operistica valori estetici a Roma poco più che intravveduti: il dinamismo delle scene d'azione, la sensuale flessione delle linee melodiche lungo l'euritmica curva dell'Aria, la ricchezza della scrittura armonistica e, nel Cesti della maturità e poi nel Legrenzi, della strumentale sia in unione con le voci sia in proprie forme autonome. Qui veramente la varietà dell'azione poetico-scenica diviene varietà, policromia di azione musicale.
Quale poté essere, in questo momento, l'esempio monteverdiano, è agevole indurre dalla lettura delle due opere del 1641 e del 1642. Nel Ritorno di Ulisse (che del resto alcuni riconducono al 1630) si nota una certa disuguaglianza tra pagina e pagina. Monteverdi si trova di fronte a suggestioni nuove, venienti a lui da un nuovo clima (da mutate condizioni ed esigenze). Il suo intuito, certo, afferra di colpo le nuove risorse, rovesciando le formule in forme concrete (scene popolaresche, racconto della tempesta, duetto Ulisse-Telemaco, realismo icastico della scena Ulisse-Proci, ecc.), ma il quadro è squilibrato tra i diversi stilemi di cantata, di commedia alla romana ecc. e dà spesso nella trascuranza e nel tedio.
Uno squilibrio si dà, negli stessi anni, anche presso il Cavalli, ma la tipica "fretta" di questo musicista non toglie, p. es., un'impetuosa veemenza lirica nei lunghi recitativi, che bene ci conducono dall'una all'altra zona melodica: esso è squilibrio dipendente e dalla frequente assurdità dei libretti e dalla disparità di livello estetico tra i varî estri musicali. Nel Ritorno di Ulisse è proprio la coscienza dell'uomo Monteverdi che non ancora ha compiuto la sua nuova unificazione. Il che, se si prende in considerazione la data 1630, è ancora meglio spiegabile, mentre se si tiene ferma la data 1641 si può attribuire, in parte, anche allo scarso tempo in tal caso calcolabile per la stesura di questi lunghi 3 atti con prologo: nel 1641 il maestro dava infatti anche Le nozze di Enea e Lavinia, opera oggi smarrita, ma che possiamo supporre abbastanza ponderosa. Nell'Incoronazione di Poppea il settantacinquenne Monteverdi ha invece compiuto il suo rinnovamento, il quale non è altro che la comprensione e la sintesi di tutto il mondo del primo Seicento in personale dramma. Coesistono in questi tre atti, ognuno quanto mai molteplice di scena in scena, i più diversi stati d'animo, i più diversi problemi che nell'uomo del tempo potevano prodursi nella vita. Come Shakespeare, Monteverdi tutti li sente (e con quale intensità, con quale ardore di fremiti e di reazioni può ben pensare chi conosca l'autore dell'Arianna, dei Madrigali guerrieri ed amorosi e del duetto Ulisse-Telemaco nel Ritorno) e tutti li intende nelle loro comuni, finali ragioni. Da siffatta unità d'angolo visivo la naturalezza del disporsi d'ogni figurazione scenico-musicale (dalla comica canzonetta al doloroso concertato, al fremente duetto d'amore) di zona in zona e di piano in piano dell'immensa prospettiva dell'insieme. E, parimenti, di qui l'impossibilità di quella scomposizione della partitura in schemi e formule che a Roma pure si poteva osare: i meriti dei Mazzocchi e anche di S. Landi erano maggiori se si badava ai disegni formali colà escogitati in vista d'esigenze rappresentative, che non per la consistenza delle ragioni liriche di essi disegni. Quivi invece, come nell'Orfeo e nell'Arianna, non si può parlare che di fasi drammatiche, ove recitato, melodia, assoli, concertati, duetti e via dicendo non hanno interna autonomia, come l'avranno presso un Cesti e presso i Napoletani, ma l'uno dall'altro nascono e si spiegano. Ricompare cioè nell'Incoronazione quell'imperiosa quanto arcana forza sintattica che già nell'Orfeo e nell'Arianna abbiamo visto destarsi magari per il menomo cenno armonistico, e generare senza sforzo il ritmo dell'intera composizione, ove il recitativo ha la stessa forza lirico-musicale del più libero volo melodico. Ben si capisce così, come l'ispirazione del drammaturgo potesse dimenticare i mezzi pur con essi giuocando come in un sorriso. I timbri strumentali, venuta ormai meno la ricchezza delle orchestre veneziane, si muteranno nei vocali, e d'altra parte l'orchestra ancora disponibile sarà comunque sufficiente; i cori, perduta la massa materiale, fisica, riapparranno nelle voci concertate. A tutto questo mondo poetico-musicale varrà come principio la sola scrittura melico-armonistica, quivi giunta ai supremi valori estetici dell'inciso e della linea.
Tale l'insegnamento del vecchio Monteverdi, che alla molteplicità delle nuove stilistiche e dei nuovi assunti teatrali: alternanza di tragico e di comico, di solenne e di popolaresco, gran numero di personaggi e di scene, ecc., sa guardare con chiaro occhio di musicista e, attraverso l'esperienza del Ritorno di Ulisse, sa giungere nel policromo mondo dell'Incoronazione come in una terra da conquistarsi con forze essenzialmente musicali. Alla ricomparsa del maestro, l'opera fiorentina e la romana scompaiono nell'ombra, svuotate ormai d'ogni ragione. Il teatro è conquistato dalla musica.
In realtà però, con l'Incoronazione, Monteverdi a tanto era riuscito soprattutto come musicale drammaturgo: la sua musica presentava ogni scena e ogni personaggio, caratterizzato con evidenza pari alla complessità, in funzione d'unitario dramma. Di qui la vittoria estetica di essa musica su ogni intervento esterno, scenico o altro.
Ora, se dal Monteverdi passiamo a P. F. Cavalli, già dobbiamo scernere, a tal proposito, i segni d'una transvalutazione di quello che l'Incoronazione aveva insegnato. Quella shakespeariana intuizione dei valori umani, che determinava la sintassi dello spettacolo in sintassi di dramma, cede ormai, fino dal Cavalli, di fronte a un'interpretazione, certo geniale per pronta sicurezza di tocco, di quei valori piuttosto per quello ch'essi offrono al movimento della rappresentazione. Il dinamismo del nostro vivere non vi è sviscerato nelle sue ragioni, ma soltanto se ne coglie il fenomenico; e il vasto quadro del mondo non può quindi esservi dominato ma soltanto veduto e riprodotto nelle grandi ed appariscenti sue masse. Come accadrà a G. F. Händel nel confronto con J. S. Bach, a P. F. Cavalli riesce una geniale stilizzazione, di gran forza decorativa, più che una immediata voce d'interiore tormento.
Certo, nello strapotente impeto agogico dei passi in recitativo, come nelle varie illuminazioni canore, dal riso più sano e, quasi plebeo, all'accorata concentrazione lirica, dalla ieratica solennità all'irresistibile ribellione, il discepolo ci richiama spesso l'arte del maestro. Nel suo mondo l'esperienza monteverdiana, specialmente se si badi alla stessa scrittura musicale, ha avuto un valore capitale, come nel mondo di un Bernini l'esperienza michelangiolesca. Al Cavalli riesce spesso di presentarci una figura scenica, un personaggio, nel giro di poche e semplici battute. Ma ben più di rado questa figura giunge a logico sviluppo di scena in scena. Il fremente declamato vale già da per sé, come deve certo valere; ma troppo di rado vale anche per l'intera vicenda, in funzione di questa. E funzioni non molto più organiche ha la stessa melodia, che il tardo Cavalli condurrà di solito fuor dell'Arioso nell'Aria. Tipica arte barocca, l'arte del Cavalli, specialmente se dalla patetica Didone (1641 si avanzi fino all'Ercole amante (1662), del "movimento" coglierà una momentanea figura, fissandola, nonostante ogni apparenza, in un'immagine statica. Di qui l'insopprimibile frattura del dramma in successive zone ognuna in sé centripeta: il recitativo e l'aria vi prendono propria consistenza; la musica conferma sì la sua conquista dell'opera, muovendovisi con libertà e anzi da padrona, ma già si può vedere come essa dia in valori anche scenici (e infatti bene s'accomoderà agli allestimenti più "meravigliosi") e insieme prevedere le transvalutazioni concertistiche dell'opera cui già A. Cesti, sotto influenze più miste (oltre Venezia, la cantata romana di G. Carissimi e L. Rossi) stava dando l'avvio.
Presso il Cesti, pur allevato in chiesa (egli fu frate minore conventuale) ed esperto di polifonia sacra romana (allievo com'egli era di A. M. Abbatini e forse dello stesso G. Carissimi) vediamo intanto una sensibilità musicale raffinatissima, innervata di sensualità nell'amore dei più sottili fremiti armonistici e timbrici come nella stessa flessuosa voluta melodica, più propria dei veneziani che dei romani. Luigi Rossi napoletano già aveva risolto un'analoga crisi, sensualizzando la melodia chiusa di cantata fino a infiltrarne le forme operistiche (Orfeo, rappresentato a Parigi, ove i Barberini si sono rifugiati lontano dal nuovo papa, l'antiteatrale Innocenzo X, nel 1647). Ma il più ricco mondo musicale del Cesti potenzia e unifica insieme lo stile della cantata e dell'opera, ambedue dal Cesti (come dal Rossi) egualmente praticate, passando dall'iniziale prevalenza dell'una (la monotona Orontea del 1649) al già più equilibrato Cesare amante (1651) non per nulla accolto, a Venezia, con maggior plauso, e via via fino alle opere, ricchissime d'elementi rappresentativi veneziani (spesso richiamanti l'ombra di Monteverdi), della maturità: Argia (Innsbruck), Dori (Firenze 1661), Il pomo d'oro (Vienna 1667), ove l'assimilazione delle proprietà dell'Aria di cantata nello stile rappresentativo è concretamente compiuta. Il carattere più proprio del Cesti è, del resto, l'intuizione del singolo momento, che si crea un ambito tutto suo, un giro melodico euritmico e in sé conchiuso. Di tali liriche è costituita la musica delle cantate e delle opere del Cesti; nelle quali ultime (specialmente nelle pompose opere austriache), essa musica si apre il varco attraverso questa o quella mutazione d'apparati più o meno "meravigliosi" e si muta anch'essa dal comico al trionfale, dalla melanconia all'effusione amorosa. Così, gentile e spesso intensamente espressiva nelle singole pagine, l'opera del Cesti viene però ad assumere quella figura di Concerto che dianzi prevedevasi già dagli stilemi di P. F. Cavalli; e nella rappresentazione sa giungere, più che a organicità tra le molteplici zone "veneziane" (tragiche, buffonesche, agogiche, liriche ecc.), a una decorativa "economia" generale, sufficientemente equilibrata (più che non fosse presso il geniale improvvisatore plebeo: P. F. Cavalli) nel giuoco tra le varie masse: gli assoli e i dialoghi in recitativo o in melodia, i pezzi d'insieme e corali (a Vienna il coro, questo potente elemento struttivo, non faceva difetto), gl'interventi strumentali a sé o in una con le voci. Il Cesti, nella sua raffinata sensibilità, a tale economia non poteva mancare. Le forme singole vi sono curate e poste in grado di tenere fermo al loro posto, siano poi l'Aria (già spesso col Da capo) o il coro (spesso sapientemente legato in imitazioni, come era possibile al discepolo dei polifonisti romani) o la "sinfonia" strumentale (che nel Pomo d'oro presenta già accenni a forme poi durature: Sonata per il 1° atto, in tre corpi [ma a un sol tema], i due primi di carattere solenne, l'ultimo in allegro e in scrittura fugata a un dipresso come avverrà presso G. B. Lulli; altre sinfonie da 2 a 4 corpi e sonatine anch'esse annunzianti le forme lulliane).
