OPERE
. La disciplina giuridica delle opere è nel diritto romano diversa secondo che esse sono prestate dall'uomo libero, dallo schiavo o dal liberto.
1. Opere dell'uomo libero. - Il lavoro prevalente nella società romana era quello degli schiavi e dei liberti: un posto molto secondario aveva il lavoro dell'uomo libero. Era idea diffusa in Roma, come del resto nel mondo antico, che impiegare l'opera e l'attività propria per mercede fosse sconveniente all'uomo libero che sembrava abbassarsi al livello dello schiavo. Questo dispregio si estende alla pittura e alla scultura, che Seneca (Ep., 88, 18) considera mestieri servili, alla musica e all'arte drammatica (artes ludicrae), notoriamente ritenute ignominiose. L'insegnamento e la medicina si sollevarono col tempo dalla condizione di attività di schiavi e di liberti. Più tardi si distinse tra opere salariate, che continuarono a essere considerate spregevoli (operae illiberales), e opere ritenute compatibili con la dignità di uomo libero (liberales artes od operae) non corrisposte con mercede ma soltanto rimunerate con honorarium (v. onorario) a titolo di risarcimento di spese e di gratificazione per il beneficio procurato.
2. Opere dello schiavo. - Queste costituivano il reddito dello schiavo stesso. Erano acquistate al dominus: qualora lo schiavo fosse stato posseduto in buona fede da altri o dato in usufrutto, il possessore di buona fede, nel primo caso, o l'usufruttuario, nel secondo, acquistavano le opere. Se lo schiavo era soggetto a diritto di uso, l'usuario non poteva locare le opere dello schiavo per farne denaro (ex operis mercedem capere); e ciò, data la natura personalissima del diritto di uso che non consente la cedibilità neppure del suo esercizio. Le opere dello schiavo potevano costituire oggetto distinto di un negozio giuridico, e così potevano essere oggetto di un legato. Quest'ipotesi era diversamente regolata nel diritto classico e nel giustinianeo: il diritto classico escludeva che il legato di opere importasse un diritto reale sullo schiavo (il fr. 5, § 3 del Dig., VII, 9, usufruct. quemadm. cav., è interpolato) ma riconosceva che sorgesse un diritto di credito a godere personalmente delle opere e a locarle, che passava agli eredi: il diritto giustinianeo ravvisa in questo caso, come C. Longo ha fondatamente congetturato, una servitù personale.
3. Opere del liberto. - Il dominus che manometteva lo schiavo diventava patronus dello schiavo manomesso (libertus) e aveva, come tale, diritto alla tutela del libertus impubere, alla sua successione, all'obsequium, all'officium, alle operae da parte di lui (v. patronato). A differenza dei munera, ossia doni prestati in determinate circostanze fissate dalla consuetudine (donum natalicium, donum nuptialicium) e dei dona, ossia doni fatti in altre straordinarie occasioni, si dicono operae quei servizî manuali o professionali, di cui il patrono chiedeva la prestazione a giornate e che il liberto prestava, o perché imposte dal costume, o perché promesse (a dimostrazione di gratitudine per la concessa libertà) mediante apposita stipulazione susseguente alla manumissione e asseverata da giuramento (promissio iurata), fatta per rivestire di sanzione giuridica il giuramento fatto anteriormente, che rendeva lo schiavo solamente religione adstrictus. Se si trattava di servizî rientranti nel dovere inerente alla condizione di liberto, i limiti e la durata della loro prestazione dipendevano dall'età, dalla dignità, dalla necessità, dalla salute, così in riguardo della persona del patrono che di quella del liberto. Se si trattava di opere stipulate con la promissio iurata, queste erano dovute così come erano state stipulate, a meno che non risultassero stipulate onerandae libertatis causa: in questo caso nel diritto classico la stipulazione era impugnabile di nullità; nel diritto giustinianeo sembra esserlo soltanto se conchiusa in continenti, appena seguita la manumissione, non successivamente, a meno che non risulti evidente che la stipulazione stessa è frutto di violenza o di nimia reverentia per il patrono. Nel diritto romano le opere sono dovute al patrono e alla sua familia, quindi al figlio, anche se non erede, non all'estraneo benché erede, analogamente a quel che accade in ordine al sepulchrum familiare al quale hanno diritto i figli anche non eredi, non gli eredi estranei. Nel diritto giustinianeo il diritto alle opere viene fatto aderire alla qualità di erede: per ciò sorge la distinzione tra operae officiales (quelle consistenti in servizî manuali o domestici) e fabriles (quelle consistenti in un artificium: di medico, artista, ecc.) e si pone la norma che le fabriles spettano all'erede estraneo; per ciò, anche, le operae officiales si distinguono in praeteritae e futurae e si afferma il diritto dell'erede estraneo alle operae officiales, purché praeteritae. Cioè passano all'erede estraneo tutte quelle opere che, come fabriles, potevano e, come officiales praeteritae, dovevano essere valutate in denaro. Sulle opere come oggetto del contratto di locazione nel diritto romano e moderno v. locazione, con i rinvii contenuti nella stessa voce.
Bibl.: B. W. Leist, Contin. del comm. alle Pand. di F. Glück (trad. it.), XXXVIII, p. 169 segg.; O. Karlowa, Röm. Rechtgesch., II, pp. 142 segg., 700 segg.; L. Goldschmidt, Universalgesch. d. Handelsrechts, I, p. 580 segg.; S. Perozzi, Ist. di dir. rom., 2ª ed., I, pp. 273 segg., 792. Fra le tratt. speciali: Ch. Lécrivain, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiq. gr. et rom., III, ii, Parigi 1918, pp. 1200-21, s. v. Libertus; L. Mitteis, Operae officiales u. operae fabriles, in Zeitschr. d. Sav. St. f. Rechtsg. (R. Abt.), XXIII (1902), pp. 143-158; C. Longo, Operae, in Encicl. giur. it.; E. Albertario, Sul dir. dell'erede estraneo alle opere dei liberti, in Filangieri, 1910; B. Biondi, Iudicium operarum, in Ann. Univ. Perugia, 1914; E. Albertario, Nuove osserv. sulla trasmissibilità del iud. oper. all'erede estraneo, in Atti Accad. scienze Torino, 1914; id., Sui negozi giur. conchiusi dal liberto oner. libert. causa, in Rend. Ist. lomb., LXI (1928).