Opere d'arte e di storia: ecosistemi minacciati
L'Italia è il più ricco paese al mondo in monumenti in pietra, libri, pergamene, dipinti, sculture, arazzi e antichi tessuti, che si trovano all'aperto, in ambienti chiusi e persino sott'acqua. La loro conservazione è una responsabilità comune degli italiani verso l'intera umanità. Questi manufatti sono aggrediti da numerosi organismi, e appaiono al biologo come veri e propri ecosistemi. Sui monumenti all'aperto vivono soprattutto organismi fotosintetizzanti come cianobatteri, alghe, licheni, muschi e piante superiori, mentre quelli al chiuso sono attaccati da organismi eterotrofi come batteri, funghi e insetti. Conservazione e restauro richiedono l'assistenza del biologo che deve identificare gli organismi presenti, determinare i fattori ecologici che li favoriscono e valutare l'effìcacia dei trattamenti: molto è stato fatto, molto resta ancora da fare.
L'opera d'arte come 'ecosistema'
L'Italia vanta la più alta concentrazione di beni artistici e architettonici del mondo. La conservazione di questo immenso patrimonio, responsabilità comune di ogni italiano, non è un compito facile: qualsiasi manufatto è aggredito da agenti fisici, chimici e biologici che ne modificano le caratteristiche originarie, spesso in maniera irreversibile. Gli esseri viventi giocano un ruolo importante in questi processi: l'antica miniatura in una biblioteca, la statua romana in un parco archeologico, l'affresco o la tela in una chiesa sono attaccati da miriadi di organismi potenzialmente in grado di distruggerli, o di trasformarli sino a rendere irriconoscibili le intenzioni dell'artista. Senza l'aiuto del biologo molte di queste opere rischiano di scomparire per sempre. La miniatura, la statua, il quadro, osservati da un punto di vista un po' inusuale, appaiono come piccoli eco sistemi con tanto di produttori primari, decompositori e predatori ... proprio come certi famosi parchi africani, immortalati da sin troppi documentari televisivi. Un ipotetico documentario sull"ecosistema' statua ci farebbe scoprire un mondo nuovo e nascosto, in cui al posto dell'acacia, dell'elefante e dei soliti leoni, licaoni e iene incontreremmo misteriosi organismi primordiali come i cianobatteri, strane colonie di alghe (che non vivono solo in mare) aggredite da schiere di subdoli funghi, paesaggi marziani di licheni, piccole foreste di muschi abitate da orridi animali che pochi hanno visto, dal pacifico tardigrado erbivoro al feroce carabide predatore. La nostra statua può essere un habitat ideale per studiare fenomeni come la competizione, il parassitismo, le successioni ecologiche e i rapporti preda-predatore; inoltre su di essa avvengono complesse reazioni biogeochimiche, parte integrante di fondamentali cicli ecologici della biosfera, quali quelli dell'azoto, dello zolfo e del carbonio. L'ecologia del restauro è una disciplina recente in cui c'è ancora molto da fare, e tuttavia questo è uno dei pochi campi in cui l'Italia vanta una posizione di tutto rilievo in campo internazionale. Questa disciplina si fonda sul lavoro di decine di biologi in prestigio se istituzioni quali l'Istituto centrale per il restauro, l'Istituto per la patologia del libro, l'Istituto per la ricerca sul legno, i centri sul deperimento e la conservazione delle opere d'arte del C.N.R., gli ottimi laboratori scientifici delle soprintendenze per i beni artistici e storici di Bologna e Venezia, e di tanti dipartimenti di università e altri centri di ricerca. In questo breve saggio cercheremo di osservare statue, chiese, miniature e pergamene dal punto di vista del biologo: le memorie storiche materiali delle nostre radici culturali ci appariranno come piccoli, complessi e fragili eco sistemi, minacciati di distruzione dalle leggi stesse di quella vita che li ha prodotti.
Il biodeterioramento delle opere d'arte
I danni provocati da agenti biologici su diversi materiali vengono indicati dai biologi con il termine biodeterioramento. I tipi principali di organismi coinvolti sono due: gli autotrofi e gli eterotrofi. I primi, quali cianobatteri, alghe, licheni, muschi e piante vascolari, ricavando energia dalla luce solare attraverso la foto sintesi clorofilliana, non sfruttano il substrato come fonte di energia, ma come semplice supporto, oppure come fonte di micronutrienti o di acqua o di entrambi. Questi organismi possono quindi svilupparsi anche su substrati inorganici come monumenti in pietra, vetrate oppure oggetti di metallo, quando questi sono esposti alla luce. Gli organismi eterotrofi, al contrario, ottengono energia dalla decomposizione di molecole organiche e comprendono i decompositori, come batteri e funghi, gli 'erbivori' e i predatori, come alcuni animali (per esempio chiocciole e insetti). Tali organismi crescono soltanto a spese della materia organica (come altri organismi, carta, legno, pergamene, alcuni tipi di pitture), utilizzando la come fonte diretta di energia sia in presenza sia in assenza di luce; di conseguenza sono tra i più importanti agenti di biodeterioramento per manufatti preservati al chiuso.
Gli organismi eterotrofi producono quasi sempre danni irreversibili quando si nutrono direttamente di manufatti in materia organica, mentre sono meno importanti nel biodeterioramento di monumenti in pietra esposti all'aperto. Quelli autotrofi, invece, possono causare danni sia irreversibili sia reversibili: l'alterazione cromatica provocata da una patina algale sul muro di una chiesa, per esempio, quando non accompagnata da danni fisici o chimici, può essere facilmente eliminata asportando le alghe.
Il biodeterioramento comprende due principali tipi di azioni che interessano sia gli organismi autotrofi sia quelli eterotrofi: le azioni di tipo fisico (disintegrazione) come l'effetto meccanico delle radici degli alberi su manufatti in pietra, la disgregazione fisica delle rocce da parte dei licheni e le gallerie scavate nel legno dagli insetti; le azioni di tipo chimico (decomposizione) come le alterazioni irreversibili di tessuti, carta e pergamene da parte di funghi, quelle cromati che dovute alla produzione di pigmenti da parte di funghi e batteri, il dissolvimento di rocce calcaree da parte di cianobatteri endolitici e licheni.
Vi sono, infine, due tipi principali di biodeterioramento: diretto e indiretto. Il primo è causato da organismi che utilizzano stabilmente un dato tipo di substrato come supporto o fonte di nutrimento, un esempio è fornito dalla distruzione di libri da parte di funghi e batteri o dalla perforazione di colonne sommerse da parte di molluschi. Il bio deterioramento indiretto è causato, invece, da organismi che non dipendono ecologicamente da un dato substrato; un esempio è dato dagli accumuli di guano di uccelli su monumenti in pietra che possono scatenare fenomeni di biodeterioramento diretto da parte di altri organismi o alterazioni di tipo chimico-fisico. A rigore, persino gli atti di vandalismo da parte dell'uomo rientrano nella categoria del biodeterioramento indiretto.