Come si può pensare, se si tenga conto dell'alto valore musicale del Cesti, simile dovizia di stilemi poteva bene resistere al pericoloso confronto con le "meraviglie" dei maestri di scena del tempo (G. Torelli, L. Burnacini, G. M. e F. Bibiena, ecc.) e con il fulgore virtuosistico del già avviato "Bel canto". E infatti nucleo dell'opera veneziana del Seicento, quali che fossero le concomitanze scenico-canore che ne aiutarono la diffusione in Italia e fuori (come s'è visto, nei paesi tedeschi e francesi) è pur sempre la musica, che dalla scuola dell'ultimo Monteverdi esce ricca di efficacia rappresentativa, in quei suoi larghi e policromi affreschi ove di fronte alle masse dei pubblici più varî si svolgono, dopo i solenni Prologhi allegorici, scene non soltanto mitiche o eroiche, ma liberamente tratte dalla letteratura poetica e dalla storia, eroicizzata o no, e dalla stessa vita popolare, brulicante di figure in virtù di musica scenicamente vive o vigorosamente stilizzate. Come, e assai meglio che nell'isolato esempio della fiorentina Tancia (ovvero Il podestà di Colognole), la fortunata opera popolaresca di I. Melani su testo di A. Moniglia, con la quale s'inaugurava nel 1657 il teatro della Pergola, l'opera del Cavalli e del Cesti coronava l'ampliamento musicale del teatro, accogliendovi il vario giuoco della vita e della fantasia e dei sogni del vasto mondo di tutti.
Giunta così al massimo fulgore, la grande opera barocca entra in uno stato di sovrasaturazione dal quale le sue stilistiche non riusciranno fuori se non orientate a diversi e distinti indirizzi. Nel seno della stessa scuola veneziana un A. Legrenzi mostrerà virtù assai maggiori come musicista "puro" che come operista, e l'emersione, nel suo teatro, di valori sinfonici, non tutti italiani (la sinfonia s'atteggia spesso ad ouverture francese), mostra già un'incertezza e un indebolimento nella continuazione delle tradizioni locali. Così anche nel resto d'Italia nuove correnti giungono, verso il tardo Seicento, a significative manifestazioni, con la produzione mista di sensi meridionali, romani e veneti, di F. Provenzale e di A. Stradella, che analoga incertezza ci mostra nella concezione dell'opera, nonostante le forti virtù liriche da essi concretate in singole zone: nella concentrata espressività dell'Aria (già talvolta tripartita) il primo, e nel vigoroso dinamismo delle scene d'azione il secondo; dote comune ad ambedue, il vivace senso popolaresco e comico, annunziante i settecentisti dell'intermezzo e dell'opera buffa. Nel loro mondo si sente il ricordo della commedia musicale romana quanto l'amore alla vivida sensuosità melico-armonistica di quei veneziani che del resto abbiamo veduto essi stessi dovere non poco a Roma: varietà scenica e melodia chiusa di cantata. Ma la grande architettura barocca d'un Cavalli e d'un Cesti non ritrova presso A. Stradella e F. Provenzale un'intima rispondenza: già diverso è il senso musicale, e se lo Stradella ancora sente il vigore della furiosa improvvisazione di P. F. Cavalli, F. Provenzale tocca i suoi migliori momenti quando dimentica il teatro, con tutte le sue "meraviglie", per scendere entro il proprio più profondo travaglio. La sua musica ha un tono più raccolto e più discreto. E il fatto storico di questo diverso orientamento, che condurrà all'iniziatore dell'opera italiana del sec. XVIII, ad Alessandro Scarlatti, può già nel tardo Seicento trovare non trascurabili analogie con quello che si viene producendo in alcune scuole d'oltralpe, abbastanza ricche di italiani elementi: specialmente in Francia e in Inghilterra.
Come è oggi agevole comprendere (quando di fronte a noi si disegnano in costanti direzioni le linee vettrici delle singole tradizioni nazionali, dal sec. XVII al XX), la Francia fin dal principio chiese all'opera particolari doti di eloquio e di forme che ne legittimassero l'entrata in teatro vicino allo spettacolo di poesia o di prosa. Il primo melodramma che in Francia abbia potuto esercitare un'influenza, frammezzo alle cento produzioni intimamente decorative (Ballets de cour, fiorenti specialmente dal Ballet de la reyne allestito nel 1581 dal Baltazarini), non era lavoro di C. Monteverdi né dei veneziani, pur già allora ascendenti al dominio d'Italia e di Germania, ma del raffinato e discreto Luigi Rossi: e questo Orfeo che nel 1647 il card. Mazzarino faceva seguire ai saggi di M. Marazzoli (1641) ed alla Finta pazza di F. Sacrati (1645; ed erano queste le prime opere rappresentate in Francia) era, certamente, opera frammentaria e, inoltre, poco meno macchinosa delle veneziane, ma da queste si distingueva per il sottile e preciso rilievo della parola in musica, come anche per la discrezione e l'eleganza un poco preziosa dell'aria di cantata, dei coretti e delle "sinfonie". E queste virtù troviamo ricercate, pur senza confessione del modello seguito, da quel R. Cambert che insieme con il librettista P. Perrin dopo lunghi tentativi e varie esperienze giunge alla prima opera vera e propria che sia stata composta da maestro francese: la pastorale Pomone, in un prologo e 5 atti, rappresentata a Parigi nel 1671. Come osserva R. Rolland, nelle pagine che di quest'opera ci rimangono (il prologo, il 1° atto e 5 scene del 2°) si nota infatti più che altro un'abile successione di scene e una scrittura fine e graziosa. Come si vede, l'esempio di L. Rossi ancora valeva, presso i Francesi, assai più che quello dato dal grande P. F. Cavalli con le rappresentazioni parigine del Serse (1660) e dell'Ercole amante (1662). Meglio che il Cambert, poté profittare dell'opera di Cavalli il Fiorentino francesizzato G. B. Lulli, il quale dal balletto passa, poco dopo la Pomone di Cambert, attraverso il "pasticcio" Les fêtes de l'Amour et de Bacchus (1672), al melodramma.
Il Lulli aveva del resto non solo avvicinato ma anche servito il maestro dell'opera barocca lavorando agli allestimenti del Serse e dell'Ercole amante nel 1660 e nel 1662 e scrivendone addirittura alcune parti, specialmente strumentali, destinate ai balletti, più importanti nel quadro teatrale francese che nell'italiano, e che proprio nell'ulteriore produzione lulliana saranno condotti a esplicazioni, se non drammatiche, certo rappresentative come e più di quello che ad essi era accaduto nel vecchio Ballet dramatique del primo Seicento.
Ma, per quanto nelle opere di G. B. Lulli si possa ammettere qualche richiamo al Cavalli, nondimeno va osservato che questi richiami sono più che altro estrinseci, non producendosi tanto nella sostanza musicale, nello stile, quanto nell'adozione di elementi scenici (zone "buffe", ecc.) e nell'importanza estetica del recitativo. Come si vede, si tratta di analogie piuttosto generiche.
Come presso gl'Italiani fino al Cavalli, filo della partitura è il recitativo. Ma il Fiorentino della corte di Luigi XIV, imbevuto di sensi francesi e aulici, educato in mezzo a précieux, ad esteti, ad attori, ecc., al recitativo non si presenta da padrone (come aveva fatto E. Monteverdi) ché anzi tutta la sua cura è volta al rilievo dei valori verbali. Un'interprete dei criterî lulliani scrive a questo proposito: "Rien n'est si agréable que notre récitatif, et il est presque parfait. C'est un juste milieu entre le parler ordinaire et l'art de la musique" (J. L. Lecerf de la Viéville, Comparaison de la musique italienne et de la musique franåaise, Bruxelles 1704-05). Se si ricordano le vecchie parole di I. Peri sulla vagheggiata "... armonia che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che pigliasse forma di cosa mezzana" (cit. pref. all'Euridice del 1600), si è indotti a identificare i criterî dei Fiorentini del 1580-1600 con quelli del caposcuola dell'opera francese, dal Cadmus et Hermione del 1673 in poi.
Ma questo Fiorentino di Luigi XIV, benché non più fervido del Peri, riesce a un recitativo che non solo s'interrompe assai di frequente per lasciare posto a zone esplicitamente melodiche e bene in sé concluse, o ad analoghe zone strumentali: balletti, pantomime, ecc., ma esso medesimo nel suo corso (a dir vero un po' monotono e uguale pur sotto frasi verbali di diverso concetto) esce dall'ambito ristretto delle inflessioni del parlare comune per attingere a più ampi intervalli, proprî d'un linguaggio almeno "oratorio" e magniloquente.
Concepito e composto dietro paziente studio non già dell'eloquio comune di tutti ma della solenne declamazione della Comédie franåaise, al tempo in cui si produsse, questo recitativo non ebbe tuttavia a destare un'impressione di anti-liricità: il teatro, sia di musica sia di poesia, aveva nell'ambiente parigino la sua propria "naturalezza" (di favella, di lessico, di situazioni) non altrove che in quella prassi ormai consacrata in tradizione, dalla quale i principi, i gentiluomini e gli esteti parigini non avrebbero potuto staccarsi senza mutare tutto il loro complesso di abitudini e di concetti. L'accusa che si poté già allora muovere contro il recitativo lulliano si ridusse così a quella d'una certa monotonia, e tale accusa si addirebbe non solo a quello ma a tutti i recitativi (se si eccettui gran parte del monteverdiano) che si prolunghino oltre brevi zone. Forse però più degli altri il Lulli meritava questo rimprovero per il suo frequente ripetersi di pagina in pagina.
E qui, in questa tendenza alla ripetizione d'incisi e di clausole, che varca gli ordini del recitativo e si ritrova in azione in quelli della melodia e del pezzo chiuso vocale o strumentale, si può scernere, con il Rolland, un segno della sensibilità artistica del Lulli e del suo ambiente. Si tratta infatti sempre della tendenza alla stilizzazione, che ora consideriamo in altre esplicita figura. Le arie, le marce, le danze, ecc. spesso sorgenti da felice ispirazione o da concentrata analisi del particolare momento spirituale, si volgono poi rapidamente in linee non molto diverse da aria ad aria, paghe d'una semplice e precisa funzionalità sintattica. La loro vera diversità è data dai rapporti ch'esse hanno tra loro e cioè nell'intera composizione, lucida e sobria come mai si diede presso i grandi veneziani. G. B. Lulli caccia fuori della musica teatrale ogni escorso di fantasiosi estri musicali, come anche ogni esibizionismo virtuosistico di scrittura o d'interpretazione canora (proprio nel tempo che vede in Italia il rapido sviluppo del "Bel canto" di scuola bolognese, il lucido intelletto del Lulli sopprime perfino le doubles [variazioni virtuosistiche] che pure già s'eran diffuse, con il suo suocero M. Lambert, nel canto francese). Eminentemente costruttore, egli sembra lavorare, di opera in opera, alla migliore consistenza dei suoi elementi. La pianta e la tecnica struttiva appaiono ripetersi con costanza, ma il Lulli, proprio per tale costanza, viene a squadrare e polire sempre meglio le varie masse, conferendo alle forme, così quadre e spoglie, una granitica fermezza. Di qui l'autorità di questi stilemi attraverso anni e anni, in Francia e fuori, a cominciare dalla pianta dell'opera per passare alle singole zone: p. es. l'ouverture in 2 tempi (Adagio omofono e Allegro fugato con o senza conclusione in Adagio, ripetuto integralmente; poi legata al nome del Lulli o detta "alla francese") forma che invade rapidamente Francia e Germania (S. Kusser, G. Ph. Telemann, G. F. Händel, J. S. Bach), non senza infiltrazioni in Italia (A. Legrenzi), fino circa al mezzo Settecento (quando si rinvigorirà in diverse esplicazioni la Sinfonia ternaria già illustrata da A. Scarlatti); la forma o l'uso rappresentativo di molte danze, delle marce ecc.; la tecnica orchestrale, che veramente può essere dovuta nel senso moderno (ricchezza di strumenti, in regime, però, di intelligente disciplina: divisione a gruppi, sulla base del quintetto d'archi), anzitutto al Lulli; la figura del recitativo francese, dell'aria e arietta in rondò (con gli episodi in recitativo), dei grandi interventi corali-strumentali, innestati o no alla chaconne e ad altre danze, e così via.
