oppiacei
Composti naturali o sintetici aventi azione simile all’oppio e, in partic., simili al suo componente principale, la morfina. Gli o. sono stati il principale presidio nel trattamento del dolore per migliaia di anni, e lo sono anche ai giorni nostri. Essi esprimono i loro effetti mimando sostanze naturali, chiamate peptidi oppioidi (➔), o oppioidi endogeni o endorfine (➔). Si sa molto sulla biologia di base del sistema oppioide endogeno e sulla sua complessità molecolare e biochimica. Per quanto riguarda il loro meccanismo di azione, diversi decenni fa divenne chiaro che gli effetti analgesici degli o. sono dovuti alla loro azione diretta su specifici recettori cerebrali, che sono risultati essere gli stessi su cui agiscono gli oppioidi endogeni prodotti naturalmente dall’organismo. Questi recettori sono derivati da tre precursori macromolecolari: la proopio melanocortina (POMC), la proencefalina A e la proencefalina B.
L’oppio, estratto dalla pianta del papavero, è forse la più antica tra le droghe. I sumeri lo conoscevano già nel 4000 a. C. per le sue qualità euforizzanti e gli egizi lo usavano come calmante per i bambini. Lo stesso Omero, nell’Odissea, lo cita come l’ingrediente principale del pharmakon nepenthes che Elena versa nel vino durante il banchetto con Telemaco alla corte di Menelao. Nella mitologia greca e romana l’oppio era una presenza ricorrente. Un mito raccontava come Demetra (la Cerere dei Romani), dea dell’agricoltura e dell’abbondanza, sfruttasse il papavero per alleviare il dolore provocatole dal rapimento della figlia Persefone. Per questa ragione esso veniva usato nel culto ufficiale di tale divinità: il papavero è collocato tra le spighe di grano che Demetra tiene in mano nelle raffigurazioni e costituiva l’insegna delle sue sacerdotesse. Inoltre, il dio romano del sonno (Ipno) è spesso rappresentato con in mano un bicchiere colmo di un estratto di papavero e Ovidio narra che uno dei suoi tre figli, Morfeo, inviando sogni, porta sempre con sé un mazzo di papaveri con cui, sfiorando le palpebre dei dormienti, dona realistiche illusioni. Le ricerche sulla composizione dell’oppio iniziarono alla fine del 18º sec. in Germania e portarono all’isolamento del suo principio attivo, la morfina (➔). Negli anni successivi, quindi, in luogo della droga grezza si cominciarono a usare in medicina i principi attivi puri. L’uso dell’oppio diventò di gran moda in Europa nell’epoca romantica, in partic. presso gli artisti, come mezzo per trovare un mondo artificiale di parole e di immagini che poteva aiutare la loro creatività. La tossicomania da oppiacei divenne un fenomeno grave dopo l’introduzione della tecnica dell’iniezione (verso la metà del 19º sec.), che consentì l’uso parenterale della morfina pura. A causa di ciò in campo medico si impiegarono numerosi sforzi volti alla scoperta di sostanze alternative che potessero essere usate nella terapia del dolore e avessero un minor grado di tossicità: furono così prodotti numerosi derivati sintetici e semisintetici della morfina. Il più famoso tra questi è l’eroina (➔), battezzata così dal tedesco heroisch, con il significato di farmaco ‘eroico’, capace di superare ogni dolore. Essendo molto più potente della morfina e quindi efficace già a basse dosi, si riteneva che potesse essere una cura per la tossicodipendenza da morfina: tesi che fu rapidamente smentita dai fatti.
Come tutte le sostanze di abuso, anche gli o. danno luogo a rinforzo positivo tramite l’aumento di produzione di dopammina nel nucleo accumbens; dati sperimentali indicano tuttavia che essi, al contrario delle altre sostanze che inducono dipendenza, possono innescare il comportamento di rinforzo indipendentemente dai loro effetti sul sistema dopamminergico mesolimbico. L’uso continuativo di o. porta allo sviluppo di tolleranza per cui sono necessarie dosi sempre maggiori per ottenere effetti analoghi. L’interruzione improvvisa della loro assunzione porta inoltre a una sindrome di astinenza che, generalmente, include segni e sintomi di ipereccitabilità del sistema nervoso centrale. La gravità della sindrome cresce con l’aumentare della dose di o. e con la durata della dipendenza. I sintomi compaiono già 4÷6 h dopo la sospensione e, per l’eroina, raggiungono il massimo tra 36 e 72 h. Uno stato d’ansia e un desiderio impellente (craving) per la droga vengono seguiti da un aumento della frequenza respiratoria a riposo, in genere con sbadigli, sudorazione, lacrimazione e rinorrea. Altri sintomi sono la midriasi (dilatazione delle pupille), la piloerezione (‘pelle d’oca’), i tremori, le contrazioni muscolari, gli accessi di caldo e di freddo, i dolori muscolari e l’anoressia.