Tra opere d'arte custodite all'aperto e quelle preservate in ambienti chiusi vi è, come già accennato, una fondamentale differenza ecologica: nel primo caso prevalgono gli organismi autotrofi che crescono su materiali inorganici (pietra, vetro, metallo), nel secondo quelli eterotrofi che si sviluppano su materiali almeno parzialmente organici (carta, pergamena, legno, colle, pitture). I monumenti all'aperto ospitano quindi eco sistemi in miniatura completi e comprensivi degli organismi produttori (foto sintetizzanti), mentre la maggior parte dei manufatti custoditi in ambienti chiusi sono degli 'ecosistemi dimezzati', in cui prevalgono i decompositori.
Studio ecologico dei monumenti all'aperto
L'enorme ricchezza del patrimonio architettonico italiano deriva dall'uso, sin dai tempi più antichi, di materiali inorganici quali pietra, mattoni e malte nella costruzione degli edifici più importanti. Altre civiltà, per esempio quelle orientali, non possono vantare una così lunga persistenza dei loro monumenti perché costruiti con un materiale, il legno, che, all'aperto, viene rapidamente distrutto da attacchi biologici. In Italia, però, la maggior parte dei monumenti in pietra sono stati costruiti con rocce calcaree, tra cui il marmo, che sono tra le più sensibili agli attacchi fisicochimici e biologici. Anche il vetro, di natura silicea, è un substrato litico: esso però non si presta allo sviluppo di complessi microecosistemi, salvo che in condizioni di elevata umidità atmosferica. In Italia ciò avviene di rado, ma le vetrate di molte chiese francesi, sotto l'influsso degli umidi venti atlantici, sono aggredite da funghi, licheni e alghe che le discolorano o le rendono irreversibilmente opache.
I monumenti in pietra esposti all'aperto sono colonizzati in primo luogo da organismi autotrofi foto sintetizzanti: cianobatteri, alghe, licheni, muschi e piante vascolari, che utilizzano la pietra come semplice supporto per stendersi verso la luce, loro fonte primaria di energia. La colonizzazione della pietra inizia però a volte con organismi chemioautotrofi, per esempio batteri, in grado di ricavare l'energia da sostanze inorganiche senza l'aiuto della luce; essi sono importanti nel preparare il substrato per lo sviluppo di diverse serie di successioni biologiche. Gli organismi eterotrofi, che si nutrono a spese della sostanza organica fissata da quelli autotrofi, appaiono più tardi; essi sono molto meno importanti nel biodeterioramento della roccia e li discuteremo solo più tardi, quando parleremo dei substrati organici preservati al chiuso.
Come in ogni ecosistema, anche sui monumenti in pietra, vetro e metallo esposti all'aperto la colonizzazione biologica dipende da diversi fattori (per esempio, esposizione, tipo di substrato, apporto di sostanze azotate). Lo studio ecologico delle comunità che invadono i monumenti può rivelarci i principali fattori che ne hanno favorito la crescita, contribuendo alla progettazione di corretti interventi di restauro e manutenzione.
Batteri
I più importanti batteri residenti sui monumenti sono di tipo autotrofo (solfo-, nitro- e cianobatteri), e i processi di alterazione da essi innescati sono di tipo chimico. I solfobatteri non foto sintetizzanti trasformano il calcare in gesso, specialmente in aree inquinate da anidride solforosa, trasformando irreversibilmente le superfici di sculture e capitelli in orride croste nere. I nitrobatteri provocano danni minori, ma possono alterare i substrati lapidei producendo acidi. Essi sono tra i primi colonizzatori delle superfici in pietra: in particolare, i batteri nitrificanti producono nitrati, che spesso facilitano lo sviluppo di altri microorganismi, inclusi i licheni. I cianobatteri sono tra i primi organismi procarioti che furono in grado di colonizzare l'ambiente terrestre; possiedono la clorofilla, e giocano un ruolo molto importante nella degradazione della pietra, soprattutto di quella calcarea. Alcuni di essi penetrano addirittura all'interno della roccia, provocando caratteristiche forme di erosione, altri si ricoprono di spessi strati di carbonato di calcio che deformano le superfici litiche. Molti cianobatteri a forma di cocchi coprono con patine nere vaste superfici verticali assolate, libere dalla concorrenza di altri organismi, come i muri di edifici esposti a mezzogiorno. Oltre a provocare un danno estetico, il colore scuro può indirettamente contribuire all'alterazione fisica del substrato: nell'area mediterranea la temperatura superficiale di monumenti coperti da patine di cianobatteri può superare anche di 8 °C quella delle parti più chiare non colonizzate (Garty, 1990), il che favorisce un maggior degrado fisico. I cianobatteri necessitano di acqua allo stato liquido per la foto sintesi; memori del mondo quasi lunare che forse per primi riuscirono a conquistare, ancor oggi prediligono superfici calde, assolate e aride, con brevi periodi di scorrimento d'acqua liquida, come le superfici verticali esposte a sud con brevi scoli d'acqua dopo la pioggia. L'acqua, intrappolata nelle guaine gelatinose che circondano le cellule, viene trattenuta a lungo, ritardando l'essiccazione della roccia e facilitandone le alterazioni chimiche come la solubilizzazione del calcare. I batteri nitrificanti, come i cianobatteri, sono capaci di fissare l'azoto atmosferico, arricchendo la superficie di statue e bassorilievi di sostanze organiche che favoriscono altri organismi potenzialmente dannosi.
Alghe
Le alghe presenti su manufatti artistici appartengono al gruppo delle alghe verdi, progenitrici delle piante superiori: sono organismi semplici, unicellulari o filamentosi, con poche difese contro l'essiccamento. Patine algali, frequenti su molti monumenti, sono tra i primi colonizzatori della pietra e delle vetrate dopo i batteri; tuttavia riescono a produrre qualche danno solo in condizioni umide e ombrose, come alla base dei monumenti e sulle superfici esposte a settentrione. In genere le alghe provocano soltanto alterazioni cromatiche, colorando il substrato di verde o di rosso-arancio nel caso di quelle appartenenti al genere Trentepohlia. Fortunatamente, le patine algali si possono facilmente rimuovere con appropriati biocidi o con mezzi meccanici. Tuttavia le alghe producono anidride carbonica, ritengono più a lungo l'acqua e spesso secernono agenti chelanti, quali gli acidi aspartico, citrico e ossalico, che possono contribuire ad alterazioni sia pur lievi del substrato. Sui monumenti in pietra i danni sono limitati alla parte superficiale della roccia, e in genere non sono preoccupanti, ma nel caso delle vetrate le leggere alterazioni chimiche causate dalle patine algali possono essere esteticamente rilevanti e spesso irreversibili.