Tale l'opera in cui la lucida, quanto poco passionale, intuizione del Fiorentino viene a rappresentare, trasfigurandolo quasi in ideale allegoria, il mondo spirituale del tardo Seicento francese; poco passionale, infatti, e piuttosto intellettualistico, ma sollevato ad altissimi valori storici dalla centrale esigenza della "misura", cioè del dominio esercitato dall'uomo sul proprio complesso individuale, e dunque su quel complesso che altro non è se non l'esperienza e la sintesi personale della società. Dominio della lucida volontà, creatrice di una misura, di un ordine dal soggetto imposti al mondo. E bene Luigi XIV si riconosceva nel quadro lulliano, cui egli impose, in forza di editti, egemonica corona sul teatro musicale del suo regno. L'orgogliosa maestà delle ouvertures, dei prologhi a soli cori e orchestra, il passeggiero languore amoroso delle arie e dei duetti, l'eloquenza dei recitativi (tenuti su, come s'è visto, al disopra dell'istintiva favella comune), il misurato incesso dei balletti, la solenne magnificenza delle grandi chaconnes a voci e strumenti, tutto ciò è stretto dal Lulli in ferree leggi di compensazione, e cioè in concettuale unità. La quale dal Cadmus et Hermione del 1673 alla Atys del 1676 (l'opéra du Roy) già è visibilmente accresciuta, con l'elisione delle scene comiche, e trionfa poi nell'Armide et Renaud e nell'Acis et Galathée del 1686, tragedie e pastorali (o tragédies-pastorales addirittura) d'estrema semplicità, analoga a quelle delle favole e dei drammi pastorali di T. Tasso e di quel Rinuccini che nel Quinault librettista del Lulli ha ora trovato un lontano fratello spirituale.
Così rispondeva la Francia alla Venezia di P. F. Cavalli e di A. Cesti, in questo teatro omogeneo per lucido e volontario intelletto, che costringe a coordinata misura, certo non di natura drammatica, alla Monteverdi, ma più che altro semplicemente "rappresentativa", insieme con l'arte dei versi (il Lulli comandava, non il buon Quinault) e con la musica, anche l'arte scenica.
A simile ideale di sobrietà s'indirizza nel tardo Seicento anche la neonata opera inglese, non appena dai tentativi promossi da W. D'Avenant (dal 1656) passa al geniale autore di Dido and Aeneas (1680) e di King Arthur (1691), cioè a Henry Purcell.
In questo teatro però si nota assai minore diversità di stilemi musicali, dai britannici agl'italiani, di quella ora mostratasi, in confronto con le scuole italiane, presso G. B. Lulli. L'arte italiana è sentita dal Purcell, come si vede anche nelle musiche strumentali (Sonate, ecc.), assai più fervidamente che ogni altra straniera. Quello che ci resta, delle migliori opere del Purcell dell'intera produzione teatrale giungeva a 39 tra opere, masques e altri lavori rappresentativi) ci mostra una musicalità più diffusa e più sensitiva di quella del Lulli: melodie, armonie, timbri (del resto assai ridotti, nella Didone: 2 violini, viola, basso e clavicembalo, dovendosi lavorare per un collegio femminile, con gli scarsi mezzi ivi disponibili) trasfigurano come in pallida luce misteriosa, in diafane, aeree apparizioni alla Dryden o alla Shakespeare immagini venienti d'Italia e specialmente dalla Venezia di A. Cesti. E in realtà l'esperienza italiana ha nell'animo del Purcell singolare influenza; ma in quanto la stessa musicalità inglese, fin dal Cinquecento dei polifonisti e dei virginalisti, con l'italiana doveva simpatizzare per analoghe tendenze verso il puro, limpido volo del canto e il misterioso, sommesso fremito dell'armonia. Non dunque arte di riflesso, ma, se mai, legittima riassunzione in nuova sintesi. L'opera del Purcell si distingue nondimeno dall'italiana proprio per un desiderio di sobrietà, certo altrimenti spiegabile ma analogo a quello sentito dal Lulli: la partitura del Purcell è sì varia per scene e per moti, ma i contrasti vi sono attutiti e velati, non potenziati come presso P. F. Cavalli o A. Cesti. La stessa musica "rappresentativa" dà spesso un'impressione come di "racconto", o di "storie" varianti da vetrata in vetrata. Purità di scrittura, ingenui appelli al canto popolare inglese, spesso sí mutano per più complessi impegni: il King Arthur si conclude con un'apoteosi della Gran Bretagna, ove si succedono il canto di Venere "Fairest isle", il vigoroso inno a S. Giorgio con marce e cori terminati, come nell'opera lulliana, da una grandiosa chaconne. Ma anche in tali casi l'espressione del Purcell resta aliena dal "meraviglioso" e dal gran barocco. Tutto, nella partitura, è tenuto in un regime di trasparenza e di discrezione, sì da assicurare all'opera una sua legittima figura propria nel confronto con il teatro, ben altrimenti potente, dei Veneziani o con quello, tanto più coscientemente organizzato e imperioso, del musicista di Luigi XIV. Quest'opera appare come il canto d'un gentile poeta lirico, capace di sentire anche la grandezza e l'eroismo, ma non di ritrarne autoritarî esempî di strutture teatrali. Così, mentre dal Lulli s'inizia una scuola francese che influirà persino su L. W. v. Gluck, e dai Veneziani si dipartiranno le molteplici correnti operistiche d'Italia e di Germania, in Inghilterra nulla seguirà al Purcell, se non si voglia prendere in considerazione il povero nome d'un Th. Clayton (Arsinoe regina di Cipro, in italiano e composta all'italiana [cioè musicata per esteso, non a frammenti come il King Arthur], del 1705, e Camilla regina dei Volsci, del 1706); i successori di Lulli si chiameranno Collasse, Campra, Rameau ecc., quelli dei Veneziani e dei primi Napoletani formeranno l'intera scuola napoletana-veneta del sec. XVIII da A. Scarlatti a G. Paisiello e D. Cimarosa, oltre le derivazioni tedesche. Quelli di H. Purcell saranno, invece, stranieri: G. B. Bononcini, G. F. Händel, N. Porpora, B. Galuppi, ecc., e importeranno in Inghilterra la potenza dell'arte italiana e tedesco-italianizzante.
Negli stessi tempi (verso, cioè, il 1680) alle vecchie opere di H. Schütz e di J. T. Staden, musicisti tedeschi, sotto l'influenza predominante degl'Italiani, che già invadevano Austria, Boemia, Germania tanto con le loro opere quanto con la loro personale entrata nelle cappelle e nei teatri di quelle corti e di quei comuni, cominciano a produrre nuovi lavori teatrali, quasi completamente ispirati a modelli veneziani, ma non senza infiltrazioni di stilemi lullisti (la forma dell'ouverture, l'uso delle danze ecc.). Centro di questa produzione diventa presto il teatro di Amburgo, inaugurato nel 1678 con l'Adam und Eva di J. Theile, e arricchito poi di numerose opere dello stesso Theile, di J. W. Franck, N. Strungk, J. S. Kusser, di quel R. Keiser che tra tutti questi "amburghesi" raggiunse più larga fama, e dei settecentisti, per i quali però quel teatro non rappresenta già più un centro necessario. Più che a J. Mattheson, alludiamo qui a G. F. Händel e a G. Ph. Telemann.
La scuola di Amburgo, iniziata con opere di un buon maestro, il contrappuntista J. Theile, non sa però trovare una solidità di realizzazioni operistiche sufficiente a formare una vera e forte discendenza: le esperienze veneziane (e lulliste) non sono superate in una nuova sintesi; il Keiser stesso dovette la sua relativa fortuna più a circostanze generali d'ambiente che non a propria consistenza di operista, ché anzi la stessa partitura è in sé stessa non soltanto scarsamente organica, ma anche viziata d'incertezze e di vuoti nella scrittura delle singole pagine. Al Keiser fanno difetto tanto la netta visione dell'equilibrio generale, ragione dell'arte lulliana, quanto la potenza lirica della musica veneziana di cui egli pur tenta le vistose improvvisazioni ad affresco. L'opera di Amburgo, nata da speranze e ambizioni che ora noi possiamo giudicare antistoriche, era arte di riflesso, neppure legittimata da una nazionale maturità di concetti drammatico-musicali; al cadere delle circostanze, quasi tutte locali, che ne avevano consentito e incoraggiato praticamente la comparsa e l'esistenza, il teatro musicale di Amburgo si chiuderà, seguito da altri teatri con esso in simpatia, dopo appena 50 anni dalla sua apertura, lasciando libero il campo all'opera italiana autentica.
Così nell'ultimo Seicento alle proposte italiane cominciano a rispondere Francia, Inghilterra e Germania. Dall'unitario dramma monteverdiano abbiamo visto svolgersi esplicazioni operistiche variamente limitate. Il misurato equilibrio di G. B. Lulli riesce a valori più specialmente rappresentativi, mentre i valori lirici del pezzo chiuso, dal Cesti già potenziati, intervengono con discrezione presso l'italianizzante H. Purcell e invano sono tentati dagli incerti Amburghesi. La maggiore forza storica s'è veduta, tra queste nuove emersioni nazionali, nell'opera francese, più consistente e, insieme, più nettamente caratterizzata di fronte all'italiana. Il grande Barocco veneziano trova a Versailles un reagente: la disciplina, che quanti barocchi stilemi riprenda, nel tempo stesso li stilizza in un ordine di chiara semplicità formale.
Semplicità che a chi guardi poco attentamente potrebbe apparire come determinante la prossima semplicità dell'opera napoletana. In realtà simile azione essa non ebbe, quantunque non si possa negligere la crescente influenza della cultura francese nell'Italia settecentesca, e quindi anche dell'esperienza lulliana si debba tenere un certo conto, insieme con le altre esperienze del tempo. La deviazione, intanto, dal libretto di I. Martelli, F. Silvani, M. Noris, S. Stampiglia, P. Pariati, ecc., incoerente quanto pittoresca e movimentata congerie di figure, mutazioni, "meraviglie" dal genio di un Cavalli e d'un Cesti sollevata a inebriato giuoco di fantasie eroiche, al libretto "serio" di A. Zeno e di P. Metastasio, piuttosto freddamente ragionato in classicheggiante, solenne stilizzazione, non può escludere dal complesso delle sue premesse, pur altrove centrato, la premessa di quella esperienza francese. E certo il libretto non è privo di importanza nel mondo del compositore. Soltanto, se il nuovo libretto avesse avuto sufficiente efficacia emotiva sul compositore, agendo in quest'animo proprio nel senso delle sue "novità" e cioè specialmente della coerenza nell'azione, maestri della levatura d'un Alessandro Scarlatti o di un G. B. Pergolesi ne avrebbero tratto un teatro non meno consistente del lulliano. Mentre in pratica né l'uno né l'altro, né i numerosi loro contemporanei e continuatori, ci hanno lasciato una sola opera seria accettabile nella sua integrità, ma soltanto felici, spesso mirabili pagine isolate. Per trovare opera veramente coerente, quale s'era data per sintassi drammatica presso C. Monteverdi, per intelligente disciplina rappresentativa presso G. B. Lulli, dovremmo uscire dall'opera seria e rifugiarci nella comica, o attendere C. W. v. Gluck.