Licheni
I licheni, simbiosi di cianobatteri o alghe e funghi, sono senza dubbio i più vistosi e importanti colonizzatori di monumenti esposti all'aperto, inclusi il vetro e le giunture in piombo delle vetrate antiche e mancano solo nelle aree fortemente inquinate. Gli effetti cromatici sono i più evidenti: parchi e aree archeologiche d'Italia sono pieni di eroi, veneri, ninfe e cavalli con nasi rossi ricoperti da caloplache, teste gialle ricoperte da candelarielle, corpi grigi ricoperti da aspicilie. Un esempio di disastro estetico provocato dai licheni è la facciata nord del duomo di Orvieto, costruito con bande alternate di basalto (scuro) e calcare (chiaro): le parti scure sono colonizzate da licheni di colore chiaro, quelle chiare da licheni arancioni o di colore scuro (Nimis e Monte, 1988). Il risultato cromatico è un po' bizzarro, magari non sgradevole, ma certo poco congruente con i piani estetici di chi aveva ideato l'edificio.
I licheni non si limitano a giocare scherzi del genere: essi possono produrre danni ben più seri, alterando profondamente la roccia tramite processi biogeofisici e biogeochimici. I processi biogeofisici sono causati dalla penetrazione delle ife fungine (i sottilissimi filamenti che costituiscono il fungo) e dalle espansioni e contrazioni del lichene conseguenti ai cicli di disseccamento e reidratazione (Seaward, 1988). Infatti i licheni contengono molte sostanze gelatinose o mucillaginose che si espandono o si contraggono a seconda del loro contenuto d'acqua. I movimenti di espansione e contrazione provocano sollevamenti nella parte marginale del lichene, che causano un effetto peeling sulla roccia, provocando il distacco di lamine superficiali. La profondità di penetrazione delle ife varia in rapporto alla composizione del substrato, del tipo di lichene (foglioso o crostoso, epilitico o endolitico) e della specie coinvolta. Le alghe simbionti raramente superano i 2 mm di profondità, e in genere si mantengono a meno di 1 mm dalla superficie della roccia; le ife fungine possono penetrare sino a 15 mm in rocce carbonatiche molto porose, ma in media anche la loro penetrazione non supera i 2÷ 3 mm: a volte riescono a passare entro i cristalli di minerali, ma più spesso, soprattutto nel caso di rocce silicee, preferiscono la via più facile degli spazi tra cristallo e cristallo.
Un caso speciale è quello dei licheni endolitici: questi si sviluppano completamente all'interno della roccia, di solito calcarea, e spesso non si notano, in quanto hanno colorazioni identiche a quelle della superficie litica. I loro corpi fruttiferi, però, protrudono alla superficie, formando alla loro caduta delle piccole depressioni denominate pitting: i piccoli fori, di diametro 0,2÷2 mm, sono un punto debole per alterazioni di tipo chimico, per esempio la dissoluzione del calcare da parte delle acque o la penetrazione di sostanze inquinanti. Poco si sapeva sulla biologia di questi strani organismi, sino agli studi di M. Tretiach (1998), che hanno rivelato aspetti impensati: la quantità di clorofilla intrappolata nella roccia, per unità di area, può essere pari a quella di una foglia d'albero, ma la produttività primaria del lichene endolitico è nettamente minore: la sua crescita è spesso lentissima, non più di qualche decimo di millimetro all'anno. Può sembrare strano, ma molte statue, bassorilievi e muri di cattedrali vivono, respirano, fotosintetizzano, e contengono tanta clorofilla quanta vi è nelle foglie degli alberi del parco che li ospita.
Le alterazioni chimiche prodotte dai licheni derivano dall'escrezione di tre diverse sostanze: diossido di carbonio, sostanze licheni che con proprietà complessanti, acido ossalico. Il diossido di carbonio prodotto con la respirazione, in ambiente acquoso dà luogo a una soluzione debolmente acida che però è in grado di solubilizzare i carbonati di calcio e di magnesio (relativamente insolubili) di calcari, dolomie, marmi e intonaci a elementi carbonatici, trasformandoli in bicarbonati; più solubili. Si tratta di un processo comune a tutti gli organismi, che nel caso dei licheni non è di particolare rilevanza per il biodeterioramento.
Molti dei composti organici prodotti dai licheni, comunemente chiamati 'acidi licheni ci', hanno proprietà complessanti, poiché contengono spesso gruppi polari che possono fungere da donatori di coppie di elettroni favorendo la chelazione di cationi metallici. I licheni producono molti tipi di sostanze chelanti in gran quantità e, soprattutto su pietra silicea, i talli spesso assumono tinte ferruginose dovute all'accumulo di ferro. L'acido ossalico è uno degli acidi più attivi nel degrado dei minerali e nello scambio di cationi. La capacità di produrre ossalati è diversa nelle varie specie licheniche; inoltre la natura dell'ossalato prodotto dipende dai cationi presenti nelle sue vicinanze e, quindi, dalla composizione mineralogica del substrato. Nei licheni l'ossalato di calcio è presente in due diverse fasi cristalline, la whewellite e la weddellite; dopo che l'acido ossalico viene escreto, esso forma un deposito extracellulare insolubile. Le specie calcicole obbligate contengono molto più ossalato di calcio di quelle silicicole. La produzione di ossalati da parte dei licheni ha originato controversie molto accese nel campo dell'ecologia del restauro. Risulta evidente la differenza tra una pietra 'fresca' e le 'patine di invecchiamento' dei manufatti più antichi: molti restauri sono stati criticati proprio perché, tolte le vecchie patine, chiese, statue e bassorilievi hanno assunto un aspetto troppo moderno, quasi gessoso, da molti avvertito come una mancanza di rispetto per i segni del trascorrere del tempo. Le estese pellicole giallastre o brunastre, le 'patine del tempo', sono formate quasi esclusivamente da ossalato di calcio, e la loro origine è ancora un problema aperto. Due correnti di pensiero si affrontano su questo argomento: una afferma che l'ossalato deriva da trattamenti a base di sostanze organiche effettuati nel passato a scopo protettivo, o estetico o entrambi; l'altra mette in relazione le pellicole con una crescita di licheni e, in misura minore, di batteri e funghi. Le due ipotesi necessitano di ulteriori verifiche sperimentali, ma non è escluso che entrambe siano corrette a seconda dei casi (Lazzarini e Salvadori, 1989).
Briofite e piante superiori
In condizioni non troppo umide né troppo aride, la colonizzazione della pietra inizia quasi sempre con colonie di nitrobatteri, seguite da diversi stadi di vegetazione lichenica o, in ambienti più umidi, da patine algali; la crescita di muschi, felci e piante superiori è piuttosto tardiva, e necessita di un certo accumulo di suolo. A volte, però, il suolo si accumula rapidamente sotto forma di depositi di polvere o di prodotti di degradazione della roccia su superfici orizzontali o nelle fessure tra pietra e pietra. Il caso più tipico è quello di vecchie costruzioni in muratura: quando le piante riescono ad attecchire tra una pietra e l'altra, le loro radici possono esercitare effetti meccanici devastanti (Caneva e Roccardi, 1991).
Molti sono gli esempi emblematici tratti dalle diverse cerchie murarie di Roma. Tra le piante superiori più tipiche ci sono la parietaria, comune sui muri di tutta Italia, o il cappero, tipico dei muri dell'Italia mediterranea. Anche il fico, l'ailanto, l'edera e altri alberi o arbusti si insinuano tra pietra e pietra, sfruttando i punti di resistenza minore e la maggiore alterabilità delle malte. Le loro radici provocano anche alterazioni chimiche, attraverso l'escrezione di sostanze acide, ma l'effetto più dannoso è quello meccanico. In certe aree archeologi che, radici di alberi riescono a penetrare anche all'interno di cavità ipogee, causando danni irreparabili alle strutture murarie e agli affreschi. L'edera, poi, oltre alle radici, possiede apteri con cui si àncora strettamente al substrato, provocando il distacco di notevoli porzioni superficiali di roccia (Caneva e Salvadori, 1989). A volte, però, la crescita di piante superiori in aree archeologico-monumentali può rivelarsi persino utile: in certe zone la falda freatica è vicina alla superficie, il che determina l'inondazione periodica degli ambienti ipogei; un efficace abbassamento della falda può essere ottenuto da piantagioni di alberi con alti tassi di traspirazione. Gli eucalipti, per esempio, sono tra le più efficaci 'pompe biologiche' che si conoscano. Barriere frangivento costituite da alberi possono modificare il microclima, riducendo l'evaporazione o l'irradiazione solare diretta, frenando l'azione erosiva del vento e filtrando le sostanze azotate raccolte dal vento nelle coltivazioni vicine. Le umili briofite (muschi ed epatiche), mancando di apparati radicali, sono meno pericolose. Esse tuttavia, possono trattenere grandi quantità di acqua (a volte più di 12 l/m2), facilitando molti processi di degradazione biogeochimica. Le briofite tendono anche ad accumulare suolo sotto forma di polvere e residui organici, innescando una successione primaria che porta alla colonizzazione da parte delle più dannose piante superiori.
Studio ecologico dei monumenti in ambienti chiusi
Rispetto ai manufatti preservati all'esterno, quelli custoditi nei musei, nelle chiese o nelle case private possono sembrare più protetti dalle aggressioni biologiche. Ciò, però, è vero soltanto per opere in materiale inorganico: la maniera migliore di preservare una statua è proprio quella di metterla in un museo. Qualsiasi oggetto in materia organica, se tenuto all'esterno, ha una vita più grama ed effimera di quella di una statua: un vasto spettro di agenti fisici, chimici e biologici vi agisce sinergicamente, distruggendolo rapidamente. Per questo motivo libri, pergamene, tessuti, oggetti di legno, o almeno parzialmente costituiti da sostanze organiche, sono custoditi in ambienti chiusi e riparati, dove è possibile controllare alcuni dei fattori ecologici responsabili dello sviluppo di molti organismi dannosi. L'oscuramento dalla luce solare permette di eliminare in un sol colpo tutti gli organismi autotrofi, il controllo di umidità e temperatura limita la crescita di funghi e batteri, la relativa facilità di disinfestazioni tramite insetticidi permette di ridurre le aggressioni degli insetti. Anche in ambienti chiusi, tuttavia, i manufatti non sono del tutto al sicuro: assortiti eserciti di organismi eterotrofi sono pronti ad aggredirli ogni qual volta il controllo delle condizioni ambientali non sia perfetto, compito tutt'altro che facile su larga scala.
Prima di passare in rassegna le truppe responsabili del biodeterioramento diretto va menzionato uno dei peggiori esempi di deterioramento indiretto che tutti abbiamo osservato in molte chiese, forse senza farci troppo caso, paradossalmente causato proprio da uomini intelligenti e motivati. Ancora nel febbraio del 1999, in quasi tutte le chiese di quella Venezia famosa nel mondo per i suoi tesori pittorici, si potevano contemplare fitte schiere di inesorabili candele che piamente spargevano orride patine di nerofumo su poveri dipinti anneriti o, peggio ancora, appena restaurati. Questa pratica ha sì nobilissime radici cultural-devozionali, ma pochi si rendono conto che una sola candela in un anno, può causare più danni di generazioni di funghi, batteri e alghe. Il tetro cromatismo di tante tele antiche non è l'opera di pittori depressi, ma di candele accese con le migliori intenzioni del mondo e non certo per deturpare l'immagine venerata. L'ostinato persistere delle candele nelle chiese italiane appare oggi del tutto inaccettabile. Il problema, complesso per molti motivi, dovrebbe essere urgentemente preso in considerazione dalle curie e dalle soprintendenze ai beni culturali.
Oltre all'uomo e alle sue nefaste candele, gli ambienti chiusi ospitano una nutrita batteria di organismi eterotrofi in grado di attaccare qualsiasi materiale composto da minime quantità di materia organica. Legno, carta, pergamene, cuoio e tessuti fungono da mense per legioni di batteri, funghi e artropodi. Non si salvano nemmeno i quadri e gli affreschi, composti da diverse prelibate sostanze organiche quali amido, gomme, zuccheri, glicerina, vari tipi di gelatine, olio di lino e rosso d'uovo.
Legno
Lignina, cellulosa ed emicellulosa sono tra i principali componenti del legno. La lignina è la più resistente all'attacco biologico, e i suoi peggiori nemici sono i funghi, specialmente gli ascomiceti. Anche la cellulosa appena prodotta subisce con difficoltà un attacco biologico, ma l'esposizione prolungata ad agenti fisico-chimici determina l'insorgenza di siti amorfi che facilitano l'aggressione da parte di microorganismi capaci di trasformarla per via enzimatica in glucosio; tra i più importanti vi sono alcuni basidiomiceti (Serpula lacrymans, Poria spp., Coniophora puteana) che lasciano un residuo brunastro di lignina non decomposta (Allsopp e Seal, 1986). Infine, l'emicellulosa è la componente più debole e viene facilmente idrolizzata da batteri e funghi.
La conservazione di manufatti in legno all'aperto è un'impresa quasi disperata, poiché la proliferazione di batteri, funghi e insetti è difficile da controllare efficacemente e a lungo. All'interno, l'intensità delle aggressioni microbiologiche dipende soprattutto dall'umidità: i manufatti in legno conservati in cavità sotterranee umide sono aggrediti da asco- e deuteromiceti che li rendono molli se sono umidi, fragilissimi se sono secchi. Il legno secco ha un'umidità in equilibrio con quella relativa dell'ambiente circostante, e gli attacchi microbici divengono importanti soltanto se il contenuto d'acqua è superiore al 20%. Contro batteri e funghi è quindi possibile intervenire con opportune opere di climatizzazione. Qui però intervengono altri nemici: gli insetti. Coleotteri, lepidotteri, termiti, imenotteri e tanti altri possono produrre danni gravissimi, spesso a danno di legni secchi, difficilmente attaccabili da batteri e funghi. Questi attacchi vengono operati attraverso un ingegnoso trucco biologico: molti insetti non possiedono gli enzimi per degradare lignina e cellulosa, ma ospitano nell'intestino (e quindi in ambiente umido) batteri e funghi in grado di effettuare per loro questa operazione.