Ma se si guardi un po' più addentro, vediamo che quel mondo eroico (in cui gli stessi affetti e le stesse azioni sono misurati secondo la statura dei numi e degli altri personaggi mitici) che avevano ancor sentito librettista, compositore, interprete, scenografo e pubblico del grande Barocco e che ancora potevano giovare nelle allegorie di Versailles, ora, nel Settecento, non sa più interessare alcuno. Ci si era inebriati nelle luminose, policrome fantasie degli affreschi veneziani, s'era elevato a Versailles il palazzo musicale del Re Sole, inseguendo quasi la propria ombra dalla terra alle nuvole. Versi, scene, musiche fremono e anelano, a Venezia, senza posa sviscerati e sconvolti come in incandescenza. E si giunge, così, alla sovrasaturazione di questo divampante fluido barocco. S'è visto tutto e più che tutto. Il teatro che se ne sta ancora, nel Settecento, attaccato alle abituali comparse dei numi e degli eroi, con Apostolo Zeno pretende di muover queste figure, a ben altro mondo avvezze, secondo vicende razionalmente sensate. Prefazioni e dichiarazioni normative ne propongono i movimenti più raccomandabili. Si fa discendere Astolfo dalla luna e gli si insegna a camminare tra noi. Ma il fatto si è che noi stessi non siamo più Astolfo, e ci guardiamo l'un l'altro con occhio nuovamente attento e indagatore. Le nostre aspirazioni e i nostri sogni sono ora ben chiaramente intesi a questa nostra vita terrena. Dall'antico intermedio, dalla vicina scena grottesca qua e là rompente le vicende eroiche (dall'Incoronazione fino al giovane Scarlatti) si sviluppa ormai prepotente, per psicologica, storica legittimità, il quadro dell'intermezzo e dell'opera buffa, esplicita rappresentazione di questa vita terrena; e realmente i valori agogici, il giuoco dei rapporti tra uomo e uomo e tra momento e momento lasciano l'opera seria (che intanto esclude già intenzionalmente [A. Zeno] ogni contrasto dal tragico al giocoso) e si riducono nella trepida sensibilità canora dei "buffi" napoletani e nel vivido ritmo, intimamente strumentale, dei Veneziani.
Così, esclusi i contrasti tra zone auliche e zone popolaresche, certo il teatro può mostrarsi più coerente, e realmente svolgersi sopra un solo piano, cioè in una semplicità fenomenica. La quale non è quella dell'opera lulliana (che tra l'altro non aveva affatto preteso, dapprima, tale esclusione), ma comunque esiste, ed esprime un'esigenza caratteristica del Settecento che dal Barocco passa al Rococò.
Ma è lo stesso spirito del nuovo tempo che non comprende più il mito e le passioni eroiche. Più artisti e più raffinati nel loro intimo, i compositori sono di questo nuovo spirito esponenti migliori che i librettisti, si chiamino poi questi ultimi Zeno o Metastasio. Già nell'opera seria del maggiore "napoletano": Alessandro Scarlatti, del libretto non si riassume liricamente la vicenda, per quanto il grande maestro si occupi, con il migliore impegno, anche delle zone d'azione, ma quasi soltanto i momenti autonomi. Fino dalla prima sua opera seria (il Pompeo del 1684, posteriore di 5 anni alla prima delle buffe [per l'opera buffa è dunque inutile, come alcuni hanno voluto, attendere i lavori di T. Mauro dati nel 1709-10]: Gli equivoci nel sembiante, del 1679) egli cerca, si direbbe quasi ansiosamente, movimenti atti a soccorrere la coesione musicale. Gli stessi epigoni veneziani: G. Legrenzi, A. Lotti, A. Caldara collaborano in vario modo a questi sforzi, e il migliore risultato sarà, presso il Legrenzi, l'emersione di sensi stilistici d'indole strumentale, extra-rappresentativa nell'intimo o anche nello stesso scopo, presso il Lotti un'evasione nelle strutture chiesastiche, nel Caldara la pratica di stilemi analoghi agli scarlattiani. Vediamo così nel corso della produzione italiana, ora diretto da Napoli, l'affermazione più larga di stilemi come il recitativo "secco", sorta di recitazione abbastanza libera nei movimenti, istradata attraverso un formulistico itinerario tonale (spesso di 4ª in 4ª) da sommarî accenni accordici sul solo clavicembalo; come, nelle scene d'azione più importanti, il recitativo "accompagnato", più sintattico e intenzionalmente commentato, oltre che sostenuto, non soltanto dal clavicembalo, ma dall'orchestra (basata sugli archi, ma senza esclusione di fiati, tra i quali Scarlatti introduce i corni, e notata non solo a soprano e basso ma anche nelle parti mediane), come la riunione di varî pezzi in un complesso finale d'atto, e via dicendo. Gli scarlattiani d'Italia, di Germania e di Spagna: N. Fago, F. Feo, G. F. Händel, L. Vinci, L. Leo, N. Porpora, J. A. Hasse, G. B. Pergolesi, D. Perez, D. Terradellas, e gli altri del primo Settecento si dànno anch'essi da fare, chi più chi meno, in tal senso. Che più? Lo stesso Metastasio, ben poco illuso dalla pretesa organicità d'azione dei suoi libretti, si pone accanto ai suoi musicisti esortandoli a siffatte cure. Alcuni dei suoi consigli, anzi, hanno potuto, in studî moderni (cfr. R. Rolland, Métastase précurseur de Gluck, ried. in Voyage musical au pays du passé, Parigi 1919), apparire come segni di grande consapevolezza del problema drammatico-musicale.
Ma il difetto di tutti questi autori, sia dei librettisti, sia dei maestri, è denunziato proprio da questo loro atteggiamento di fronte all'esigenza della coesione tra pagina e pagina. Il librettista ha quest'esigenza come dominante, né d'altra parte ha polso da assicurarla in artistica concretezza; egli non sa che illustrarne la necessità, o a sé stesso o al compositore. Ed ecco che vien fuori come problema quel che mai si potrà risolvere se non per interiore e irresistibile impulso lirico, che tutto veda, nella favola, come esplicazione d'un centrale fuoco drammatico. Così assistiamo ad una formalmente interessante fioritura di pagine intenzionalmente agogiche, dal secco all'accompagnato (Händel, Vinci, Hasse), dall'interludio al gran finale, che in realtà lirica non menano a nulla, perché non sono anch'esse nate dalla stessa intuizione onde nasce, a loro vicina, ma artisticamente trascendente, la pura melodia dell'Aria. Si compongono quelle pagine con impegno e non senza desiderio sincero d'espressione, l'una dopo l'altra, finché si giunga al respiro: fuori d'ogni problema, d'ogni "impegno" cerebrale, appena l'"azione" ceda all'estasi, al sogno d'amore o di guerra, si vede finalmente apparire quello che all'uomo del tempo veramente importa. Il teatro serio del Settecento era già vecchio e tedioso per chiunque, con i suoi eroi e i suoi risaputi e lenti intrecci. Vivente allora e per sempre è la ghirlanda delle sue Arie, che di eroi, di elmi, di miti e di storie nulla sanno né fanno sapere, ma che esprimono sogni ed affetti dell'uomo vero. La quale Aria è definita qui nell'opera di A. Scarlatti e dei seguaci secondo la sua funzione, che è riflessiva, autonoma compiutamente: la forma, non ora iniziata, ma illustrata in esempî non perituri, è la ternaria (A-B-A′), detta Aria col "da capo", che, qualunque sia la struttura della strofa poetica e i nessi concettuali tra questa e il contesto, stringe la linea melodica in una simmetria interamente compiuta e saldamente chiusa. Così lo stilema nel quale l'opera seria della scuola scarlattiana ha dato i suoi più alti, anzi i soli veramente alti valori è proprio il tipo più categorico del "pezzo chiuso", autonomo e trascendente da ogni contesto, sì che ben possiamo intender quell'opera come intesa, più che a valori rappresentativi, a valori concertistici.
Ed è noto, infatti, che a teatro i cavalieri e le dame si recavano come a un grande concerto, prestando la loro attenzione soltanto alle Arie e, già meno, alle ariette (quelle affidate alle seconde parti: comprimarî ecc., e che anche si dicevano arie da sorbetto, i nobili uditori scegliendo quel momento per ritirarsi in fondo al palco per sorbire il gelato). Quivi una non trascurabile coefficienza dell'ipertrofia del canto, il quale, assumendo su di sé la capitale responsabilità del trattenimento, viene a favorire, se non a richiedere, un maggiore sfoggio di valori proprî, e cioè, nel periodo del cosiddetto Bel canto (di cui già vedemmo gli inizî nella scuola bolognese di F. A. Pistocchi, che ora A. M. Bernacchi continua, e cui da Napoli contribuisce la didattica di F. Feo e di N. Porpora), un volo dell'arte vocale dal rilievo dell'espressione melodica allo splendore, indipendente dalla singola melodia e quindi fatalmente avviato a fredda formula, di un decorativo virtuosismo. Se il teatro del Seicento è apparso a qualcuno come dominato dal maestro di scena, così questo dell'opera seria napoletana potrebbe apparire come dominato dal virtuoso. Il che sarebbe del resto poco esatto, se si pensa che il virtuosismo dei più incensati cantanti non poté impedire la fioritura di melodie di mirabile purità e intensità espressiva, nuclei vitali di quell'opera.
Come si vede, l'esempio lulliano non può esser considerato molto efficace riguardo alla nostra opera seria, la quale si svolge abbastanza direttamente da premesse quasi unicamente venete e romane (Cavalli, L. Rossi, Cesti, ecc.) sia pure reagendo contro di esse secondo quell'esigenza di semplicità che intanto spartisce la produzione teatrale in due correnti parallele: seria e buffa. Ed è vero anche il reciproco: l'opera seria italiana sa diffondersi specialmente nei paesi già prima conquistati alla nostra particolare musicalità, teatrale o no: in Inghilterra, cioè, e in Spagna e nelle terre tedesche, cui ancora manca, come mancava ad Amburgo, una matura coscienza operistica. In Francia, invece, i lullisti e lo stesso J. Ph. Rameau riescono a migliore resistenza, nonostante l'aridità di sensi mostrata dal grande loico e cartesiano Rameau nella musica drammatica. La forza e la maturità della coscienza musicale francese trovano in Rameau uno sviluppo di pensiero sinfonico (beninteso: vocale e strumentale) sufficiente a compensare le deficienze d'ordine rappresentativo, compreso quel recitativo di tradizione lulliana che ora dà in fredde prolissità, e quell'ipertrofica omamentazione che sembra sostituire addirittura alla sintassi della melodia un'altra assai meno pronta ed espressiva. Così che la Francia serba anche ora, di fronte all'invasione italiana dell'Europa, un suo proprio sentiero, in cui entrerà poi, conquistatore ma anche assimilatore, il tedesco-italiano Gluck.
La Francia non sa resistere, invece, di fronte all'arte "buffa" dell'intermezzo e dell'opera, rapidamente sollevata, a Napoli e a Venezia, a valori estetici non perituri. Se si confronta 1a continuità lirica raggiunta nell'opera buffa dagli stessi frammentisti della "seria" si resta a tutta prima stupiti, mentre la ragione ne appare chiara quando si ricordi lo scarso interessamento meritato dai vieti numi ed eroi e dalle loro convenzionali "azioni" di scena in scena, di fronte alla libera vivacità di moti e d'effetti che dalla prima all'ultima pagina dell'opera buffa corre senza tregua come nella nostra vita quotidiana.