Carta
La cellulosa è il principale componente della carta, assieme ad altre sostanze quali lignina, emicellulosa, pectine, cere, tannini e proteine in diverse proporzioni, a seconda del tipo di carta e del periodo di produzione. Sembra che la carta prodotta nel Medioevo fosse molto più ricca in cellulosa, e quindi meno vulnerabile ad attacchi biologici, di quanto non lo sia la maggior parte della carta prodotta in tempi moderni (Kowalik, 1980).
l principali agenti del biodeterioramento della carta sono batteri e funghi, e anche in questo caso il livello di attacco dipende dall'umidità del substrato: libri preservati in ambiente relativamente secco resistono più a lungo di quelli custoditi in ambienti umidi. Gli attacchi di funghi e batteri appaiono inizialmente sotto forma di macchie di colore diverso a seconda del tipo di organismo e del tipo di carta, o di discolorazione degli inchiostri dovuti alla tannasi, un enzima che catalizza l'idrolisi del gallotannato, prodotto da alcuni funghi dei generi Aspergillus e Penicillium. Le rilegature, che possono contenere sostanze igroscopiche, sono tra le prime parti di un libro a essere danneggiate. Crescite prolungate di funghi e batteri rendono la carta fragile e feltro sa, alterandone diverse proprietà (per esempio l'acidità) favorendo ulteriori aggressioni da parte di altri funghi e batteri più adatti alle nuove condizioni: persino in un libro custodito per secoli in una biblioteca, il biologo può studiare 'successioni', come quelle che trasformano un prato in una foresta negli eco sistemi 'normali'. Un caso particolare è quello di libri sottoposti a inondazioni, come quelli danneggiati durante la famosa alluvione di Firenze del 1966: le pagine si consolidano in blocchi compatti difficili da separare, a causa del rapido sviluppo di batteri e funghi. In breve tempo, durante il periodo di imbibizione, questi organismi, degradando la cellulosa, producono oligosaccaridi con proprietà mucose, vere e proprie 'colle' che possono rendere i libri del tutto inutilizzabili.
Ancor oggi, in Italia, troppi libri e documenti antichi continuano a essere custoditi in ambienti tali da trasformarli in eco sistemi a rischio. Anche nei pochi casi in cui gli ambienti siano adeguatamente climatizzati rimane il rischio di danni provocati da insetti: è proprio in ambienti climatizzati, infatti, che questi animali trovano il loro optimum ecologico. Tra i maggiori responsabili c'è un diabolico piccolo insetto chiamato con il gentile nome di pesciolino d'argento (Lepisma spp.), che si incontra facilmente anche nelle nostre case; il pesciolino, un animaletto piatto capace di nascondersi nelle più piccole fessure, penetra tra pagina e pagina, e divora con gusto la superficie di tante pagine che nessuno potrà più leggere. Altri insetti, invece di nutrirsi della carta, mangiano funghi e batteri che l'attaccano, specialmente vicino alle rilegature: i loro escrementi sono una ricca fonte di cibo per altri batteri e funghi saprobi. Meccanismi simili si riscontrano nel biodeterioramento dei tessuti, con importanti differenze tra tessuti di origine vegetale (lino, cotone), e quelli di origine animale (lana).
Cuoio e pergamena
Mentre la carta è di origine vegetale, cuoio e pergamena derivano dalla pelle di animali, e quindi contengono un'alta percentuale di proteine. Gli organismi in grado di decomporli devono quindi saper produrre specifici enzimi proteolitici (proteinasi e peptidasi). Alle pergamene, prodotte con pelli di pecora o di capra (le migliori erano prodotte con pelli di feti), dobbiamo alcuni dei più antichi documenti storici della civiltà italiana. Esse consistono principalmente di collagene, che può venire idrolizzato da enzimi specifici, le collagenasi, prodotti da batteri del genere Clostridium (Kowalik, 1980). Il collagene, tuttavia, viene spesso depolimerizzato da trattamenti durante la preparazione, e può allora venire decomposto da enzimi proteolitici non specifici prodotti da molti batteri e da alcuni microfunghi. Il cuoio, chimicamente simile al collagene, è soggetto ad attacchi analoghi: spesso, però, è stato imbibito con tannini che rallentano l'attacco biologico, soprattutto da parte di batteri. Anche in questo caso, però, vi sono insetti, soprattutto dermestidi e tineidi, capaci di divorare allegramente persino un cuoio trattato con tannini.
Tessuti
l tessuti antichi consistono di fibre vegetali o animali, che differiscono per composizione chimica: nelle fibre vegetali prevale la cellulosa, in quelle animali prevalgono invece materiali di tipo proteico, come la cheratina nella lana e la sericina nella seta. Nel primo caso le aggressioni biologiche più gravi sono causate da funghi cellulosolitici, per esempio alcuni deuteromiceti; nel secondo caso da molti batteri e funghi, più attivi nel degrado della lana che della seta. Anche in queste situazioni è possibile prevenire i danni riducendo l'umidità relativa degli ambienti. Diverso è il caso di disastri prodotti sui tessuti in lana dagli insetti, e soprattutto dalle tarme, ben noti per la presenza negli armadi e nei cassetti delle case. È facile quindi farsi un'idea di quali difficoltà si incontrino nella conservazione dei giganteschi arazzi custoditi in tanti musei e chiese d'Italia, dove l'applicazione dei classici sacchetti di naftalina è ovviamente un po' problematica.
Pitture
Legno, carta, cuoio, pergamene e tessuti hanno composizioni relativamente omogenee. l quadri, invece, sono di natura così eterogenea che il bio deterioramento di un quadro diventa uno dei casi biologicamente più affascinanti. La composizione chimica dei quadri si articola in strati: lo strato basale può essere di natura molto varia, per esempio in legno, nel qual caso la storia del suo bio deterioramento segue i processi tipici dei manufattti in legno; a volte, però, è di calce o gesso, su cui possono essere state sovrapposte colle animali o vegetali. Il biodeterioramento della base del quadro, di qualsiasi natura essa sia, può provocare gravi fessurazioni del dipinto. Di solito la tela è di origine vegetale, per esempio in tessuto o, nel caso degli acquerelli, in carta, su di essa agiscono quindi i biodeteriogeni di tessuto e carta. Al di sopra della tela vi sono i colori, spesso di origine minerale, ma a volte diluiti con oli vegetali o animali, colle, gelatine, ecc. Infine, le vernici che ricoprono il dipinto, spesso rinnovate in diverse epoche, consistono generalmente in materiali organici. Un quadro, insomma, offre un ricchissimo menu per tanti organismi eterotrofi: batteri, funghi e, per fortuna in misura minore, artropodi; di conseguenza è uno degli' ecosistemi artistici' più complessi e interessanti tra quelli preservati in ambienti interni. Funghi dei generi Aspergillus, Penicillium e Trichoderma si nutrono di tempere e leganti, Phoma e Aureobasidium distruggono gli olii, Geotrichum si sviluppa su leganti composti da caseina, Mucor e Rhizopus attaccano le colle (lonita, 1971). l tipi di attacco biologico dipendono dal substrato, e si articolano sia in profondità, attraverso i vari strati del dipinto, sia orizzontalmente sulla parte dipinta propriamente detta, in dipendenza del colore o del diluente utilizzato. In genere, le parti più profonde di un dipinto sono più soggette a biodeterioramento. Molte specie, però, possono attaccare anche i colori, danneggiandoli permanentemente. Batteri e funghi sono più attivi in condizioni di elevata umidità, mentre gli insetti preferiscono situazioni meno umide, ma per fortuna tendono a limitare la loro azione alle parti in legno o in carta (base, cornice e così via).
Un caso particolare è quello di molte pitture murali di tipo inorganico, come gli affreschi, che possono essere attaccate da funghi attinomiceti (Giacobini et al., 1988). Molti dipinti parietali in chiese umide, cripte, grotte, tombe, sono deturpati da pellicole biancastre o grigiastre prodotte da questi funghi, che metabolizzano i nitriti e i nitrati e riducono i solfati.
Studio ecologico dei monumenti sott'acqua
Le coste italiane nascondono un immenso patrimonio di interesse artistico e storico: nel corso dei secoli centinaia di navi sono affondate con i loro preziosi carichi, e soltanto negli ultimi decenni si è iniziato a sfruttare in maniera più sistematica questa importante miniera di memorie storiche. Una trattazione anche sommaria dei processi di biodeterioramento in ambiente acquatico ci porterebbe troppo lontano: dovremmo passare dall'ecologia terrestre a quella marina! Ci limiteremo quindi a pochi cenni sommari.
È ovvio che quasi tutti i materiali organici sottoposti a lunghi periodi di imbibizione hanno una durata effimera: libri, pergamene e tessuti [miti in mare sono persi per sempre. Esiste però un'eccezione: il legno, soprattutto quello degli scafi delle imbarcazioni sommerse. Abbiamo visto che la lignina, in ambiente aereo, è aggredita principalmente da batteri, funghi e insetti. Milioni di anni di evoluzione hanno portato allo sviluppo di organismi capaci di decomporre il legno nell'ambiente ove questo è più frequente, quello aereo, mentre in ambiente acquatico la presenza del legno, specialmente a grandi profondità, è soltanto sporadica: in condizioni naturali la maggior parte del legno presente in mare galleggia sulla superficie. Anche sott'acqua vi sono batteri e funghi in grado di decomporre il legno, ma in genere in maniera meno attiva rispetto a quelli presenti nell'ambiente aereo. Funghi e batteri acquatici sono sia di tipo aerobico sia di tipo anaerobico: le varie specie producono danni diversi quali l'erosione superficiale, la cavitazione e la formazione di piccoli fori. A volte le superfici di legno sommerse, soprattutto se a basse profondità, sono colonizzate da colonie algali che in genere non provocano alterazioni profonde. l danni maggiori sono causati da animali: se in mare mancano gli insetti, vi abbondano invece molluschi e crostacei in grado di apportare danni molto rilevanti. I principali molluschi appartengono ai generi Teredo, Bankia e Martesia, che scavano profonde gallerie, mentre tra i crostacei prevalgono vari generi di isopodi, in grado di rendere il legno fragilissimo. La maggior parte di questi organismi, tuttavia, è attiva soltanto quando il legno è vicino alla linea di galleggiamento. Molti di essi costituivano un incubo per i navigatori del passato, quando gli scafi delle grandi navi erano ancora costruiti in legno. I relitti, mantenuti a maggiore profondità dal peso del carico, sono oggetti inusuali negli ecosistemi marini e per questo sono meno soggetti ad aggressioni biologiche. Persino i manufatti in pietra finiti in mare sono soggetti ad aggressioni biologiche. Le più devastanti sono quelle prodotte da molluschi in grado di perforare la pietra attraverso azioni meccaniche o con la secrezione di sostanze acide, scavando fori profondi anche più di 10 cm. Un caso famoso è quello delle colonne romane soggette a fenomeni di bradisismo presso Pozzuoli: in certi periodi esse erano immerse in acqua marina, in altri emergevano quasi completamente; i fori causati dagli organismi marini ci permettono di leggere la storia dei ripetuti sollevamenti e abbassamenti del suolo nei tempi passati. Altri organismi, come certe alghe calcaree, incrostano pesantemente le superfici di oggetti sommersi con spessi strati di carbonato di calcio.
Che fare?
Le opere d'arte e i documenti storici sono eco sistemi piccoli, ma a volte complessi: il controllo e la prevenzione del bio deterioramento devono tenere conto di numerosi organismi che possono aggredire parti diverse del manufatto, ognuno dei quali ha precise esigenze ecologiche. Gli interventi non devono solo e sempre mirare all'eliminazione degli organismi, ma anche, quando possibile, al controllo dei fattori che ne possono favorire la ricolonizzazione.
Interventi all'aperto
L'eliminazione di organismi da statue, muri e bassorilievi non dovrebbe avvenire solo sulla base di considerazioni estetiche, ma dovrebbe prevedere un'attenta analisi biologico-ecologica preliminare. Vanno identificate le specie, vanno individuate le cause della loro crescita, e va infine valutato il reale danno da esse indotto. Su molti monumenti abbondano funghi, licheni e altri organismi nitrofili a crescita rapida: se non viene limitato l'arricchimento in sostanze azotate, la loro eliminazione è aleatoria, poiché ricrescono tali e quali dopo pochi anni.
Si possono adottare alcune misure preventive quali coperture per riparare dalla pioggia, o sistemi per deviare e canalizzare le acque, qualora l'eutrofizzazione origini da scoli d'acqua dalle parti alte di un edificio; barriere frangivento quando i composti azotati provengano da coltivazioni, realizzandole per esempio con filari di alberi; controllo della popolazione di uccelli o costruzione di strutture che ne impediscano la sosta, quando l'eutrofizzazione sia causata da depositi di guano. A volte non è proprio possibile intervenire: le statue calcaree dei parchi di molte ville Venete sono ricoperte di licheni nitrofili a causa degli uccelli che vi si posano, e che tra l'altro sono uno degli elementi di attrazione del parco. Non è ovviamente possibile eliminare gli uccellini, né ricoprire le teste di leggiadre veneri e ninfe con inquietanti corone di spine. In casi del genere gli interventi di ripulitura durerebbero solo per pochi anni; considerando poi che l'eliminazione delle patine biologiche comporta sempre un'azione meccanica, di per sé dannosa, il rimedio sarebbe peggiore del male. È meglio accettare il fatto che l'arcadica immagine delle candide statue create dall 'uomo a contrasto di un ambiente 'naturale' era un'idea balzana: una volta poste in un parco, quelle statue divengono parte integrante dell'ecosistema parco e le patine biologiche vanno accettate, piaccia o no agli storici dell'arte, come una saggia lezione del fatto che a volte la natura vince sull'uomo, e che alla fine del Settecento si sapeva ancora poco di ecologia. Quando la statua ha un alto valore artistico, è meglio mettere l'originale in un museo e lasciare nel parco una copia.