S'è accennato al cammino di questo "genere" buffo, mostrandone le origini, quasi per gemmazione, dagl'intermedî e dalle scene grottesche e "volgari" già proprie dell'opera romana e veneziana. A Roma del resto l'elemento comico era già nel primo Seicento abbastanza sviluppato per sostenere gran parte dello spettacolo, tanto da conferire a questo il carattere di commedia. Si rammenterà la comica Tancia di I. Melani, con la quale nel 1656 s'era inaugurato il teatro fiorentino della Pergola. E la via continua attraverso F. Provenzale e A. Stradella giungendo ad A. Scarlatti che inizia la sua produzione teatrale con un'azione buffa: Gli equivoci nel sembiante, del 1679; e sua è, anzi, la prima opera buffa di cui si conservi la musica: Il trionfo dell'onore, del 1718. Se l'austero genio dello Scarlatti meglio si manifestò in singole scene d'opere serie, per es., nel Mitridate Eupatore del 1707, già N. Logroscino, il veneziano G. B. Galuppi (che gode della preziosa collaborazione di Carlo Goldoni), G. B. Pergolesi, Rinaldo da Capua giungono ai loro capolavori, dall'intermezzo tra atto e atto di serie allo spettacolo buffo autonomo, proprio in queste rapide e nervose partiture da burletta (come erano anche chiamate, in principio, le brevi rappresentazioni musicali giocose, spesso su libretti dialettali e allestite alla buona in baracche e teatrini d'occasione). Quando nessuno più pensa all'Olimpiade (il capolavoro "serio" di G. B. Pergolesi), tutti conoscono ancora il leggiero scherzo de La serva padrona del medesimo autore. Se negli escorsi grotteschi del Seicento veneto si potrebbe riconoscere la figura della Commedia dell'arte (non esclusa l'improvvisazione), qui si sente uno spirito di osservazione e di comprensione, di simpatia verso i caratteri, gli ambienti, le ingenuità della vita privata borghese o popolaresca, che ci avverte dei nuovi tempi, quelli appunto, dell'amico di B. Galuppi, l'autore della Locandiera, cui si deve del resto gran numero di libretti per la musica del Galuppi stesso, di D. Fischietti, di N. Piccinni, ecc. La contrapposizione Metastasio-Goldoni già di per sé può chiarire il rapporto tra opera seria e opera buffa: all'accademia si contrappone la strada, la famiglia. Come nel teatro di Goldoni, anche nell'intermezzo o nell'opera buffa ricompaiono talvolta le maschere, o esplicitamente con i loro costumi e i loro attributi tradizionali, o implicitamente, il personaggio comportandosi secondo il carattere che in una data maschera aveva trovato il suo tipo. Ma in ambedue i casi, sempre appariva in scena una figura reale, di cui ci si poteva interessare come d'un amico o d'un conoscente, ben riconoscibile attraverso la caricatura, densa di vis comica, propria della maschera o del personaggio del teatro giocoso. L'estro del musicista quindi se ne interessa, ne fa proprio motivo, l'insegue di scena in scena, correndo per l'intera partitura nel nervoso ritmo della dialettica strumentale (Galuppi), o spesso girando intorno ad essa e leggendole nell'animo la ragione dei sorrisi e dei sospiri: lirica trepidazione canora, di indicibile verità espressiva pur nella più pudica, sottile voluta melodica (Pergolesi). E le forme struttive, dietro siffatto impulso, si volgono a maggiore continuità. L'Aria vi si adegua in varietà di movimenti, uscendo dalla formula rigorosa e da quegli argini che la contrappongono, nell'opera seria, al contesto. Cede, del resto, per forza logica, alla più leggiera e mobile Arietta, non lontana dall'antica "canzonetta" monteverdiana né dalla moderna. Le zone liricamente prive d'importanza sono volentieri, senza tanti problemi, lasciate in disparte, non prolungate per prolissi recitativi secchi o accompagnati; i quali, se intervengono, si limitano in argini ristretti, mentre altre volte sono sostituiti, come avverrà poi nell'Opéra-comique francese, nel Singspiel tedesco e nell'operetta moderna, dal comune parlato. L'opera intanto tiene ferma, anche esplicitamente, la sua generale struttura tra i pilastri della sinfonia iniziale (sviluppata però specialmente nel secondo Settecento, ove prenderà la forma odierna: allegro di sonata senza ritornello, preceduto da lenta introduzione e sostituente di solito allo sviluppo un raccordo modulante o una parentesi melodica su propria idea) e del "finale", che nel genere buffo ha più frequenza e più importanza; finale costruito in più numeri (nel teatro napoletano settecentesco e nei derivati i singoli pezzi si distinguono nettamente l'un dall'altro e sono segnati da numeri cardinali) di diversa mole e struttura interna: aria o arietta, duetto, concertato, ecc., collegati o no da recitativi.
Nel mezzo di tale sviluppo, il teatro buffo, già virtualmente opera ma non del tutto svincolato dai limiti dell'intermezzo in 2 atti e 2 0 3 personaggi, appare subitamente in Francia, importatovi da compagnie italiane. Scarsa era la resistenza che quivi l'influenza italiana poteva trovare: se l'opera seria, aulica, e l'opera-balletto da G. B. Lulli erano passate a musicisti abbastanza forti o saturi di senso etnico per formare via via una solida scuola nazionale, dai primì lullisti: P. Colasse, A. Campra, A. C. Destouches, fino al Rameau, d'opera buffa poco o nulla s'era dato, i varî spettacoli d'indole meno lontana dovendosi rintracciare in produzioni miste: presso la Comédie italienne, inaugurata a Parigi circa il 1660, presso diversi teatri d'indirizzo poco artistico: i cosiddetti Théâtres de la Foire che dal 1714 adottano per le loro serate l'attributo di opéras comiques e nel seno dell'opéra-ballet bouffon, poco caratterizzato come "genere", di cui un esempio celebre diede lo stesso Rameau nella sua Platée del 1745.
La prima compagnia di buffisti (poi "buffonisti" dal nome di bouffons dato alla terza di tali compagnie) esordisce in Francia nel 1729 con intermezzi, tra i quali Serpilla e Baiocco ovvero il marito giuocatore e la moglie bacchettona con musica di G. Orlandini; la seconda nel 1746 con La serva padrona di G. B. Pergolesi, ma ambedue queste compagnie non riuscirono a destare sufficiente interessamento, benché nella prima di esse si trovasse il celebre Senesino, virtuoso di gran fama. Ma la terza, quella che giunse a Parigi nel 1752, vede la stessa Serva padrona accolta con singolare entusiasmo da parte non soltanto del gran pubblico, ma anche dei musicisti e dei maggiorenti della cultura francese. Ormai si manifestava, in Francia, un desiderio, analogo all'italiano, di evasione fuori della pomposa accademia dell'opera seria, cui il genio essenzialmente sinfonico del grande Rameau non poteva dare sostanze rinnovatrici, ma soltanto rassodare la consistenza musicale. Nelle piccole scènes italiennes en musique, per servirci della denominazione data dai Francesi agl'intermezzi dei buffonisti, la cultura francese, già rinnovata meglio che non fosse la prassi degli operisti, vede la via verso la liberazione. J.-J. Rousseau, M. von Grimm, D'Alembert, Diderot, per non citare che i maggiori esponenti del pensiero francese del tempo, impegnano focose quanto serrate discussioni sui valori estetici della scuola Lulli-Rameau in confronto con quelli presentati dai buffonisti, e la disputa trascende i cenacoli: il pubblico si divide in due fazioni (du coin du roi e du coin de la reine) e i critici non solo, ma gli stessi maestri si gettano nella cosiddetta Querelle des bouffons. La vittoria, non solo quanto alle sorti delle tesi verbali e scritte, ma proprio quanto al risultato pratico delle ulteriori vicende operistiche, è conquistata dagl'italianisants, condotti da quel Rousseau che subito celebra il suo retour à la Nature e in manifesti (la citata Lettre sur la musique franåaise, Parigi 1753) e in lavori teatrali (Le devin du village, scritta nel 1752 sotto l'influsso pergolesiano e rappresentata, con gran plauso, nel 1753). Il vecchio Rameau è trattato da nemico, egli che pure ammirava il Pergolesi (ed era stato, negli anni d'ascesa, accusato d'italianismo) e che già da tempo esortava a guardare alla natura. Gli enciclopedisti, specie il Rousseau e il Grimm, sogghignano di questo suo tendere alla natura per vie ch'essi dicono antinaturali (le varie arti dell'armonia e del contrappunto) a un dipresso come gli umanisti della Camerata fiorentina schernivano la "gotica" e "barbara" e polifonia per onorare un'arte imitante il naturale linguaggio di tutti.
In ogni modo, da qualunque parte stessero le migliori argomentazioni, certo è che il teatro musicale del Settecento era entrato, con la Querelle des bouffons, in una crisi d'ordine assai più generale. I veri motivi della contesa parigina tra italianizzanti e nazionalisti sono, se si consideri quanto sinora abbiamo veduto, gli stessi che generano la divergenza tra opera buffa e opera seria nel seno della stessa scuola italiana e in tutta l'Europa; essi provengono, infatti, dal medesimo desiderio di liberazione dell'arte dall'accademia. L'intermezzo pergolesiano, che sconfigge la pomposa opera di J.-Ph. Rameau, altro non è che l'opera buffa, rappresentante la vita, che sconfigge la retorica della "seria", francese o italiana ch'essa sia. Ché le due manifestazioni non sono sullo stesso piano, in parità di diritti, e il dualismo è soltanto apparente: in realtà, l'opera del sec. XVIII prima di Gluck non è, virtualmente, altra che la buffa, che col suo rinnovato confronto finisce per chiarire agli occhi anche più sbadati tutta l'inanità drammatica della "seria". A questo punto l'evidenza della crisi, che si risolverà appunto con l'Orfeo del 1762, lasciando vivere e anzi quasi potenziando per dialettiche vie l'opera buffa, che con la sensiblerie tardo-settecentesca, in tutta Europa s'orienterà, seguendo le sorti della commedia in prosa, verso il semi-serio o comico-sentimentale (già dalla Cecchina [alias goldoniana Buona figliuola] rimusicata nel 1760 da N. Piccinni), ma dissolverà gli ultimi crediti dell'opera seria metastasiana.
La quale intanto giungeva, in questo periodo dal 1740 al '60, alla sua fase di massimo sforzo e insieme di massima incertezza e ambiguità. Sotto le incessanti accuse e irrisioni che da ogni parte continuano a venirle tanto in Italia (da B. Marcello: Il teatro alla moda, ossia metodo sicuro e facile per ben comporre ed eseguire le opere italiane in musica, Venezia 1720?, a F. Algarotti, Saggio sopra l'opera in musica, Livorno 1755) quanto in Germania (fin dal vecchio J. Kuhnau, Der musikalische Quacksalber, del 1700 [rivolto però specialmente contro i virtuosi italiani] ai francesizzanti e insieme nazionalisti J. Mattheson e G. Ph. Telemann) e in Francia, la prassi "seria" degli operisti italiani e italianizzanti corre sempre più ansiosamente ai ripari. Maestri come J. A. Hasse, N. Jommelli, T. Traetta, ovunque essi vadano imponendo l'opera metastasiana, si sforzano nel tempo stesso di emendarne il carattere concertistico, aumentandone il rappresentativo, sia per proprio loro desiderio sia per questo e insieme per assimilate tendenze locali, per accetti consigli dello stesso poeta cesareo (Jommelli diceva, con frase cacciniana, avere imparato più dal Metastasio che dai vecchi suoi maestri). Si nota così nella partitura seria di questo tempo un grande sviluppo musicale nei passi d'azione. Questi maestri potrebbero esser detti, in ragione di tale sviluppo, i maestri del recitativo accompagnato, nel quale stilema essi raggiungono talvolta effetti decorosi, come del resto tali effetti avevano già raggiunto A. Caldara, G. F. Händel, L. Vinci, L. Leo, cioè i primi scarlattiani. Soltanto, il recitativo-accompagnato del Hasse e dello Jommelli, denso di sostanze musicali, vale più per sé che non valga per la comprensione dell'unità drammatica; esso vorrebbe giungere - cioè - allo stesso piano del solito pezzo chiuso, se pur non si squadri sempre in rigorosa simmetria e anzi mostri una certa tendenza all'arioso di origine secentesca. E non diversa sorte vi hanno gli altri stilemi usati nelle partiture di quei maestri, irrimediabilmente antologiche o, tutt'al più, dotate di continuità esteriore: d'effetti, non d'affetti; e non avranno torto i Napoletani quando allo Jommelli reduce dalla Sassonia faranno non un merito, ma una colpa l'avere egli tanto sviluppato il commento strumentale, che in rapporto con la natura della sua melodia si svelava intimamente estraneo e quindi retorico: un appesantimento atto a confondere, non a rinforzare l'espressione. Lo Jommelli, come il futuro Piccinni "gluckiano" (quello, cioè, dell'Iphigénie en Tauride del 1781), è un incerto, assillato da preoccupazioni eterogenee, e in sé rispecchia la posizione, analogamente incerta, di tutta quella musica tendenzialmente "pura" che si sforza d'attaccarsi a intellettualistiche intenzioni drammatiche. E quest'incertezza, assai più grave di quella d'uno Scarlatti e d'un Händel (musicisti di genio e quindi incapaci di ascoltare più che tanto le ciarle dei teorici e dei letterati), nel confronto con il felice slancio della pur coeva opera "buffa" ci mostra la legittimità storica dello sfacelo metastasiano, non appena una nuova energia, veramente drammatica, compaia sulle soglie di quel teatro.