Gli organismi vengono in genere eliminati mediante metodi chimici, con l'applicazione di biocidi. Questi sono un gruppo eterogeneo di agenti chimici, dei quali non esistono in commercio prodotti studiati appositamente per la conservazione delle opere d'arte: il mercato è così esiguo che i costi per la loro messa a punto sarebbero troppo elevati. I biocidi derivano invece da due settori: quello medico (come i disinfettanti, quali i sali d'ammonio quatemario) e quello agrario (erbicidi). Tali sostanze, attive per contatto, bloccano la fotosintesi (per esempio, i derivati dell'urea agiscono così) o interferiscono con altri processi metabolici. Nella loro scelta vanno considerate l'efficacia, la non interferenza con il substrato e le caratteristiche tossicologiche. L'efficacia, cioè l'effettiva attività biocida contro i biodeteriogeni, dovreb be essere massima alla minima dose, di ampio spettro e di lunga durata. I biocidi non devono interagire né chimicamente né fisicamente con il substrato; non devono reagire con alcuni componenti della pietra (il caso più pericoloso), né provocare effetti collaterali di natura estetica quali colorazioni (ingiallimento, sbiancamento o altro), opacizzazione o aumento della brillantezza. Tutti i biocidi sono più o meno tossici, con rischi sia per la salute degli operatori sia per la salvaguardia ambientale: il dilavamento di prodotti idrosolubili può provocare effetti tossici collaterali su insetti, piante e animali; inoltre i biocidi possono anche alterare l'equilibrio ecosistemico, favorendo specie più aggressive o resistenti.
A mio parere, i biocidi sono spesso impiegati a sproposito, e in maniera impropria, soprattutto per l'eliminazione di microorganismi su monumenti esposti all'aperto. Questa pratica origina dall'acritico trasferimento agli organismi autotrofi che crescono all'aperto di pratiche largamente e correttamente utilizzate nel mondo del restauro per l'eliminazione di organismi eterotrofi in ambienti riparati. Molte patine algali, licheni che e briofitiche si possono efficacemente eliminare con mezzi meccanici, evitando l'uso di sostanze potenzialmente tossiche, specialmente in aree con elevata concentrazione di visitatori. Una rimozione meccanica è comunque necessaria anche dopo l'applicazione dei biocidi. A volte l'impiego di biocidi può essere addirittura dannoso, per esempio nel caso di licheni endolitici su monumenti in calcare (Tretiach, 1998). L'uccisione del lichene, profondamente infossato nella roccia, provoca la desquamazione dello strato più esterno (lithocortex), che si stacca a piccole scaglie, esponendo all'atmosfera una superficie litica porosa, in quanto penetrata profondamente dalle ife del fungo, e quindi più suscettibile all'attacco di altri agenti fisici, chimici o biologici (acqua, vento, inquinanti atmosferici, altri organismi e così via).
È davvero sempre opportuno rimuovere gli organismi dai monumenti? Sino a pochi anni fa la risposta sarebbe stata, sempre e comunque, largamente positiva. Qualsiasi monumento, appena uscito dalle mani degli artisti, architetti od operai, era sicuramente privo di colonizzazioni biologiche; il dovere di riportarlo allo stato 'originale' era un 'credo' largamente diffuso nel mondo del restauro. Oggi, però, proprio per l'influsso culturale di tanti biologi, certi atteggiamenti iniziano a cambiare: colonne, statue, edifici, possono offrire substrati alloctoni, provenienti da aree lontane, per funghi, piante e animali che non sarebbero altrimenti presenti in un dato sito. In tante aree archeologiche del Lazio, monumenti costruiti con le rocce più diverse, trasportate dalle più lontane parti dell 'Impero Romano, ospitano una ricchissima e interessante flora lichenica: molte delle più di 500 specie di licheni note per il Lazio sono state ritrovate soltanto su monumenti antichi (Nimis et al., 1987). l nuraghi sardi, con la loro forma subcilindrica e la conseguente grande varietà di condizioni microclimatiche, ospitano anch'essi molti licheni rari.
L'Italia è uno dei firmatari del Trattato di Rio sulla conservazione della biodiversità, che comporta severe restrizioni in un contesto globale. L'alta biodiversità di molte aree archeologico-monumentali costituisce un valore culturale in sé, che si somma all'interesse storico-artistico del sito. L'importanza culturale della diversità biologica è un concetto relativamente nuovo, di cui non sempre si tiene il dovuto conto nella gestione delle aree artistico-monumentali. Per qualsiasi intervento che comporti la riduzione di specie viventi in un dato sito, è indispensabile una valutazione preliminare della loro importanza biologico-naturalistica. Ciò può ovviamente determinare conflitti tra biologi e soprintendenze: lo sviluppo di norme di comportamento in questo campo è un capitolo ancora aperto e da risolvere in tempi brevi. La collaborazione fra biologi e storici, però, può anche tradursi in impensate valorizzazioni 'storiche' della componente biologica. Per esempio, molti nuraghi sardi, specialmente quelli in basalto, sono ricoperti da un lichene di colore rosso-aranciato, Xanthoria calcicola dal cui colore deriva il nome di alcuni nuraghi (per esempio Nuraghe Ruju). Dato che la Xanthoria non provoca danni di rilievo alla pietra, la sua eliminazione sarebbe assurda, anche dal punto di vista culturale, specialmente nel caso in cui il nome del nuraghe origini dal lichene. Un altro esempio è rappresentato dalla parete settentrionale di un tempio romano di Ostia Antica (in pratica un muro di mattoni) completamente ricoperta da un denso feltro di un pendente lichene grigio: Roccella phycopsis. Questo lichene non causa danni estetici e meccanici di rilievo (il muro appare grigio anziché rossastro), ma a qualcuno potrebbe venire l'idea di ripulire il muro dalle 'muffe'. Bene, Roccella era uno dei prodotti più usati dai Romani per produrre la porpora dei poveri, un colorante meno resistente alla luce della 'porpora nobile', che era prodotta da conchiglie del genere Murex. Navi cariche di Roccella solcavano il Mediterraneo dalla Sardegna, le Baleari, le coste africane verso il porto di Ostia con il loro prezioso carico: l'economia di molte isole dipendeva dal lichene, e numerose tracce di questo commercio, che venne rivitalizzato nel Rinascimento (il nome Roccella deriva da una famiglia di mercanti fiorentini), rimangono nella toponomastica. Forse, invece di togliere la muffa, sarebbe più interessante allestire un bel cartello davanti al muro, con una mappa dei principali traffici di Roccella ai tempi dei Romani, con alcune note sulle tecniche per tingere la stoffa con il lichene: sarebbe un piccolo esempio di quel connubio tra cultura scientifica e cultura umanistica di cui abbiamo tanto bisogno in Italia.