Tale il quadro dell'opera a mezzo Settecento, risultante da un teatro saturo di stanche tradizioni auliche (Metastasio e Rameau) incapace di esprimere dal suo seno vive persone e vera vita d'eroi, che alle diverse istanze d'un pensiero nuovo (F. Algarotti e gli enciclopedisti) può soltanto rispondere con il sorriso o il sensuale languore del vivo ma ristretto mondo borghese o con i lazzi delle maschere popolari. La profonda e complessa vita eroica ha da tempo lasciato quel teatro e si è travagliata nella musica strumentale di G. Legrenzi, di A. Vivaldi, di J.-Ph. Rameau, dei Tedeschi, nella chiesastica di A. Lotti e di F. Durante, nell'oratorio di Händel, nella cantata di Bach. L'ingenua fede nei proprî intimi affetti sta riducendosi nel canto popolare, e specialmente nel tedesco Volkslied, fervido e insieme severo come il vecchio e ancora influente corale luterano.
E in questo momento, cioè verso la metà del sec. XVIII, cominciano a mostrarsi i segni del rinnovamento, in alcune opere pur "metastasiane" di quell'ancor giovane Gluck che, venuto dalle strade maestre di Germania e di Boemia, di fronte all'altero teatro aulico si presenta appunto con vergine energia di uomo rude e nuovo. In Italia C. W. Gluck si trovava già da tempo, e anzi a Milano, con G. B. Sammartini, aveva compiuto gli studî già iniziati a Praga con l'italianizzante B. Černohorský (il "Padre boemo" maestro di G. Tartini), e per teatri milanesi, veneziani, torinesi, ecc., aveva già composto opere applaudite, dall'Artaserse del '41 alla Semiramide del '48. Da quel che di tali opere ci è giunto possiamo notare l'adesione del giovane Gluck alle forme italiane. In tale accettazione di forme tradizionali egli procede fiducioso per molto tempo. Ma nella sua melodia all'italiana (come del resto nel futuro suo recitativo alla francese) qualche singolarità di sensi o anche d'espliciti atteggiamenti sintattici ci ricorda l'ex-violinista girovago, venuto al nostro teatro dalle lontane terre del Volkslied. Benché egli sia molto più atto di un Kuhnau o di un Telemann a comprendere le virtù estetiche del canto italiano (tanto da assimilarne le stilistiche), la sua riassunzione di questo canto si caratterizza per una maggiore semplicità di contorni e di sintassi: non vi si sente - come presso i metastasiani - una meravigliosa evasione nel regno dei sogni, né - tanto meno - una gentile fioritura di raffinato gusto decorativo, ma piuttosto una totale dedizione, casta e insieme appassionata, dell'io individuale. Il personaggio, altrove semplice maschera di virtuoso cui s'affidano liriche che lo trascendono, qui diventa persona viva in lotta con un mondo cui continuamente appartiene. E la stessa lotta, la stessa vicenda della favola, con le sue zone d'azione, vi è così chiamata anch'essa a coerenza; che qui non è più d'ordine razionale ma propriamente affettiva: essa deve nascere e agire nello spirito del personaggio.
Il che nel Gluck delle prime opere, ancora rispettoso dall'autoritario teatro metastasiano, non riesce a chiarirsi in lucida consapevolezza. Il compositore, anzi, non si rifiuta, nel suo disgraziato soggiorno londinese del'45-'46, alla pratica - invalsa in quel tempo - del "pasticcio" (centone su brani d'opere diverse) e soltanto in seguito alla poco buona accoglienza ricevuta da simili lavori (Artamene, La caduta dei giganti) comincia a meditare seriamente sull'estetica del teatro musicale.
Verso il 1750 si manifestano i segni della feconda crisi determinata dal dissidio insorgente ormai tra la pianta dell'opera ufficiale, rigorosamente prefissa di zona in zona, e gli sviluppi dei valori drammatici posti dal Gluck nel dato personaggio e nel dato momento: sviluppi, dunque, che comportano assoluta indipendenza della singola opera da ogni schema comune.
Nell'Ezio (1750) e nel Telemacco (sic), probabilmente composto nello stesso anno, si nota subito questo nuovo sforzo verso l'organicità del quadro drammatico musicale. Il Gluck sospinge ormai arditamente i varî blocchi della composizione verso l'unità, riuscendovi già meglio di quel che non abbia fatto il grande Händel e quel N. Jommelli pur di lui più ricco ed esperto musicista. La forza novatrice del Gluck non si nota tanto nella novità delle forme quanto nell'uso che di esse viene fatto. La disposizione di più quadri o scene in grandi blocchi cementati da vincoli tonali e formali (riprese periodiche di elementi-base, corali o altro) è costume händeliano; il recitativo accompagnato è in uso presso molti metastasiani, da L. Vinci allo stesso Händel, da J. A. Hasse a N. Jommelli, il quale ultimo inoltre non ha della scrittura armonica e strumentale minor cura che non abbia il Gluck. Nuovo vi è, piuttosto, il tono strettamente lirico (escludente cioè ogni stilizzazione), che mostra esse forme come in reciproca funzione affettiva.
E quivi si giunge a maturazione. Il Gluck non è più l'ingenuo ammiratore del teatro ufficiale: tante esperienze d'umanità e nella pratica e nell'arte sono in lui entrate ed elaborate: l'opera francese del Lulli e del Rameau, l'intermezzo e l'opera buffa italiana, il rigoglio del dialogismo strumentale d'Italia e di Germania, con i loro esempî di declamazione stretta ai concetti verbali, o di nervosa continuità musicale-rappresentativa o semplicemente sinfonica.
Chiaramente egli ora avverte le inconguenze e le dispersioni extraliriche del teatro ufficiale, e in questo avvertirle egli già supera il momento metastasiano, quando ancora il mondo intellettuale al Metastasio vuol far credito, sia pure chiedendo di tanto in tanto qualche riforma esteriore. Nella crisi gluckiana agiscono sensi che nelle altre arti e nella filosofia non avranno espansione che più tardi. Questo profondo lirico, questo individualista che tutto fa nascere dal cuore e tutto nel cuore riconduce, si trova ora in urto con minuziose norme retoriche di cui egli già intende - prima e meglio di quel Rousseau cui pur vorrà protestarsi discepolo - la vuota astrattezza. Di fronte alle varie figure del razionalismo (dal Metastasio al Rameau) il suo fervido sentimento sembra già scagliarsi come si scaglieranno gli Stürmer und Dränger, ma, nel tempo stesso che lo Sturm und Drang, egli annunzia di già la sintesi in cui quel movimento sarà dialettizzato presso un Herder: quando il suo individualismo si libera dalle impersonali matrici metastasiane (taglio dei varî pezzi e loro successione preordinata [p. es. un coro, poi un dialogo, poi un recitativo-aria e così via], proporzioni numeriche tra i personaggi da far cantare da soprani, da bassi, ecc.), esso s'avvia nel tempo stesso non già a posizioni espressionistiche quali prenderà lo Sturm und Drang letterario dei Wagner e dei Lenz: l'individualismo gluckiano - già l'abbiamo visto alle prime prove - è spinto dal suo carattere eminentemente dialettico, drammatico, al proprio più ferreo potenziamento di fronte al mondo; esso si sente, di questo vario mondo, come unitaria ragione, e quivi tende a comprendersi e a rafforzarsi in un nuovo, sempre nuovo, ma sempre legittimo "ordine". Nel combattere per i valori dell'espressione contro l'astratto formalismo il Gluck giunge alla soppressione delle incongruenze e delle discontinuità che da quel regime erano consentite, e cioè alla riorganizzazione dell'opera in coerente dialettica d'affetti: in vero e proprio dramma.
La crisi si risolve, infatti, nella felice creazione drammatica dell'Orfeo (Vienna 1762), data dal genio del Gluck nel regime di totalità affettiva del libretto calzabigiano. Oziosa la questione della priorità tra i due collaboratori riguardo alla poetica dell'opera: questa poetica è sì poco caratterizzata e sì poco nuova da apparire piuttosto come un vago riflesso di quell'unica realtà che è il discorso drammatico dell'Orfeo e dell'Alceste. I suoi criterî generali, esposti nella prefazione a questa seconda opera della "riforma" (1767), si riducono infatti a questi: rispondenza della sinfonia all'argomento del dramma (il che s'era già visto presso il Rameau), adesione della musica alla poesia (intento comune a tutti gli operisti, quantunque realizzato - fuor dell'opera buffa - soltanto di rado: presso la Camerata, Monteverdi, Lulli e talvolta Rameau), concorso dell'orchestra all'espressione (cfr. l'Orfeo del 1607 e poi, nei limiti dell'aria e specialmente del recitativo-accompagnato, la stessa scuola di A. Scarlatti e dai "buffi"), semplicità anti-virtuosistica nella scrittura e nell'interpretazione (cfr. la Camerata, e - nello stesso Settecento - i "buffi", oltre le analoghe esortazioni dei critici: p. es. di un B. Marcello). Come si vede, siamo in un regime ben poco interessante, quanto alla teoria. Se però ripensiamo queste dichiarazioni dopo la lettura delle varie opere gluckiane dall'Orfeo all'Iphigénie en Tauride, ci avvediamo del loro vero senso. Intanto tali criterî, fino allora visibili singolarmente presso diversi compositori, qui concordano l'un con l'altro in unitaria organizzazione. Inoltre noi vediamo che ognuno di essi criterî risponde qui a una realtà artistica ben più poderosa. La sinfonia diventa così, nell'Intrada dell'Alceste, un elemento di stretta necessità drammatica, lungi dal carattere piuttosto decorativo delle ouvertures descrittive d'un Colasse e dall'effettivo risultato cui giungono - nonostante ogni "programma" autonomo - quelle d'un Rameau. Nell'Intrada gluckiana iniziamo per così dire la discesa entro noi stessi, cioè nello stesso cerchio lirico in cui si svolgerà l'azione. Ed eguali caratteri di fondamentale unità lirica tra sinfonia e azione vediamo nell'ouverture dell'Iphigénie en Aulide, in cui Wagner volle scernere un riassunto dell'intero dramma nel giuoco tra i varî temi, attribuendo a ogni tema una figura o un concetto di quelli che nella favola si ripresenteranno. Il che è probabilmente arbitrario, e spiegabile nella tipica mentalità wagneriana, ma intanto va notato come prova della potenza evocativa di quella celebre ouverture che rimane modello al Mozart, al Cherubini, al Weber ed al Beethoven. E del resto la forma stessa della sinfonia cambia da opera a opera, il Gluck non astringendosi ad alcun canone astratto: nelle grandi opere cosiddette "della riforma": Orfeo, Alceste, Paride ed Elena, Iphigénie en Aulide, Armide, Iphigénie en Tauride, si passa dalla forma Sammartini alla sonata binaria, dalla sinfonia di A. Scarlatti all'ouverture di G. B. Lulli e finalmente alla breve introduzione agogica, che ambienta la prima scena dell'opera.
L'adesione (veramente chiamata dal Gluck "soggezione") della musica alla poesia non è affatto la notazione di flessioni del linguaggio comune (Camerata fiorentina) o del teatrale (Lulli), ma espressione musicale dello stesso affetto espresso dalla poesia. E qui si tocca un punto di capitale importanza per la valutazione dell'arte gluckiana: in teoria il Gluck vi resta in posizioni razionaliste, in pratica finisce per interiorizzare il suo lavoro fino a risolvere il senso drammatico della poesia in totale riespressione musicale. Quivi, dunque, la divergenza tra il dramma musicale gluckiano e la metastasiana ghirlanda di fiori poetici e di fiori musicali.
Il concorso dell'orchestra all'espressione non è più sporadico (nell'Aria e nel recitativo accompagnato) né di diversa indole di pagina in pagina. Il recitativo secco vi scompare e con esso anche il suo relativo concetto del recitativo accompagnato. L'ispirazione gluckiana è tanto in profondità che voci e strumenti non vi giuocano in diverse posizioni estetiche, ma altro non sono che movimenti d'uno stesso discorso sinfonico. Di qui la continuità vocale-strumentale durante l'intera vicenda, che - naturalmente - non esclude la frequente emersione dell'uno sull'altro elemento. E in tale regime di continuità il discorso sinfonico si fa dialogico e fluido come mai s'era dato fino allora in teatro, e come dal Gluck in poi sempre si richiederà.
E, finalmente, la semplicità della scrittura e dell'interpretazione non è ristrettezza ma sibbene purificazione del proprio mondo musicale spinto fino a coglierne le ragioni ultime; né sterile sarcasmo polemico ma concreta realizzazione di valori positivi (proprio dati da siffatta purezza di linee espressive, totalmente espressive) tali da rendere assurda ogni sovrapposizione virtuosistica.
Così l'uomo, rientrato nel teatro "eroico" dopo un buon secolo di maschere, vive quasi fisicamente nella rappresentazione, esprimendo in libera architettura di pure linee musicali gl'intimi motivi del suo dramma.
Tale la cosiddetta "riforma" del Gluck, che non dà nuove leggi retoriche, né disegna nuovi schemi formali, ma piuttosto impone al teatro un etico dovere di serietà e di umanità, certo con tutte le conseguenze pratiche dianzi viste: coerenza e totalità lirica nel discorso vocale-strumentale, dalla sinfonia al finale ultimo, e quindi rigetto di ogni interferenza extra-lirica sia di sentenziosi versi, sia d'artifizî tecnici, sia d'esibizionismi canori. L'azione di C. W. Gluck è di portata supernazionale, come quella che intanto produce una visibile unificazione stilistica tra le scuole d'Italia, di Germania e di Francia; unificazione che non è soltanto tra stili operistici ma tra i varî sensi delle correnti musicali - dall'opera alla sinfonia - in quella scrittura che si è detta dianzi dialogica, e che strumenti e voci tratta alla stregua di elementi l'un nell'altro compenetrantisi e di quando in quando emergenti in maggior rilievo. Così vediamo svilupparsi in tale indirizzo la nuova prassi operistica, da quello stesso N. Piccinni che pure al Gluck era stato opposto come rappresentante della scuola italiana, e che invece con le ultime opere mostra di subire l'influenza gluckiana, ad A. Sacchini, M. Grétry, E. Méhul, G. Paisiello, D. Cimarosa, W. A. Mozart, A. Salieri, L. Cherubini, G. Spontini, J.-F. Lesueur, C. M. v. Weber, H. Berlioz, ecc.
Nel seno di questo movimento si distinguono però singole correnti in vario modo caratterizzate. L'opera seria, p. es., si permea di succhi propriamente gluckiani soprattutto presso i Francesi e gl'Italiani che lavorano anche in Francia: N. Piccinni, M. Grétry, A. Salieri, L. Cherubini, G. Spontini e J.-F. Lesueur. La buffa, nelle sue varie determinazioni nazionali (opéra-comique, opera buffa, o comica, o semi-seria, Singspiel, ecc.) deve, di solito, minori elementi all'esempio gluckiano, il quale d'altra parte in questo campo non è sì personale e decisivo come nell'opera seria: l'opéra-comique, p. es., deriva principalmente come dianzi s'è veduto dall'intermezzo e dalla grande corrente "buffa" dei Napoletani, dal Pergolesi passando al Rousseau e al Gluck, dal Duni ad A. D. Philidor, Dalayrac, E. Méhul, M. Grétry, e l'influenza gluckiana non emerge che in quest'ultimo. Nell'opera buffa italiana si può dire che il Gluck non agisca se non indirettamente: attraverso, cioè, l'arricchimento della scrittura, specialmente strumentale; ma non va dimenticato che la tendenza al dialogismo vi era già avviata fin da prima del Gluck (specialmente presso i Veneziani) sì che nella produzione propriamente buffa non si scerne una vera interferenza estranea, né soluzione di continuità. Ma ricordiamo quanto s'ebbe ad accennare più sopra circa l'evoluzione datasi nel maturo Settecento dal puro "buffo" al semiserio, o "sentimentale". I primi orientamenti in tal senso si dànno, sotto l'influenza di C. Goldoni (in ciò ispirantesi al teatro inglese), presso il Piccinni, che nella Cecchina (ovvero La buona figliuola) del 1760 già riesce ad assicurare la fortuna del genere. Il quale viene continuato e tratto a non periture manifestazioni, soprattutto da G. Paisiello (Nina, la pazza per amore, del 1789) e da D. Cimarosa (Il matrimonio segreto, Giannina e Bernardone, Le astuzie femminili). A questa corrente che dal buffo si volge al più complesso quadro di affetti diversi è del resto comparabile per varî sensi quella, dianzi ricordata, dei sensibles francesi: Méhul, Grétry, ecc., e quella che si manifesta nel più importante teatro mozartiano, il quale può intendersi come teatro di "commedia", se si pensa che lo stesso Don Juan ha uno svolgimento assai ricco di scene e movimenti grotteschi vicino ai tragici e ai sentimentali.
L'attività operistica del Mozart, iniziata anch'essa - come quella d'altro genere - assai presto, non subisce l'influenza del Gluck che verso la maturità, mentre per molto tempo rimane nell'orbita del teatro italiano, non senza però sentire e anzi esplicare influenze tipicamente germaniche, specialmente quella del Singspiel. Come già il Gluck, anche il Mozart conduce a dignità maggiore di architettura e di stile musicale questo genere già coltivato da J. A. Hiller, in grazia del suo abito alla composizione seria e sinfonica, in cui confluiscono correnti italiane, in parte boeme (i Mannheimer del melologo [v.], forma del Mozart vagheggiata [sotto il curioso nome di duodrama] e mai realizzata) oltre a quella strumentale che si collegava a J. Haydn.
Come quelle del Gluck, le forme teatrali del Mozart non sono affatto nuove, e anzi spesso appaiono quasi pre-gluckiane per la mancanza di esteriore sforzo coesivo, nonché per la presenza di passi virtuosistici nelle parti vocali. Ma né l'uno né l'altro di questi caratteri riescono a mantenere il loro apparente significato nella realtà della musica teatrale mozartiana, la quale è mirabilmente varia, come varia era quella di C. Monteverdi, ma, come la monteverdiana, nasce sempre da un angolo visuale ben centrato, ove i singoli personaggi e le singole situazioni naturalmente si dispongono al loro esatto posto in una drammatica prospettiva. Così il Mozart si dimostra il migliore dei drammaturghi musicali del suo tempo, paragonabile soltanto al Monteverdi, al Gluck, al Wagner e al Verdi. Capitale, tra le sue virtù, quella dell'immediata caratterizzazione delle "persone" sceniche: poche battute bastano a presentarle, e tutta la "parte" d'ognuna di esse ne conserva e ne ripresenta l'intimo carattere, sempre liberamente muovendosi in varia sostanza musicale, ben più efficacemente di quel che non possano tutti gl'immaginabili Leitmotive.
Così noi vediamo, attraverso le opere mozartiane più importanti, dal Ratto dal serraglio alle Nozze di Figaro, dal Don Giovanni al Flauto magico, entrare nella scrittura musicale un soggettivismo che in tale scrittura infonde tinte varie quanto le infinite vibrazioni dell'individuale sensibilità. E questo soggettivismo anima e sostanzia dei proprî rinnovamenti stilistici il teatro che con G. Rossini e C. M. v. Weber introduce all'ottocentesca opera romantica.
La quale nei diversi paesi si presentava in tendenze e forme abbastanza diverse. In Italia, o comunque tra gl'Italiani in patria e fuori, il romanticismo non si volge ad aspirazioni filosofiche o a intimistiche confessioni. La stessa scrittura musicale continua la risoluta franchezza di sintassi e la chiara quadratura della forma, sì nel disegno dell'intera architettura come in quello della singola scena e della stessa melodia, che distingue l'arte di G. Spontini (Olimpia, La Vestale, Fernando Cortez, Agnese di Hohenstaufen) e di L. Cherubini (Medea, oltre le semiserie Anacreonte, Le due giornate, ecc.), ricordandoci esser nei tempi d'un Beethoven. Il romanticismo di G. Rossini, per un certo tempo, non farà che ravvivare in ritmico dinamismo la sentimentalità sorridente dei Cimarosa e dei Paisiello; Haydn e Mozart non per nulla erano passati nel mondo musicale, e del loro vario colorito (specialmente dello strumentale) l'ottocentesco Rossini aveva assorbito la suggestione. Ma prima della Semiramide e del Tell la stessa influenza di Spontmi e Beethoven non viene assimilata e potenziata. Era però virtù rossiniana quella di riassumere in complessità di stile potentemente unitario e personale qualunque corrente della tradizione, non appena l'avesse sentita. Ed ecco, come già l'opera buffa napoletana nel Barbiere di Siviglia, con l'opera seria, sostanziante d'italiani succhi musicali il quadro gluckiano, riassumere le influenze Gluck-Spontini-Beethoven nel complesso organismo del Guglielmo Tell. Larghezza e severità di linee, classicamente condotte in concluse parabole, esprimono un sentimento la cui potenza si manifesta in efficienza architettonica.
Mentre in Francia l'esempio rossiniano era variamente inteso e raggiungeva i nuovi migliori frutti nell'opéra-comique degli Auber e dei Boïeldieu, vedendo tradite le sue intime virtù liriche nel fastoso eclettismo del grand-opéra dove J. Meyerbeer riduce il dramma musicale a spettacolo coreografico, in Italia a G. Rossini succedevano le realizzazioni liriche di V. Bellini e di G. Donizetti. Nelle opere dei quali le stilistiche rossiniane sono transvalutate a distinti scopi. Serena melodia presso il Bellini (Capuleti e Montecchi, Beatrice di Tenda, Il Pirata, La Straniera, La Sonnambula, Norma, I Puritani), impeto di ritmi e contrasti di tono presso il Donizetti (numerosissime opere) prendono un tono che veramente può legittimare l'attributo di "romantico": un tono di diretto impegno dell'uomo nelle vicende che l'artista viene creando. Intensità quasi fisica, come di fisico spasimo, è nell'espressione donizettiana; e infatti questo artista non sempre riesce a sintetizzare il suo dramma, nelle opere serie (Anna Bolena, Poliuto, Lucia di Lammermoor, La Favorita, ecc.), in quella superiore euritmia che distingue le sue opere sentimentali o giocose (La figlia del reggimento, Don Pasquale, Linda di Chamonix, L'elisir d'amore, ecc.) e che un Bellini nella Norma sapeva raggiungere con arcano potere di trasfigurazione, di lirica catarsi.
Altri i caratteri del romanticismo teatrale germanico, il quale tende, dopo il Flauto magico di W. A. Mozart, a un'espressione di valori etnici nella sostanza musicale e d'idee filosofiche nell'importazione del dramma. Così vediamo il Singspiel, il tesoro del Volkslied e della popolare danza tedesca, spesso elaborati in un quadro gluckiano e in discorso rossiniano, riprendersi in nuova sintesi nel teatro "romantico" di C. M. v. Weber e poi nei romantici della prima scuola: Hoffmann, Schubert, Spohr, ecc., sviluppandosi poi nell'opera, riassuntiva di tutto il drammatismo tedesco dopo Gluck, di Riccardo Wagner.
La comparsa di questo artista nel già maturo teatro romantico dell' '800 viene a produrre valori specialmente drammatici, che distinguono l'opera wagneriana da quella d'un Meyerbeer, allora dominante il teatro "serio", una volta oltrepassate le posizioni di un Bellini e di un Donizetti. Gli esordî di Wagner sono pertanto da ricercarsi nel quadro meyerberiano, temperato dal ricordo di Weber, come quelli del Verdi contemperano lo stesso Meyerbeer con Donizetti. La prima importante opera wagneriana, il Rienzi, si muove infatti sul tracciato del grand-opéra (La Vestale, Muette de Portici, Guglielmo Tell, Huguenots, ecc.) allora impersonato dal Meyerbeer. Ma già Wagner pone in questo suo fastoso lavoro, abbastanza improntato di tendenze iperbolizzanti, un centro focale, denso di risorse drammatiche, nella viva persona del protagonista. E l'opera ritrova così un'unitaria spiegazione, come era avvenuto all'opera gluckiana con Alceste e Armida.