Interventi negli interni
Come abbiamo visto, in ambienti chiusi i nostri 'ecosisterni' mancano solitamente di produttori primari: i principali agenti di bio deterioramento sono batteri, funghi e insetti. Batteri e funghi sono favoriti da alta umidità relativa, temperature elevate e ventilazione povera degli ambienti; alcune specie si sviluppano meglio in condizioni di illuminazione forte o su substrati arricchiti da sostanze azotate (polvere, sporcizia, alcuni dei materiali impiegati in eventuali restauri e così via). Batteri e funghi si propagano attraverso spore o conidi; i biologi che si occupano degli elementi organici presenti nell'aria hanno studiato la composizione in propagoli dell'atmosfera di luoghi chiusi, soprattutto archivi e biblioteche. Queste indagini hanno un duplice interesse: da un lato permettono di valutare il rischio potenziale per libri e documenti, dall'altro possono quantificare il rischio per la salute del pubblico e del personale derivante dal soggiorno nella biblioteca o dall 'utilizzo del materiale cartaceo. l propagoli di molte specie, infatti, possono avere effetti nocivi sulla salute.
L'elevata umidità degli ambienti chiusi è tra i più perniciosi fattori di biodeterioramento da parte di batteri e funghi. Alcuni dei documenti più importanti e antichi della nostra civiltà, come i papiri egizi o i famosi manoscritti di Qumran, sono giunti sino a noi grazie al clima secco delle aree subdesertiche in cui sono rimasti per millenni. Il clima dell'Italia, però, è molto diverso da quello della Palestina o dell'Egitto: essendo una stretta penisola che si trova letteralmente a 'bagnomaria' nel Mediterraneo, il controllo dell'umidità atmosferica diventa un problema capitale, anche in ambienti chiusi. Carta, pergamena e legno sono più o meno igroscopici, di conseguenza richiedono un controllo accurato delle condizioni di temperatura e umidità relativa attraverso climatizzatori. L'umidità relativa può anche venire controllata tramite l'uso di sostanze igroscopiche. Come se non bastasse l'umidità naturale dell'aria, musei e aree archeologiche d'Italia sono tra le più visitate al mondo, e la presenza di tanti visitatori in ambienti chiusi può aumentare sia la temperatura sia l'umidità relativa; per di più, le 'esigenze microclimatiche' dei visitatori non sempre coincidono con quelle ideali per prevenire attacchi biologici. Lo studio ecologico dei microclimi di cattedrali, cripte, musei, biblioteche e gallerie d'arte merita di essere approfondito più di quanto non sia stato fatto sinora. Questi ambienti ospitano un ricchissimo spettro di microclimi: in certe chiese si potrebbero misurare 'brezze di cupola' o 'brezze di navata', come le brezze di mare e di terra delle zone costiere; oppure si potrebbero individuare le parti dell'edificio con più frequenti inversioni termiche, dove quindi l'acqua condensa con maggiore frequenza. Ciò permetterebbe, per esempio, di evitare l'esposizione di quadri in situazioni che favoriscono la condensa d'acqua, soprattutto nelle parti retro stanti del dipinto. La conoscenza di questi fattori è fondamentale per pianificare corrette azioni di controllo biologico. In genere, si ritengono accettabili valori di temperatura di 18÷20 °C e un'umidità relativa più o meno costante di 50÷65% (Gallo, 1985).
Troppo scarse sono le risorse che l'Italia ha sinora impiegato per la conservazione di un retaggio artistico-storico ineguagliabile, che appartiene all'umanità intera. Per esempio, quante delle innumerevoli chiese sono adeguatamente monitorate contro le aggressioni biologiche e quante di esse sono state adeguatamente climatizzate? La risposta è molto triste: quasi ovunque non è stato fatto nulla e per di più le candele continuano imperterrite a bruciare. Ci sono però dei casi, come grotte, cripte, catacombe e altri ambienti ipogei, dove è quasi impossibile controllare efficacemente i parametri microclimatici, soprattutto se questi ambienti sono affollati dai visitatori. L'illuminazione ha una grande importanza, sia direttamente sia indirettamente: la fotodegradazione di molti materiali organici rende gli ambienti più suscettibili ad attacchi biologici e, in luoghi particolarmente umidi, l'illuminazione artificiale può portare allo sviluppo di colonie algali.
Per ridurre i danni derivanti dall'illuminazione si può intervenire riducendo il tempo di esposizione e l'intensità della radiazione, utilizzando filtri per bloccare le radiazioni ultraviolette e ridurre quelle rosse e infrarosse. Al contrario, su patine algali che si sviluppano sotto gli impianti di illuminazione di ambienti chiusi è possibile controllare la crescita delle alghe con irradiazioni di luce ultravioletta, evitando l'impiego di biocidi, ma solo quando il substrato, come nel caso di pietre, malte o mattoni, non ne risenta. In troppi casi, però, le esigenze del turista collimano proprio con quelle degli organismi responsabili del biodeterioramento.
Anche quando i problemi di illuminazione fossero risolti, bisognerebbe fare i conti con la maggior parte degli insetti e con molti funghi, che riescono a svilupparsi tranquillamente anche in condizioni di piena oscurità. L'utilizzo di sostanze anticrittogamiche o di insetticidi diventa allora indispensabile, ma, a parte gli effetti tossici sull'uomo, queste sostanze hanno un'efficacia limitata nel tempo. Il controllo di certi insetti, soprattutto di quelli che si nutrono di legno, è particolarmente difficile. Le termiti, contrariamente a quanto molti pensano, non sono rare in certe parti d'ltalia e rendono difficile una scoperta precoce del danno, in quanto tendono a svilupparsi all'interno del legno, senza perforarlo verso l'esterno come invece fanno altri insetti: travi e oggetti in legno possono cadere in briciole prima che qualcuno si accorga di quel che sta succedendo alloro interno. A volte, davvero, la conservazione dell'immenso patrimonio che gli italiani hanno ereditato può sembrare un'impresa di Sisifo, e tuttavia dobbiamo assolutamente impegnarci di più: questo patrimonio appartiene all'umanità intera. Ringraziamenti Desidero ringraziare la professoressa G. Caneva di Roma, la dottoressa M. Castello di Trieste, la dottoressa E. Rui di Trieste, la dottoressa O. Salvadori di Venezia, il dottore N. Skert di Trieste e il dottore M. Tretiach di Trieste, che mi hanno gentilmente aiutato con note critiche al manoscritto o mettendo a disposizione materiale iconografico.
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