E le opere che seguono, dal Fliegende Holländer (L'Olandese volante o Vascello fantasma) in poi, vengono scavando sempre più a fondo i loro valori nell'intimo processo del divenire umano. Il quale però presso Wagner non è ricercato più tanto nel quadro della vita quotidiana e comune, come sarà presso G. Verdi, ma piuttosto nel quadro delle finali risoluzioni, superiori alle contingenze di questi nostri comuni rapporti. Wagner cerca, in questa via, l'espressione dei valori assoluti, tali da liberare da ogni fenomenico il noumenico. Di nessuna lode egli fa maggior conto che di quella che lo additi come "rivelatore" della genesi dell'Amore, o della Grazia, come guida dell'umanità verso la rigenerazione. Egli sembra attribuire ogni merito del suo lavoro artistico alla derivazione da una filosofia, da una Weltanschauung. Il suo linguaggio musicale vuole essere "concettuale" come se di parole fosse congegnato, e insieme più che concettuale in forza del potere musicale, rivelatore di quelle complessità spirituali che a coneetto verbale non potrebbero, secondo Wagner, giungere mai. Di qui lo sviluppo dato al contributo orchestrale, che viene a spiegare il vero senso da scernersi volta per volta nel concetto cui allude la parola cantata. Così egli attribuisce significati filosofico-letterarî e perfino funzioni più pratiche (riconoscimento d'un dato personaggio, d'un dato sentimento ecc.) ai suoi singoli temi. I quali egli viene svolgendo in dialettica orchestrale, come se si trattasse d'una gigantesca sinfonia beethoveniana. Nel loro sviluppo e nel loro reciproco giuoco si svolge la vicenda misteriosa delle primordiali e finali ragioni della vita. I personaggi che si muovono sulla scena, tranne Isotta e forse Kundry, sono poco più che esemplificazioni o tipi o Lebensbilder, tratti dalla saga scandinava, dal poema cavalleresco medievale: L'Olandese volante, Lohengrin, Siegfried, Tristano, Parsifal, ecc., e significati "assoluti" vengono ad assumere anche i rari personaggi tratti dalla storia: Tannhäuser, Hans Sachs. Il loro intimo "motivo" si svolge specialmente in sinfonico tematismo. Il quale viene a rompere quindi - per fatale suo sviluppo - i limiti, a esso estranei, del singolo quadro scenico, del singolo "pezzo chiuso". Mentre un Gluck, un Mozart, un Verdi giocano con le masse struttive dei pezzi chiusi facendo nascere l'esplicazione drammatica proprio da quel loro vario succedersi e contrastare, R. Wagner, sinfonista romantico, tende al romantico-tedesco "infinito", non solo in quella ch'egli chiama "melodia infinita" ma anche nella stessa rappresentazione. Il suo torrente sinfonico dirompe così ogni anche esteriore "chiusura e, e si svolge in sua propria, musicale continuità per l'intero corso dell'atto. E del resto di atto in atto esso si riprende, con i suoi temi direttivi (Grundthema, secondo il termine wagneriano, Leitmotive, secondo quello di H. v. Wolzogen), come nella romantica sonata ciclica (R. Schumann, F. Liszt, C. Franck), e circola per l'intera opera come farebbe in un poema sinfonico berlioziano o lisztiano. Cadono così le varie forme tradizionali dell'aria, del recitativo, del concertato, ecc. La stessa ouverture (Vorspiel) si fa libera da prestabiliti quadri. Beninteso, accade spesso che un canto del tenore o un preludio orchestrale ci ricordino alcune di esse forme, ma ciò accade e sempre accadrà nell'ispirazione musicale, proprio per il suo carattere di libertà da ogni vincolo e - insiene - da ogni polemica. Presso R. Wagner, il fraseggio musicale è in funzione d'una sintassi assai ampia e abbastanza forte per restare chiara attraverso innumerevoli coordinate e subordinate. Sintassi in cui la parola si fa suono e gesto, come voleva l'autore di Oper und Drama, attribuendo le origini dell'arte a una sintesi a priori tra questi tre elementi espressivi. E non è certo colpa, ma merito decisivo del formidabile genio musicale wagneriano, se la poesia vi si fa semplice parola, la mimica semplice gesto, nell'elevarsi della sinfonia vocale-strumentale a totale riassunzione musicale del dramma.
Mentre in Germania il romantico desiderio d'infinito spezza ogni barriera e ogni diaframma formale, raggiungendo nel Tristano la più alta vetta dell'arte drammatico-musicale tedesca, in Italia il romanticismo trova tutt'altre determinazioni operistiche, più consone allo spirito della tradizione italiana che all'"infinito" oppone il "finito" dell'arte classica. Dissidio nondimeno non vi si dà che raramente, il senso cosiddetto romantico permeando di sé piuttosto la linea melodica, che si fa ardente, dal Donizetti al Verdi, come non mai, e il "libretto", che tende ai tipici contrasti di sentimenti giunti al loro clima più esasperato e sanguigno, mentre salda e precisa, soprattutto nel Verdi, rimane per sempre la struttura dei varî pezzi "chiusi". Nel Rigoletto, G. Verdi squadra le sue scene in granitica simmetria, e nondimeno mai il corso del dramma fu più continuo e agogico come in quest'opera che resta, insieme con l'Alceste e l'Armida di Gluck e il Don Giovanni di Mozart, tra i più significativi esempî di dramma a pezzi chiusi. A differenza di Wagner, Verdi trae i suoi valori dalla vita di questo nostro mondo terreno, con tutte le incongruenze e le miserie dell'uomo comune tra gli uomini comuni. L'idea, la Weltanschauung qui non si presentano riassuntrici e direttrici, ma anzi si affidano allo stesso districarsi delle vicende di ogni personaggio, scolpito con penetrazione e vigoria difficilmente superabili. Il Verdi dà ai suoi personaggi il fervore del suo stesso sangue, li rafforza con la sua propria coscienza di uomo - come il Gluck - profondamente morale e credente. L'individuo conserva qui i suoi diritti: esso si presenta, di scena in scena, sempre riconoscibile, ma sempre nuovo e diverso, secondo le vicende che in lui intervengono. Le figure di Rigoletto e di Violetta, tanto fortemente delineate, nondimeno si muovono, dalle prime scene alle ultime, in atteggiamenti quanto mai disparati. E il dramma si fa proprio da queste successive presentazioni di stati lirici, cui basta la lirica espansione del cosiddetto "pezzo chiuso", fuori da ogni esplicita elaborazione tematica. Totalità lirica è così nella più semplice melodia, sostenuta - più che commentata - da una sommessa orchestra. Questo il tipo della prima opera verdiana, più schiettamente presentato nel Rigoletto e nella Traviata, che attraverso le ambigue opere del periodo cosiddetto di transizione: Don Carlos, Ballo in maschera, Forza del destino va tendendo a valori drammatici più complessi, raggiungendoli ancor più che nell'Aida (capolavoro dell'architetto musicale rappresentativo) nell'interiorità, quasi analitica, dell'Otello e del Falstaff. E d'altra parte l'evoluzione della scrittura verdiana, che si va raffinando dalla rude, grezza semplicità delle prime opere alla mirabile preziosità del Falstaff, non è affatto dovuta a velleità tecnicistiche, che al severo e umano Verdi non erano meno estranee che al Gluck, ma unicamente a uno sviluppo del mondo spirituale verdiano, ormai adeguato alla complessità del prediletto Shakespeare. Così Verdi poteva coronare l'ascesa - da lui stesso guidata - dell'opera italiana verso il dramma, in quell'Otello che rimane, vicino all'Incoronazione di Poppea, all'Armida, al Tristano e Isotta, tra i massimi esempî che di dramma musicale si siano dati.
A queste due grandi correnti drammatiche, impersonate nelle riassuntive figure di Wagner e di Verdi, le altre scuole nazionali rispondono in diversa maniera: la scuola francese, non dimentica del lontano Gluck, pur sentito attraverso il Tell e attraverso le migliori pagine del Meyerbeer, non sa però riconquistare l'unità interiore di vera arte drammatica e si aggira nei limiti d'una musica rappresentativa, dove spesso fiorisce però la melodia di "romanza" dai settecentisti derivante ai Gounod, ai Thomas e ai minori. Più vicino al Verdi, su di essi s'innalza il conciso e sanguigno Bizet, seguito, quanto all'intenzione "verista" dell'opera, da A. Bruneau e da G. Charpentier. Più fortunata la scuola russa, dal Glinka iniziata sotto il regno dell'etnos nazionale, pensato però in concetti musicali italo-germanici (Rossini-Beethoven), la quale si viene sviluppando in progressivo approfondimento del discorso, specialmente in corrispondenza del "personaggio", fino alla creazione d'un teatro veramente nazionale e veramente drammatico con l'opera di M. Mussorgskij (Boris Godunov, Kováncina). Più decorativa, in confronto con questa, l'opera degli altri russi dal Dargomyžskii al Cui, al Borodin (Principe Igor) e al Rimskij-Korsakov. La scuola russa entra così nel movimento musicale d'Europa, influendo subito sulla boema (B. Smetana, La sposa venduta), sulla francese, dal Debussy (Pelléas et Mélisande) che dei Russi sente soprattutto l'atmosfera armonica - cui il personaggio deve, inconscio, il suo agire -, al Dukas (Ariane et Barbebleue).
Germania e Italia continuano, con varia fortuna, l'una nella via segnata da R. Wagner raggiungendo ancora notevoli manifestazioni rispettivamente nel teatro di E. Humperdink (Hänsel und Gretel). K. Goldmark (Königin von Saba) e specie di R. Strauss (Guntram, Salome, Eltktra, Rosenkavalier, ecc.), la seconda ispirandosi prima al cosiddetto verismo: P. Mascagni (Cavalleria rusticana, Iris, ecc.), G. Puccini (Manon Lescaut, Bohème, Madama Butterfly), R. Leoncavallo (Pagliacci), U. Giordano (Andrea Chénier, Fedora), F. Cilea (Adriana Lecouvreur) e gl'isolati A. Franchetti (Germania, Cristoforo Colombo), A. Smareglia (Nozze istriane, Il vassallo di Szigeth, Oceana), R. Zandonai (Francesca da Rimini), ecc.
Così il sec. XX vede l'opera tendere a semplicità e a verità drammatica, variamente ricercata attraverso il tipo a svolgimento continuo, oggi portato alle estreme conseguenze da Ildebrando Pizzetti (Fedra, Debora e Jaele, Lo straniero, Fra Gherardo), o il tipo a successive zone liriche, al quale di solito lavora G. F. Malipiero (Sette canzoni, Torneo notturno). E a tali due finali possibilità s'istradano del resto tutti i compositori teatrali di oggi, alla prima tendendo lo svizzero E. Bloch (Macbeth), i tedeschi H. Pfitzner (Palestrina), F. Schrecker (Die Gezeichneten), M. v. Schillings (Monna Lisa) e A. Schönberg (Erwartung), alla seconda la grande maggioranza dei maestri d'avanguardia, da A. Casella (La donna serpente, Orfeo) ad A. Honegger (specialmente in Judith), da P. Hindemith (Cardillac) a E. Křenek (Johnny spielt auf) ed a A. Berg, il quale ultimo ha dato nel suo Wozzek una singolare partitura in cui l'opera si viene svolgendo, musicalmente, attraverso un seguito di forme tratte non solo dalla tradizione teatrale (Aria, ecc.) ma anche dalla strumentale: sonata, rondò, variazioni, ecc.
Bibl.: Nella vastissima letteratura relativa alla storia dell'opera v. specie le seguenti pubblicazioni d'ordine più generale: H. Riemann, Opera-Handbuch, Lipsia 1887; R. Rolland, Les origines du théâtre lyrique moderne, Parigi 1895; F. Clément et P. Larousse, Dict. des opéras, ivi 1904; A. Solerti, Le origini del melodramma, Torino 1903; id., Gli albori del melodramma, Milano 1905; O. Bie, Die Oper, Berlino 1913; H. Kretzschmar, Gesch. der Oper, Lipsia 1919; A. Bonaventura, Saggio storico sul teatro musicale in Italia, Livorno 1913.